A Jerry Essan Masslo 

Jerry, amico mio, 

perdonami il lungo silenzio. Sei urtato, lo so! Dopo il fattaccio e la gran cagnara che s’è fatta, tutto sembra sia rientrato nella normalità, come se niente fosse mai successo. Anzi a dir la verità, i giornali se ne sono occupati per un po’, a causa della Chiesa Battista che, facendoti un suo adepto, ha denunciato l’egemonia cattolica per averti imposto quel rito funebre. 

Sono situazioni da cui una persona esce sconcertata: gli speculatori colgono tutte le occasioni e le fanno buone per imbastire ogni sorta di discorso che dia loro credibilità e potere, a scapito della povera gente o di chi non può difendersi. Come te, d’altronde! Cosa si aspettano. che venga fuori a dir la tua? 

E sei urtato Jerry, per quello che ti hanno fatto, per come ti hanno trattato e continuano ancora a fare. È valso a qualcosa il tuo sangue innocente? Tu che eri desideroso solo di un po’ di giustizia e di tanto amore, ora proverai grande commiserazione per questa meschinità che è negli uomini; ti ripugnano le loro bassezze, così come la malvagità che tante volte ti aveva visto soffrire: le morti violente dei tuoi cari, un esilio silenziosamente vissuto, lontano dalla tua terra e dalla gente assieme a cui eri cresciuto, l’accanimento dell’odio fratricida … 

Eppure, so cosa pensavi quella sera d’agosto: un mondo che ti avrebbe socialmente riscattato! E questo chiedevi: il diritto alla vita senza discriminazioni. Disteso su una brandina sgangherata, la tua mente volava al paese d’origine, così vario nei colori, così diverso nella vegetazione, così ricco che, se non fosse per l’ostinata apartheid, potrebbe competere a pieno titolo con i Paesi europei più industrializzati. Pensavi a ciò che ti era stato negato solo perché ti eri battuto per la parità dei diritti; e non potevi restare certo indifferente al solo pensiero che i bianchi spadroneggiassero, a scapito dei fratelli negri costretti a vivere una vita di stenti nei lavori più duri e, per di più, considerati di seconda classe. E volevi che gli uomini fossero veramente umani, nel rispetto dei valori più semplici e profondi al tempo stesso, non addossando agli Africani la sola colpa di essere scuri di pelle e per ciò segregandoli e non privilegiando i bianchi che, solo perché tali, vogliono arrogarsi la superiorità. 

Mi chiedo: com’è possibile che ancora sussistano queste differenziazioni? Addirittura, in certi Paesi – come nel tuo – il razzismo è legalizzato, quasi a voler togliere dalla coscienza dei singoli il complesso di colpa che tale pratica genera; in altri lo spettro razziale è vivo e vegeto, e il suo spiritello s’insinua là dove apparentemente tutto sembra vivere in pace. E noi non potremo mai dimenticare le votazioni antitaliane tenute qualche anno fa in Svizzera, l’accanimento della Germania contro i Turchi, della Francia e dell’Italia nei confronti degli immigrati provenienti dalla vicina Africa. 

L’Europa che nel corso dei secoli ha dettato leggi in materia di civiltà, ora ha da fare i conti con insorgenti forme di razzismo che fanno veramente pensare. Per non andare troppo lontano, l’Italia, a più di cent’anni dalla sua unificazione territoriale, assiste a «lighe» politicamente organizate contro i «terroni», segno che l’unificazione vera e propria ancora non si è avuta, ea niente è valso lo sforzo dei tanti uomini che vi hanno lavorato. Quando in una città come Torino si legge «Non si loca a siciliani», o in una Milano esiste ancora il «Vietato l’ingresso ai meridionali», città dove – lo sanno bene tutti i settentrionali – enorme è stato ed è l’apporto degli Italiani del Sud, i commenti vengono da sé. 

Amico, come vedi, la discriminazione s’annida dappertutto; nelle scuole, per le strade, nei bar, e noi, presi come siamo dai nostri interessi, non ce ne accorgiamo o, meglio, non ci rendiamo conto che, così agendo, coltiviamo un terreno che a lungo andare potrebbe franare. L’Italia – mi si dice – non è stata, poi, tanto razzista. Vero. Durante il ventennio, grazie anche all’influenza della Chiesa, non si ebbero quegli eccessi che in Germania culminarono nell’uccisione di una gran moltitudine di Ebrei e di zingari. Eppure da noi 

c’è un’insofferenza che via via s’è manifestata e si è accentuata negli ultimi decenni, da quando, insomma, nelle piccole città o nelle metropoli, sono sorti grandi complessi popolari – con tutti i problemi che si portano dietro – privi dei servizi più elementari, spesso incontrollabili e, perciò, facili preda di delinquenti e uomini senza scrupoli che vogliono ad ogni costo arricchirsi alle spalle degli altri. In ambienti del genere, viene praticata ogni sorta di violenza, e non solo gli scippi e le rapine sono di casa, ma sono anche frequenti le aggressioni ai deboli, agli handicappati e alla gente di colore. A parte il tuo, che ha toccato veramente il fondo della vigliaccheria più spietata, è recente il caso di quella giovane madre negra che, tornando dal lavoro da uno dei quartieri periferici di Roma, viene malmenata e costretta a scendere dal mezzo pubblico proprio perché negra. Aberrazioni isolate, senza dubbio, ma non per questo meno pericolose. Ad esse già sul sorgere, vanno trovati i rimedi, e solo così si potrà evitare il peggio. 

Lo Stato con le sue istituzioni e i mass-media devono adoperarsi perché si crei nel cittadino una coscienza di fraterna solidarietà fra tutti gli individui, senza alcuna distinzione di razza o di religione. È quanto di più umano si possa sperare. Messa da parte, e per sempre, la famigerata superiorità dell’uomo bianco. che non è nemmeno il caso di prendere in considerazione, il problema va posto entro i termini della fortuna: questi nostri fratelli, vicini di casa, tra l’altro, per questioni storiche e ambientali, sono stati meno fortunati di noi ed ora, più che mai, ci chiedono aiuto, stanchi come sono di vivere nella miseria e nello sfruttamento. 

Un giovane africano, l’altra sera, per televisione, parlava della situazione di disagio in cui si vengono a trovare gli immigrati di colore in Italia e non riusciva a spiegarsi questo trattamento di distacco proprio da un paese che ha sempre allacciato rapporti di amicizia e di commercio con l’Africa e tuttora trae vantaggi dall’emigrazione di tanta sua gente all’estero. Ed è anche vero. I Paesi industrializzati e l’Italia devono accettare i lavoratori di colore, così come dai Paesi europei e d’oltremare vennero accolti e accettati i nostri emigranti per accudire ad umili e faticosi lavori, proprio quei lavori che ora fanno da noi gli Africani. 

Sono d’accordo con te, Jerry, quando dici che gli uomini del Continente nero non tolgono lavoro a nessuno. Per la maggior parte dei casi, questi immigrati vengono utilizzati o in fatiche ove si richiede tanta manodopera o in altre prettamente tradizionali che i nostri lavoratori non vogliono più praticare. Il benessere, per la maggior parte, – perché in Italia c’è ancora gente che vive nella miseria e tra gli stenti – ha portato anche questo: il rifiuto di quelli che vengono considerati. da che il mondo è mondo, lavori umili, umilissimi. La corsa verso la città ha spopolato, come mai in passato, le campagne, ed è qui che vengono maggiormente utilizzati i lavoratori di colore. Portano al pascolo greggi, raccolgono frutta, vendemmiano. Di tutto fanno questi poveri diavoli! Basta inizialmente guidarli, e allora trovi il manovale, il giardiniere, il marinaio, il tutto fare insomma, e il commerciante che va in lungo e in largo dappertutto: il «vu’ cumprà». A negri è affidata la cura dei boulevards parigini, Negri trovi a Londra e un po’ dappertutto. Si accontentano di poco, con la sola sacrosanta richiesta di vivere anch’essi umanamente la loro vita. 

E così noi bianchi ce ne serviamo e poi li ghettizziamo. senza per niente curarci della loro presenza. Li mettiamo da parte come oggetti da riutilizzare alla bisogna, mentre – più degli altri – necessitano di comprensione e di amore. Se non altro, consideriamoli per quelli che sono, uomini che cercano, senza togliere niente a nessuno, un po’ di spazio per acquisire anch’essi una loro dignità. 

Se facessimo almeno questo, Jerry, certamente ci troveremmo sulla buona strada e tu, per lo meno, non saresti morto invano! Sì, se accettassimo questa gente con quel tanto di umanità che è dovuta agli uomini, non assisteremmo a certe escandescenze, frutto di eccessiva birra, o a litigi che tra essa si verificano a volte per futili motivi. Ma è sempre un modo, come un altro, per reagire ai soprusi, allo sfruttamento, alle meschinità che spesso deve subire. In ogni caso, non c’è in essa certa spavalderia di Italiani all’estero che non sempre si sono mostrati riconoscenti presso i Paesi ospitali. 

