Pirandello 

La rappresentazione, in tutti i teatri del mondo, che da più di un trentennio a ora, ininterrottamente, si fa delle commedie di Pirandello, è la riprova di una creatività e di una originalità fuori del comune proprie di questo autore che ha saputo rompere i ponti con la tradizione, col grande rischio dell’incomprensione dei critici – a partire da Croce(1), il cui giudizio per diversi decenni ne ha condizionato la fortuna – e degli spettatori che spesso rimanevano disorientati. 

Oggi la critica, unanime, riconosce la grandezza di Pirandello, considerandolo uno dei maggiori interpreti della società del suo tempo, e non solo italiana. Era il vecchio mondo ottocentesco che, frantumandosi, lasciava lacerazioni profonde che non andavano più nascoste sotto false apparenze e ipocrisie. Le contraddizioni fra il vecchio e il nuovo erano tali che non scuotevano solo la vita sociale, ma disorientavano l’uomo nella sua interiorità, scoprendolo meno stabile di quanto si era creduto. 

Pirandello, con le innumerevoli opere di narrativa e di teatro, traduce quello che era stato l’animo degli uomini di allora, specie quelli della piccola e media borghesia che vedevano deluse le loro aspettative, in vere situazioni di conflitto interiore tese a rafforzare l’idea del dubbio (in noi e negli altri) e l’incertezza del vivere, a sua volta, dominato da un impenetrabile assurdo. 

Interessante, sotto questo aspetto, è Il fu Mattia Pascal (1904), in cui il protagonista, Mattia Pascal, appunto, illudendosi di farsi una vita tutta per sé, incurante dei pregiudizi e delle convenzioni sociali, va a stabilirsi a Roma, prendendo il nuovo nome di Adriano Meis. Ma per poco, perché s’accorgerà subito che gli è impossibile inserirsi in un nuovo tessuto sociale senza i documenti che comprovano la sua identità. Inscenato un suicidio, rientra nelle vesti di Mattia e ritorna al proprio paese, dove nessuno lo accetterà, perché ritenuto morto. Tanto più la moglie che nel frattempo si era risposata. 

All’uomo, come avvenne a Mattia Pascal, non è facile svincolarsi dalle norme sociali, sicché egli non può essere mai se stesso, quale effettivamente sente di essere, ed è sempre quello che gli altri vogliono che sia, anche contro sua voglia, e senza riconoscervisi, perché non è né l’uno né l’altro per quale è ritenuto, bensì nessuno. 

Il grottesco pirandelliano, di cui Il fu Mattia Pascal è un mirabile esempio, consiste nel cogliere le contraddizioni proprie dei personaggi, nello scomporli, mostrandoli quali sono, al di là di ogni apparenza. E questo li porta a volersi rifare una vita tutta per sé, contro i conformismi e le convenzioni profondamente radicati nella società, a qualsiasi livello, anche se prima o poi dovranno fare i conti proprio con queste convenzioni e con questi conformismi, e l’uomo si troverà sempre più solo con se stesso. 

Quattro anni dopo Il fu Mattia Pascal, Pirandello pubblicò il saggio su L’umorismo, dove raccoglie le idee che poi verranno espresse qua e là nei suoi scritti e che costituiscono la sua concezione della vita e la sua poetica. 

«Tutti i fenomeni, o sono illusorii, o la ragione di essi ci sfugge, inesplicabile. Manca affatto alla nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunemente presumiamo di attribuirle. È una costruzione illusoria continua»(2). Così dice Pirandello. Sicché ne deriva che noi non sappiamo chi siamo veramente. 

La verità ci sfugge perché spesso non poniamo l’attenzione su ciò che siamo, ma quali vorremmo che fossimo. Siamo tentati a vederci in una probabile identità, e non in quella che ci appartiene. Quest’aspirazione ci rende insoddisfatti e diversi a secondo le circostanze. Ed è a questo punto che ricorriamo alla finzione, sia con noi stessi che con gli altri: perciò apparentemente siamo uno, ma ogni uomo si fa un’idea, ciascuno a suo modo, riferita a come ci vede. Il risultato è che siamo tanti (e non più uno) quanti sono gli altri, per cui, in quanto uno, siamo nessuno. Ci troviamo già dinanzi al cosiddetto relativismo pirandelliano su cui avremo modo di ritornare spesso, perché condiziona non solo la vita, ma anche il regno dell’arte. 

L’artista umorista (stando alla concezione della vita e, quindi, dell’umorismo di Pirandello) è consapevole del suo lavoro e non si affida all’estro, ma alla riflessione e al sentimento che, pure in contrasto, rivestono un ruolo di pari importanza, in quanto «la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice: lo analizza, spassionandosene: ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario»(3). 

L’artista umorista, in altri termini, non tiene conto dell’apparenza, e va ben al di là, mettendo a nudo la mutevolezza degli uomini, evidenziandone la caducità e le miserie. E l’uomo, così come nella vita, altrettanto mutevole risulta nella creazione artistica, che rende meglio questa mutevolezza con la discontinuità, senza seguire apparentemente un ordine prestabilito, dove tutto sembra affidato al caso. Da una siffatta concezione dell’arte come ricreatrice della vita deriva la drammaturgia di Pirandello che, rompendo con la tradizione teatrale, all’inizio disorientò i critici e gli spettatori, dando vita a quello che doveva essere il teatro contemporaneo. 

Se consideriamo che i due Colloqui coi personaggi (che poi Pirandello utilizzerà per i Sei personaggi in cerca d’autore) risalgono al 1915, a parte tutte le novelle, scritte, addirittura, prima di questa data, e che costituiranno la materia delle altre commedie, oltre il romanzo sopracitato, va detto che Pirandello è anche l’iniziatore del teatro “grottesco”, contro quanti, invece, indicano L. Chiarelli che nel 1916 rappresentava i tre atti de La maschera e il volto(4). 

Per l’occasione, cfr. L. Ferrante, Teatro italiano grottesco, Bologna, Cappelli, 1964, pagg. 26 e sgg. Non sono affatto d’accordo con Ferrante, quando afferma che «Pirandello non può essere considerato la matrice della drammaturgia italiana, ma deve, secondo la definizione di Luigi Russo, essere considerato il caposcuola del decadentismo (mentre D’Annunzio ne fu, ricorda il Russo, il “grande attore”. Spesso la critica italiana e straniera ha adottato il criterio inverso attribuendo a Pirandello un ruolo specifico di leader del nostro teatro, ed ha fatto del “pirandellismo” un genere». Evidentemente, il Decadentismo, per la portata di movimento qual è, dalla fine del XIX sec. a ora, ha condizionato gli uomini e le cose, e nessuno, chi più chi meno, ne rimane esente. Non vedo motivo per cui si debba etichettare così Pirandello, quando tutti viviamo le stesse crisi. Certo, se ci riferiamo all’aspetto culturale, per le sue opere, il Nostro si fa portatore delle istanze del suo tempo con maggiore conseguenzialità di tanti altri, proprio per il rapporto spontaneo che istituisce tra l’arte e la vita. Ma questo non esclude che il grande siciliano non sia al tempo stesso il commediografo che darà un’impronta personale e decisiva al teatro italiano e straniero. E, come la mettiamo col teatro detto dell’«assurdo»? La grande riforma dell’arte scenica, senza Pirandello, sarebbe stata inconcepibile, così come impensabili, tutto d’un colpo, un Ionesco, un Beckett o un Adamov, per citarne soltanto alcuni. 

L’umorismo è suddiviso in due parti diseguali. Nella prima, la più lunga, Pirandello, prendendo spunto da A. D’Ancona che definisce Cecco Angiolieri, in un saggio a lui dedicato, “un umorista”, parte dall’etimologia della parola “umore” per spiegare a sé e agli altri cos’è veramente l’umorismo. 

Innanzitutto, sgombera il campo alla confusione che si fa a proposito, distinguendo tra ironia e umorismo , e chiamando in causa Federico Schlegel, secondo cui «l’ironia consiste nel non fondersi mai del tutto con l’opera propria, nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza dell’irrealtà delle sue creazioni, nel non essere lo zimbello dei fantasmi da lui stesso evocati, nel sorridere del lettore che si lascerà prendere al giuoco e anche di se stesso che la propria vita consacra a giocare»(5). 

Pirandello rigetta una tale definizione, così come è pronto a dire che l’umorismo è sempre esistito ed è presente in ogni letteratura. Per quanto riguarda l’ironia retorica, dice che essa è «una contraddizione fittizia» che non ha niente a che vedere con l’altra che non si discosta affatto dal reale. In base a questo tipo di contraddizione «il Manzoni non si sdegna mai della realtà in contrasto col suo ideale: per compassione transige qua e là e spesso indulge, rappresentando ogni volta minutamente, in forma viva, le ragioni del suo transigere: il che, come vedremo, è proprio dell’umorismo»(6). 

Ironia, più o meno manifesta, riscontra Pirandello nei nostri poeti cavallereschi, soffermandosi con giudizi ben riusciti e tuttora validi sul Pulci, il Boiardo e l’Ariosto. Vero umorismo, secondo lui, è nel Don Quijote di Cervantes, dove «il comico è anche superato, non più dal tragico, ma attraverso il comico stesso. Noi commiseriamo ridendo. o ridiamo commiserando»(7). 

Ma ciò che trovo interessante in questa prima parte, anche in vista della produzione che Pirandello da lì a poco farà seguire, è la sua concezione dell’arte. A proposito dell’Ariosto, dice che ogni rappresentazione «che tutti ci facciamo di noi stessi e degli altri e della vita» è illusione, anche se riteniamo “finta” quella artistica e “vera” quella che deriva dalle sensazioni. Ma la differenza tra le due illusioni è dovuta alla volontà. 

La rappresentazione artistica è “voluta”, cioè desiderata e, quindi, cercata, senza niente pretendere, mentre l’altra non costa alcuna fatica e la si possiede in rapporto a quelli che sono i sentimenti di ciascun individuo, venendo così incontro a particolari interessi. Ne risulta che «la differenza tra questa creazione e quella dell’arte è solo in questo (che fa appunto comunissima l’una e non comune l’altra): che quella è interessata e questa disinteressata, il che vuol dire che l’una ha un fine di pratica utilità, l’altra non ha alcun fine che in se stessa; l’una è voluta per qualche cosa; l’altra si vuole per se stessa». 

La poetica di Pirandello è bene delineata e difesa a spada tratta, e il suo allontanarsi dal verismo è più che manifesto. Le illusioni che ci facciamo vengono ritenute vere, ma esse cozzano con la realtà, sicché il contrasto fra le immagini che sono in noi e il reale è grande, e lo stato d’animo che ne viene fuori è quello del sentimento del contrario, a cui abbiamo accennato e che costituisce la materia della seconda parte del saggio.  

Qui Pirandello, in polemica col Croce, difende le sue idee sull’umorismo e, quindi, la sua poetica. Come si può negare l’umorismo quando ci sono scrittori che diciamo umoristi? E, dando una definizione dell’umorismo, da lui chiamato «sentimento del contrario», distingue il comico dall’umoristico che, tutto sommato, costituiscono il rovescio di una medaglia, di cui il comico (l’esempio della vecchia signora che s’imbelletta e vuole apparire quella che più non è) è l’avvertimento del contrario che, col subentrare della riflessione, diviene sentimento del contrario. 

Gli esempi e gli autori citati (Giusti, Lipps, Croce, Manzoni) consentono al Pirandello di ribadire le idee, in parte già esposte, che, poi, costituiscono la sua poetica. Quella che più gli sta a cuore è la difesa dell’«attività della riflessione», nel contesto di una estetica in generale, trasferendovi, così, ciò che costituisce l’aspetto più saliente della sua arte e giustificandola. Ed era ciò che gli premeva di più, visto che lo si criticava per il continuo ricorrere alla riflessione in tutte le sue opere. 

Pirandello è ben lontano, ormai, dai canoni veristici. L’artista è portato non solo a vedere per descrivere, ma a vedere per pensare ed esprimere, affidando a se stesso o ad altri il compito di riferire la sua riflessione. E il lettore o lo spettatore è messo subito al corrente del pensiero dell’autore, cosa a cui non era abituato e, per questo, spesso si trova disorientato e fa difficoltà, sulle prime, a seguirlo. 

Adesso, il reale, quale esso ci si presenta, non è che il punto di partenza per un discorso sulla vita e sull’uomo che coinvolge e differenzia, perché ciascuno non solo ha un suo mondo interiore da esternare, ma è anche in continuo conflitto con sé e con gli altri, per cui fa difficoltà a trovare una propria identità, costretto com’è a camuffarsi ora in questa ora in un’altra maschera. 

Così egli dice: «Per noi tanto il comico quanto il suo contrario sono nella disposizione d’animo stessa ed insiti nel processo che ne risulta. Nella sua anormalità, non può esser che amaramente comica la condizione d’un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad esser un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione che egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringano a dir no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce».(8) 

Evidentemente Pirandello, nell’affermare questo, e con una certa amarezza, dice tutto il suo scontento per la vita e per l’uomo, svuotati, come se li rappresenta, da ogni ideale che possa risollevarli per guardare verso l’alto. Ne deriva che l’uomo pirandelliano è attirato esclusivamente dal suo simile e a lui solo guarda per trovarvi quasi la giustificazione del suo esistere. 

Continuando il discorso, Pirandello ribadisce la differenza che passa tra il comico e l’umorista e, prendendo come esempi Don Abbondio e Don Quijote, dice che nel comico manca il sentimento del contrario, per cui siamo portati a simpatizzare per Don Abbondio, e a provare tenerezza per l’altro. Ma, in sostanza, sia nel comico quanto nell’umorista è sempre la riflessione a giuocare un ruolo importante, sicché se «il comico ne riderà solamente, contentandosi di sgonfiar questa metafora di noi stessi messa su dall’illusione spontanea: il satirico se ne sdegnerà: l’umorista, no: attraverso il ridicolo di questa scoperta vedrà il lato serio e doloroso: smonterà questa costruzione, ma non per riderne solamente: e in luogo di sdegnarsene, magari, ridendo, compatirà» (9). 

Le ultime pagine del saggio sembrano una summa di esperienza di vita vissuta, quasi un voler accostare la teoria alla pratica per dare più consistenza alle sue convinzioni. Leggiamo, a esempio: «La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato non cessi». 0, ancora: «L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna» (10). 

Queste e altre affermazioni si richiamano direttamente alla concezione di vita di Pirandello e costituiscono i motivi principali della sua arte. 

 

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Con il saggio L’umorismo Pirandello enuncia la sua poetica, e già in esso vi cogliamo alcuni spunti di quel relativismo che sarà facile scorgere nelle opere di narrativa e di teatro. 

La stessa definizione di umorismo, e il ritornarvi con argomentazioni diverse, ma per chiarire lo stesso concetto, ha in sé la convinzione che relega l’uomo in una condizione di continua mobilità psicologica, per cui egli è portato a riconoscersi, a seconda le circostanze, ora in una ora in un’altra personalità. 

Pirandello si rivela innanzitutto un abile conoscitore dell’animo umano, essendo dotato di un grande spirito di osservazione e, soprattutto, un uomo, prima che artista, che ha sperimentato in proprio le difficoltà e le amarezze del vivere. Ora, queste qualità e la concezione amara che s’era fatta della vita trasferisce nel mondo dell’arte. Così operando, s’allontana dal verismo dell’inizio e insegue una forma d’arte che nasce spontanea, senza niente di predisposto, e rimane immutata, mentre cangianti sono gli aspetti della vita. 

Vediamo in che cosa consiste la sua concezione amara della vita e da dove scaturisce. Dice Pirandello in una delle tante asserzioni: «In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida, inqUietante: ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che norma1mente percepiamo, una realtà vivente oltre la vita umana, fuori delle forme dell’umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. […] La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? Come portarle rispetto?»(11). 

Secondo Pirandello, le illusioni che l’uomo via via si crea, lo distolgono dal suo vero essere, senza nemmeno rendersene conto. Ma se per un momento egli rientra in sé, mettendo da parte il velo delle illusioni, allora si scoprirà fragilissimo e senza alcuna certezza. In sostanza, ciò che ha un ruolo importante anche in questa fase è la riflessione, la quale lascerà un segno profondo nell’animo del singolo che, nonostante il ritornare alle sue abitudinarie illusioni, né ora né mai riuscirà più a cancellare. 

Certamente, dietro questo pensiero desolato e desolante di Pirandello, ci sono l’interesse all’introspezione e le influenze che le dottrine scientifico-filosofico- letterarie del tempo esercitarono su di lui, e queste idee successivamente svilupperà, quando lo scrittore sarà ancora più provato dalle vicende familiari. Ma c’è anche in questa introspezione così acuta tutto il relativismo di cui la sua opera è piena(l2). Appena qualche pagina prima, aveva scritto: «È appunto le varie tendenze che contrassegnano la personalità fanno pensare sul serio che non sia una l’anima individuale. Come affermarla una, difatti, se passione e ragione, istinto e volontà, tendenze e idealità, costituiscono in certo modo altrettanti sistemi distinti e mobili, che fanno si che l’individuo, vivendo ora l’uno ora l’altro di essi, ora qualche compromesso fra due o più orientamenti psichici, apparisca come se veramente in lui fossero più anime diverse e persino opposte, più e opposte personalità?»(l3). 

