La nascita di Afrodite 

Era un’alba radiosa di primavera, 
la terra sorrideva e tra le fronde 
lo zèfiro spirava leggero a sera. 
Il mare con lento moto dell’onde 
carezzava le coste di Citèa. 
Si cullava in una conchiglia 
baciata dal sole, in cocchio regale 
una dea di Zeus figlia. 
«Afrodite! Sull’azzurro mare sale 
con i tritoni e delfini!» – disse Zeus, 
accostandosi a riva. 
Così Afrodite, con moto del capo vezzoso, 
scrollòl’acqua dai capelli, balzò come diva. 
Al suo passo si placò il mare focoso. 
Erbe e rose spuntaron al suo passo graziato. 
Felice fece tutto l’Olimpo in quel dì radioso, 
germogliarono le zolle al suo delicato fiato. 
Giovanni Teresi 
Dies natalis Veneris 

 

Collucebat prima lux veris, 
ridebat terram et frondes 
Zephyrus afflabat levis vespere. 
Mare undarum lento motu 
permulcebat Citherorum litora. 
Movebat se in concha, quasi in cuna, 
sole circumdata, sicut in regio curru, 
una ex diis Iovis filia. 
«Ecce Aphrodite! Super caeruleas aquas salsas 
cum tritonibus et delphinis!»- dixit Iuppiter 
dum ea accedit ad oram. 
Ita Aphrodite, pulchri capite quasso, 
excussit aquam e capillis, repente se tollit. 
Dum incedit maris motus se vehemens placavit. 
Herbae et rosae exortae sunt pede venusto. 
Beatum fecit totum Olympum illa die fulgenti, 
levi halito eius orta sunt germina. 

Giovanni Teresi

(vers. lat. di Gioacchino Grupposo) 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pag. 51.




BLU E OLTRE 

 Lì dove soffia il vento sottile 
tra le fragili nuvole 
abita la verità ineluttabile 
della profondità dell ‘ universo, 
il divino ingegno. 
Equilibri, orbite, vuoti 
avvolti nel blu e oltre 
annullano il tempo, 
la loro presenza / assenza in bilico 
sull’ unico filo d’ eterna luce. 
Lì oltre il blu, 
altre stelle brillano 
nella via dell’universo. 
Grandezza incommensurabile, 
incontenibile 
nella fragilità dell’ essere. 

Giovanni Teresi 

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 48.




 «L’uomo è nato libero e ovunque è in catene». Rousseau: teorico della democrazia o padre del totalitarismo? 

di Anna Vania Stallone 

Riflettere su un’immagine di democrazia quale forma di regime politico, sia pure del popolo, è necessario per prendere consapevolezza dei limiti di questa forma di governo e della sua vulnerabilità. Il fatto che della democrazia venga spesso fornita un’immagine fuorviante deve portare a comprendere fino a che punto sia lecito definire Rousseau «padre del totalitarismo» quanto piuttosto non sia opportuno continuare a considerarlo il teorico della democrazia, come si è fatto finora. La riflessione inevitabilmente deve partire da un’analisi attenta del pensiero di Jean Jacques Rousseau, anche se di democrazia e di forme di governo non fu certo il primo a parlare. 

Già Erodoto, portavoce della saggezza politica della Grecia antica, parlava di tre forme di governo: di uno, di pochi e di molti, considerando la democrazia la migliore tra queste, anche se come le altre due era soggetta a degenerazione, scadendo nella demagogia. Platone, poi, nella Repubblica teorizzava lo Stato perfetto, concependo in modo ideale l’aristocrazia o governo dei filosofi, ma, come Erodoto, contemplava le diverse forme di governo, individuando le possibili degenerazioni nella timocrazia, nella oligarchia e nella tirannide. Anche nel Politico Platone si sofferma a riflettere sulle diverse forme di governo e precisa ulteriormente che è la presenza o la privazione delle leggi a dare ad un governo un’impronta positiva o a determinarne la degenerazione. 

Seppure le leggi non possano prescrivere il bene per ognuno, considerato il loro carattere generale, Platone ne ribadisce comunque la necessità, poiché esse, data questa loro caratteristica, indicano ciò che è meglio per tutti. Fissate le leggi nel miglior modo possibile, esse vanno rispettate e conservate, poiché la loro assenza determina la rovina dello Stato. È Platone a dare lezione di autentica arte politica, individuando nella giusta misura la caratteristica dell’uomo politico che deve evitare l’eccesso o il difetto. 