Caro amico, male, veramente male ci rimasi quel mattino di marzo del ’75 quando, trovandomi nel bar della stazione ferroviaria di Karlsruhe, un gruppo di Italiani, ultimato il turno di lavoro e consumata la colazione, cominciò a schiamazzare. gettando a destra e a manca tazze e piattini, imprecando «bastardi» ai Tedeschi. A niente valsero le proteste del gestore che, ad un certo punto, fintosi indifferente, diceva tra sé parole di biasimo e di riscontro in un gergo incomprensibile. Fu la polizia a disperdere in malo modo quell’ingrata gentaglia. Me lo ricordo ancora quel mattino – la primavera era già alle porte, la temperatura mite – me lo ricordo. 

Eppoi, da più parti si predica un nuovo umanesimo. Ma quale? L’uomo nella corsa verso il benessere è impazzito, non domina più se stesso, ha messo da parte gli antichi valori, dandosene altri, inumani ed effimeri. 

Scusami, Jerry, se mi sto dilungando. Non vorrei tediarti con le mie chiacchiere. Ma tu mi guardi con indifferenza, come se la discussione non t’interessasse. Mi agito. A volte non trovo le parole: è il mio io che, sconvolto, non mi dà pace. Spesso mi chiedo: perché nascondere la realtà delle cose? A fatti avvenuti, c’è la falsa pretesa di volersi dare delle risposte risolutorie, come se si volesse far tacere la coscienza. Non si ricercano nemmeno le cause e, nel caso tuo, c’è stata la volontà di addossare ad altri uomini di colore il tuo assassinio. 

Gli abitanti di Villa Literno avrebbero voluto uscirne indenni: si preoccupavano della rispettabilità della cittadina. Lo stesso parroco del paese non ha fatto un discorso coerente, e le sue parole palesano un certo disagio. Il fatto è che ci si ostina tanto a nasconderci dietro ad un perbenismo che non regge ai primi scossoni e ci riveliamo spesso vuoti e inconcludenti. 

Vorresti, caro amico, che per lo meno il tuo sangue servisse a qualcosa, a far capire agli uomini che apparteniamo tutti ad un’unica grande famiglia, dove il rispetto e l’amore verso il prossimo, al di là delle razze e del colore, devono star di casa. So che non chiedi vendetta; ma, purtroppo, non ci sarà uguaglianza e giustizia sino a quando permarranno nell’uomo sentimenti di odio e di prevaricazione, rimanendo così indifferente ai problemi degli altri. 

La strada da seguire non è poi tanto semplice, Jerry! Non per questo bisogna desistere: occorre adoperarsi perché i governanti prendano seriamente in considerazione il problema – di problema qui si tratta – la cui soluzione rimuoverebbe tanti ostacoli e dissolverebbe molte perplessità. 

L’estate scorsa, in Italia, per esempio, si sono inscenate manifestazioni contro i «vu’ cumprà» e tanti commercianti sono caduti veramente nel ridicolo. Ebbene, per il momento assisteremo a proteste e tafferugli del genere, ma cosa si verificherà nel giro di qualche anno quando – statistiche alla mano – la popolazione diminuirà e gli immigrati aumenteranno a dismisura? A questo punto non rimane che affidarci al buon senso dei nostri governanti e a quanti operano disinteressatamente per il bene e la pace sociale. 

Il rammarico per la tua triste fine è stato grande, Jerry. La buona e brava gente – ce n’è tanta ancora – è rimasta scioccata e non si spiega come fatti del genere possano ancora verificarsi. Eppure non c’è che rassegnarsi; vuol dire che doveva andare proprio così perché le cose potessero veramente cambiare, in meglio s’intende. E i primi frutti credo si stiano raccogliendo. Il fatto che si parla più insistentemente che non nel passato dei Negri in Italia, fa pensare che qualcosa già si sta muovendo in favore e che il tuo sangue non è stato versato invano. Me lo auguro di cuore, amico mio. Allora la tua anima potrà finalmente trovare pace e il sorriso ritornerà sui volti abbrutiti dalle fatiche: sarà come se non fossi mai morto, e noi ti ravviseremo nei tuoi che sono anche nostri fratelli. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 39-43.




La multidimensionalità e la pluricontestualità di un  insegnante-educatore 

Multi-dimensionalità e pluri-contestualità sono termini nodali e chiarificatori del modus essendi di un insegnanteeducatore, in quanto tale deve essere il suo carattere de facto in una società in cui non si procede più in maniera unidirezionale. 

L’atto di operare in una scuola tutta integrante, luogo che trasforma il sapere in una sorta di conoscenza circolare ed enciclopedica, sommativa ed integrativa del saper fare e del saper essere, presuppone la continua ricerca-azione intrisa di saggezza umana e di sapienzialità nelle interazioni personalizzate in più contesti e in più dimensioni, e richiede agli educatori una metànoia interiore profonda capace di leggere l’intero nel frammento, la pluricontestualità nella mono-tematica vita scolastica. Il campo d’azione dell’ insegnante, quindi, si allarga; esce da quella chiusura cui era relegato precedentemente, divenendo l’educatore-insegnante specialiizato con compiti specifici e molteplici perché tali sono le caratteristiche richieste, e con una saggezza e un equilibrio di personalità che lo rendono esperto in umanità e che gli permettono di propagandare il ciceroniano detto della scuola come animi cultura. In tal modo, il ruolo dell’insegnante ha, iter facendo, mutato la sua funzione, ampliandosi e arricchendosi, rappresentando adesso il punto focale attraverso cui sicuramente transita l’integrazione e, nello stesso tempo, si pone come una presenza di natura preventiva rispetto a situazioni di difficoltà. 

«Ottimo maestro è colui nel quale il fanciullo vede se stesso, l’interprete del suo mondo interiore in cui egli stesso non sa guardare a fondo, in certo modo la continuazione e l’esplicazione di se stesso come in un piano più elevato, la cui guida e direzione, lungi dall’essere temuta o aborrita, è desiderata e aborrita », così La Manna scriveva più di quaranta anni fa. Come non condividere questo pensiero? Il ruolo e la formazione dell’insegnante devono essere centrati sulla relazione e sulla comunicazione, sui rapporti tra area formativa e area informativa: gran parte della professionalità dell’insegnante specializzato consiste nella capacità di intervenire attraverso corrette modalità relazionali sia con gli alunni che con gli altri insegnanti. 

Questa è una caratteristica strategica elettiva che deve essere considerata come tratto fondamentale della figura professionale. Il fatto stesso di co-operare, inter-agire, co-agire e relazionarsi presuppone la molteplicità di situazioni che deve assemblarsi in questa figura: i diversamente abili, d’altronde, presentano ai docenti delle discipline difficoltà di insegnamento per il fatto che sono diversificati i processi di apprendimento1. 

L’insegnante, perciò, per rispondere alle specifiche e diverse esigenze di apprendimento e di sviluppo umano dei soggetti in difficoltà, deve essere in grado di operare scelte consapevolmente critiche, come scrive Larocca, in base all’offerta di senso pedagogico, alla consapevolezza della dimensione formativo-educativa delle tecniche usate nelle azioni didattiche e degli elementi significativi per la rappresentazione metapoietica della realtà, e alle molteplici funzioni della scuola nel contesto della società contemporanea. Presupposto indispensabile per l’attuazione di ciò sono la capacità e la fattiva realizzazione del dialogo tra agenti diversi, cui l’insegnante-educatore si deve adoperare per attuare quale mediatore privilegiato in una società pluri-dimensionale che, molto spesso, ascolta poco e che allo «stare con gli altri» deve far combaciare «il fare con gli altri». La condizione di dovere operare nei vari aspetti della realtà (antropologici, filosofici, neurologici, pedagogici e didattici) e nella difficile dinamica del rapporto dicotomico fra l’insegnamento ad apprendere e l’apprendimento stesso di tutti gli studenti, tutti diversamente abili (Gardner docet) , è la prospettiva principale cui deve tendere2. 

La multidimensionalità e la pluricontestualità sono insite nel suo ruolo di «progettare azioni», dove, al fine di mirare l’azione, si esige la conoscenza delle diverse dimensioni dell’insegnamento in generale e i contenuti della disciplina che si conosce di più, nonché la conoscenza della logica latente e interna che presiede a quella disciplina, ossia degli aspetti epistemologici più profondi. Tutto ciò che interviene nell’atto didattico occorre sia adeguato non tanto o non solo al contenuto, ma ai processi interiori necessari per far propri i contenuti. Ne deriva che l’insegnante deve essere capace di conoscere se stesso, le singole personalità, la realtà sociale intorno, e quant’altro entri in relazione con il soggetto, non facendo ricorso solo a strumenti standardizzati, quanto alle sue sensibili capacità di lettura dei dati rilevabili da una perenne ricerca-azione. Solo così potrà riuscire ad operare e mettere in pratica modalità e strategie adeguate e differenziate e pianificare un progetto di vita flessibile, dinamico e funzionale, avendo coscienza di tutte le variabili in gioco: dalle premesse antropologiche di fondo degli attori, alla capacità di dominio in situazione delle variabili intervenienti. 