Rosario Chiàrchiaro, ne La patente (1911, trasformata in atto unico nel 1918), chiederà al giudice D’Andrea non che venga assolto, cosa su cui si dibatteva il povero giudice, ma riconosciuto effettivamente jettatore, visto che l’opinione pubblica lo ritiene tale. Nell’impossibilità di rigettare l’etichetta che gli hanno applicato, vuole dal giudice la patente, perché solo così potrà, nonostante tutto, vivere e sfamare la famiglia. 

Il Chiàrchiaro si adegua alla nuova realtà, perché sa che non può fare diversamente. Ha capito l’ingranaggio della vita, e ha capito anche che reagendo avrebbe ottenuto un effetto ancor più disastroso. La realtà è che la maschera è indispensabile, anzi diviene un’imposizione sociale a cui non si può sfuggire. Il vivere in società impone dei pedaggi a cui l’uomo, per forza di cose, deve sottostare(14). Una realtà, perciò, amara, senza dubbio, che toglie la libertà di agire come si vorrebbe, innescando certi meccanismi di convenienza a cui, per il proprio bene, non si può rinunciare. È il caso del protagonista dell’Enrico IV e di tanti altri che, come lui, o il Chiàrchiaro, sono costretti a vivere nella finzione. 

Questo modo di concepire la vita e gli uomini è una costante pirandelliana che non farà registrare alcuna variazione; cambierà, magari, il movente, ma nessuna certezza rischiarirà il cammino dell’uomo che spingerà l’umorista Pirandello prima al riso e, poi, alla pietà. E questo atteggiamento risoluto nei confronti dell’umana condizione farebbe di lui un beffardo, se non si andasse un po’ al di là di una semplice lettura. Ma, dietro la prima impressione che un lettore attento trae, c’è una compassionevole comprensione che accomuna tutti e porta gli uni e gli altri, comunque, a compatirsi. 

Pirandello non denuncia, come avevano fatto i veristi, uno status sociale, non si chiede cosa sarà dell’uomo o come potrà migliorare il suo essere, e non si pone nemmeno il problema di quale sarà stata la causa (come farà Svevo) che ha portato l’uomo alla crisi d’identità e al crollo dei valori tradizionali. Pirandello ritrae l’uomo nel suo travaglio interiore, nell’urto e nel contrasto fra l’essere, qual è nell’intimo, e il fittizio, tra l’aspirare ciascuno a un qualcosa, nobile o no che sia, e l’impossibilità di realizzarlo, perché forze opposte, per niente controllabili, lo ostacolano e frenano. E Pirandello è maestro nella descrizione di questo contrasto e di quest’ urto interiori, perché nessuno – meglio e prima di lui – aveva scavato tanto in profondità nell’animo umano, scoprendolo miseramente debole e indifeso. 

Il mondo pirandelliano non è popolato da uomini fuori del comune, non ha posto per gli eroi, per il semplice fatto che l’uomo nel suo intimo non differisce affatto dagli altri e lamenta le stesse pene. Ma la piccola e media borghesia è quella che meglio degli altri ceti scopre se stessa. Ed è proprio questa l’oggetto dell’attenzione del Nostro: essa è la più emergente e, come tale, la più esposta e incline a esternare i propri travagli esistenziali. 

Canta l’Epistola, scritta anch’essa nel 1911, è una tra le più belle novelle dove il dramma del personaggio trova il suo epilogo nella morte. Venutagli meno la fede, Tommasino Unzio si vede tagliato ogni legame con la vita associata, e il mondo gli cade addosso ogni giorno di più. Indifeso e debole, cerca rifugio nella natura e con essa colloquia dando ascolto alle piccole cose. L’incomunicabilità tra gli uomini viene marcata ancor più dall’abbandonarsi da parte di Tommasino alla riflessione e alla contemplazione del mistero che tutto e tutti coinvolge. 

Il non determinato, l’incerto e, quindi, il senso dell’umana provvisorietà e dell’effimero, vengono intercalati qua e là dalla voce del narratore che, usando l’infinito, traduce così lo stato d’animo del protagonista: «Non aver più coscienza di esser, come una pietra, come una pianta: non ricordarsi più neanche del proprio nome: vivere per vivere, senza saper di vivere, come le bestie, come le piante: senza più affetti né desiderii, né memorie, né pensieri; senza· più nulla che desse senso e valore alla propria vita. Ecco: sdrajato lì su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardar nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti, gonfie di sole: udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da un’infinita lontananza, la vanità d’ogni cosa e il tedio angoscioso della vita»(15). 

Pirandello non descrive o, se lo fa, la descrizione non è fine a se stessa, perché il centro della narrazione è il capovolgimento psicologico che il personaggio fa registrare, fino alla morte che il materialismo invadente non può spiegarsi e, perciò, assurda agli occhi dei tanti che non possono immaginare, e tantomeno accettare, che Tommasino Unzio è morto per un filo d’erba. 

L’attenzione dell’autore, in questa come nelle altre sue opere, è rivolta all’uomo, ma più che all’uomo che in sé è identico a tanti altri, al personaggio o ai personaggi che egli impersona. E non gli interessano, quindi, i fatti che servono solo da pretesto, quanto la problematica che ne viene fuori. Certo, la psicanalisi avrà giuocato un ruolo determinante in questo cambio di ottica, così come il crollo dell’ideologia positivistica, e non solo in Pirandello, o nel campo della letteratura, ma nelle arti in genere; sicuramente, però, ha contribuito moltissimo il disorientamento prodotto negli uomini di quel tempo dai cambiamenti morali e sociali che la vecchia Europa stava registrando. e furono questi cambiamenti ad acuire di più i dissidi esistenziali. Ma come non si voleva accettare. e si faceva fatica anche a riconoscere, questa crisi, allo stesso modo non si tenevano in considerazione i tentativi di quelli che la condizione dell’uomo denunciavano coi loro scritti. Pirandello fu uno di questi e, cosa risaputa, venne stimato e ammirato più altrove che in Italia. Tutto questo, però, servì a svecchiare la letteratura e il teatro italiani che, con Pirandello, diedero il via a un’apertura e a un’innovazione di respiro mondiale. 

Va detto anche che la gente, uscita fortemente provata dalla Grande Guerra, aveva bisogno di tutt’altro che delle conclusioni pirandelliane. Eppure, ecco cosa dice Diego, personaggio di Ciascuno a suo modo (1924): «Niente. Che vuoi concludere. se è così? Per toccare qualche cosa e tenerti fermo, ricaschi nell’affiizione e nella noja della tua piccola certezza d’oggi, di quel poco che, a buon conto, riesci a sapere di te […]» (16). 

Ma la gente, in quel periodo, sentiva la necessità di evadere, e di ricorrere ai “sogni”, era presa dalle smanie del vivere e non poteva stare là a immalinconirsi pensando alla fragilità e alla mutevolezza del suo essere(17). Intanto la dialettica pirandelliana porta alle estreme conseguenzialità situazioni che apparentemente riguardano questo o quello, e coinvolge, ciascuno nella propria solitudine e pur volendone rimanere al di fuori, tutti nel vortice sfaccettato che è la vita. 

Salvatore Vecchio 

(1) B. Croce, L. Pirandello, in <<La Critica>>, Bari, 1935, ora in Letteratura della nuova Italia, VI, Bari, Laterza, 1957. 
(2) L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, Poesie, Scritti varii (a cura di M. Lo Vecchio-Musti), Milano, Mondadori, 1973, pag. 146. 
(3) Ivi, pag. 127. 
(4) Si veda, anche, M. Lo Vecchio Musti, L’opera di Luigi Pirandello, Torino, Paravia, 1939, pag.175. (5) L. Pirandello, L’umorismo, cit., pag. 24. 
(6) lvi. 
(7) lvi, pag. 98.
(8) Ivi, pag. 138. 
(9) lui, pag. 146. 
(10) Ivi, rispettivamente. pagg. 151 e 154. 
(11) Ivi, pagg. 152-153. 
(12) Aveva esercitato un fascino particolare su Pirandello il libro di A. Binet, Les altérations de la personnalité, più volte citato nei suoi scritti. Nei Sei personaggi in cerca d’autore il Padre dirà: «Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi veda – si crede “uno” ma non è vero: è “tanti”, signore, “tanti”, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi[…]». 
(13) Ivi, pag. 150. 
(14) Croce, in Etica e politica (Bari, Laterza, 1973, pag. 103), parlando di responsabilità, scrive che: «… la società […] impone certi tipi di azione e dice all’individuo: Se tu vi ti conformi, avrai premio; se vi ti ribelli, avrai castigo; e, poiché tu sai quello che fai e intendi quel che io ti chiedo, io ti dichiaro responsabile dell’azione che eseguirai». 
(15) L. Pirandello, Novelle per un anno (a c. di C. Alvaro), vol. I, Milano, Mondadori, 198012. (16) L. Pirandello, Ciascuno a suo modo, in “Maschere nude” (a cura di M. Lo Vecchio Mustil, voI. I, Milano, Mondadori, 1985, pag. 172. 
(16) L. Pirandello, Ciascuno a suo modo, in “Maschere nude” (a cura di M. Lo Vecchio Mustil, vol. I, Milano, Mondadori, 1985, pag. 172.
(17) Vedi il discorso commemorativo di M. BontempeIli del 17 gennaio 1937, ora in Introduzioni e discorsi, Milano, Bompiani, 1945.

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 7-18.




 Omaggio a Helmut Georg Koenigsberger 

Lo storico inglese H.G. Koenigsberger festeggia quest’anno il suo novantesimo compleanno con la versione digitale dell’ interessantissima opera: Monarchies, States Generals and Parliaments, edita dalla Cambridge University Press nel 2001. Per onorare la figura e l’opera dello storico amico, pubblichiamo, nella traduzione di P. Bruna Scimonelli, il Prologo, che già da solo dà la misura e l’idea dello spessore storico-culturale dell’opera. 

Tedesco di nascita, all’avvento del nazismo Koenigsberger dovette abbandonare insieme con la sua famiglia la Germania, per andare a stabilirsi a Londra, dove poté continuare gli studi. Alla fine della II Guerra mondiale fu in Sicilia per una sua ricerca sul Cinquecento siciliano. Era il 1947 quando fece il suo primo soggiorno nell’isola. Vi tornò ancora tantissime volte, l’ultima nel 1996, per tenere una conferenza a Marsala su Il nazionalismo: passato e futuro e, al tempo stesso, per assistere alla presentazione del poema: Simone cerca l’oracolo della moglie Dorothy, pubblicato nei quaderni di «Spiragli». 

I suoi soggiorni siciliani, che confermano l’attaccamento alla Sicilia, sono riportati in Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquant’anni), un diario di viaggio denso di annotazioni, ma soprattutto una testimonianza della trasformazione lenta che in Sicilia si stava avendo in quegli anni e un ritratto dei Siciliani, che niente ha a che fare con i tanti abbozzati, spesso faziosi, tentati dai nostri scrittori. 

Tra le sue opere più importanti, ormai ritenute classiche e tradotte nelle maggiori lingue europee, sono da ricordare: The government of Sicily under Philip Il of Spain (1951), pubblicato in Italia da Sellerio nel 1997 con il titolo: L’esercizio dell’impero: L’Europa del 

Cinquecento (in collaborazione con G. L. Mosse), in Italia pubblicato da Laterza nel 1969; Medieval Europe 400-1500 (A History of Europe); Early modern Europe 1500-1789 (A History of Europe), del 1986, entrambe pubblicate anche in Spagna nel 1987. 

Helmut G. Koenigsberger ha insegnato nelle università di Belfast, di Manchester, di Nottingham, di Cornelle, dal 1973 al 1984, nel King’s College di Londra. Nel 1984 lo troviamo come «stipendiato» all’Historisches Kolleg di Monaco. Intensa è anche la sua collaborazione a prestigiose riviste, quale «European History Quarterly», da cui nel 1996 «Spiragli» ha pubblicato Il nazionalismo: passato e futuro. 

Da tutte queste opere emerge un ritratto di storico attento e di osservatore inconsueto. Koenigsberger non si ferma al fatto, non si limita a descrivere gli eventi; egli va alla ricerca del documento apparentemente insignificante per dargli vita e collocarlo nel contesto oggetto di studio. Allora il fatto si palesa nella sua luce migliore, diventando fruibile, anche da chi ha poca dimestichezza con la storia, e piacevole, perché acquista fluidità e suscita interesse. Questo si nota già a partire dalla sua prima opera, che tanto successo riscosse al suo apparire: la Sicilia è studiata nei suoi vari aspetti, pur rimanendo come punto fermo il governo dell’isola sotto Filippo II, e l’economia, la realtà sociale, la politica e la cultura costituiscono un unicum che interessa il lettore e lo apre alla curiosità e al piacere intellettuale. 

Monarchies, States Generals and Parliaments corona il lavoro di tutta una vita e segna una tappa fondamentale della ricerca stolica di Koenigsberger. Già negli anni Novanta del secolo scorso ci aveva anticipato il tema di ricerca e ce ne aveva parlato con tanto entusiasmo che solo ora comprendiamo. È un ‘opera di grande spessore culturale e di enorme interesse per chi voglia studiare la nascita e l’evolversi delle moderne democrazie, che nei paesi europei del Medioevo, a partire dell’Olanda, hanno la loro origine nelle Assemblee rappresentative e negli Stati Generali. Per questo ci auguriamo che l’opera sia pubblicata anche in italiano. Sarebbe un peccato non vederla diffusa al più presto nella nostra lingua. Come scrive in una nota la traduttrice P. Bruna Scimonelli, Koenigsberger fa «una trattazione rigorosa dei fatti storici, ma leggibilissima e appassionante anche per il grande pubblico». 

Lo studio e la conoscenza del mondo classico permettono allo storico di fare riferimento alle costituzioni greche, di risalire al diritto romano, senza trascurare quello canonico. e alle prime forme rappresentative dell’ordine dei Domenicani. Ma sono la consultazione e lo studio di una vasta mole di documenti nelle diverse biblioteche e negli archivi di Stato di mezza Europa che portano Koenigsberger alle conclusioni a cui è pervenuto, magistralmente inquadrando la lunga lenta storia delle democrazie europee fatta di «lotta più o meno esplicita tra monarchia e parlamento basata su due questioni di fondo: il potere e la libertà » (Scimonelli). 

Koenigsberger non manca di fare riferimento alla storia della Sicilia e alle sue prime forme di assemblee parlamentari, presenti già in epoca normanna e abbastanza attive alla fine del sec. XIII. Lo storico ricorda come i rappresentanti parlamentari si rivolsero a don Pietro d’Aragona, offrendogli appoggio nella guerra contro i d’ Angiò, per riceverne in cambio privilegi . Emerge di qui una costante del parlamento siciliano, che consisteva nel tutelare i suoi interessi e, al tempo stesso, nel rispettare il proprio sovrano, a cui sarà generoso di donativi e di denaro. 

Dopo tanti secoli, Koenigsberger riscontrerà ancora oggi questo carattere insito nel popolo siciliano e non mancherà di annotarlo in Atmosfere di Sicilia (Una. frequentazione che dura da cinquant’anni), in cui mette in risalto, oltre alla voglia di cambiare e di avvicinarsi al resto del mondo, il senso del rispetto e dell’amicizia. Proprio quel rispetto e amicizia che si traducono nella calda ospitalità che i Siciliani sono soliti offrire e che tante volte misero in atto nei confronti dei loro re, riservando onori, feste e tanto ossequio, anche se li delusero sempre, non mantenendo le promesse date o negando loro le costituzioni concesse. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 3-4.




Nello Sàito, Gli avventurosi siciliani, Matelica (Mc), Hacca ed., 2010.

Per la Sicilia col cuore e con la mente 

Nello Sàito (di origine siciliana, nato e morto a Roma, 1920-2006) è tra noi, e la sua presenza si vede e si tocca con mano, forse più di quando era vivo, perché lui, da uomo libero, per dire ciò che pensava senza condizioni, non era ben accetto e i suoi scritti erano rifiutati. Egli è presente e continua ad operare e a guardare le cose del mondo e della Sicilia e per essa agire col cuore e con la mente attraverso le sue opere che stanno vivendo un’assolata stagione. Già era stato ripubblicato, qualche mese dopo la sua morte, nel 2006 (il nostro rammarico fu che non poté vederlo nella nuova veste editoriale), Il pinocchio studioso, ed ora è la volta del suo secondo romanzo, Gli avventurosi siciliani, per i tipi di Hacca ed., che evidenzia ancora il Sàito estroso e anticonformista nella vita come nell’arte. 

Questo romanzo fu pubblicato nei “Gettoni” Einaudi, diretti da Vittorini, nel 1954, negli anni in cui il neorealismo cercava nuova linfa per rendere più incisivo l’apporto della letteratura nella società Nello Sàito va oltre le tendenze e continua la sua ricerca iniziata con Maria e i soldati (1948) nel segno della razionalità che vede l’uomo più orientato ad affermare la sua lindura morale piuttosto che a cadere nelle maglie di un malcostume rapace. 

Gli avventurosi siciliani fu subito salutato dalla critica (G. de Robertis, N. Gallo e altri) che, pur riconoscendone i meriti, non condivise le scelte dell’autore. De Robertis parlò di uno stacco tra la prima e la seconda parte, mentre Gallo di essere incappato nella «raffigurazione, tra il simbolo e la favola, di una mentalità e di un paese». La realtà è che molti critici si trovarono spaesati dinanzi all’esuberanza del giovane Sàito. 

Strutturato com’è il romanzo, è facile giungere a siffatte conclusioni, e Sàito lo sapeva bene fin dall’inizio, dal momento in cui si prefisse di parlare della Sicilia da due angolazioni diametralmente opposte: una dall’esterno, ed è la solita retorica campanilistica di chi da lontano (l’avvocato Pennisi e l’esportatore Petralia) con nostalgia reclama la sua terra, dando sfogo al sentimento e risolvendo tutto nel mito (i discorsi che questi personaggi fanno sul treno, il dirsi e sentirsi siciliani, il loro muoversi e agire), nel parodistico e nel comico, senza avvedersene. L’altra angolazione riprende la Sicilia dall’interno. Qui non c’è posto per la retorica, tanto meno per i sentimenti che sono quasi repressi, perché tutto è abbrutito dalla misera quotidianità del vivere che non dà scampo alla povera gente costretta a vendersi più che a lavorare dignitosamente. Ed è la Sicilia del sopruso, dove i prepotenti o detengono il potere o fanno lega con quanti lo esercitano. 

Sàito ha sperimentato a spese sue questi sentimenti e ne soffre, perché sa che a niente portano i tentativi dei singoli, se non c’è la volontà di cambiare le cose. Questa intima sofferenza è nella pagina e, al di là delle apparenze, s’intravede come in filigrana, grazie ad una scrittura ben dosata e ad una presenza vigile, eppure discreta e mai invasiva. E come Silvestro in Conversazione in Sicilia, Fulvia, la protagonista, esprime il suo stato d’animo e – come scrive N. Borsellino -, cogliendo nel segno il senso del romanzo, «evidenzia il contraddittorio rapporto di attrazione e rifiuto dello stesso scrittore verso l’isola e la sua realtà ambientale». 

Il viaggio, tante volte intrapreso dal nostro autore per o dalla Sicilia (Dentro e fuori, 1970; Una voce, 2001), ha al suo centro la Sicilia con l’amore e l’odio propri di chi vorrebbe che la sua solarità non contrasti con la triste realtà della gente; quindi, un viaggio d’amore ma anche di delusione nel constatare con amarezza che dopo anni di assenza niente è cambiato nella sua terra. E quando, per bocca di Pennisi, afferma che «la Sicilia è un paese avventuroso», dice la verità perché non ha potuto essere altra, ed è stata sempre bistrattata terra di conquista (ultima quella piemontese), e non si è mai realizzata come avrebbe potuto e dovuto. La realtà è che la Sicilia è sfuggita di mano ai Siciliani (Sàito lo ribadisce) e non resta loro che darsi all’avventura. Il viaggio ne Gli avventurosi siciliani di andata e ritorno, Milano-Trapani con soste a Napoli e a Palermo, è fatto dalla giovane Fulvia insieme con Pennisi e Petralia, due casuali amici che, per attirarla a sé mettono in campo la loro estrosità evidenziando così la loro sicilianità. Ma se esso si svolge nel segno di un’esaltante euforia, l’arrivo a Trapani segna il cambio di registro che apre al drammatico e anche al tragico, quando la morte di un salinaro scatena una rivolta che fa presagire il peggio. Ed è allora che Fulvia rigetta quel mondo e progetta la fuga. 

Fulvia-Sàito getta la spugna per cadere nella sfiducia? Niente affatto, anzi sceglie la denuncia contro uno Stato latitante, perché si metta dalla parte della gente e una volta per tutte renda giustizia delle inconcludenze e dei tanti problemi ultrasecolari irrisolti. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg.  54-56.




Marsala-Mallorca. Diario di un giorno 

 4 aprile 1998 

Parto per uno dei miei viaggi di lavoro, come si dice in gergo commerciale. Dovrò incontrare degli amici scrittori per consolidare scambi culturali con la Spagna. Sono in compagnia di Tonino Contiliano, collaboratore di “Spiragli”, poeta. 

Arriviamo all’aeroporto Florio, avendo sciroppato, tra il serio e il faceto, le raccomandazioni delle mogli. Manca una buona mezz’ora alla partenza. Mi accorgo di avere dimenticato a casa gli occhiali e, per questo, salta il caffè che avremmo dovuto prendere assieme. 

In questi casi si dice che la giornata inizia “bene”! Ci salutiamo con le donne, nell’ipotesi che non facessero in tempo a farmi avere i miei occhiali, ma ci imbarchiamo per ultimi, nell’attesa di vederle ricomparire. Solo dopo che mi vengono a consegnare gli occhiali, guardando attraverso l’oblò, intravediamo due figure di donne che salutano sventolando le braccia. Ricambiamo amorevolmente i loro saluti. 

Voliamo, lasciandoci dietro la plastica luccicante delle serre di Birgi. A destra, abbiamo Favignana e le isole vicine, a sinistra, Erice, a strapiombo sul mare di Trapani. 

La primavera anche qui, in alto nel cielo, spande la sua luce e la dilata dappertutto, sui cirri sparsi, sull’oblò che abbaglia. Nella luce smorzata e distesa di un giorno a finire, su questo cielo, non molto lontano, si consumò una tragedia che il mare raccolse. Nonostante il relitto parli chiaro, la verità stenta a venire a galla. E i morti innocenti ancora fissano sgomenti, i parenti gridano la loro rabbia, i responsabili tacciono e si nascondono nella meschinità del loro essere. L’Uomo, mi viene da dire! 

*** 

A Roma ci attende una giornata piena fino a stancarci. Incontro (come sempre, appuntamento sotto la finestra del Duce a piazza Venezia) Donato Accodo, l’editore della E.I.L.E.S. Parliamo di pubblicazioni, di lavori in fase di attuazione, del mio Pirandello e Ionesco, di cui apprendo che ha venduto molte copie all’estero e che, seppure a rilento, va bene ed è richiesto da più parti. Parliamo anche di questo viaggio in Spagna, degli amici che ci aspettano e della possibilità di allacciare rapporti di scambio che vedrebbero un po’ tutti coinvolti. Fa piacere rivedere persone che hanno gli stessi interessi, confrontarci e chiarirci le idee. Idee che non mancano a nessuno, specie se si possono concretare. 

Sorseggiamo il nostro caffè, seduti nella terrazza di un bar che guarda il Milite Ignoto. Maree di gente passano incessantemente dinanzi ai nostri occhi; gente dall’aria incerta e disarmata, gente stupita che guarda e si sofferma, giovani amanti che si tengono per mano, uomini e donne soli con se stessi, che vanno dove un affetto li chiama o il dolore preme, politici e portaborse, tutti spinti dalla vita che non s’arresta. Vanno… 

La vita è in tutto questo andare, in questo essere altri, nel proliferare senza sosta, nella forza che è in noi e che ci spinge ad agire. Il contrario è la morte, l’apatica, indifferente morte. 

Eppure, chi non è abituato ad essere nel vortice continuo dell’umano fluire delle grandi città non può non stancarsi ed invocare la calma. Per questo, quando ci siamo congedati da Donato, abbiamo preferito percorrere luoghi meno noti e viuzze a zig-zag che dal fiume vanno verso il centro, avvolti nel silenzio della solitudine e dell’abbandono. A ben pensarci, però, quelle strade e quei luoghi deserti chissà di quali segreti sono depositari e quante trame han visto ordire! 

Tonino ed io andiamo a zonzo, anonimi tra gente anonima, visitando luoghi e osservando uomini che di Roma sono teatro e personaggi. L’Uomo, grandezza e miseria, diceva Pascal! E i luoghi che andiamo visitando sono grandezza dell’uomo che fu e miseria passata e presente di chi ha condizionato e condiziona, a scapito di quanti non hanno mai avuto la possibilità di gestire in proprio e in meglio la vita. 

Pranziamo nelle vicinanze di piazza Argentina. Seduti, ci accorgiamo di essere stanchi. Abbiamo camminato abbastanza per meritarci un bicchiere di birra e il piatto del giorno che una giovane polacca viene a servirei. Riferisce di essere arrivata da poco a Roma, spinta dal bisogno di aiutare i suoi, malati con una nidiata di bambini da allevare. I capelli d’oro le incorniciano il volto di una bellezza indicibile, anche se gli occhi azzurro-chiari gli infondono una posatezza che la rende più grande dei suoi vent’anni. È una bellezza rara provata, più che dal tempo, dalle privazioni. Il dolore lascia solchi profondi. 

Uscendo dal locale, facciamo un gesto di saluto, non diciamo niente. Solo quando ci allontaniamo, guardandoci, quasi a conferma, diciamo che la giovane polacca è di rara bellezza. 

*** 

All’aeroporto arriviamo in ritardo. Ci dicono che abbiamo pochi minuti e, anche se hanno già comunicato il nostro arrivo, non possono garantirci l’imbarco. Dobbiamo affrettarci. Corriamo a più non posso, sudati e col fiatone da cani accaldati. 

Responsabile di questo inconveniente il poeta. Ricordava l’imbarco alle 19.00 anziché alle 18.00 ed io, cedendogli i biglietti, mi ero affidato a lui! 

Ora, seduti sull’aereo che ci porterà a Mallorca, ci asciughiamo i sudori e ridiamo del paventato pericolo di non dovercela fare. Ci viene in mente la corsa delle donne nella mattinata e ridiamo per avercela fatta in entrambi i casi. 

C’è ancora luce. Voliamo su un cielo limpidissimo; sotto di noi, un mare d’argento che sembra stagnato. Tra poco saremo con gli amici che ci aspettano, isolani tra isolani, in un’isola molto vicina e simile alla nostra. Brinderemo nel nome dell’amicizia e della collaborazione. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 33-35.




M. Caruso, Il ladro di sogni, Roma, E.I.L.E.S., Pagg. 126.

 Con Il ladro di sogni Mario Caruso chiude la trilogia dei suoi romanzi. Se con Il balcone del professore Agostino Vicoplato certi luoghi comuni sono condizionanti della vita umana, se ne L’ascensore di Cartesio il dubbio vitalizza la nostra esistenza, ne Il ladro di sogni la speranza emergente del bene comune spinge l’uomo, nonostante le difficoltà, ad operare e ad imporsi. 

Tutte e tre i romanzi, da angolazioni diverse, prendono spunto dal vissuto quotidiano. Ma se nei primi l’interesse di Mario Caruso è rivolto a Singoli individui che vivono determinate situazioni, a prescindere dalla loro volontà, ne Il ladro di sogni il condizionamento è più evidente che mai. L’uomo non solo è manipolato da forze occulte che agiscono per imporre i loschi interessi di un gruppo sparuto di persone, ma addirittura è condizionato in ciò che gli appartiene e di cui non può fare a meno: la volontà di darsi ai sogni o, meglio, di sognare come liberazione di sé, degli altri, del mondo che lo circonda, per realizzare, a volte, l’irrealizzabile, che è proprio della speranza. È quanto di più brutto ci possa essere, è come tagliare le ali ad una farfalla. 

Tutto ciò in un’aureola di fantapolitica, perché, a mio avviso, c’è l’amara realtà che cade sotto i nostri occhi, ma che abbiamo difficoltà a riconoscere come tale. I fatti di cronaca recente o lontana di scorie tossiche o di pseudo ricerche umanitarie ce ne danno prova. 

Fantapolitica, allora. E noi ce lo augureremmo, se effettivamente fosse cosi. Ne Il ladro di sogni c’è il bisogno di voler pensare in positivo, di volere costruire, come fa uno dei protagonisti del romanzo, rivelando agli altri i retroscena più mortificanti e deleteri. 

È l’affiorare di un ottimismo che ci vuole vigili e consapevoli di quanto accade per controbattere i colpi mancini che giungono inaspettatamente da ogni parte, causando all’uomo e all’ambiente danni irreparabili. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 43-44.




 “Le Roi se meurt” di Ionesco 

«Un jour j’ai demandé à ma mère: “Nous allons tous mourir? Dis-moi la verité”. Elle m’a dit: “Oui”. Je devais avoir quattre ans, cinq ans, j’étais assis par terre, elle était debout devant moi. Je la vois encore. Elle tenait ses mains derrière son dos. Elle était appuyée contre le mur. Quand elle m’a vu sangloter – parce que tout d’un coup je me suis mis à pleurer – elle m’a regardé, désarmée, impuisante. J’ai eu très peur» (1). 

Ionesco ha sempre tenuto in grande considerazione, fin dalle sue prime pièces, il tema della morte; anzi, esso ha costituito un elemento essenziale del suo discorso. Già ne La Cantatrice chauve, in mezzo a tanto conformismo piccolo-borghese, la notizia della morte di Bobby Watson vuole ricordare un ben altro conformismo: quello della morte livellatrice di tutto e di tutti, mentre ne La Leçon la morte è una conseguenza dei soprusi e delle violenze. Così, ne Les Chaises i due vecchi si uccidono per colmare il vuoto prodotto loro dalla solitudine e, per questo, raggiungere gli altri «invisibili». Jean di La Soif et la faim, con la morte tende verso una vita migliore. Da ciò si spiega il suo continuo sognare in cerca di un paradiso dove finalmente sia superata la morte. Ancora, troviamo una continua contrapposizione di vita e di morte in L’avenir est dans les oeufs ou Il faut de tout pour faire un monde. Più propriamente, Bérenger di Tueur sans gages si renderà conto che la morte incombe su ciascuno di noi, e un altro protagonista, Edouard, ricorderà la «verità elementare» che «noi dobbiamo tutti morire». In un’altra pièce del 1963, Le pieton de l’air, amore e morte sono ancora i temi contrastanti. Il sentimento dell’amore è ostacolato dalla consapevolezza che la morte annulla e cancella ogni cosa (2). 

Le Roi se meurt è l’opera in cui Ionesco sviluppa più che in ogni altra sua pièce il tema della morte e, di conseguenza, l’impotenza dell’uomo dinanzi a questa realtà che spesso viene sottovalutata e, addirittura, dimenticata. 

Questo re che muore è l’uomo resosi finalmente consapevole del proprio destino. Ma all’inizio insiste a non dare peso a tutto ciò, e solo quando comincia a impossessarsi di lui il senso della morte, e l’idea che tutto è effimero e passeggero, allora capirà che è inutile ribellarsi e che la morte, quando viene, non chiederà mai il permesso. 

«MARGHERITE – Ce n’est pas la peine. Elle est irréversible»(3). 

L’uomo che fino ad allora non aveva mostrato alcuna incertezza, adesso, tutto d’un tratto, vede crollare dinanzi a sé il mondo di cartapesta che s’era costruito, e vuole crearsi un varco per uscire da quella morsa che è l’idea ossessionante della morte, vicolo cieco faticoso per chi si accinge adimboccarlo. Alcuni uomini, magari, si arrenderanno sfiduciati a questa triste realtà, altri si rivolgeranno a Dio come ultima salvezza, altri ancora tenteranno di dare, a riprese, una ben più salutare soluzione ai loro problemi. Di questi ultimi è Eugenio Ionesco che con coraggio spinge in avanti la sua ricerca, tenendo presenti la condizione umana e la futilità del nostro destino. 

Eugenio Ionesco, a partire dalle ultime pièces (Tueur sans gages, Rhinocéros), abbandona il teatro di scavo che poneva la sua riuscita esclusivamente nelle risorse del linguaggio, e si dà ad un teatro a messaggio, rivolto prima di tutto a se stesso e, di riflesso, agli altri in quanto suoi simili. Le Roi se meurt è l’amara constatazione della morte dell’uomo, di ogni uomo che erroneamente ha posto la sua speranza nella vita. 

«MARGHERlTE – C’est du temps perdu. Espérer, espérer! (Elle hausse les épaules). Ils n’ont que ça à la bouche et la larme à l’oeil. Quelles moeurs» (4). 

Ma è anche un inno alla vita, quella degna di essere vissuta nella piena consapevolezza delle nostre capacità, in vista di un bene che vada al di là della stessa morte. Perché, allora, Ionesco, ha scritto questa pièce? 

Sentiamolo: 

«Je suis parti d’une angoisse… Cette angoisse était très simple, 
très claire. Elle a été ressentie d’une façon moins irrationelle, 
moins viscérale, c’est-à-dire plus logique, plus à la surface de 
la conscience [ … I Je venais d’etre malade et j’avais eu très
peur» (5). 

Ionesco esprime il timore e lo stato d’animo di chi sta male e si trova fra la vita e la morte. Il tempo che passa, inawertito e impassibile, acuisce ancor più il disagio e travolge a poco a poco ogni speranza e ogni desiderio. È allora che l’uomo riconosce i suoi linliti e cade nell’angoscia. A ragione, G. Dumar dice: -C’est cette angoisse fondamentale, existentielle, qui fait tout les sujet du Roi se meurt”. Jamais Ionesco n’est allé si loin dans la description de l’ètre – par – la – mort, tel qu’il haute la philosophie pessimiste de Schopenhauer à Sartre» (6). Ed è questa, in effetti, la constatazione che un lettore attento farebbe, se tenesse in considerazione soltanto “Le Roi se meurt”: una conclusione sconsolante e logica che è di chi arbitrariamente fa scadere tutto l’essere dell’uomo nell’ “essere – per – il – mondo” che è “essere – per – la – morte”. Non così è per Ionesco che – come abbiamo detto – non solo non ha cessato mai di ricercare Dio, ma fa pensare nei suoi ultimi scritti (La quete intermittente, Maxmilian Kolbe) ad una concezione più rasserenante della vita. 