L’essere esperto in situazione richiede all’insegnante un’acuta capacità di osservatore delle personalità in sviluppo, di moderatore di situazioni difficili e di portatore di un modo di insegnare che deve andare oltre la letio ex cathedra. Non fu Collodi che fece acquistare la stima e la simpatia di tutti al suo personaggio che era stato inizialmente deriso e beffato, perché, a differenza degli altri, era un burattino? Il piccolo Pinocchio, alla fine, va dicendo: «Badate ragazzi: io non sono venuto qui per essere il vostro buffone. lo rispetto gli altri e voglio essere rispettato!»3. 

Essere disponibile verso l’altro, sia a livello numerico che analogico, significa ascoltare e capire l’altro mettendosi in una dimensione unisona, di essere al servizio dei colleghi e dei genitori in quanto diventa capace di fruire di tutte le risorse presenti nell’istituzione in cui opera che egli aiuta a mettere insieme e a co-ordinare, per il miglioramento globaIe e generale della situazione delle classi in cui lavora, comprendendo i momenti più consoni per fare proposte di natura didattica capaci di aiutare gli allievi ad apprendere, come quando, prendendo spunto da eventi naturali o sociali, suggerisce azioni capaci di coinvolgere più docenti per problematizzare e contestualizzare le situazioni e gli apprendimenti in modo multi o pluridisciplinare e interdisciplinare, coinvolgendo l’intera comunità sociale in cui vive l’istituto scolastico: ne conosce le potenziali ricchezze e stimola i responsabili affinché da tali ricchezze non vengano esclusi tutti gli allievi, ma soprattutto i soggetti in difficoltà. 

In una moneta del Medioevo si legge «Humanitas humana terre» (l’umanità sostenga l’uomo), riconnettendosi all’immagine cara del buon samaritano: «Un uomo viene derubato, spogliato, battuto, lasciato morente per strada. Passa un sacerdote e non si ferma, passa un levita e non si ferma … Si ferma solo il buon samaritano, scendendo da cavallo » Questo sta a significare come, in una società così complessa e plurima, molte volte si perdono di vista le cose più vere! 

Bisognerebbe anche imparare a ricoprire il ruolo del buon samaritano. 

Rita Vecchio

NOTE 
1. N. Cuomo, Pensami adulto, Torino, UTET.1995. 
2. E. Fromm, Avere-a-essere, Milano, Mondadori, 1995. 
3. R. Lambruschini, Dell’autorità e della libertà, Firenze, La Nuova Italia, 1974.

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 21-23.




Educazione speciale e non, tra pensare, progettare e agire? 

«L’essenziale è invisibile agli occhi, continua la volpe riferendosi alla rosa che aveva tanto curato.» Così SaintExupéry scrive nel significativo dialogo per il suo Piccolo principe. Se è necessario addomesticare, allora molte volte davvero l’educazione può essere invisibile agli occhi di chi guarda? Dalla mappa logico-disposizionale (di cui tanto discutono i pedagogisti) all’azione, è un actus hominis o un actus humanus? Una svalutazione della teoria a favore della pratica, o un viaggio ascensionale che da cognizioni teoriche preparatorie all’azione conduce all’actus vero e proprio? Domande che rimandano a teorie pedagogiche che da anni si arrovellano intorno a questa querelle irrisolta: in un certo senso, l’azione umana precede la riflessione intrisa di motivazione invisibile e di intenzionalità mirata1, che spiegano l’actus fisico e l’inferenza pratico-induttiva posta in corrispondenza biunivoca di un dato osservato empiricamente e di un principio di valore che agisce da motivo-guida all’azione. 

Se educare, in una scuola dinamica, pluralista e in itinere continuo, significa ricercare, costruire e trasmettere valori, non si può immaginare di operare in azione, in modo propositivo e costruttivo, senza un’ adeguata preparazione teorica: l’esplicitazione pratica di un intervento mirato presuppone, infatti, una propedeutica osservazione pedagogica che sottintende uno sguardo alle problematiche epistemologiche e metodologiche capaci di rendere l’educatore autore esperto di cognizioni teoriche e attive. In questo processo, l’intenzionalità nell’azione offre l’unità ontologica di un’azione pedagogica, in un processo educativo in cui svolgere il suo ruolo in ordine allo sviluppo umano. Studiare un progetto, quindi, e partire da esso per agire, significa capire le dinamiche che stanno dietro, i riferimenti puramente teorici che ne giustificano liter attivo, le variabili esterne e interne che modificano la scelta di predefinite sottodisposizioni, in un processo in cui anche il voltarsi indietro e guardare eventuali errori è una marcia di sviluppo per il fatto che s’impara anche da un passato-storia. 

La centralità della ricerca-azione è presupposto indispensabile per un mirato iter formativo, e un modello di progetto dinamico viene veicolato, in tal modo, all’interno di un’azione educativa, affinché raggiunga, nella realtà, la potenziale libertà dell’uomo con il conseguente incremento di sviluppo. Cogliere l’altro e incontrarlo significa carpirne i dati intellettivi, gli stili cognitivi e le strategie di pensiero in atto, al fine di definire e ri-giustificare una precisa azione. Come facciamo noi, insegnanti-educatori, ad agire senza ratio? Si può anche agire, è vero, ma non significa forse giocare a moscacieca? Stabilire un rapporto di somiglianza tra azioni educative studiate in letteratura o in pedagogia e quelle in atto significa creare inferenze analogiche che ne giustifichino la proporzionalità. 

Anche questo è rapporto dialogico: se educare significa anche dialogare in un clima idoneo, compito dell’ educatore sarà quello di instaurare il dialogo con tutti coloro che ne sono coinvolti. Questo rapporto si porrà come ricerca del concetto di interdisciplinarità-interazione, proiettato a uno sviluppo umano, unico sapere oggi possibile, che in educazione si può costruire tramite il metodo clinico-dialogico, in quanto, proprio per l’importanza della teoria stakiana del microscopio e del telescopio, in base alla quale bisogna vedere bene alcune cose prima di guardare lontano, la problematica va sezionata in micro-parti, in modo da osservare da angolazioni visive diverse, e in maniera che i singoli punti di vista possano operare sinergicamente non in un semplice confronto dei risultati ottenuti, ma nell’ottica di un approfondimento e di un eventuale spostamento dello stesso punto di vista in virtù delle conoscenze emerse e acquisite cammin facendo. 

Il problema principale della ricerca-azione è, quindi, il dialogo creativo fra gli educatori-attori, nell’ottica di un modificare-modificandosi; allo stesso modo, in un progetto pedagogico, dobbiamo considerare che, se ogni individuo può divenire quello che l’insieme ambiente culturale e sociale lo stimola a diventare, l’uomo è caratterizzato a diventare quello che lo stesso so strato educativo in cui vive gli permette di diventare, più che essere determinato dal suo patrimonio genetico. Sul progetto pedagogico non agisce direttamente, quindi, una determinata concezione dell’uomo, quanto invece il progetto storico della comunità educante: è essa stessa l’anticipazione teorica di un soggetto ideale medio in una determinata età. 

Ecco spiegato il perché si parte da quella famosa e a volte criticata mappa logico-disposizionale, ovvero dalla rappresentazione grafica di una disposizione e delle sue sottodisposizioni (alias obiettivi e finalità) collegate tra loro da nessi detti «implicazioni disposizionali », in cui intervengono quelle variabili assegnate dette «condizioni di esercizio esterne, interne e rilevanti», in virtù delle quali si verificherà un evento educativo. Il passaggio da una mappa o formula alla realtà significa offrire a tutti la possibilità di impadronirsi delle proprie potenzialità e dei criteri di scelta per sviluppare il proprio poter essere; significa, parimenti, gettare in avanti le reti di apprendimenti specifici e personalizzati; pro-iettare quella «possibilità di umanarsi», ovvero la concezione «di come dover essere per quel poter accedere al proprio fondamento». 

Tutto ciò giustifica il senso stesso di tale progettazione pedagogica: ricondurre l’essere umano a se stesso, al riconoscimento della sua origine e del suo destino, a quella dimensione neotenica, che contrappesa in modo terapeutico una compromissione data attraverso una giusta stimolazione della stessa, in una vera e propria interdipendenza dinamica che conduca alla finalità-disposizione pedagogica, come le capacità cognitive, linguistiche, affettivo-emotive. L’incremento di sviluppo dipende fortemente dalla progettazione, all’ interno della quale si colgono gli elementi di ciò che si ritiene possibile in quell’ hic et nunc di riferimento, considerate le condizioni socio-ambientali e con la implicita consapevolezza di anticipare non i bisogni dell’ educando, ma le potenzialità da far emergere, nonché prevedere possibili percorsi individualizzati e personalizzati con la logica dell’attuazione, in modo da operare con mens scientifica3. 