Il protagonista di Le roi se meurt è un esemplare dell’uomo contemporaneo. Se nel passato poteva contare su certi valori che serenamente gli facevano accettare persino la morte, ora l’uomo da un canto sa che non può contrastarla, dall’altro non vorrebbe staccarsi dal mondo perché in esso ha riposto ogni bene. Perciò si divincola e piange come un fanciullo che non vuole staccarsi dalla madre. 

«LE ROI – Un enfant ! Un enfant ! Alors, je recommence ! Je veux 
recommencer. (A Marie.) Je veux etre un bébé, tu seras ma mère. Alors, 
on ne viendra pas me chercher. Je ne sais pas lire, je ne sais pas écrire, je 
ne sais pas compter. Qu’on me mène à l’école avec des petits camarades. 
Combien font deux et deux? (7). 

La consapevolezza della morte fa scoprire la vera essenza della vita. La scopre, avanti negli anni, Bérenger I, ma può capitare a qualsiasi uomo che arriva alla vecchiaia senza essersi ancora rassegnato all’idea della morte. Bérenger si paragonerà ad uno scolaro che ha dimenticato di fare i compiti. E solo prossimo alla morte è portato a meditare sulla sua condizione e a ricercare il bene che gli dia la pace sperata anche dopo la morte. Il “malessere spirituale” di Bérenger è quello stesso di Ionesco che col passare degli anni accentuerà ancora di più il bisogno di una certezza propria di chi non ha paura di niente. nemmeno della morte. 

A) La struttura di Le roi se meurt – A ben guardare, la pièce è tutto un insieme lineare che si svolge dinanzi allo spettatore senza divisione alcuna in atti e in scene. Per di più, il tempo e il luogo sono imprecisati. Si tratta di un regno di cui non sappiamo niente o, meglio, sappiamo solo che è in decadenza e al suo re, Bérenger I, è stata decretata la morte. 

Così come stanno le cose, sembrerebbe a prima vista un teatro senza teatro, dove tutto è previsto, persino la morte che avverrà a fine spettacolo. 

«MARGHERITE – Tu vas mourir dans une heure et demie, tu vas mourir à la fin du spectacle» (8). 

Il tempo della morte coincide con la durata dello spettacolo, e questo agli occhi dello spettatore sa di una “cerimonia” (9), che consiste nel denudamento fisico e spirituale di Bérenger, dalla sua entrata in palcoscenico fino alla calata del sipario. Una cerimonia ben preparata e anticipata dai segni del degrado: polvere e mozziconi di sigarette dappertutto, mancanza di generi di prima necessità (la mucca non dà più latte), non funzionano i termosifoni, le pareti sono crepate, e il sole non vuole più scaldare. 

Tutti i personaggi sono al corrente di ciò che sta avvenendo, solo il Re ha tutta l’aria di non voler capire, e insiste. Più tardi si renderà conto che deve rassegnarsi, perché la morte è «irreversibile» e non guarda in faccia a nessuno. A guisa di un condannato, la cui esecuzione è stata già annunciata, entra in scena a piedi nudi. 

«MARGHERITE – Qu’ il attrape froid ou non, cela n’a pas 

d’importance. C’est tout simplement une mauvaise habitude» (10). 

Per un verso, Bérenger non vuole accettare la realtà delle cose, e si ribella, dando ordini ora al Medico ora alla Guardia, per un altro, vero che è sostenuto nella sua intransigenza dalla Regina Maria, ma è anche vero che fa difficoltà a seguire nel suo parlare Margherita, perché sa che dice una verità che vorrebbe taciuta. Bérenger non ha il coraggio di riconoscere la sua condizione perchè la vanità glielo impedisce. Ma la morte non sta al gioco e al pettegolezzo, e la Regina Margherita rompe ogni indugio: «Ju vas mourir dans une heure vingt -cinq minutes» (11). 

La “cerimonia” è nel pieno del suo svolgimento. Bérenger, impotente, vorrebbe reagire, ma la sua detronizzazione è già in atto. Egli urla e chiede aiuto: nessuno lo soccorre. Solo in lontananza sente reco delle sue grida, il vuoto della solitudine lo circonda. Vorrebbe ancora tempo, come se quello vissuto non gli fosse bastato. 

«LE ROI – Je suis comme un écolier qui se présente à l’examen 
sans avair fait ses devoirs. Sans avoir préparé sa leçon … » (12). 

Finalmente, dopo tanto dibattersi, riconosce che nessuna medicina può lenirgli il dolore. E niente più gli dice la Regina Maria. Nonostante tutto, si rifiuta ancora, ha dei ripensamenti, poi comincia a rassegnarsi. Allora, metterà da parte il suo egoismo, e guarderà agli altri: s’interesserà, cosa che non aveva fatto mai, di Giulietta, e scoprirà gli affetti più nobili. 

Luci ed ombre si addensano nella mente di Bérenger I: il ricordo dei giorni belli, quelli dell’amore e del potere, l’ossessionante presenza della morte che annulla e accomuna a tutti i morti nel tempo. E, ancora, il ricordo di un gatto tutto rosso che gli fa dimenticare la solennità del momento. Per gli altri, oramai, Bérenger è morto e, pertanto, parlano di lui al passato, mentre il cuore lo tiene ancora legato a questa terra, quasi a non volersene staccare. 

«LE MÉDECIN – En effet. Un coeur fou. Vous entendez? 
(On entend les battements affolés du coeur du Roi). ça part, ça 
va très vite, ça ralentit, ça part de nouveau à toute allure» (13). 

Ma Bérenger non riconosce nessuno, è come se fosse fuori di sé, vorrebbe accanto tutti gli altri che intanto ad uno ad uno escono di scena. Gli rimarrà vicino Margherita che lo guiderà là dove «il cuore non ha più bisogno di battere». 

L’uomo, il re che muore, è qui, con tutta la sua misera umanità, in questo graduale spogliarsi che lo stesso Ionesco così riassume: «Peur, désir de survivre, tristesse, nostalgie, souvenirs, et puis résignation» (14). Strutturalmente lo svolgersi dell’azione è lineare, ma Bérenger è colto da un rivolgimento interiore così repentino, anche se segue diverse fasi prima di arrivare al culmine, che lascia disorientati. Questa di Le roi se meurt è una drammaticità che non è affidata – come nelle tragedie tradizionali all’evolversi delle azioni, secondo cui lo spettatore o il lettore poteva prefigurarsi un finale più o meno imminente o, per lo meno, quello che sarebbe potuto verificarsi. Qui non c’è niente da prevedere, perché – come dice il titolo – tutto è previsto: Bérenger ci vuole poco e muore. la drammaticità è affidata al linguaggio, alle botte e risposte dei personaggi che in un modo o in un altro concorrono tutti al denudamento del Re (15). 

E, poi, negli alti e bassi di questo Re, ora tormentato ma risoluto, ora più disponibile e non per questo meno accanito di prima a non voler cedere il trono. 

«LE MÉDECIN, regardant sa montre – Il se met en retard . . . 
Il retoume. 
MARGHERITE – Ce n’est rien. Ne vous inquiétez pas, monsieur le 
Docteur, monsieur le Bourreau. Ces retours, ces tours et ces 
détours… c’était prévu, c’est dans le programme. […] 
LE ROI – Je pourrais décider de ne pas mourir » (16). 

Sono gli alti e bassi di una coscienza sconvolta, di stati d’animo che non hanno ancora trovato un equilibrio interiore capace di dargli quella serenità propria di chi è consapevole di ciò che lo attende. E questo modo di procedere fatto di rallentamenti e di accelerazioni – dicevo sopra – affida ogni teatralità al linguaggio che utilizza tutte le sue risorse possibili (17). 

Bérenger vive un momento particolarmente patetico della sua vita; Ionesco lo sa bene, e per questo ora ricorre all’ironia, ora ai livelli alti della poesia, ora al comico, con una forte carica di umorismo, anche se si tratta di una comicità disarmata, perché è nella stessa natura dell’uomo. Questi registri fanno comodo a Ionesco per un doppio motivo: per un verso gli consentono di verificare e mettere in atto la sua drammaturgia, per un altro gli permettono di esprimere tutto ciò che si porta dentro e di calarsi nell’uomo. Dice a proposito: «Je déshabille l’homme de l’inhumanité de sa classe, de sa race, de sa condition bourgeoise ou autre […] Je suis tous les autres dans ce qu’ils ont d’humain» (18). Per Ionesco, fare teatro non è stendere al sole i panni degli altri, innanzitutto è stendere quelli suoi che, poi, coincidono con quelli degli altri. Bérenger è Ionesco, è l’uomo in genere che prima o dopo si viene a trovare dinanzi all’ineluttabilità della morte. 

Uno dei tanti pregi del teatro dell’assurdo è quello di avere riscoperto il tema della morte che ora sta divenendo di moda un po’ in tutte le letterature. Basti pensare, in Italia, a Leonardo Sciascia (Il Cavaliere e la morte) o a Nello Sàito (Com’è bello morire). Ma, mentre Beckett, ossessionato com’è dall’idea della morte, si limita ad affermare solo il non-essere (19), Ionesco va sino in fondo nella sua ricerca, 

MARGHERITA – Non è niente. Non vi inquietate, signor dottore, signor Carnefice. Questi ritorni, questi giri e rigiri … Era previsto, è nel programma. 

IL RE – Potrei decidere di non morire». 

arrivando, a dire che la vita è bella e vale veramente la pena di viverla, da uomini, si capisce, dando importanza a tutto ciò che ci circonda. Vivendo la vita a misura d’uomo, il mondo apparirà ancora più bello, e la morte non farà più paura. 

B) I personaggi – Il teatro moderno si serve di pochi personaggi. E, ancora, più che dei veri e propri personaggi, utilizza dei tipi capaci di rappresentare l’uomo nel suo universale piuttosto che nel suo particolare. 

Ionesco, dovendosi interessare di un re e di un regno in rovina, limita i personaggi a sei: il Re Bérenger I, la Regina Margherita, la Regina Maria, il Medico, Giulietta (la donna delle pulizie e infermiera) la Guardia. Nell’economia di Le roi se meurt (il tutto si svolge, su una scena che rimane invariata per tutta la durata dello spettacolo), i personaggi menzionati costituiscono la corte, ma anche – come è stato già detto da altri (20) – la vita privata e pubblica di Bérenger, di questo Re che è l’uomo qualunque, 

mentre gli altri protagonisti sono gli uomini in generale che esplicano le diverse attività della vita sociale. 

Bérenger è un uomo dei nostri giorni che, preso dalla materialità della vita, ha dimenticato che col passare del tempo passiamo anche noi e moriamo. E, nonostante gli venga ricordato, fa finta che tutto sia nella normalità, come se niente fosse («Bonjour, Marie, Bonjour, Margherite. Toujours là? Je veux dire, tu es déjà là! Comment ça va? Moi, ça ne va pas! Je ne sais pas très bien ce que j’ai, mes membres sont un peu engourdis, j’ai eu du mal à me lever, j’ai mal aux pieds! Je vais changer de pantoufles. J’ai peut – étre grandi! J’ai mal dormi …» (21). Mentre, imperterrito, il tempo opera sulle cose e sulle persone. Bérenger è l’uomo del nostro tempo che si vede crollare il mondo addosso perché non vuole riconoscere i suoi limiti e insiste a riporre su di sé ogni speranza. L’edonismo crea un grande vuoto che solo in extremis viene avvertito: allora l’uomo scopre di essere miserevole, e grida, invoca aiuto, palesa a tutti la sua angoscia. Per questo, Le Roi se meurt (22) è un’opera umanissima, degna di grande rispetto. Come vada la cosa, – è inutile dirlo – Bérenger rimane morbosamente attaccato a questa esistenza terrena, e lui, egocentrico ed egoista, ha sciolto un bell’inno alla vita. 

Margherita e il Medico rappresentano quei tipi che dinanzi alla realtà non solo non la nascondono, ma fanno di tutto perché venga dagli altri riconosciuta e accettata. Essi sono quelli che obiettivamente avvertono per primi le reali condizioni di salute del Re e le accettano senza alcuna tergiversazione, assumendosi l’incarico di guidare fino alle soglie della morte Bérenger. 

Margherita è dotata di una forte carica di intuito ed è psicologicamente ferrata: rappresenta la ragione e, perciò, rimane inflessibile dinanzi alle incertezze e alle debolezze sentimentali della Regina Maria. Anzi è risoluta, e vuole che gli altri non la disturbino nella sua azione di persuasione. 

«MARGHERITE – Rire ou pleurer: c’est tout ce qu’elle sait faire. (A JULIETTE) Qu’elle vienne tout de suite. Allez me la chercher» (23). 

È la prima sposa del re Bérenger I, ci sottolinea Ionesco: e, in effetti, è un personaggio intransigente che ubbidisce aUe leggi eterne, giustizia che niente affida al caso, incorruttibile e leale con se stessa e con gli altri. Essa, che potrebbe apparire come una fredda annunciatrice della morte, incarna l’amore spirituale ed è colei che apre alla vita Bérenger, impersonando la voce della coscienza che bussa con insistenza, quella voce che spesso è lasciata inascoltata, presi come si è dalle lordure e dalle miserie umane. 

Maria, al contrario, rappresenta l’amore carnale e l’attaccamento alla vita, perciò, non vuole accettare l’idea che il Re deve morire, e farebbe di tutto se lo potesse. Sicché Margherita la mette a tacere e se ne serve per raggiungere il suo scopo. 

«MARIE – Pardonne – moi, Majesté, ce ne pas ma faute»(24). 
In fondo, Maria è l’alter ego di Bérenger; ama pienamente questa esistenza e la vorrebbe vivere intensamente, ma l’amore carnale è effimero e non regge al denudamento del Re. «Ce ne fut qu’une courte promenade dans une allée fleurie, 
une promesse non tenue, un sourire qui s’est refermé» (25). 

Ciò la rende patetica, e la sua bellezza Ci dice ben poco, non essendo ravvivata da nobili sentimenti. per questo c’è in lei un’intima sofferenza, una commozione rappresa che diviene anch’essa un inno alla vita. 

Il Medico, che è anche chirurgo, boia, batteriologo e astrologo, è un personaggio che, per le sue attività, occupa un posto di rilievo nella vita privata del Re. È il sapiente della corte e, come tutti i maghi e gli astrologi dei tempi passati, è tenuto in grande considerazione nella corte. Egli legge nel gran libro della natura, ma la scienza lo rende freddo e calcolatore, sicché laddove Margherita agisce per convinzione e secondo ragione, egli opera con distacco professionale, insensibile ai sentimenti e alla morte, visto che per il momento :~on è lui l’interessato. Perciò, è un personaggio ridicolo, caricaturale e rispecchia quanti goffamenti, e per tornaconto, si appoggiano al potere emergente. Sarà Margherita a spingerlo perchè segna una linea di condotta adeguata al caso. Ionesco lo tratta male. In effetti, è uno di quelli che viene considerato esclusivamente per la carica che occupa, ma non sarà mai stimato. Nemmeno dagli umili che rimangono indifferenti dinanzi a lui. 

Giulietta, “donna di servizio e infermiera”, è una di questi. Affabile e servizievole fin dalla sua entrata in scena, tale rimane sino all’ultimo dinanzi al Re. Come tutte le persone semplici, non si renderà bene conto di ciò che sta avvenendo, e agirà e parlerà sempre in funzione degli altri, anche se con umiltà rinfaccia gli abusi e i soprusi, e rivendica giustizia. Non si ribella, anzi segue con palese commozione lo sfogliamento di Bérenger. 

«JULIETTE – Nous sommes là. près de vous, nous resterons là» (26). 

Ma non così è la Guardia, portavoce della corte, grossolana e superficiale. È semplicemente un ripetitore degli ordini altrui e non palesa un minimo di umanità. Come il Medico, viene trattata in malo modo dalI’autore; impersona l’ufficialità fredda e ridicola, certi organi di informazione che dicono e si contraddicono, secondo l’aria che tira. E come alcuni cronisti, il cui compito finisce col vendere fumo, la Guardia è la cassa di risonanza della corte e fa da tramite fra questa e il popolo, risultando veramente banale. 

Questi i personaggi. Se consideriamo che rappresentano un regno, diciamo che sono pochi. Vero che si chiamano in causa ministri. ingegneri, l’armata, il popolo, a cui si rivolgerà sempre la Guardia. «spécialistes du gouvemement», bambini, ma è anche vero che nessuno di questi entrerà mai in scena. A Ionesco, e in generale ai drammaturghi moderni non interessano i fatti di questi o di quell’altro, non ha più alcuna importanza il particolare. a cui si ispirava il teatro tradizionale, dove la scena si riempiva di personaggi piccoli e grandi e si dava l’impressione di un gran movimento(27). Adesso, quello che conta è rappresentare l’universale, come il tema della morte; che poi si tratti di Bérenger o di un altro, non cambia nulla (28). 

I personaggi, una volta che Bérenger è entrato nell’ordine di idee inculcategli da Margherita e il Medico. scompariranno ad uno ad uno. È il dominio della morte che stavolta ha reciso il filo della vita del Re: gli altri potranno continuare pure i propri lavori, con la consapevolezza, però, che la presa di coscienza di Bérenger abbia lasciato in tutti un solco profondo. 

Salvatore Vecchio 

1) C. Bonnefoy, Entratiens avec Ionesco, Paris, Belfond, 1966, pag. 12: «Domandai un giorno a mia madre: “Moriremo tutti? Dimmi la verità”. Mi rispose: “sì”. Dovevo avere quattro, cinque anni, ero seduto a terra, lei era in piedi, davanti a me. La vedo ancora. Teneva le mani dietro la schiena ed era appoggiata al muro. Vedendomi singhiozzare – perché d’un tratto mi misi a piangere – perplessa, mi guardò, senza poter fare altro. Ebbi molta paura». 
2) Ionesco precisa: «Tout est permis au théatre: incarner des personnages, mais aussi materialiser des angoisses, des présences intérieures» (E. Ionesco, Notes et contre-notes, Paris, Gallimard, 1966, pag. 63). 
3) E. lonesco, Le Roi se meurt (a cura di C. Audry), Paris, N.C.L., 1968, pag. 32: «MARGHERITA – È inutile darsi da fare, essa, [la morte] è irreversibile». 
4) lvi, pag. 34: «MARGHERITA – È tempo perduto. Sperare, sperare! (Alza le spalle). Non hanno che questo in bocca e la lacrima all’occhio, che abitudine!». 
5) C. Bonnefoy, op. cit., pag. 90: .Sono partito da un’angoscia. Quest’angoscia era molto semplice e chiara. Essa era scaturita da qualcosa di meno irrazionale, di meno viscerale, cioè, di più logico, qualcosa più alla superficie della coscienza […] Ero stato ammalato ed avevo avuto molta paura». 
6) G. Dumar, Frère, il faut mourir – Le Roi se meurt – Odéon, in “Le Nouvel Observateur”, 6 Dic. 1976, pag. 103: «È quest’angoscia fondamentale, esistenziale, che fa da soggetto al “Le roi se meurt”. Mai come adesso Ionesco è andato così lontano nella descrizione dell’essere – per – la morte, come la descrive la filosofia pessimista, da Schopenhauer a Sartre». 
7) E. Ionesco, Le Roi se meurt, ed. cit. pag.: 96 «IL RE – Un fanciullo! Un fanciullo! Allora ricomincio. Voglio ricominciare.(A Maria) Voglio essere un bebè tu sarai mia madre. Allora, non verranno mica a prendermi. Non so leggere. non so scrivere, non so contare. Mi si porti a scuola tra compagnetti. Quanto fanno due e due?» 
8) Ivi, pag. 58: «Morirai tra un’ora e mezza, morirai alla fine dello spettacolo». 
9) Non a caso, inizialmente, Le Roi se meurt era stato intitolato: «La Cérémonie». 
10) Ivi, pag. 50: «Che prenda freddo o no, non ha importanza. È semplicemente una cattiva abitudine».
11) Ivi, pag. 74: «Morirai tra un’ora e venticinque minuti». 
12) Ivi, pag. 81: «IL RE – Sono come uno scolaro che si presenta all’esame senza aver fatto i compiti. Senza aver preparato la lezione “…». 
13) Ivi, pag. 146: «IL MEDICO – Infatti. Un cuore folle. Sentite? (Si sentono i battiti impazziti del cuore del Re). Parte, va molto forte, rallenta, va di nuovo a tutta velocità». 
14) “Le Monde”, 19 dico 1962, pag. 14. Proprio qualche giorno dopo la prima rappresentazione al Théàtre de l’Alliance française di Parigi 15 dic. 1962, conversando con Claude Sarraute.
15) Cfr. M. Esslin, Le Théàtre de l’Absurde, Paris, éd. Buchet – Chastel, 1963. Vedi anche AA.VV., Les critiques de notre temps et lonesco, Paris, éd. Garnier, 1973, pagg. 149-153. 
16) E. Ionesco, Le Roi se meurt, ed. cit., pag. 133: «IL MEDICO, guardando il suo orologio. Sta tardando . .. Ritorna. 
17) B. Gros, Le Roi se meurt Ionesco, Paris, Hatier, 1976, pagg. 60-62. 
18) E. lonesco, Journal en miettes, Paris, Mercure de France, 1967, pagg. 26-27: «Io spoglio l’uomo dell’inumanità della sua classe, della sua razza, della sua condizione borghese o d’altro (…) lo sono tutti gli altri in ciò che hanno d’umano». 
19) S. Beckett, Fin de partie, Paris, Les Editions de Minuit, 1957, pag. 109: «Je me dis que la terre s’est éteinte, quoique je ne l’aie jamais vue allumée. (Un temps.) ça va tout seuI. (Un temps.) Quand je tomberai je pleurerai de bonheur».
20) Cfr. C. Audry nella Notice premessa a Le roi se meurt (testo che abbiamo utilizzato per le citazioni). pagg. 23-25. Vedi anche B. Gros, cit. 
21) Ivi, pag. 50-51: «Buongiorno, Maria, Buongiorno, Margherita. Ancora qui? Voglio dire, tu sei già qui! Come va? lo, niente affattol Non so perfettamente bene cosa ho, i miei arti sono un po’ intorpiditi, faccio fatica ad alzarmi, ho male ai piedi! Vado a cambiare le pantofole. Può darsi che sia cresciuto! Ho dormito male …». 
22) J. J. Goutier in un articolo sul “Figaro· del 16 ottobre 1955 aveva definito Ionesco ‘un burbone, un mistificatore, pertanto un fumista., ma poco dopo la replica di Le roi se meurt del 1966, così scrisse sempre sul “Figaro” del 7 dicembre 1966: «Sì, lo dico e lo ripeto, Le Roi se meurt è un dramma umano, denso, composito, scritto, di una grande poesia; è un’opera straziante. E anche buffa. È una tragicommedia scespiriana». 
23) E. Ionesco, Le Roi se meurt. op. cit., pag. 33: «MARGHERITA – Ridere o piangere: è tutto ciò che [Maria] sa fare. (A Giulietta.) Che venga subito. Andatemela a chiamare». 
24) lvi, pag. 73: «Perdonami, Maiestà, non è colpa mia». 
25) Ivi, pag. 91: «Non fu che una breve passeggiata in un viale fiorito, una promessa non mantenuta, un sorriso che si è richiuso». 
26) lvi, pag. 155: «Sono qui, vicino a voi, non vi abbandonerò». 
27) S. Doubrovsky, Le rire de Ionesco, in “Nouvelle Revue Française”, 10 febbraio 1960. 
28) E. Ionesco, Notes et contre-notes, op. cit. pag. 305: «Aspetto che la bellezza venga un giorno ad illuminare, a rendere trasparenti i muri sordidi della mia prigione quotidiana. Le mie catene sono la bruttura, la tristezza, la miseria, la vecchiaia e la morte. Quale rivolgimento potrebbe liberarmene?».

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 41-53.




Le Pagine ritrovate di Pirandello

Sono trascorsi ormai settantacinque anni dalla morte di Luigi Pirandello e sembrava ai compilatori dell’Opera omnia che tutto fosse stato già raccolto e pubblicato, e che tutto fosse stato detto sull’uomo e sull’autore; a sconfessare questa certezza è Piero Meli, ricercatore attento e scrupoloso che ha regalato ai lettori e agli studiosi un volume (P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia ed., 2010) denso di notizie e di novità editoriali. Il merito di Piero Meli è grande e dobbiamo essergli grati, perché con la nuova pubblicazione offre «scritti sconosciuti o dimenticati », come scrive nella nota introduttiva, mettendo in luce ancora di più la figura e l’opera dell’Agrigentino.

Il volume è bene strutturato e ricco – come dicevamo – di notizie e di novità che aprono il lettore alla conoscenza di giornali, riviste e personaggi, ed offre un ampio spaccato del mondo letterario e culturale tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Occorre leggerlo per rendercene conto e cogliere gli aspetti più salienti e nuovi; per questo, ci accingiamo a farlo con molta attenzione e tanta stima per lo studioso che, con questa sua fatica, dà a tutti l’opportunità di avvicinarsi meglio a Pirandello che non smette di far parlare di sé. Ed è a questo proposito che, dopo aver motivato il suo lavoro, Meli scrive:

«…non pare proprio che il caso Pirandello sia archiviato. Tutt’altro. C’è ancora molto da dire. E alcuni di questi scritti ne assicurano le premesse, aprendo altre questioni e ponendo interrogativi di natura metodologica, mai posti prima d’ora, sulla presunta lezione definitiva di alcune novelle pirandelliane ».

Ad apertura di libro, c’è una rivelatrice intervista-confessione rilasciata da Pirandello ad Eugenio Giovannetti che la pubblica nel 19281. Si precisa che ogni “pezzo” riportato è ampiamente introdotto e commentato dal ricercatore che chiarisce, confronta e annota aspetti che altrimenti al comune lettore potrebbero dire poco e invece aggiungono tessere molto importanti per la comprensione del mosaico Pirandello.

In quest’intervista Pirandello rivela il suo primo amore e parla di una fanciulla di nome Elvira non riportato dai suoi biografi. Ma è possibile? – si chiede Meli. – Si tratta di una bugia o di una verità detta «in un momento di sincerità»? Se lo chiede lo studioso, ce lo chiediamo anche noi. Eppure è Pirandello che lo dice, cosa che prima non aveva svelato a nessuno. Lo dice, magari, inventando, da artista qual era, o anche in vista della conclusione a cui voleva arrivare

Pirandello parla di nozze infantili di cui aveva già teorizzato Freud2, ma egli si riferisce ad un uso riportato da Marco Polo, e che era presso i Tartari, di sposare i loro fanciulli morti e, dopo aver ripreso il passo, alludendo e intravedendo in essi i crisantemi e i loro svariati colori, ne parla da poeta con voce sommessa ma chiara, come acqua di sorgiva.

«Hanno tutti un bel capo rotondo; taluni hanno riccioli tenerissimi, d’un color biondo croceo, altri fulvi e lievemente irsuti, altri candidissimi e morbidi come neve pur mò caduta. Ve n’ha una schiera che ha i capelli colore amaranto, indimenticabili: un’altra che ha sulle chiome lo splendore mesto dei giacinti. Tutti, del resto, nella loro smagliante bellezza, hanno un qualcosa di chiuso e di triste…»

Poi ricorda un sogno avuto da piccolo, ove amore e morte, impersonati da due crisantemi, vanno a braccetto, amandosi «sino a diventarne pazzi»:

«Ho sognato che due di questi fiori così composti nella loro malinconia, si amassero sino a diventare pazzi e ad accapigliarsi comicamente nella loro spasmodica passione. »

E conclude:

«Chi sa che il mio amore e la mia arte non sieno nati da quel primo sogno? Che tutta la mia arte non sia altro che un’orgia di crisantemi impazziti?3»

Effettivamente questa è una chiave di lettura della sua opera. Pirandello se lo chiede dubbioso, quasi nel timore di sbagliare, ma è nel vero, anche se nell’euforia della sua creatività si farà prendere la mano da un raziocinio che tende ad offuscare la sua parte migliore. C’è nei suoi scritti un tendere verso la vita e un accettarla che fanno a pugni con le contrarietà di ogni giorno, sicché la malinconia s’impossessa di lui e sembra non lasciargli scampo. L’umorismo, a cui ricorre, è un modo come un altro per superare questo stato di cose e vivere anche nella consapevolezza della “pena di vivere così”4.

Continuiamo la nostra lettura. Troviamo una scena di Vestire gli ignudi che, ancora inedita, Pirandello mandò, dietro invito e per la rivista “Le opere e i giorni”, all’amico Mario Maria Martini, a sua volta apparsa nel giugno del 1922, mentre l’intera commedia verrà pubblicata dai fratelli Bemporad nel 1923. Quest’anteprima di pubblicazione non era stata mai notata e, pur avendo la sua importanza, nessuno l’aveva mai citata.

La scena pubblicata sicuramente sarà di aiuto agli studiosi e ai filologi che vogliono rendersi meglio conto del modo di procedere di Pirandello per entrare nel vivo della sua arte. A un confronto sommario, nell’edizione fiorentina la scena subisce tante modifiche. Aggiunge o varia le didascalie, dà più cadenza al dialogo, ripete più volte certe parole, cambia anche la punteggiatura e ritocca qua e là il dialogo. Lo fa per rendere più esplicito il discorso, in funzione dialogica piuttosto che per ragioni stilistiche. Tutte queste sono modifiche non marginali, volte a dare maggiore resa e armonia al tutto per una buona riuscita della commedia. Scrive Meli:

«La scena […] presenta moltissime varianti anche dal punto di vista scenico, espressivo (punti esclamativi, puntini di sospensione, ecc.), didascalie comprese. Interessante dunque il confronto tra la stesura iniziale e quella finale. C’è da considerare tuttavia in questi casi che ritocchi e modifiche molto spesso obbediscono più a ragioni di resa scenica, insomma teatrali, che non a quelle artistico-espressive».

Sono affermazioni che condividiamo, in quanto colgono nel segno il drammaturgo che, coniugando vitaarte, doveva certamente sacrificare qualcosa per aderire il più possibile alla realtà e lo faceva con molta convinzione e coerenza.

Apparentemente divertente, ma dal punto di vista umano molto misera e triste, è la vicenda dell’accusa di plagio che Adelaide Bernardini-Capuana rivolse a Pirandello. Si tratta di una pagina di cronaca che per le persone che coinvolse acquistò importanza letteraria e risonanza nazionale, ed è strano che sia sfuggita ai biografi, sempre pronti a riportare persino le più insignificanti minuzie.

La vicenda prende lo spunto dalla prima rappresentazione di Vestire gli ignudi, avvenuta il 14 novembre del 1922 al Teatro Quirino di Roma per la Compagnia di Maria Melato. Una rappresentazione come tutte le altre, se non fosse stato per la Bernardini-Capuana che, in una lettera pubblicata sul “Giornale d’Italia” il 21 dello stesso mese, rivendicò al marito la paternità della trama! Pirandello non si scompose più di tanto e, in un’intervista fattagli da un giornalista di “Epoca” il 22 novembre, dirà che aveva utilizzato un fatto realmente accaduto a cui ogni artista può sempre accostarsi per farlo «una pura creazione della fantasia».

Pirandello si comportò da signore qual era, limitandosi a dire questo, e l’accusa ebbe la sua ricaduta sulla Bernardini, avendola messa in cattiva luce, visto che era stata proprio lei la protagonista di quel fatto di cronaca. In una lettera a Pietro Mastri del 15 febbraio 1903, così egli commentava la relazione tra Capuana e la Bernardini:«Ah, caro Pirro, che commediaccia buffa e atroce è questa vita nostra!5»

Non c’è alcuna malignità, ma l’amara constatazione che la vita riserva sempre brutti scherzi, buoni solo ad essere rappresentati e da cui è difficile spesso potere uscire.

Piero Meli documenta con una serie di scritti questa “Accusa di plagio”. Poi aggiunge: «Probabilmente il gesto della vedova era carico di velati risentimenti contro Pirandello, col quale i rapporti non dovevano essere buoni». A ragione, perché a leggere gli scritti riportati ci si rende conto di certi risvolti impensati e impensabili per chi non è addentro a certe situazioni. Per questo, l’invito alla lettura è d’obbligo.

Interessanti sono le notizie fuori mano che il libro fornisce e riguardano scrittori che qui rivivono e periodici introvabili, persino nelle biblioteche. È il caso di Giuseppe Federico-Pipitone (1860-1940), scrittore palermitano dai multiformi interessi, fondatore de “Il Momento” e, nel 1889, della “Rassegna Siciliana di Storia, Letteratura e Arte”, in cui sono presenti due recensioni e un componimento poetico di Pirandello che, pur lavorando a Roma, non perse mai di vista la sua Isola e non interruppe i contatti con la sua gente. Questi contatti e le riviste servivano a Pirandello per anticipare ai lettori le sue opere e per pubblicizzarle, come risulta nei fascicoli di questa rivista e nelle altre citate.

Le recensioni riguardano un libro di Andrea Maurici, Note critiche, ed una raccolta di versi (Canti e prose ritmiche) di Eugenio Colosi. Entrambe le pubblicazioni danno a Pirandello lo spunto per affrontare temi letterari di attualità in quello scorcio di fine secolo. Lo annota bene Meli, quando scrive che il libro di Colosi «dà spunto, da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi dà pretesto per un’ironica e personalissima divagazione sulla prosa ritmica… Una ragione in più per ripubblicarla6». Ne risulta un Pirandello molto informato che seguiva da vicino le novità librarie e la letteratura nei suoi sviluppi, non solo quella italiana ottocentesca e contemporanea, ma anche quella straniera, soprattutto tedesca.

Pirandello trova utili gli spunti offerti da Maurici con i suoi saggi e dimostra di conoscere le ricerche che allora stavano destando interesse e curiosità presso gli addetti ai lavori. Non a caso ricorda l’opera, allora molto letta, sui primi sviluppi della poesia siciliana di Adolfo Gaspary (La scuola poetica siciliana del secolo XIII del 1882) che coinvolse nel dibattito autorevoli studiosi siciliani, come Francesco Paolo Perez, Giovanni Di Giovanni e Salvo di Pietragarzili, con il risultato di aver dato un’impronta decisiva alla conoscenza e all’influenza di quella scuola sulla futura poesia italiana.

Ritornando alla recensione dedicata al libro di Colosi, Pirandello non si sofferma tanto sul contenuto e su quella poesia (si limita a citare qualche titolo, ma non va oltre), piuttosto s’allinea con quanti sono contrari ad estendere alla prosa l’appellativo di poesia, anche se ritmata e condita qua e là di orpelli che le danno sembianze poetiche. Egli guarda al passato con l’occhio del moderno e lo accetta, ricordando i classici (specialmente Leopardi e Baudelaire) che in questo furono maestri, non condivide l’opinione di Walt Whitman e rifiuta ogni forma di raffazzonamento e di improvvisazione.