In questo contesto si ritrova la risposta a uno dei miei quesiti iniziali: non è possibile attribuire un senso operativo all’ actus hominis (azione, cioè, priva di senso per chi la compie), ma solo l’actus humanus (azione dotata di senso) riceve significato, a prescindere dall’interpretazione dell’ osservatore. Un educatore deve essere anche ricercatore pedagogico che osservi, dall’esterno oltre che nell’interno, attraverso un’inferenza pratico-induttiva delle intenzioni e dei principi pedagogici che hanno agito da forza propulsiva dell’azione stessa. 

Non si tratta di dar ragione a Larocca o al Gruppo interdisciplinare di Trento piuttosto che ad altri pedagogisti, o di cadere nelle reti di un ragno chiamato filosofia, puramente astratto e fantasioso, quanto di dare per assodate alcune certezze latenti: inutile negare quanto importante sia il pensare a un’azione, il cogito latino che si pone come preludio teorico di una determinata realtà. Il progettare, pre-vedendo e pre-visionando, da parte di educatori chiusi, corre il rischio di forgiare animi chiusi e il progetto impositivo è proprio di una società chiusa: un progetto pedagogico aperto, invece, nasce in una società plurima le cui forze agenti sono dinamiche. 

I linguaggi simbolici utilizzati per tale trasposizione (un grafico, una formula, una mappa), non sono altro che mediatori mirati a un rinvio della realtà descritta e, in tal senso, l’educatore-ricercatore-progettista si pone come colui che sa vedere oltre quei semplici segni e, una volta che l’azione è fatta, il lettore, rapportandola al progetto, potrà dire che l’opera prova il progetto se tutto dell’opera era stato previsto. In una società caratterizzata da pluralismo e molteplicità, l’uomo è libero solo se esiste un progetto dinamico alla base che lo possa liberare dalle diverse ignoranze: se la libertà è una finalità condizionata, va progettata e realizzata mediante tutte le capacità implicate in un valore; questo vale anche per i soggetti «diversamente abili» che sono persone, ma che più di altre hanno bisogno di avere definiti obiettivi mirati ad accrescere le loro potenzialità. 

Un progetto dell’uomo sull’uomo, quindi, che pur partendo da stereotipi schematici si libera al fine di liberare. Una concezione, però, non idealistica, in cui nessuna parola parla per se stessa, ma in virtù di un tropos, ousìa di un linguaggio analogico che agglomera elementi indispensabili all’ azione: l’ad quem, l’a quo e l’id quem sono prototipi che stanno alla base di una qualsiasi formula o mappa, dove il relatore precede sia il fine che il mezzo. Il progetto pedagogico richiede la presenza di variabili che non sempre si possono controllare o prevedere: ogni bisogno può essere trasformato iter facendo, ridefinendo, in tal modo, le anticipazioni intenzionali e trasformandolo mentre la stessa azione si svolge; è vero che bisogna prevedere, ma l’anticipare in toto l’uomo su di sé è un’utopia ed è la neotema stessa che lo mette in condizione di un’ estrema plasticità. 

Il décalage piagetiano, ovvero la scomparsa del risultato di una disposizione-finalità, è uno dei problemi di educazione speciale che più si manifesta: il fatto di poter falsificare teoricamente un modello di progetto pedagogico e la micro-teoria disposizionale mirati all’incremento di sviluppo consistono nell’osservare la congruenza di una finalità e delle sotto-disposizioni con la concezione dell’ uomo che il modello assume o di considerarla a posteriori, rispettando la maturità pedagogica del soggetto e le sue strategie messe in atto per apprendere, dopo l’azione. 

Prima di falsificare un intero modello di progetto pedagogico occorre falsificare l’atto della «causazione» e la stessa programmazione; solo l’analisi dell’ eventuale non-presenza di errori macroscopici porta alla negazione del modello. Ogni azione deve essere intenzionale e tale intenzionalità va comunicata secondo un teorema deontico che vede la co-partecipazione degli altri, in riferimento all’importanza dialogica insita. Programmare significa creare ambienti idonei, capaci di offrire sensazioni concrete e piene di significato, avendo come punto di partenza una teoria da cui si deduce un progetto. 

L’educatore deve avere grandi doti di personalità che gli consentano flessibilità e capacità lungimiranti e, insieme agli aspetti cognitivi, si deve preoccupare dello stato d’animo del soggetto. L’azione che produce educazione è complessa e si può cogliere solo con un approccio collaborativo tra diversi punti di vista: è il dialogo interdisciplinare che porta a cogliere quello che ogni punto di vista di per sé non appare in grado di carpire. Ecco perché è importante che un insegnante non lavori «a porte chiuse», ma collaborando con i colleghi. 

L’azione educativa provoca un incremento di sviluppo umano in un dinamismo 

funzionale e disposizionale che vede interagire le varie condizioni necessarie in modo coerente e armonico e il binomio ricerca-azione sul campo può avere un effetto macroscopico anche sulla possibilità di incidere a livelli più ampi, fino a modificare le singole istituzioni e la mentalità diffusa. Fare acquistare senso al progetto deriva dall’importanza che si dà all’azione mirata e dal fatto che esiste un soggetto-tu che, fuori dal tempo e dalla presenza fenomenica, si realizza in merito a un dover-essere, giustificando il principio di progettazione pensato su di lui e per lui e rafforzando implicitamente l’etero e l’auto-educazione, ovvero le dimensioni dell’ ego che accompagnano il soggetto nel confronto costante tra il suo essere e il suo voler essere. L’azione non è altro che la conclusione di quest’inferenza pratica, la fine di un viaggio ascensionale iniziato con la teoria. 

D’altronde, come possiamo costruire una casa senza avere un progetto? Certo, a costruzione finita, invisibili saranno le cognizioni degli architetti e visibile sarà il risultato; senza quelli, il rischio di inagibilità crescerebbe. Lo stesso avviene nell’azione pedagogica. Anche il mio discorrere potrebbe sembrare un’inutile teoria, ma come potrebbe esserci azione specializzata senza una primaria e, a volte, anche noiosa riflessione? Come potrebbe, altrimenti; esistere quello che Schon chiama professionista riflessivo in educazione? 

Rita Vecchio 

NOTE 

(1) AA.VV., Musica in scena, a cura di C. Delfrati, EDT, Torino, 2003. 
(2) Cfr. F. LAROCCA, Nei frammenti lintero, Una pedagogia per la disabilità, Milano, Franco Angeli, 2003. 
(3) Cfr. F. LAROCCA, Azione mirata. Per una pedagogia della ricerca, in «Educazione speciale», Milano, Franco Angeli, 2003.

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 31-34.




 I TUOI OCCHI 

I tuoi occhi 
dietro le finestre scure: 
avidi spietati lucidi 
come la lama di una spada di mercurio 
che illuminano il chiaroscuro. 
I tuoi occhi 
su un campo senza orizzonte 
che attirano la selvaggina 
per lo sterpeto dei sofismi. 
I tuoi occhi 
che frusciano come la seta 
dopo una battaglia perduta. 

Igna Vasile 

(Poeti romeni d’oggi, Palermo, Ila Palma, 1989) 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 33.




GIOVANNI MONTI, A due voci. Colloquio con il padre, collana «Poesia / Oggi», I.l.a. Palma, Palermo – Sao Paulo.

Giovanni Monti – La poetica dell’onirismo 

Ecco un nuovo libro di versi di Giovanni Monti. Nulla di nuovo, si potrebbe dire, vista la ponderosa produzione di Monti, i cui esordi letterari risalgono al 1962. E tuttavia, la pubblicazione di questo poemetto (A due voci Colloquio con il padre, Ila Palma Edizioni) va rimarcata per motivi sia formali che contenutistici, che danno all’opera caratteristiche peculiari e specialissime. 

Attraverso stilemi pseudo-narrativi, Giovanni Monti affronta il tema onirico del dialogo col padre morto (di cancro, ma poco importa). Si tratta di un onirismo di specie particolare, il cui compito è di coagulare gli aspetti della realtà attraverso la sua deformaz.ione. Nel quadro onirico prendono sostanza le immagini di una quotidianità filtrata dal ricordo. Tutto ciò consente al poeta di riattraversare il racconto della propria vita e di quella del padre, evitando il rischio dell’elegia e lasciandosi anche imprigionare dal suo mondo tutto kafkiano. Come? Attraverso una serie di espedienti ritmici (il nonario che inframmezza l’endecasillabo), che sostengono i due interlocutori immaginari del poemetto, che monologano quando sembrano dialogare e viceversa. Per questa via, l’autore ottiene un duplice risultato: far prendere alla lettera quello che si dice e dare nello stesso tempo la sensazione che di quello che si dice niente è vero, perché tutto è soltanto visione o follia. 