Il componimento riportato nella “Rassegna” è “La pioggia benefica”, di cui Piero Meli pubblica anche la versione che si legge in Mal giocondo (Palermo, 1889) che presenta differenze, a partire dall’inizio, e un cambiamento di gusto da parte del poeta. Stupisce, perciò, il fatto che questa redazione non sia stata riportata nel volume di Lo Vecchio-Musti, Saggi, poesie e scritti varii (1993). È da pensare che il componimento non sia stato letto, e questo spiega la ragione per cui è stato solo citato. Se così è, non è certo una bella cosa, perché le varianti dicono molto. Senza volerci dilungare, esse registrano molti ritocchi grafici che rompono col vecchio modo di scrivere, una punteggiatura più attenta e un verso sicuro, reso più armonico per una maggiore attenzione al ritmo interno. Si leggano, ad esempio, questi versi della terza stanza (il testo del volume è tutto un unicum e non ha capoversi)7:

…È buio ancora. Nera, sotto la grave ombra, e indecisa però l’immensa e fertile pianura si rappresenta al guardo. A grado a grado cresce il chiaror de l’alba e lentamente già le cose cominciano de l’ombra a esprimersi: là i monti alti, lontani; qua li arbor più superbi …

e si confrontino con quelli che leggiamo in Mal giocondo:

…È bujo ancora. Nero, sotto la fresca ombra, e indeciso però già il pian si rappresenta al guardo. Cresce il chiaror de l’alba, e lentamente cominciano ad imbeversi di lui le cose: ecco, tra rosei vapori, là i monti, quasi monstri in sonno accolti, qua gli alberi più grandi. …

Rispetto a questi versi, quelli riportati in rivista presentano alcune varianti radicali e altri interventi, piccole cesellature che imprimono una maggiore resa concettuale e poetica. Si noti come scorrono bene i versi « già le cose cominciano de l’ombra / a esprimersi: là i monti alti, lontani», e come dal punto di vista fonico arrivano ingentiliti all’orecchio; poi, quell’«imbeversi di lui» stona nell’insieme! Ma rimandiamo alla lettura e al confronto dei testi, perché il lettore possa rendersene conto e valutare, senza lasciarsi sfuggire l’attacco iniziale che sembra riportarci a quelli della poesia bucolica dei nostri antichi poeti.

La rivista a cui Pirandello collaborò più assiduamente in questo periodo è “Roma letteraria”8, a cominciare dal 1893 fino al 1900. È un Pirandello molto attivo e culturalmente impegnato: segue le novità librarie (poesia, critica, narrativa), scrive poesie e le pubblica insieme con le novelle che subiscono sempre varianti e ritocchi. È un Pirandello che ancora, seppure affermato come scrittore e poeta, cerca una via sua fino a quando non la troverà definitivamente nel teatro. Scrive saggi e recensioni, alcuni più riusciti, altri meno, su autori affermati e non (Chiarini, Tommaseo, Flamini, Mantica, Boner). A proposito della recensione del libro di Giuseppe Chiarini, leggiamo:

«A ben vedere, più che “importante”, l’articolo- recensione del Pirandello è assai modesto. Non più di un mero riassunto del libro del Chiarini, intercalato qua e là da qualche nota personale. […] Di tanto in tanto poi, per risollevare il tono piatto dello scritto, ricorre a fumogeni di marca tedesca. […] Nient’altro. Bruttissima poi quanto inopportuna la chiusa dell’articolo; da principiante; segno evidente d’insoddisfazione dell’autore stesso per il suo scritto.9»

Lo studioso non limita la sua azione alla sola scoperta, ma la valuta e s’esprime con competenza, offrendo il tutto agli altri, quasi ad invogliarli a fare lo stesso. Per questo, appronta un elenco degli scritti di Pirandello apparsi in questa rivista, ad uso e consumo degli studiosi, e ripubblica un racconto, rimasto sconosciuto, e due recensioni, quella su Mantica e l’altra su Boner. È evidente che la scelta è limitata per ragioni di spazio, ma è lo stesso interessante oltre che indovinata.

Il racconto, dedicato al Natale, fu scoperto da Meli e pubblicato su “La Sicilia” del 19 dicembre 2000. Trascriviamo questa notizia del ritrovamento, riportata nel libro, perché altri, appena un anno dopo, se ne appropriarono indebitamente10, senza rendere merito a chi queste ricerche porta avanti da decenni con tanta passione e dedizione.

“Natale al polo” è il titolo del racconto, pubblicato nel dicembre del 1897. Nella sua brevità, è una riuscita prova di scrittura, dove Pirandello, al racconto vero e proprio abbina annotazioni di viaggio dei vari esploratori e affianca considerazioni che già fanno intravedere la pensosità e la profondità di sentire del futuro scrittore.

È un racconto di una delicata malinconia che accomuna quanti vivono il giorno del Santo Natale lontano dalla propria casa e dai parenti più cari con cui si è, di solito, insieme. È il sentimento che predomina nello scritto, anzi aleggia e s’impossessa dello stesso scrittore che, come gli esploratori polari, si sente sradicato da tutto perché gli manca la sua Sicilia, sempre ricordata e portata nel cuore, quella delle zampogne che con il loro suono invadono i paesi. Leggiamo:

«Se nel cuore vostro ha nido il sentimento di questa notte di Natale, così tenero nell’arcana sua malinconia; se la vostra anima sa levarsi su candide ali a intenderne la dolce e universal poesia […], udite: c’è una nave lassù, che sembra un bianco enorme fantasma con le braccia protese verso l’immensa cupola del firmamento, ch’avvolge silenziosamente il grande e squallido deserto di  ghiaccio, in mezzo a cui la nave è rimasta prigioniera. Guizzano per lo spazio, come spiriti inquieti, le stelle cadenti, mentre dalle cupe dentellature fantastiche degli ammassi di ghiaccio all’orizzonte emergon vividi gli astri nel giro dell’interminabile notte polare. 11»

Lo scrittore immagina, e con la fantasia va tra i ghiacciai del Polo. Qui uomini impossibilitati ad agire innalzano canti natalizi, i più noti, e li fanno risuonare per l’aria, glorificando il Natale. Lo scrittore è con loro e, nella dolce semplicità del canto di Joseph Mohr (“Silente notte, Santa notte…), eleva una preghiera, perché davvero «la chiusa è una preghiera. Anzi. Una diretta invocazione a Gesù. Magia del Natale, in un personaggio in cerca di autore.12»

Ritornando alle recensioni ripubblicate, la prima riguarda Edoardo Giacomo Boner (1864-1908), messinese, l’altra Giuseppe Mantica, reggino, entrambi poeti e scrittori, di cui Meli fornisce notizie biobibliografiche molto utili per conoscerli e apprezzarli.

Pirandello aveva molta stima dei due e scrive senza forzature queste recensioni (a differenza di altre – come quella per Adelaide Bernardini o per lo stesso Eugenio Colosi -) nelle quali palesa tutto il suo compiacimento, perché quei libri parlano al cuore, aprendo ai sentimenti, e si fanno leggere per l’arte dei loro autori.

Di Musa crociata di Boner Pirandello apprezza lo slancio poetico e sociale, la sincerità dell’ispirazione e la bontà d’animo che spingono il poeta messinese non solo a schierarsi dalla parte dei rivoltosi Candiotti, ma anche a lanciare una “crociata” poetica a loro favore e, novello Pietro l’Eremita, a battersi per dare realtà al loro sogno. Come tanti altri, Pirandello risponde all’invito («Guidami, o poeta, io son con te!»), volendo così riconoscere la nobiltà di gesto e l’afflato lirico di quella poesia, come tiene a precisare lo stesso Meli:

«Un modo come un altro per esprimere parole misurate e levigate, quanto emozioni indicibili e incancellabili che, alla lettura dei versi, tornano insieme con “la voce calda e piena d’anima” del poeta peloritano.13»

E Pirandello, senza spendere tante parole, rimanda ai versi, riportando tre sonetti, perché il lettore possa verificare da sé la solidarietà, la liberalità e l’idealità che ne sono alla base e gustarne il fascino. Le parole dicono poco dinanzi ad una poesia che direttamente parla al cuore e sprigiona sentimenti da vivere piuttosto che da dire.

La recensione dedicata al libro di Mantica: A me i bimbi! è un riconoscimento che con animo sincero Pirandello tributa all’amico poeta, capace di esprimere nei suoi versi, anche con fine umorismo, ciò che ha dentro e di rivolgersi, cosa non facile, ai bimbi. Pirandello legge uno per uno i dieci componimenti che costituiscono il libro e si sofferma su di essi, evidenziando di volta in volta come l’autore sappia sdoppiarsi per parlare, in modo comprensibile e piano, con lo stesso linguaggio dei piccoli e calarsi in essi, senza stancarli e annoiarli. Ad un certo punto chiama ancora in causa il lettore, perché possa gustare il bello di questa poesia che, seppure rivolta ai bambini, ha sempre qualcosa da dire, anzi, usando lo stesso verso del poeta, «qualcosa da imparar sempre ci scappa».

Amico di Mantica, Pirandello non eccede in lodi esagerate (allo stesso modo tratta Boner), e si mantiene nel solco del libro, anzi auspica sia letto per avere la conferma a quanto ha afermato. Eppure un occhio di riguardo per l’amico ce l’ha, a chiusura, quando, nel sollecitarlo a pubblicare, porta a conoscenza del lettore il libro in preparazione Rime gaje, «attese con viva impazienza da quanti amano la buona poesia». Un modo fine e garbato per dirgli la sua stima e l’amicizia.

Pagine ritrovate conclude con tre novelle pubblicate in “Grandi firme” e con “Minime. Segnalazioni bibliografiche”. Le ultime sono vere e proprie “segnalazioni” ed hanno importanza per gli spunti e le notizie che biografi e bibliografi possono trovare utili, ma le tre novelle (“Idee funebri e gaie di Luigi Pirandello. I pensionati della memoria”, apparsa nel fascicolo 9 del 1° novembre 1924, “Come gemelle”, nel fascicolo 16 del 16 febbraio 1925, e “Zuccarello, distinto melodista”, apparso nel numero 39 del 1° febbraio 1926) sono motivo di studio, perché offrono una redazione diversa da quella riportata nei Meridiani Mondadori.

Piero Meli, riproponendo queste novelle, offre date e notizie, frutto meticoloso di assidua ricerca, e dà lo spunto a studiosi e filologi per un serio studio che possa portarli ad una maggiore conoscenza del modo di procedere di Pirandello e della sua arte, e a stabilire quali effettivamente siano le ultime redazioni, al fine di potere approntare una riedizione di quella collana, stavolta definitiva e fedele al volere dell’Autore. Ad un sommario confronto di queste novelle con quelle riportate nell’edizione mondadoriana, sono evidenti le tante varianti di cui parla Meli e tante sono le considerazioni e conclusioni a cui perviene, quasi ad aprire un tavolo di lavoro e di confronto con gli studiosi. Ma avverte che è:

«Un lavoro non facile, perché a nostro avviso Pirandello non sempre operava correzioni, modifiche e ritocchi avendo ben presenti tutte quante le precedenti redazioni d’una sua novella; basti pensare che la revisione di Zuccarello, distinto melodista per “Le grandi firme” la farà in treno nel dicembre del 192514.»

Rimandiamo queste Pagine ritrovate al lettore che di certo apprezzerà il lavoro certosino del Nostro, la padronanza delle conoscenze, la puntualità delle informazioni, l’esposizione chiara e sicura, e lo ringrazierà per avergli dato l’opportunità di conoscere aspetti nuovi dell’uomo e artista Pirandello. Ed è quanto di meglio uno studioso possa ricevere.

Salvatore Vecchio

Note

1 E. Giovannetti, Quand’amai la prima volta. Confessioni dei più illustri contemporanei, Milano, Treves, 1928;
2 Pirandello cita Freud perché è Giovannetti a riferirlo; il Nostro conobbe indirettamente, tramite la lettura di A.Binet e altre sue frequentazioni, gli studi sulla psicanalisi, ma ne fu vicino per il lavoro di introspezione che faceva in tutta la sua opera.
3 P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, cit., pagg., 14-15.
4 Si veda S. Vecchio, Pirandello, Saggi sul teatro, Roma, Eiles, 2010.
5 P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, cit., pag. 43.
6 Ivi, pag. 64.
7 Ivi, pagg., 73-74.
8 Fondata e diretta da Vincenzo Boccafurni nel 1893, si pubblicò fino al 1922. Boccafurni fu un intellettuale e poeta, molto vicino al Pascoli e a tanti scrittori del suo tempo.
9 P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, cit., pag. 79.
10 Ivi, pag. 93.
11 Ivi, pag. 115.
10 Ivi, nota pag. 86.
11 Ivi, pag. 87.
12 Ivi, pag. 86. 
13 Ivi, pag. 93.
14 Ivi, pag. 115.

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 23-29.




 La ragazza che voleva i pantaloni 

Che grande invenzione, la pubblicità! Avete mai pensato alla pubblicità e a quante cose fa venir fuori? Basta solo mettere in moto un marchingegno, perché la cosa, quasi a forza d’inerzia, vada da sé, senza bisogno di altri spintoni. 

La pubblicità è come il pettegolezzo delle comari: inizialmente prende le mosse da una, e poi… poi coinvolge tutto l’abitato! Basta solo iniziare, anzi, l’importante è iniziare, perché subito si troveranno i proseliti, magari si costituiranno due fronti (non secoli!) «l’un contro l’altro armato», ma poco importa, tutto tirerà acqua al mulino, e questo macinerà, e come! 

Prendete il libro di Lara Cardella, della ragazza che voleva i pantaloni. Ci troviamo dinanzi ad uno dei miracoli veramente grandi che la pubblicità ha fatto da qualche mese a questa parte. L’annuncio di una pubblicazione, un’intervista sollecitata all’autrice di Volevo i pantaloni, e qualche ingenua affermazione: è bastato tanto poco per imbastire un fuoco d’artificio di cui tuttora si sentono i rimbombi. 

Tanto poco per dare il via al marchingegno di cui abbiamo parlato. Un fatto puramente paesano o, se volete, provinciale, in pochi giorni è divenuto un caso nazionale. Se n’è occupata la televisione con l’impeccabile Enzo Biagi, Canale 5 con l’accattivante pacioccone Maurizio Costanzo, e tutta una serie di giornali e rotocalchi. 

Ne valeva la pena? Ma tutto è lecito, quando c’è in palio il denaro. Perché diversamente non si spiega. Sfruttare le pur minime occasioni è una delle leggi di mercato. E l’occasione è stata sfruttata puntando sull’ingenuità della gente o, meglio, toccandola nel suo perbenismo, perché alla maschera in Sicilia ci si tiene ancora ed è prassi mostrarsi per quelli che non si è. 

Parlavamo di affermazione ingenua, poco fa. Ed in verità, cosa ha detto Lara Cardella dei licatesi – essi non vengono menzionati nel libro – che scrutano con gli occhi le ragazze, quasi le volessero spogliare? Forse che, quando si vedono delle belle ragazze, non è delizia guardarle? E questo non si verifica in qualsiasi altro paese di provincia del mondo e, magari, in una grande città? Anzi, dobbiamo dire che, con questi mezzi d’informazione di massa, differenziazioni comportamentali tra abitanti di paese o di città non ce ne sono o, tutt’al più, le distanze si sono molto ravvicinate. 

L’affermazione della Cardella da una parte e il risentimento paesano dall’altra hanno fatto traboccare l’acqua dal bicchiere ed è stata subito polemica aperta, quasi una caccia alla strega, a Lara Cardella, che s’è dovuta rinchiudere in casa ed aspettare tempi migliori. 

La gente di questo splendido paese costiero dell’agrigentino, bagnato dal mare ancora intatto e dominato dall’altura di Montesole (un tempo, ohimè, terra ridente di mandorli e d’ulivi, con qua e là qualche casina nobiliare, ora devastata da un abusivismo edilizio che qui non si arresta), ha gridato allo scandalo, ha contestato; insomma, ha fatto tanta di quella cagnara che ha persino coinvolto la stessa amministrazione comunale a tralasciare i problemi urgenti per interessarsi al caso. 

Il primo cittadino s’è dato un gran da fare, ha telefonato a destra e a manca per essere ospitato in televisione e così rigettare pubblicamente le affermazioni della «ribelle»: nella sua veste di sindaco doveva tranquillizzare gli animi, dicendo le cose come stanno. D’altronde, c’era dimezzo la reputazione di tutto un paese; persino la politica ne veniva toccata, e la politica nelle nostre parti non va toccata… 

Mi chiedo ancora: era necessaria questa messa in scena? Certo che se non si fosse dato peso alla cosa, il tutto sarebbe passato inosservato. Non sarebbe stata lesa la rispettabilità dei molti che a ben altro hanno da pensare, e di tutto potevano parlare tranne della ragazza dei pantaloni. Non sarebbe successo niente, e chi se la doveva sentire – non solo a Licata – se la sarebbe sentita. 

A fatto avvenuto, così come sono andate le cose, la cittadinanza tutta non ne è uscita indenne o, per lo meno, non ha fatto una bella figura dinanzi all’opinione pubblica nazionale. Il silenzio, vero che non è sempre d’oro, ma sicuramente non avrebbe fatto sbagliare! 

Così, questo chiasso è servito solo a far scattare il marchingegno della pubblicità con pochissime spese iniziali o, meglio, a spese del perbenismo risentito dei licatesi. E chi ne trae vantaggio è la Mondadori che vende il libro primo classificato. 

La giovane Cardella va incoraggiata e spronata a continuare la strada intrapresa dello scrivere ma senza badare alle varie voci che si dicono, perché, quando c’è di mezzo il meschino denaro, si fa in fretta a montare le persone. 

Gran brutta cosa è poi la delusione… 

Alcuni, senza perderci tempo, col fiuto finissimo che li caratterizza, hanno parlato di «caso letterario», non sapendo che così offendono la dignità artistica ed umana di tanti scrittori meritevolissimi, i quali o sono passati inosservati e tuttora aspettano giustizia , o la loro opera è stata apprezzata fuori prima che il pubblico nostrano «bestia varia e scanzonata» se ne potesse interessare. È il caso di Svevo o, per non andar lontano, del siciliano Tomasi di Lampedusa. 

Di Lara Cardella ci sarebbe poco da dire, se non fosse stato per questa montatura. Volevo i pantaloni è un libretto animato solo dagli ardori e dalla fede giovanili: vuole essere una denuncia sociale e tale è, vera o inventata che sia. Ma più che romanzo – così come l’autrice lo presenta -, perché romanzo non è, parlerei di documento, restando nell’ambito della denuncia, dato che dal vizio e dalla depravazione non viene intravista alcuna via d’uscita. 

Zio Vincenzino o ziaVannina, l’uno vale l’altra, se per superare le difficoltà economiche essa si vende a questo o a quello, dimostrandosi superficiale, vuota e, persino, banale. Ma anche l’io scrivente si chiude nella rassegnazione e all’ultimo niente fa per cambiare quella realtà che prima aveva contestato e deriso. 

La trama è esilissima, e tutta incentrata sulle figure dell’uomo-padrone e della donna-oggetto. Tema che, a dir la verità, a noi sembra inattuale o molto limitato nella sua casistica. Con la televisione che ci propina volgarità a mai finire e che viene seguita dalla mattina alla sera da casalinghe e da collaboratrici familiari, si è avuta un’evoluzione (o involuzione?) veramente sorprendente in tutti i ceti sociali e nei paesetti più lontani, dove si assiste ad eccessi d’usi e di costumi che non si riscontrano neppure nelle stesse grandi città. 

Il successo del libretto sta solo nel lassismo proprio dell’uomo di oggi e nella capacità di assecondarlo da parte di chi detiene il potere culturale, sfruttando al massimo ogni occasione per far quattrini. Alle case editrici – e il nostro caso è lampante – non interessa un’opera dal suo lato artisticoculturale, bensì dall’introito che ne potrebbe derivare: e se le previsioni fanno ben sperare, vada pure a farsi benedire la morale o l’elevazione culturale della gente! 

La realtà è che ci troviamo dinanzi ad un decadimento etico senza alternative e tutto sembra inclinare verso l’accettazione passiva di una situazione che mortifica e ripugna, se lo Stato non si farà garante esso stesso di moralità. Diversamente le cose andranno così, alla deriva, e il peggio dovrà ancora venire. Anche perché uomini culturalmente validi e preparati, che veramente hanno qualcosa da dire, sono nell’impossibilità di operare, tagliati fuori come sono da un sistema che impone, anche in modo occulto, la sua volontà. Ne risente la scuola, e ne vive la sua crisi la famiglia, se di crisi si può parlare, perché fortemente scissa negli affetti più intimi e negli interessi. 

La disgregazione del nucleo familiare, facilitata anche dai ritmi della vita moderna, ha messo ancor più in discussione il rapporto genitori-figli, non nei termini tradizionali della questione, ma come disinteresse ed egoismo spinti all’esagerazione: e da qui è venuta meno tutta una serie di valori fondamentali per la convivenza sociale. 

L’amore, il rispetto degli altri, l’amicizia leale e disinteressata sembra siano stati accantonati per dare spazio ad ogni specie di materialità dilagante che costituisce, come in un circolo chiuso, il polo d’interesse dell’uomo odierno, anche se egli fa difficoltà a riconoscersi in questo stato di bruttura e di miseria. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 27-30.




 La poesia popolare siciliana   

La poesia popolare è un aspetto e un mezzo della cultura d’un popolo attraverso cui egli manifesta e trasmette il suo animo. Oggi lo studioso si trova dinanzi ad un campo aperto e non del tutto conosciuto. D’altronde, lo studio delle tradizioni popolari si è sviluppato a partire dal XIX secolo, quando cominciavano ad essere scientificamente riconosciute le scienze umane, in cui rientrano l’antropologia, l’etnografia, la demopsicologia e la demologia. 

I primi studi e raccolte di poesia popolare risalgono agli inizi dell’Ottocento (lo stesso Leopardi pubblicò nello Zibaldone alcune canzonette recanatesi), ma quelli che subito acquistarono rilievo sono: Saggio di canti popolari della provincia di Marittima e di Campagna (1830) di P. E. Visconti e Canti popolari toscani corsi illirici greci (1841) di N. Tommaseo. Gli autori, che sorsero un po’ dovunque nelle regioni d’Italia1, furono influenzati dalle istanze romantiche, tendenti a rivolgersi e a valorizzare il popolo e a ciò che sapeva di popolare. 

Una questione aperta e dibattuta, a proposito della poesia popolare, consiste nel fatto se si debba ritenere o non un derivato da quella colta. Molti studiosi sono portati a ritenerlo. Ma, come già aveva intuito Giuseppe Pitrè, va tenuto presente un distinguo; cioè, tanta parte di poesia viene dal popolo; altra, ma in minima quantità, è di derivazione colta o semicolta (lo si nota da come è gestita la parola e dalla struttura del verso più elaborata), assorbita dal popolo e con diverse varianti elaborata e tramandata. 

La poesia popolare nasce da un fatto di cultura, insito nelle condizioni di vita del popolo, che subisce influssi e richiami degli eventi verificatisi. Ma quello che qui si vuole sottolineare è che l’evento storico, il fatto di cronaca o la realtà di ogni giorno, che è pure storia vissuta, vengono filtrati dal sentimento che, interiorizzandoli, li elabora in senso lirico. Questo giustifica il canto, sicché tanta parte della poesia popolare non si giustifica se non con il canto, che è l’espressione più naturale per esprimere gli stati d’animo. Va detto anche che la parola nella poesia popolare gioca un ruolo importante, perché spesso ricorre ai doppi sensi e al figurato che la carica di significati diversi. Questa poesia ci fa veramente conoscere l’indole del popolo, che, in fondo, è docile, nonostante l’accanirsi delle vicissitudini ed una politica che spesso non risolve i suoi problemi e la rende restìa e ribelle. 

I canti popolari siciliani, di solito, sono costituiti da strambotti, distici, stornelli, mottetti, serenate, canzoni, canti di circostanza, storie sacre e profane, filastrocche, ninne-nanne ed altro. I loro contenuti sono vari (di amore o di rabbia, epico-lirici, religiosi, storici, agresti, e in ogni caso partecipano lo stato d’animo e il vissuto del poeta. 

«Cu’ voli puisia vegna ‘n Sicilia 
Ca porta la bannera di vittoria 
Li so’ nnimici nn’avirannu ‘nvidia 
Ca Diu ci desi ad idda tanta gloria 
Canti canzuni n’avi centu milia 
E lu po’ diri cu grannizza e boria 
Evviva, evviva sempri la Sicilia 
La terra di l’amuri e di la gloria2». 

Qual è la motivazione di tanta poesia? Senza dubbio, essa va ricercata nel dolore e, perciò, nel bisogno di un riscatto che, al momento, trova solo nella parola e nel canto lo strumento idoneo. Sicché, anche il motivo più spesso ricorrente, quello dell’amore, canta amarezze e difficoltà d’ogni sorta, e lo stesso amore non può concretarsi, perché uno dei due innamorati manca di dote e non ottiene il consenso dei genitori. 

«Bedda, pi’ amari a tia li me nun vonnu, 
ni la me casa cci ha statu lu ‘mpernu3». 

Nonostante tutto, l’innamorato spererà e insisterà, perché possa realizzarsi il suo sogno d’amore: 

«Vinni a cantari ‘cca e lu fici apposta, 
pi’ vidiri si to’ ma’ cala la testa4». 
A volte l’innamorato dimentica o, meglio, accantona ogni angustia per esternare il suo sentimento, e allora esalta la bellezza della sua donna ricorrendo ad immagini della natura: 

«Vaju di notti comu va la luna, 
Vaju circannu a tia, stilla Diana. 
Bedda, ca si’ cchiù bedda di ‘na parma, 
‘nzoccu ti metti a lu pettu t’adurna5». 

Si noti il riferimento letterario «stilla», al posto di stidda, ma pure «Diana» è un’acquisizione dotta, anche se riscontrabile nella terminologia popolare, contadina e marinara. L’immagine è bella; l’innamorato è come chi, annaspando nel buio, cerca la luce, sicuro di trovare appagamento. 

In altri componimenti, l’amante esprime il suo amore e, al tempo stesso, vuole esserne rassicurato 

(«Bedda, li to’ biddizzi li prutennu», canta il poeta), perché teme la concorrenza e s’ingelosisce. 
«Bedda, li to’ biddizzi li prutennu, 
e si ad antru li duni, mi nni lagnu; 
siddu li duni a quarchi strafazzeri, 
si li va ‘ ccancia pi’ un pezzu di pani. 
Dunali a mia ca sugnu arginteri; 
iu ti li fermu e ti portu li ciavi, 
e ti li nesciu a li festi sulleni: 
Mezzaustu, Suttemmiru e Natali6». 

Spesso l’amore s’accompagna al tempo della raccolta che, alleviando le fatiche, fa sperare bene per meglio vivere e accettare la vita. 

«Bedda mia, 
lu tempu vinni di cogghiri racina; 
lu viddanu s’incammina, 
nni la vigna si ‘nni va. 
Lu poviru la spremi 
e la metti ‘ ntra li vutti. 
Bedda mia, 
cuntenti tutti, 
quannu poi si vivirà7. 

Il tempo della raccolta infonde un senso di gioia: è il momento in cui il contadino vede concretati i suoi sacrifici. Nei suoi movimenti, negli ampi gesti che l’accompagnano c’è piena accettazione della vita, ma anche sincera riconoscenza della divinità, che fa pensare ai ringraziamenti e alle propizi azioni degli antichi pagani. Ne sono chiaro esempio le feste che si facevano a raccolto com-plessivo avvenuto (e che tuttora nelle nostre contrade si fanno), oppure i canti che per le varie occasioni si cantavano, come quelli della mietitura o quelli dell’aia, che con varianti più o meno vistose sono presenti dovunque in Sicilia. Nella poesia popolare questo intreccio di sacro e di profano è abbastanza presente. Assillata dai bisogni, la povera gente si rivolge a Dio o ai Santi per risolvere i conflitti o per essere tutelata e aiutata («Duna a tutti la saluti, / a li figghi e a li niputi, / e pi’ nantri piccatura, / tu ci preghi a lu Signuri. / Tanti genti fannu guerra / ni li posti di ‘sta terra, / astutati ‘sti furnaci, / o Riggina di la paci8», ma anche per scongiurare malanni o allontanare da sé eventuali malocchi di chi la vuole male: 

«Iu mi curcu pi’ durmiri 
‘nni stu sonnu pozzu muriri, 
e si ‘un aju ‘u cumpissuri 
mi cumpessu cu vu’, miu Signuri. 
Tri stizzi di sangu di Gesù, 
tri fila di capiddi di Maria, 
attaccati e liati manu, vucca e cori 
a cu’ mali a mia voli9». 
Di qui alla maledizione il passo è breve: 
«Cu’ voli mali a mia: scippati l’occi, 
du puntareddi appizzati a li gricci. 
Cci nn’addisiddu cimici e pidocci, 
quantu frummentu cc’è, favi e linticci10». 

Al poeta popolare non sfuggono i fatti storici, lontani o più recenti, in cui esalta il sentimento collettivo nazionale che per poco fa dimenticare la miseria. Come in questa ottava, riferita ai Vespri, in cui lo sfogo e la rabbia per i maltrattamenti subìti sono forti. 

«Nun v’azzardati a vèniri ‘n Sicilia, 
ch’hannu juratu salarvi li coria; 
e sempri ca virriti ‘ntra Sicilia, 
la Francia sunirà sempri martoria. 
Oggi, a cu’ dici Chichiri ‘n Sicilia, 
si cci tagghia lu coddu pri so’ gloria; 
e quannu si dirà: qui fu Sicilia, 
finirà di la Francia la memoria11». 

Il popolo siciliano, come fu passivo nel subire le peggiori angherie dai propri sovrani e dai signori locali, mai sopportò quelle infertegli dai dominatori stranieri. Si nota, ad esempio, da un componimento che risale al 1866, In piena dominazione piemontese. 

«Lu tempu è fattu niuru, 
vinniru arre’ li lutti: 
comu si pò risistiri? 
Hamu a tinìri tutti? .. 
Sentu friscura d’ariu, 
lu celu è picurinu; 
‘nca cc’è spiranza, populi, 
la burrasca è vicinu12!» 

C’era chi esaltava ancora la passeggiata garibaldina in Sicilia, ma altri lamentavano una spoliazione mai vista fino allora e parlavano di «granni tradimentu», auspicando tempi migliori. È, in fondo, ciò che Verga denuncia nella novella «Libertà», da leggere per comprendere meglio, fuori dell’ alone pubblicistico piemontese purtroppo ancora forte, la vera realtà della Sicilia e del Meridione in quegli anni. 

Anche le «storie» sacre, che si rifanno alle vite dei Santi o ai miracoli, e i fatti di cronaca (le «storie» profane) sono ben recepiti dal popolo che li fa argomento di discussione e di canto. Basti citare l’opera meritoria che svolsero (e che ancora, ma in minor misura nell’interno dell’ isola, svolgono) i cantastorie, per renderci conto di come il popolo sapeva fare propri i fatti e parteggiare per i protagonisti che, pure essi deboli, s’imponevano ed emergevano per i sentimenti di cui si fanno portatori. È il caso della «storia» della «Baronessa di Carini», abbastanza nota, o quella, me-no conosciuta, ma altrettanto coinvolgente, di «Scibilia nobili». 

È, questa, la «storia» di una giovane donna del trapanese che, rapita e portata a Tunisi dai pirati barbareschi, non viene riscattata dai genitori, perché, essendosi unita ad un giovane cavaliere senza il loro consenso, dicevano essere stati disonorati. A vuoto cadono le suppliche e le preghiere, i genitori saranno sordi ad ogni richiesta: e preferirono perdere una figlia, anziché l’oro del riscatto. Alla donna il bene le verrà dal giovane che non esiterà a rispondere: «Megghiu perdiri tant’oru / ca ‘n’amanti ‘un l’asciu cchiu!13» E la donna gli rimarrà molto obbligata e fedele; mentre per i parenti, che di lì a poco moriranno uno dopo l’altro, vestirà di rosso, per lo sposo indosserà per sempre un abito nero. 

Una «storia» che affascina, ben congegnata e costruita nelle parti che la compongono, ricca di annotazioni psicologiche e, soprattutto, rivelatrice d’un carattere forte che non s’abbatte facilmente e, anzi, resiste e trova il coraggio di reagire. 

«Lu me latti è biancu, bianchissimu, / sulu è dignu a li cristiani14». Così risponde ai corsari, che le dicono di dare il suo latte ai cani. Sono versi che rimangono impressi per la loro spontaneità, di una bellezza che tocca il cuore e lega per sempre a questa nobile figura di donna. 

Insieme con queste «storie» si diffondono anche le «storie» epiche. Il popolo vi è attratto per le figure emergenti, portatrici sempre di nobili ideali. È il caso della Storia di Fioravante e Rizzeri15, di cui riportiamo questi versi: 

(Madre) – Comu fu? Chi cosa ha statu? 
(Fioravanti) – Vaju a la morti ‘mmenzu 
a tanti genti, 
Strittuliatu ‘ntra sta surdatìa, 
Pi ‘n esseri di Cristu ubbidienti, 
Haju offisu a lu figghiu di Maria. 
Vaju a la morti e patirò turmenti, 
Accussì voli la furtuna mia. 
A vu’, matri, ‘un v’arraccumannu nenti, 
Matri, v’arraccumannu l’arma mia!’ 
(Madre) – Figghiu di lu mè cori e l’arma mia, 
Figghiu di lu mè cori e lu mè ciatu, 
Strittuliatu ‘ntra sta surdatìa: 
Stu corpu tantu beddu ‘ndilicatu! 
Sciugghitimillu pi ordini mia, 
Quantu sentu la cosa comu ha statu16! 

Come il popolo non poteva non apprezzare la lealtà di Fioravante e non partecipare nel contempo al dolore della madre che tutto tenterà per salvare il figlio? 
Altri motivi di canto sono dati dalle ninne-nanne e dalle filastrocche. Anche qui, nell’apparente semplicità del dettato, c’è una sottesa denuncia degli squilibri sociali e un
desiderio di migliorare la propria condizione, come in Alavò, per esempio, o in Chiovi, chiovi, chiovi, in cui la denuncia diventa satira che mette in ridicolo il barone,
laddove recita: «affaccia lu baruni / cu’ i causi a pinnuluni17». 
Chi può, spesso non spende nemmeno per il necessario, mentre chi vive in ristrettezze, tiene molto alla propria dignità e alla decenza. 