La grande novità di quest’ultimo Monti è la creazione di un verso assolutamente postermetico, colloquiale e teatrale, cantabile e ripetibile, privo di enfasi (o, peggio, di sentimentalismo). Un verso capace di trasformare l’introspezione in figure aggettanti, i grovigli emotivi in ingorghi dialogici e di rovesciare, l’uno nell’altro, il monologo e il dialogo. Eppure, Giovanni Monti è di formazione ermetica. I suoi maestri dichiarati sono Ungaretti e Montale, Verlaine e Rimbaud. Mai un tradimento aveva dato frutti tanto succulenti. 

Giovanni Monti appartiene a una generazione di poeti che ha saputo fare dell’amore e della morte i temi dominanti della propria poesia. E la morte è la presenza costante di questo poemetto (ed è davvero aderente la citazione, in prolepsis, da Discussione sul ponte di Giovanni Raboni). 

Per non essere complice della realtà, il poeta adotta un’ottica mortuaria. D’altronde, la morte ha sempre reso bene in moneta lirica. Però si guardava alla morte dalla parte dei vivi. Monti la guarda dalla parte dei morti. E fa parlare il padre morto; gli fa narrare le sue angosce e le sue ansie di uomo che forse ha scelto di morire per meglio comprendere le cose del mondo; o forse è morto contro ogni sua volontà perché un dio infame l’ha deciso. Solo Edgar Lee Masters ha saputo fare altrettanto. 

Ben vero, non sappiamo se questo A due voci sia una svolta nella produzione poetica di Giovanni Monti a quasi mezzo secolo dal suo debutto e superati i sessant’anni. Ci sembra, comunque di potere affermare che questo poemetto ha un tono tuttaffatto diverso dalle precedenti opere poetiche di Monti (una trentina) e che esso apre la strada a ulteriori, imprevedibili sviluppi. 

Luigi Vajola

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 55-56.




A futura memoria – Letteratura come vita.  Ricordo di Nino Tripodi 

Il romanzo di Francesco Grisi A futura memoria (edito dalla “Newton Compton” nel 1986, finalista al premio “Strega” con quattro edizioni) , sarà pubblicato nei “tascabili-economici” in Germania e in Italia. 

Per l’occasione siamo’ lieti di fare conoscere un breve saggio-recensione inedito di Nino Tripodi scritto pochi giorni prima di morire il 22 luglio 1988. 

Si tratta di una riflessione che prende avvio dal romanzo di Francesco Grisi e propone una visione della letteratura come problematica creativa. C’è nello scritto di Tripodi la cosiddetta “immaginazione teologica” che faceva da guida alla vasta cultura del politico e dello storico. 

L’articolo lo pubblichiamo per ricordare il Tripodi, scrittore, docente universitario, deputato e letterato. 

Il volume che diede al Tripodi popolarità ha come titolo Intellettuali sotto due bandiere. L’ultimo è una raccolta di novelle: Nuvole e simboli, del 1988. 

* * * 

“La ragione non è stata più sufficiente per capire la vita”: questo concetto conclude il libro che Francesco Grisi, con il titolo A futura memoria, ha recentemente pubblicato e che, allo “Strega” si è affermato al terzo posto, con uno scarto di appena qualche voto dal secondo. Il concetto – già del vecchio Shakespeare (“ci sono più cose al mondo di quanto non pensi la vostra filosofia”), anzi del tutto dell’antichissima saggezza latina (“cave a consequentiariis”) – è anche un po’ il filo conduttore del romanzo. Ma il libro è proprio un romanzo? O non piuttosto un riflessivo saggio intercalato, in apertura e in chiusura, dalla brillante inventiva d’arte con la quale Grisi narra la parentesi esistenziale del suo inquieto personaggio? 

Saggio o romanzo, nelle sue pagine la vita è avvolta nel velario del mistero. Per penetrarne il segreto, le simmetrie dei principi o la dialettica dell’ordine dello spirito, spiega il reale e guida il mondo. La fede rompe le tavole della ragione. Maria di Nazareth, non ricordo più in quale canto dantesco, suggerisce pacatamente alla “umana gente” di stare “contenta al quia”, cioè di fermarsi al poco che sa. 

Ma non è che ragionare sia superfluo o vano. Basta capire che i concetti nati dalle pur necessarie procedure logiche non chiariscono tutto. In fondo ad esse resta sempre una porta chiusa sulla quale i credenti scrivono la parola “Dio”. Se Grisi, ambiziosamente, tenta di forzarla attraverso le ramificazioni della fede. riesce appena a scorgere il sottile spiraglio che illumina l’anima e accompagna il disperato e disperante viaggio dell’esistenza. Come nella raffigurazione romanzata della madre di Maria, sottrattasi al mondo sotto il saio monacale della clausura. 

Il convegno narrativo – ed è qui l’arte di Grisi – consiste nel contrapporre un modernissimo personaggio piuttosto stravagante o del tutto schizofrenico come il suo Giovanni ai trapassati e rassegnati estensori dei vangeli cristiani. Matteo, Marco, Luca e Giovanni hanno tramandato quattro lettere indirizzate all’apostolo Filippo. “a futura memoria” per spiegare ai posteri le pieghe segrete dei loro racconti, che fanno testo nel Nuovo Testamento. Le lettere giungono, come che sia, a un santone integralista, Armageddo, che a sua volta le affida al protagonista del romanzo. mentre costui, in veste giornalistica, se ne va peregrinando tra guerriglieri e terroristi islamici. Le lettere a Filippo rappresentano la vita di Gesù secondo le testimonianze e i diversi disegni dei quattro evangelisti. E sono quattro modi. utili a ognuno, per intendere il messaggio lasciatoci da nostro Signore. quasi predizione della vocazione ecumenica soprattutto oggi avvertita dalla Chiesa di Giovanni Paolo II. 

Matteo è il più ebreo; accentua l’estrazione ebraica del Nazareno; avvalora la possibilità del cristianesimo di vivere nella legge giudaica, in attesa del Regno. Marco si libera invece dalla ritualità israelitica, distingue il cristianesimo dal giudaismo, e, poiché vive a Roma, tenta di dare alla perseguitata religione di Gesù il supporto del potere romano: il centurione, sotto la Croce, simboleggia il riconoscimento del figlio di Dio da parte dell’Urbe universa; storicamente, è Marco che vince. Luca non ha cure temporali; per lui solo la fede è salvifica, le istituzioni sono il segno terreno della caduta; in Luca è la chiesa del futuro. Giovanni è l’apostolo prediletto, al punto che il Messia gli affida sua madre prima di morire; Giovanni è “l’utopia amore” disegna il Maestro come il vertice della tradizione esoterica degli esseni, della contemplazione ellenica e del simbolismo orientale: Gesù è “il profeta e il compimento”. 

La traduzione di queste quattro arcaiche missive costituisce una documentazione sagace per gli studiosi e una piana, persuasiva informazione per i comuni lettori. Occupando per altro la parte centrale del libro, ne lievita la valenza sotto il profilo saggistico. 

Narrativamente, la comparazione del mondo evangelico con l’odierna esperienza quotidiana scava un distacco abissale. Si potrebbe congetturare una polivalenza di abitudini espressive, un Grisi uno e due, la coesistenza del Grisi immaginifico col Grisi raziocinante, lo sdoppiamento insomma di uno scrittore tra spregiudicatezza e conformismo, modernità e tradizionalismo. Forse però il conflitto da nient’altro discende che dall’antitesi voluta per separare stilisticamente e antropologicamente due linguaggi: l’uno insaziato, spesso sconnesso e morboso del giovane Giovanni, errabondo tra la ragione che non appaga e la fede che non lo redime; l’altro iniziatico, convinto, controllato, dei quattro evangelisti. “Narrare è cosa diversa che scrivere un romanzo”, fa dire Grisi al Giovanni evangelista; e lo convalida col “romanzare” egli stesso i discorsi del protagonista e col “narrare” le lettere a Filippo degli evangelisti. La narrazione, chiarisce, è completamento della storta “in un quadro dove trovano accoglienza i racconti, le allegorie, le meditazioni e le emozioni come simboli della eternità dei tempi e non della cronaca”. 

Data la sacralità del tema in discussione, la trama libresca non coinvolge però solo la storta che ha dimensione umana e terrena, ma anche la teologia che è divina e trascendente. Le tesi con le quali Grisi fa giustificare dagli evangelisti le loro nozioni sulla vita di Gesù rasentano talvolta l’eresia. Quando Marco parla dell’ “ipotesi” del suo vangelo, e di essere stato “costretto”, nonostante le sue “perplessità”, a inserire a motivare a modo suo il pagamento del trtbuto a Cesare, di avere cioè architettato una “messinscena” per accattivarsi la benevolenza di Roma, vulnera un precetto della parlata dei credenti che, quando dicono “è vangelo”, intendono sottolineare l’inconfutabilità di un fatto. Che vangeli sarebbero mai questi se la loro stesura fu forzata dalla necessità di ricorrere a un’ipotesi, o, peggio, a una sceneggiata? 

Però anche questo scoglio, al giorno d’oggi, è superabile. Non si va parlando di “immaginazione teologica” come stampella della fede e perciò a fin di bene? Dunque la questione sarebbe risolta. E Grisi può fare recitare al tormentato 

Marco, magari ovattando la zampata del leone, che pure è il suo simbolo: “Tu mi dirai che ho ingannato i lettori. E posso darti anche ragione. Ma che cosa mi restava da fare? La mia comunità romana dovrà trovare nell’impero romano le strutture per raggiungere tutti i popoli civili e convertirli. E, allora, potevo io impedire questo grande disegno, raccontando, a proposito del tributo quello che veramente Gesù pensava? .. Ho agito nella convinzione di servire nostro Signore… Ho scritto questa mia ipotesi di vangelo per il domani, convinto che solamente dalla collaborazione tra Chiesa e Impero romano potrà nascere qualcosa per il futuro”. 

Sì, è vero, canterà molto più tardi Carducci, recIiminando: “son chiesa e impero una ruina mesta”. Ma nei secoli antichi Marco non poteva conoscere gli esiti esiziali di certe collaborazioni debordate dalla donazione di Pipino il Breve alle pastoie del diritto concordatario, senza citare fra Dolcino e i roghi dell’Inquisizione. 

Grisi ha scritto un libro non solo intelligente, ma coraggioso. Libro che induce a riflettere, sia prima di dargli ragione che di dargli torto. La provocazione è nelle pagine nelle quali l’Autore si cala nell’interpretazione del personaggio fino a tradurne nel lessico le frantumate espressioni del pensiero; e lo è nell’evidente contrasto con il fluido e agevole discorrere degli apostoli. Lo è anche nell’ammettere la contraffazione delle lettere a Filippo, sapendo che ciò accresce l’interesse per il saggio ridivenuto romanzo. Vero o non vero Grisi riprende dal teatro lo spettro della verità: “La vita è la verità che noi crediamo”. Come Pirandello, per la verità: “lo sono colei che non si crede”. Ma Grisi rincara: “I vangeli non sono anche romanzo? E i romanzi non sono frammenti di verità?”. 

Tutto è relativo. Non resta che rompere gli argini della ragione. Ma è il guado ribollente della fantasia che preoccupa, forse più delle acque gelide della ragione. A meno che la fede non venga a salvarci dalle insidie dell’immaginario. 

Nino Tripodi 

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 54-57.




Un cherubino a Parigi

Quasi un racconto di Mario Tornello 

Dalla notissima Place Pigalle di Parigi sale una via tortuosa; è Rue Lepic che conduce a Montmartre, il quartiere degli artisti dove la musica, la letteratura e la pittura coabitano. 

La place du Tertre è il punto focale di incontro di artisti da strapazzo in cerca di gloria radicati con i loro cavalletti e dipinti tra gli stentati alberi della piazzetta. «Au pichet du tertre» è uno dei ritrovi di questa gente squattrinata in cerca di caiore umano e, d’inverno, di quello fisico dove dinanzi ad un bicchiere d’assenzio pare scompaia il disagio esistenziale di chi lotta per sopravvivere sulle orme sbiadite di quei pittori che lì posero le basi dell’impressionismo. 

Il fumoso locale è letteralmente tappezzato di dipinti di artisti che hanno saldato così un lungo conto sospeso con il proprietario del locale. E sono tante quelle opere che ad occhi in su è possibile ammirare sospese al soffitto, rivolte verso il basso e trattenute da opportuni sostegni. 

Tanti artisti, Manet, Seurat, Monet, Tolouse Lautrec, Van Gogh, Gauguin, Matisse e l’epigono Utrillo, vissero parte della loro vita in questo quartiere, attratti dal suo fascino particolare, dove numerose gallerie d’arte odorano di vernici e resine delle opere esposte. 

La breve rue Norvins·offre una visione ormai classica, infiorata com’è, a distanza, dalle imponenti bianche cupole del Sacre Coeur. Non c’è pittore che non ne sia rimasto ammaliato e non l’ abbia ritratta. 

Rue Rustique, la parallela, accoglie nelle sue mansarde quegli artisti squattrinati che vivono la loro bohème tra esaltazione e sconforto, tra idealismo esasperato e vicissitudine umana. I suoi lampioni, a sera, diffondono una luce che, giungendo fioca in alto, spande una luminescenza d’alba alle finestre degli studi. 

Le vecchie librerie d’antiquariato, internate negli stretti vicoli, espongono delizie grafiche di altri tempi: incisioni e volumi che, pur a prezzo sostenuto, hanno un vivace mercato, e cultori d’ogni paese vi trascorrono intere ore alla ricerca della rarità da altri non notata. 

«Le lapin agile», «Le moulin de la Gallette» e «Le moulin rouge», vicini l’un l’altro, sono luoghi che hanno consegnato alla narrativa dell ‘ arte vizi e virtù, baldoria effervescente e storie umane esasperate vissute tra interminabili discussioni. 

Quell’animata vita artistica è scomparsa quasi del tutto, e ad essa se n’è sovrapposta un’altra dai valori meno radicati, superficiali, con la prospettiva unica della resa economica in vista dell’afflusso turistico. Non c’è più un Modigliani con le sue donne e la poetessa russa Anna Akhmatova ritratta in nudi memorabili; ora non tracanna più assenzio e non assume stupefacenti alla ricerca elegiaca della poesia interiore; né c’è più de Chirico che per la sua presunzione esasperante le prendeva da Picasso irritabile. 

Ben altri tempi e personalità si sono sovrapposti con diverso marchio. Gli anni Cinquanta a Montmartre, tranne che per Bernard Buffet, non sono rimasti nella storia dell’Arte. Non hanno segnato un periodo di fertilità figurativa, cosicché quel quartiere oggi sembra spento. 

Gli artisti si sono dispersi tra i vecchi edifici di Montparnasse dai muri su cui campeggiano ancora pubblicità e scritte ottocentesche, tra boulevard Saint Michel e il boulevard Raspail, tra il «Café de la cupole» e il «Procope», dove Sartre e Simone de Bouvoir, nonché Prèvert e la Greco, attorniati da altri intellettuali di quegli anni, posero le basi dell’ esistenzialismo. 

Il «Café Procope», dove alla fine del XVIII secolo nacque il gelato per genialità del palermitano Procopio dei Coltelli, è ancora un ritrovo di intellettuali di ogni lingua. Qui e alla «Cupole», come alla «Rotonde», negli anni ’20 Modigliani ed altri non lesinavano di ritrarre qualche avventore annoiato. 

Su tali orme vagheggiò, ai primi anni ’50, un giovane artista siciliano, Placido Marino, attratto da tanto nome. Si stabilì sulla collina dei Martiri per il fascino particolare e la tanta storia che vi era trascorsa, a partire da George Michel a Coro t, da Gericault a Louis Daguerre, il pioniere della fotografia, da Berlioz a Chopin, da Franz Liszt a Eugene Sue, autore del popolarissimo I misteri di Parigi, fino a Susanne Valadon, madre di Maurice Utrillo. 

Marino, presa in affitto una mansarda sui tetti di rue Rustique, vi alloggiò con idee non tanto chiare. Ebbe bisogno di riequilibrare i suoi pensieri, mentre scopriva il quartiere e la sua gente. Passò più di un mese da solo a confrontare idealmente le proprie concezioni pittoriche con quelle esposte nelle gallerie. Cercò pure un volto compiacente tra i tanti anonimi a conforto del suo iniziale scoramento. La tasca gli cantava per le regalìe di parenti e amici che avevano creduto in lui, e quel periodo di ambientamento, data la primavera avanzata, gli servì per osservare con attenzione l’ umanità che vi risiedeva e allo stesso tempo vagliare le possibilità di affermazione che vi si sarebbero potute prospettare. 

Una sera al «Pichet du tertre» si specchiò negli occhi di Angela Paraiso, una bella ragazza portoghese dai capelli “orvini e il viso ambrato. Poche parole valsero a leggersi l’anima, scoprendo lentamente che si erano cercati senza saperlo: lei raffinata, in figura esile, di eleganza naturale, orgogliosa come rosa sullo stelo con un innato senso di protezione; lui alto, scattante, pervaso da un’ansia palpitante di cavallo di razza mitigata da un’ apparenza rassicurante che celava una fragilità nervosa. 

Bastò una sera fitta di rispettive rivelazioni e gli animi furono scorticati in una confessione catartica. Si attrassero come chiodi alla calamita e furono giorni vòlti alla scoperta di sé, pervasi dalla stessa frenesia del vivere: messe insieme le scarse finanze, unirono anche i loro destini: lui in cerca del suo fazzoletto di notorietà, lei votata a mostrarsi, a bussare alle case di Moda di Montparnasse per sfilare in passerella. 

A place du Tertre il turista sbadato si soffermava curioso tra i cavalletti dei pittori e la rara opera venduta permetteva all’autore un pasto caldo ed un bicchiere di quell’anice sciolto in poca acqua che, ravvivando lo spirito, stimolava la creatività, si diceva. 