I motivi che danno contenuto alla poesia popolare sono tanti e tali da restare meravigliati. Ecco questa ottava, per esempio: 

«Masculiddu piruzzu d’oru 
dunni camina nasci lu violu; 
masculiddu piruzzu d’argentu, 
dunni camina ci nasci ‘u frummentu; 
masculiddu piruzzu d’addauru 
fa lu fruttu e fa lu ciavuru. 
Fimminazza piruzzu di chiuppu, 
‘un fa né ciauru e né fruttu18». 
da “Spiragli”, 2009, Saggi 
Si era in un periodo in cui il maschio aveva la preminenza; era lui a lavorare e a contribuire al mantenimento della famiglia. Perciò è esaltato, a differenza della donna
che spesso era di peso e si dava in sposa ancora in giovane età per contenere il bilancio familiare. 

Ancora: 

«’D pinu Saru mi purta’ a la Ciana, 
mancu mi detti ‘na ‘rrappa di racina. 
Cci firriavu di la tramuntana, 
mi nni cugghivu na fiscina cina19». 

In tempo di ristrettezze non erano rispettate nemmeno le buone creanze. Lo zio Rosario non offre niente, nemmeno un raspo d’uva, che il terreno generosamente gli dà, e alla faccia della taccagneria se la fa rubare. Per la gran parte del popolo era la fame, e la fame non tiene conto delle buone intenzioni. E, allora, ecco questa sestina: 

«Amici, a tutti quanti vogghiu beni, 
sintiti ca vi cuntu la raggiuni. 
Si fussi riccu, cunzassi li ceni 
e cummitassi tutti li pirsuni; 
ma haju lu cori me cinu di peni, 
ca mi sta abbianchiannu lu muluni20». 

La vita sembra sia registrata nei suoi palpiti, nelle aspirazioni, nei bisogni, nelle gioie del momento e persino nelle considerazioni esistenziali, di cui ad un certo punto il poeta si fa carico e ne sente il peso. Si era in tempi veramente duri, eppure si diceva – come si può notare – di tutto. La realtà è che la diffusione era orale, e la gente parlava, nonostante la chiusura delle classi sociali elevate; parlava e sfogava, se non altro, per scaricare le tensioni e condividere con gli altri il disagio di quella condizione, a differenza di oggi che, presi da una vita frenetica e stressante, non si riesce a comunicare e, più che mai, ci si chiude nel silenzio, bombardati come si è da mezzi di informazione sempre più sofisticati. Così non era un tempo quando, pur nella miseria e negli stenti, la gente si riuniva nelle case o all’aperto, e comunicava e si divertiva. Anche nei campi la vita era vissuta in modo diverso; non c’era ancora la meccanizzazione e gruppi di contadini jumatara sfidavano i duri lavori stagionali, parlando e cantando, e nel loro parlare e cantare c’era un dolore sotteso, non dovuto a rassegnazione, bensì alla constatazione dell’impari lotta, spesso sotterranea, che erano chiamati a sostenere con i padroni. Era nella mentalità dei nobili e dei ricchi feudatari che essi, i contadini, dovevano continuare a vivere la vita di sempre per sostenere l’economia del paese e per mantenere invariato l’ordine pubblico. Derivano di qui il dolore e la rabbia, di cui dicevamo. 

Se è vero che la povera gente era maltrattata e mancava di tutto, essa continuava a vivere la vita di sempre nella speranza, attaccata, com’era, ai valori dei padri. Ora l’uomo non ha fiducia in niente, è isolato, non è più nel disagio come prima, ma vive un malessere esistenziale ben più grande e insopportabile. E di questo deve essere consapevole e se vuole riprendersi ciò che gli appartiene, ha bisogno di recuperare, o ricrearsi, quei valori che gli facciano accettare ed amare la vita. 

Salvatore Vecchio

NOTE 

 
1 In Sicilia: Canti popolari siciliani di L. Vigo, che risale al 1857 (II ed. 1874) e, in aggiunta alla raccolta del Vigo, Canti popolari siciliani di S. Salomone-Marino (1867). In seguito, la ricerca acquistò maggiore prestigio con G. Pitrè, Canti popolari siciliani, 1870-’71 (II ed. 1891), i suoi Studi di poesia popolare (1972) e Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano (1889), ripubblicati nell’Edizione nazionale delle opere di Pitrè e Salomone Marino (Ila Palma) e, con C. Avolio, Canti popolari di Noto (1875). In seguito la ricerca e lo studio delle tradizioni popolari furono continuati da G. Cocchiara, Popolo e canti della Sicilia d’oggi (1923), Storia del folklore in Europa (1952) e altre opere che lo fecero conoscere in Italia e nel mondo. 
2 «Chi vuole poesia venga in Sicilia / che ha la bandiera della vittoria. / I suoi nemici ne avranno invidia, / ché Dio le diede tanta gloria. / Canti e canzoni ne ha in abbondanza / e lo può dire a gran voce e boria. / Evviva, evviva sempre la Sicilia, / la terra dell’amore e della gloria» (G. Cocchiara, Popolo e canti della Sicilia d’oggi, Palermo, Sandron, 1923). 
3 «Bella, ch’io ami te i miei non vogliono, / nella mia casa c’è stato l’inferno». 
4 «Bella, vengo a cantare qui e lo faccio apposta, / per vedere se tua madre cala la testa». 
5 «Vado di notte come va la luna, / vado cercando te, stella Diana. / Bella, e sei più bella di una palma, / ciò che al petto metti tutto t’adorna». 
6 «Bella, le tue bellezze le pretendo, / e se le dai ad un altro, io m’offendo; / se le da’ a qualche faccendiere, / va a barattarle per un pezzo di pane. / Dalle a me, che sono argentiere; io le chiudo e porto la chiave, / le prenderò nelle feste solenni: Mezzo Agosto, Settembre e Natale» (È un’ottava che proviene da Palma di Montechiaro, che celebra la festività della Madonna del Rosa-rio, patrona della città, 1’8 settembre). 
7 «Bella mia, / tempo è della vendemmia; / il villano s’incammina, / nella vigna se ne va. / Il povero l’uva spreme / e la mette nelle botti. / Bella mia, contenti tutti, / quando poi si berrà». 
8 «Dai a tutti la salute, / ai figli e ai nipoti, / e per noi peccatori, / pregaci il Signore. / Tante genti sono in guerra / in ogni parte della terra, / spegnete queste fornaci, / o Regina della pace». 
9 «Mi corico per dormire, / nel sonno posso morire, / e se non ho un confessore, / mi confesso con Voi, mio Signore. // Tre gocce di sangue di Gesù, / tre fili di capelli di Maria, / attaccate e legate mani, bocca e cuore / a chi male mi vuole». 
10 «A chi mi vuole male: cavate gli occhi, / conficcate due punteruoli nelle orecchie / gli auguro cimici e pidocchi, /tanti quanto frumento c’è, fave e lenticchie». 
11 «Non v’azzardate a venire in Sicilia: / hanno giurato di farvi le cuoia; / e ogni volta che verrete in Sicilia, / la Francia suonerà sempre a martorio. / Oggi, a chi dice Chichiri in Sicilia, / gli si taglia il collo per sua gloria; / e quando si dirà: qui fu Sicilia, / finirà della Francia la memoria». 
12 «II tempo è fatto nero, / siamo di nuovo ai lutti: / come si può resistere? / Dobbiamo sopportare tutti? .. // Sento frescura d’aria, / il cielo è pecorino; / perché c’è speranza, popolo, / la burrasca è vicina». 
13 «Meglio perdere tanto oro, / ché un amante non lo trovo più». 
14 «II mio latte è bianco, bianchissimo, / è solo degno dei cristiani». 
15 Si trova in G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, cit. 
16 (Madre) – Come fu? Cosa è stato? / … / (Fioravante) – Vado a morte in mezzo a tanta gente, / stretto tra la saltataglia, / per non essere ubbidiente a Cristo, / ho offeso il figlio di Maria. / Vado a morte e patirò tormenti, / così vuole la fortuna mia. / A voi, madre, non raccomando niente, / madre, vi raccomando l’anima mia! // (Madre) – Figlio del mio cuore e anima mia, / figlio del mio cuore e fiato mio, / stretto tra questa soldataglia: / corpo tanto bello e molto fine! / Liberatelo per ordine mio, / voglio sentire il fatto come è stato! 
17 « … S’ affaccia il barone / con i calzoni che gli vanno giù». 
18 «Maschietto, piedino d’oro, / dove cammina nasce un viottolo; / maschietto, piedino d’argento, / dove cammina nasce frumento; / maschietto, piedino d’alloro, / fa frutto e anche odore. / Femminaccia, piedino di pioppo, / non fa odore e nemmeno frutto». 
19 «Zio Rosario mi portò alla Chiana, / manco m’ha dato un raspo d’uva! / Vi andai da tramontana, e ne ho raccolto una cesta piena». 
20 «Amici, a tutti voglio bene, / sentite che vi dico la ragione. / S’io fossi ricco, imbandirei cene / e inviterei tutti quanti; / ma ho il cuore tanto afflitto / che mi si stanno imbiancando i capelli». 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 11-16.




 La poesia di Paolo Frosecchi 

Piazza del Limbo (pref. di A Gatto), Nuova Guaraldi Editrice, Firenze, pagg. 141, s.i.p. 

Di solito, quando si ha da fare con un pittore che scrive anche poesie, viene spontaneo riferirsi ai temi caratterizzanti le sue tele per meglio definirlo e conoscerlo. Non così avviene per la poesia del pittore Paolo Frosecchi (fiorentino di nascita – è del 24 – e milanese di adozione) che, se è una riconferma delle sue doti di artista, è nel contempo un viaggio interiore proteso alla ricerca di una identità più marcata. 

Giustamente Alfonso Gatto ha parlato di diario; e un diario proprio costituiscono queste poesie, se consideriamo che al centro di ognuna di esse c’è il poeta con i suoi ricordi, le nostalgie, i sentimenti che lo attaccano alla vita. 

La breve lirica Lunga strada, spoglia di ogni compiacimento verbale, ci dà l’esempio di questo voler scrutare dentro, e spiegarsi l’umana esistenza e ciò che essa ci riserba lungo il suo cammino. 

«Gli alberi neri» proiettano il poeta nell’età dell’infanzia, quando bastava un nonnulla per incuterci tanta paura e farci tremare. Un senso di nostalgia traspare da questi versi, ma Frosecchi non lo fa pesare, perché sa che a niente vale, se non a peggiorare le cose. L’ingenuità, la fede di una volta non ci sono più, e la realtà è ben altra cosa ora che «sono spezzati i rami». E dietro a questa realtà veramente pungente, la morte, l’inesorabile morte, che tutto tocca e non perdona. Ciò che rimane non è altro che il ricordo, nostalgico – abbiamo detto -, ma pieno di grande umanità. Come ne I lucarini, là dove la lucarina col suo «cuore piccino» piange il compagno morto: «Ritorna bambina / quand’era soltanto / una voce / un trillo / un trillo di trilli. / Si lascia morire / e non posso toccarla / chiuso come sono / da queste sbarre». Una bella lirica, questa, che gradatamente acquista il tono giusto per sciogliersi poi negli ultimi versi con la stessa cadenza iniziale. 

A volte il poeta è tutto preso da un fare polemico e sarcastico insieme, che non vuole essere affatto atteggiamento derisorio, ma nasce dalla consapevolezza di chi, non potendo sfuggire dinanzi ad una realtà come la morte, accetta, perché diversamente non può. Si legga, ad esempio, Storia, dove la collocazione degli stessi aggettivi («stupide pecore», «processione lenta», «bigio asfatto», «moccioso muso») ci dice l’indifferenza e il distacco propri di chi è abituato a considerare la vita come se non gli appartenesse. 

Altrove, però – vedi la lirica lo – lo scontento, che è poi dovuto ad un morboso sotteso attaccamento al mondo e alla vita che lo circonda, viene anche indirettamente evidenziato. 

Ma più che ogni altro motivo torna caro al poeta quello dell’amore, che occupa un posto di rilievo. Ancora, la figura femminile viene a stagliarsi meglio nel ricordo. E qui sta la bellezza di questi componimenti, perché nel ricordo tutto s’ingentilisce, anche se poi l’amara realtà si rivela diversa. 

In Richiamo c’è l’immagine di una donna restia, indifferente, appunto, al richiamo d’amore. 

Essa viene colta negli occhi che guardano nel buio e nell’atteggiamento di chi non dà alcuna importanza a tutto ciò che prima aveva costituito la sua gioia («Come in una danza / esci dalla tua pelle / contaminata d’amore / ti vesti di soli capelli / quei capelli neri / che passan tra le dita / quasi d’acqua»). Il poeta non trascura i «capelli neri», morbidi e leggeri come l’acqua che passa tra le dita, ma a niente vale il suo interesse, perché oramai la donna è sorda ad ogni richiamo. 

Ancora in Autunno riaffiora il ricordo di lei dai «grandi occhi / neri e neri e neri / di lucenti cristalli» che niente dicono ora al poeta, paragonati come sono alla foglia che si stacca morta. 

Chi ha avuto modo di ammirare alcuni quadri di Frosecchi pittore, avrà potuto notare che le donne mancano di affiatamento, e tra esse sono scostanti, quasi a voler proporre ognuna la sua bellezza. Nella lirica Le amiche, Violetta e Mammola, «bianche come ricotta / preparata su un piatto / si tenevano il mignolo / graziosamente allacciato», vanno arroganti nella loro candida grazia, desiderose solo di essere ammirate e amate. La realtà è che nella poesia Paolo Frosecchi ritrova il luogo idoneo a potere colloquiare con sé e con gli altri. E lo fa col tono discorsivo proprio della nostra migliore tradizione poetica, col risultato di una poesia scevra di ogni avanguardismo di moda, capace di parlare direttamente al cuore dei lettori. 

A volte il poeta usa un linguaggio spregiudicato – l’ha fatto bene notare per primo Alfonso Gatto, citando Natale -, ed è pure vero che se ne serve per trovare il tono giusto della sua ispirazione, riscontrabile, ad esempio, ne «l’amore dell’amore / che mi cresce e m’incanta». Poche parole bastano al Frosecchi per dire tutto il suo affetto di figlio e l’importanza che una madre ha nella vita di un uomo. Ma questi atteggiamenti ora spregiudicati ora di abbandono possono bene ascriversi ad una tendenza propria della lirica moderna, e non solo italiana. Sicché il poeta, quasi senza avvedersene, risente di tutto questo, e non può fare diversamente, in quanto è come un tributo che ciascuno di noi paga al proprio tempo. 

Frosecchi cade verso un modo di fare poesia sotto certi aspetti ermetica (Notte, Mendicante d’amore, Un urlo, per citarne alcune tra le più palesi), tentazione di non pochi poeti di questa seconda metà di secolo. A dire il vero, sono componimenti strutturalmente ben concepiti, e anche le immagini calzanti, ma non hanno quel calore e quella partecipazione a cui siamo abituati. Di questo il poeta se ne rende subito conto, e fa bene in tempo a cambiare strada e a ricalcare le orme della sua poesia più autentica. Si leggano, ad esempio, La magnolia e la ringhiera, o la già citata lo o, ancora, I segni, che sono tra le ultime liriche di questo libro Piazza del Limbo, dove colori e immagini bene appropriati ci restituiscono la giusta misura. 

La nostalgia, nella lirica Alle sette di sera, s’impossessa del poeta proprio sul far della sera, quando chiuso nella sua solitudine è assalito dal ricordo ancora troppo vivo per non far soffrire tanto l’uomo. Notate l’atmosfera, che è veramente propizia al pianto: una notte d’inverno e il ricordo di una primavera ben puntualizzata, il grigiore della morte e l’esuberanza della vita. 

C’è nella poesia di Paolo Frosecchi un non so che di classico e romantico insieme. La compostezza formale, la coloritura delle immagini,la partecipazione stessa del poeta in quelli che sono i suoi fantasmi creativi fanno di questa poesia il punto di partenza e di arrivo di una sensibilità moderna che affonda le sue radici in un solido retroterra culturale. Sicché, aprendo questo libro, il lettore si sente subito portato a leggerlo d’un fiato, perché alla memoria del passato il poeta affianca la sua spiccata sensilità di moderno, aperto ai problemi e ai richiami del mondo. La lirica L’esecuzione, che a prima lettura potrebbe apparire troppo prosastica («Mille e mille i cacciatori / sono partiti / coi fucili puntati / caricati a palla, / dietro la muta dei cani…»), è carica di tanta umanità, e il tono dimesso trova la sua piena giustificazione nello scontento proprio di chi vede la natura e il mondo andare giorno dopo giorno a rotoli. Scontento che, come in Primavera, viene subito meno all’approssimarsi della stagione primaverile, quando tutto ciò che sa di nuovo sembra esplodere .in una danza impazzita». 

Sono questi alti e bassi dell’animo sensibilissimo del poeta a dare credibilità a questo suo viaggio interiore, segno non dubbio di validità poetica e umana, destinato a riproporsi in una luce più chiara e con risultati migliori. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 62-65.