Nella mansarda dei due innamorati, d’inverno, il gelo era sovrano, cosicché qualche volta capitò loro di coricarsi vestiti tra le due coperte che possedevano. Il fornellino elettrico contribuiva a mantenere un minimo di tepore in quel nido e spesso si addormentavano abbracciati per darsi reciproco calore, mentre i lampioni da giù spandevano nella misera stanza un alone che giungeva loro come l’aurora primordiale che avvolse la terra agli albori. Eppure, d’estate, da quelletto al buio, spesso s’intravedeva il sorriso di una luna compiacente a conforto della loro indigenza. 

Credendo fermamente nel proprio talento artistico, Placido continuava a proporre ai mercanti d’arte di Montmartre una pittura che, esulando da quella vilmente commerciale, aveva tutti i numeri per affermarsi, e fu in tale rovinìo 

spirituale che assistette incredulo ad un evento inaspettato: un suo corregionale, artista anch’egli in cerca di notorietà, ebbe la casuale idea di dipingere un volto di bimbo, dolcissimo in verità, che gli spalancò d’improvviso le porte del mercato di Montmartre. Le ordinazioni gli fioccarono al punto da essere imitato da altri con uguale fortuna. 

Placido se ne avvilì e, seppure sollecitato, non volle concorrere a firmare analoga pittura come souvenir parigino. Ne fu sconvolto, ma continuò a percorrere con tenacia il binario della sua ispirazione su cui aveva adagiato i suoi soggetti. Lo sconforto lo avvolgeva e fu sul punto di abbandonarsi alla tentazione di lasciare il campo, pur conscio di dover affrontare il ludibrio di quanti avevano creduto in lui. Resistette e non volle svilire la sua pittura, anche se pressato da un’indigenza sempre più manifesta, e proseguì con la sua voce artistica inascoltata. Continuò a dipingere con il cuore i suoi paesaggi lontani, assolati, visti in un inno evocativo intriso di nostalgia per quella natura che lo aveva allevato, esaltandone persino le dune di torrida sabbia, in riva ad un mare maestoso, infiorate di fichi nani dal frutto mielato e di ginestre fragranti che concorrevano nei giorni uggiosi a lenire la tristezza. 

Quella vita stentata tra ristrettezze economiche e il rifiuto sistematico delle gallerie li portò presto a frequentare all’alba con altri artisti i Mercati Generali «Les Halles», dove, raccattando resti di ortaggi, realizzavano una calda minestra con la mente rivolta ai pranzi domenicali nel calore delle famiglie di provenienza. 

Angela era attratta dall’ artista di cui, in certe espressioni dialettali, coglieva assonanze con la sua lingua d’origine, al punto di percepirne il senso e ciò la legava di più a quella personalità scontrosa, pronta ad un’amara autoironia. Percepiva nei confronti di Placido vibrazioni d’anima mai provate e, invaghendosene sempre più, sentiva germogliare dentro l’idea sommersa di dover provvedere alla sua protezione, date le prime manifestazioni di una insofferenza fisica accresciuta da una macerazione d’anima. 

Placido si accaniva a dipingere per gionate intere, in un’euforia sfrenata, paesaggi evocati dai nudi di Angela, passando, poi, d’improvviso a giornate cariche di un’angoscia introspettiva in cui ammutoliva pervaso da un’abulia che non permetteva alla mano di accompagnarsi al pensiero creativo. Accadde che nel trascorrere di pochi anni, tra sbalzi di umori ed intime macerazioni, il fisico di Placido tendesse all’esaurimento delle energie vitali insieme ad una opacità mentale. 

Un mattino Angela ebbe chiara la sua missione terrena: appena desta da un sonno profondo costellato di sogni nebulosi premonitori di qualcosa che ritenne nefasto, avvertì su di sé, all’altezza delle scapole, due escrescenze cartilaginose dalla vaga sembianza di ali. Sorpresa e incuriosita si alzò di scatto, volgendosi al frammento di specchio alla parete dove il suo viso s’ illuminò di un radioso sorriso per ciò che scoprì, indicandole chiaramente la promozione, tanto attesa, a cherubino. Tale la felicità che, fremente, non resistette a svegliare Placido, il quale, ancora tra le braccia di Morfeo, a sguardo spento, mostrò un vago interesse per l’eclatante novità fuori da ogni immaginazione. 

Montmartre fu scossa da quella notizia e sembrò rianimarsi dal suo torpore. Gli scettici, e furono tanti, incrociando Angela per le vie tendevano a toccare quelle ali già chiaramente manifeste; dopo che, scuotendo il capo e ritenendola una mistificatrice, si allontanavano, mentre lei, orgogliosa ed altera, proseguiva quasi levitando per il quartiere. 

Qualcuno arrivò a chiederle se non si fosse prestata per una trovata pubblicitaria; fu addirittura intervistata dal «Paris Macht», ma non volle definire i termini della sua missione terrena né l’origine di quelli ali; in sintesi, riferì soltanto del gran dono ricevuto. 

Il caso fu eclatante; un angelo o pseudo tale, a Montmartre e nel mondo intero, non si era mai visto né sognato. Quelle ali bianche, carezzevoli sulla sua persona, evocando quelle di una maestosa aquila o di certi dipinti rinascimentali, fecero scalpore. Altra stampa, anche straniera, si occupò del caso, che ben presto, superata la novità dell’accadimento, fu dimenticato restando nella memoria di quel quartiere. Ed Angela s’inserì come personaggio in perfetta sintonia con le stravaganze tipiche del luogo. 

Placido iniziava ad avvertire i sintomi di una grave sofferenza fisica che minandolo di giorno in giorno ne consumavano le energie vitali, ma con fermezza continuava a rifiutare il ricovero in ospedale, desideroso soltanto di avere accanto a sé il suo angelo custode, come era solito chiamarla, a conforto dei penosi giorni che gli si prospettavano. Morì all’alba di un livido mattino d’autunno, dopo aver chiesto di baciare la mano del suo cherubino. Il trapasso avvenne nell’alone di luce dei lampioni di rue Rustique. Angela Paraiso, al dolore di quella scomparsa silenziosamente sofferta, associò la conclusione della sua missione terrena. Assorta in tale riflessione le sembrò d’improvviso di cogliere un frullare d’ali alla finestra; due colombi s’erano posati lievi sulla cordicella per il bucato, rimanendo immobili rivolti verso l’interno di quel che era stato un nido, come a chiedere di trasportare le spoglie. Si era conclusa in quella misera stanza una vita di artista svenduta ad un amaro destino. 

Sette amici, un prete ed Angela l’accompagnarono all’ultima dimora nei pressi del cimitero degli animali. Sotto un velo di pioggia la breve cerimonia religiosa suggellò il funerale. Alla fine, quelle persone, salutata Angela, tornarono ai loro affanni quotidiani. Sulla tomba scavata nel prato restarono tre garofani ed Angela, pietrificata, chiusa come crisalide nelle sue ali. 

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 38 -41.




 Ddu paisi arruccatu 

 Ddu paisi arruccatu 

(A Salvatore Vecchio) 

Arrassu ri muntagni ri Palermu, 
arruccatu comu stidda ri carta, 
c’è un paisi chin’i suli 
chi tribbìa i so jurnati. 
Chianci, riri, 
si scuòtula, comu cani vagnatu, i so rulura 
e abbrazza ‘nta chiazza i picciotti allèiri. 
Si nni sta sulitariu comu gran signuri 
e ri drancàpu si nni pria ri so culura. 
“Saecula et saeculorum” 
hannu passatu supra r’iddu 
faciènnuni a so storia 
cu jurnati r’acitu e mieli; 
ma iddu è siempri ddà, 
tisu com’un picciuttieddu, 
mientri tanti figghi so, 
straminati munnu munnu 
pi circari u paraddisu, 
gira, vota e firrìa, 
vivi o muorti, hannu riturnatu ddà, 
‘nte so vrazza. 

 

Quel paese arroccato.
Distante dalle montagne 
di Palermo, /arroccato come stella di carta,/ 
c’è un paese di sole/che miete le sue giornate./ 
Piange, ride,/rimuove, come cane bagnato, i 
suoi dolori/e raduna in piazza i giovani allegri./ 
Se ne sta solo come un gran signore/e dall’alto 
si rallegra dei suoi colori. /”Saecula et 
saeculorum”/ sono passati sopra di lui!scrivendo 
la sua storia/con giornate di aceto e miele;/ma 
lui è sempre là,/dritto come un giovanotto, 
mentre tanti figli suoi,/dispersi per ti mondo/ 
per cercare il paradiso,/gira, ruota e rigira,/vivi 
o morti, sono ritornati là,/tra le sue braccia.

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pag. 18.




Un autentico maestro 

 E. Bonora, Montale e altro novecento, Caltanissetta-Roma, Sciascia ed., 1989, pagg. 267. 

Nel ripiego della copertina di questo nuovo ed atteso volume di Ettore Bonora si legge: «I saggi di questo volume sono in parte inediti – e fra questi c’è anche un’intervista con Montale del 1961 – in parte già noti perché apparsi in riviste, in memorie accademiche, in atti di convegni». Ora, oltre all’opportunità editoriale di raggruppare in volume gli sparsi interventi critici, anche se apparsi in autorevolissime edizioni, ad esigerlo è la omogeneità esegetica che bene li armonizza lungo l’iter delle proposte e delle conclusioni. Peraltro il volume fa seguito, non tanto cronologicamente, quanto ermeneuticamente ai tre precedenti volumi del Bonora su Montale: (Le metafore del vero. Saggi sulle «Occasioni» di Eugenio Montale, Bonacci, Roma 1981 – Poesia di Montale: Ossi di seppia, Liviana, Padova 1982 – Conversando con Montale, Rizzoli, Milano 1983) che insieme a questo, oltre che costituire una armoniosa tetralogia, rappresenta il corpus critico più qualificato ed autorevole sul grande poeta genovese. 

Undici saggi (di cui sei dedicati a Montale), un’avvertenza esplicativa ed un’assai opportuna notizia bibliografica compongono un volume ricco e corposo che già avvince per una tecnica scrittoria narrativa e per una misura stilistica fortemente equilibrata, gradevolmente ‘acidula’ che invita ad una piacevole lettura e ad un amabile conversare. E già solo questo sarebbe non poco, nel clima di revival di «vecchi tromboni» che nella foga di strombazzare obsolete primogeniture e fantomatiche benemerenze, mortificano i più elementari canoni stilistici, che sono parte integrante di una seria ricerca scientifica. 

Certo lo «stile Bonora» (e qui lo intendiamo nella sua più ampia accezione) non si improvvisa; esso è il frutto più vero ed autentico di una onestà e di un rigore intellettuale che, temprati da una rara acribia critica e affinati da robuste dosi di «sciroppo di tavolino», ne fanno uno dei pochi, autentici maestri dell’italianistica e della critica letteraria. 

Uscito ad un anno di distanza dalle sue Interpretazioni dantesche (Mucchi, Modena 1988) di taglio più squisitamente filologico linguistico, quest’ultimo volume montaliano è una ulteriore ed ennesima testimonianza della vastità, della duttilità e della versatilità critica dello studioso milanese. E anche se, nella prefazione alle Interpretazioni con l’umiltà dei valorosi, non osa dichiararsi un dantista per via della sua ‘poca’ produzione, egli, per certo lo è; lo è perché il confessato amore ermeneutico per Dante lo conferma; lo è per l’assoluta qualità dei suoi interventi; lo è per la rigorosissima selezione bibliografica; e lo è infine perché, tralasciando i suoi studi notevoli su Petrarca, Folengo, Bembo, Guarini, Tasso, Parini, Manzoni, ecc., è storico valoroso ed autorevole di tutta la letteratura italiana, come ampiamente testimonia la sua Storia della letteratura italiana (Petrini, Torino 1976). 

Ma ritornando al volume in oggetto, è subito da notare il richiamo pregnante all’attenzione ed alla lucidità di analisi di versi mai sufficientemente ascoltati nel loro carico di rimandi e di richiami intertestuali. Qui a registrarsi è una caparbia fedeltà al testo che induce il critico ad una lettura che non si attardi, o non subisca rallentamenti davanti a scarsa conoscenza delle fonti alle quali invece costantemente volle rifarsi il poeta: e attraverso lo studio delle quali si perviene al recupero di significati che in qualsiasi altro caso andrebbero irrimediabilmente perduti. 

Non meno diligente risulta l’analisi condotta sulle pagine di documentazione critica fiorita, senza soluzione di continuità, sulla figura e l’opera di Eugenio Montale. L’amico Montale viene sottoposto allo scrupoloso esame della sua squisita sensibilità interpretativa, mentre il rigore analitico sottolinea le indubbie difficoltà di decodificazione del verso. Difficoltà acuite dal fatto che il poeta ha sempre dispensato, anche agli amici, con molta parsimonia e con ampie riserve, la verità sugli enigmi dei propri versi, fino a depistare, e con gusto, la critica più invadente e sprovveduta. 

Ma se il suo era un gioco, o un ironico riserbo che lo sorreggerà anche quando si accorgerà di essere il più vecchio del «Nobel», il corpus del Bonora lo svela penetrando, con i piedi di piombo, nei meandri delle censure ed incastonando tessere fondamentali nel complesso e celato mosaico della sua poetica. Affondando il bisturi nei recessi più inospitali del ‘suo’ autore il Bonora ne scopre, oltre all’inventiva ed all’ironia, anche l’amarezza finale, la tristezza di chi si vede costretto a demolire quegli ideali di ‘coscienza’ di ‘sensibilita’ e di ‘dignità’ per i quali ha lottato, ponendo in discussione tutto, financo la cultura. 

Come non è difficile arguire, l’impresa di sistemazione critica non è stata certo delle più agevoli, in considerazione anche del ventaglio di linee orientative prospettate e delle difficoltà di selezione; ma questo conferisce maggior lustro ad un volume che, con i tre precedenti, più che utile è fondamentale per gli addetti ai lavori, ma che torna illuminante anche al lettore comune non disattento che vi potrà apprezzare, su un registro interpretativo, metodologicamente ineccepibile, una assai bene articolata indagine che lo rende strumento imprescindibile per una «paideia» montaliana fuori dai canoni libreschi e dal manierismo di schemi canonizzati. 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 41-43.




 Un amore che si trasfigura 

A. Gamboni Mercenaro, Poesie d’amore e altre, Poggibonsi, Lalli 1989 

“Ho scritto questi versi con una penna-scandaglio riproponendo il tema antico e sempre magico dell’amore”, È questa la frase che apre l’autoprefazione alla raccolta di liriche di Antonio Gamboni Mercenaro. Una frase che, a primo acchito, potrebbe suonare come una disarmata e disarmante banalizzazione dell’eterno tema sentimentale, indagato ancora una volta, con lo scandaglio del rabdomante alla ricerca di un amore totale che non troverà. 

Ma in una poesia di intonazione eccezionalmente leggera, qual è quella di questa silloge, ove oggetti percepiti come frammenti della realtà dispongono ad una specie di idillio vissuto, aleggia un pathos lirico pregno di sensuale tenerezza: «La tua bocca una scialuppa di baci/ … / I tuoi seni due gole di tortora» “(Dormivi, pag. 27). Una tenerezza che illegiadrisce una passione ardente e fuga una malinconia che è fin troppo naturale in un uomo che sente riaccendersi d’amore per “tutte le donne che con il loro affetto hanno dato veste ai [suoi] sentimenti” (Dedica). 

Ed è proprio la contemplazione amorosa, evocata in Le tue dita di vento (pag. 24), ripresa in Sei bella quando ridi (pag. 33) e pur non chiusa in L’ultima volta (pag. 38), che porta il poeta verso simboli e verso metafore che sublimano. in un’unica, superiore sfera gnoseologica, la storia personale e la storia dell’umanità, sola e sofferente, che ha, come il poeta «[…] cuore di spugna seccai e labbra sterili di risa» (Nessuno, pag. 62). 

E benché Gamboni Mercenaro nei suoi riferimenti culturali non sia sempre prevedibile, anche perché montalianamente gli basta poco per ricavarne sostanza di poesia da letture più o meno recenti, non è difficile rilevare un suo debito al platonismo rinascimentale. Un platonismo “mediato” tra Gismondo e Perrottino che ricrea l’immagine di un cuore «vaso/ nel mio petto/ con un pesciolino rosso / Il mio cuore/ sei tu!» (Sei tu, pag. 46), ma che non rifiuta, anzi accoglie di Lavinello l’idea che «il silenzio è la preghiera udibile/ dell’anima che cerca Dio» (Il silenzio, pag. 71). 

Un amore, dunque, a tutto tondo, “nel senso più vasto”, sentito, anzi avvertito come una promessa di liberazione dell’umanità: un amore che si trasfigura per adattarsi ad una esperienza autobiografica, e nel contempo si significa e si alimenta della nota melanconica e solitaria. Proprio con “solitudine” e “notte” si apre la silloge: «La notte è solitudine densa»: «La notte è luna mussulmana»: «La notte è quercia dura» (Luna mussulmana, pag.11): per perpetuare questa”preziosa” melopea con le tre lettere ad una donna dove dai dadi truccati dentro «l’urna della solitudine», si passa all’eco di una rata scaduta, per concludersi nello slontanamento di uno «scoglio franato dal dirupo» che pur non cede alle insidie del mare ostile della vita. 

Per concludere queste brevi note non ci resta che rilevare le non poche reminiscenze da lettore colto che sono sparse per tutta la raccolta: essa non è corposa, dimostra tuttavia non poca familiarità con la lirica neosperimentalistica 

dell’ultimo Novecento: e non è azzardato dire che qui si tenta l’apertura di un frammentismo di maniera che, nel toccare le varie corde dell’amore, testimonia di una fine sensibilità “pudicamente” manifestata con navigato mestiere. 

Vito Titone

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 58-59