Una riflessione politica di tutto rispetto viene ancora fornita, in ambito filosofico, da Aristotele, il quale, partendo dalla necessità per l’individuo della vita associata, poiché egli non basta a se stesso, si pone il problema della costituzione più adatta, affermando, nel IV libro della Politica, la necessità di un governo non solo perfetto, ma attuabile ed adattabile a tutti i popoli. Egli parte da una critica rivolta alle costituzioni esistenti per pervenire alla costituzione perfetta. Come Platone, anch’egli prende in considerazione monarchia, aristocrazia e democrazia e ne analizza le corrispondenti degenerazioni che vengono messe in atto quando il governo non ha più come fine il vantaggio comune, bensì il proprio. In modo specifico, soffermandosi sulla democrazia, egli distingue la democrazia, che si fonda sull’eguaglianza assoluta dei cittadini, da quella in cui il governo è riservato a cittadini con speciali requisiti, e quando nella democrazia prevale l’arbitrio della moltitudine, a scapito delle leggi, essa, dice Aristotele, si trasforma in tirannide. 

Facendo un salto nell’età moderna, la riflessione politica, passando attraverso il giusnaturalismo, concentra l’attenzione sul rapporto individuo-libertà, ponendo l’idea del diritto di natura al centro delle varie teorie. Dallo Stato assoluto di 

Thomas Hobbes a quello liberale di John Locke, la democrazia di Jean-Jacques Rousseau è sicuramente una delle più grandi concezioni politiche del mondo moderno. Considerare quello che la storia dall’ età moderna ad oggi ha offerto in termini di rivoluzioni e conflitti induce, non a formulare la costituzione perfetta, come è accaduto ad Aristotele, ma ad utilizzare differenti chiavi di lettura per gettare discredito su quelli che sono stati da sempre considerati i punti di riferimento ideologici del pensiero liberale, democratico o totalitario. Con molta disinvoltura è più semplice abbandonarsi a forzature revisionistiche piuttosto che ancorarsi a teorie e a principi difficilmente confutabili. 

Considerare Rousseau «padre del totalitarismo» è di certo una forma di revisionismo che disorienta il lettore comune, ma che certamente costituisce un input molto forte per chi è invece fermamente convinto che Rousseau non possa essere attaccato sui principi cardini del suo pensiero democratico. Seppure nel Contratto sociale sia egli stesso ad utilizzare espressioni che si prestano ad interpretazioni fuorvianti, come per esempio: «Il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto»1, certamente Rousseau vede la nuova condizione dell’individuo, dopo la stipulazione del patto sociale, non in termini di peggioramento, come in apparenza potrebbe sembrare, bensì come un miglioramento, in quanto, mentre nello stato di natura l’individuo era esposto all’arbitrio degli altri individui, nello stato civile il vivere nel diritto comune gli dà quella sicurezza e quella certezza che mancava nello stato di natura: l’individuo nello stato civile si sente, dunque, protetto e in questo consiste il miglioramento. 

L’origine del contratto nasce comunque da esigenze ben precise: «Trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima.» Da queste parole è facile cogliere la teorizzazione e l’esaltazione della sovranità del popolo, che fanno del Contratto sociale il testo per eccellenza del pensiero democratico. Il contratto mira, infatti, a conciliare la difesa della vita, peraltro considerata punto forte anche del pensiero di Hobbes (teorico dello Stato assoluto), con la libertà, conciliazione che segna le distanze di Rousseau dall’assolutismo di Hobbes. 

Rousseau, infatti, non considera il superamento della guerra civile come obietti va della sovranità del popolo: «usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune»2, ma obiettivo della sovranità popolare è il superamento di uno stato di schiavitù per una vita da uomini liberi, e la libertà di autodeterminarsi per l’uomo si realizza solo nella società civile e mediante il contratto sociale. Conciliare, allora, difesa della vita e libertà è possibile per Rousseau, se tutti gli uomini diano se stessi e i propri diritti a tutta la comunità: è questa la clausola fondamentale del contratto, che pone gli individui in condizione di radicale uguaglianza, poiché entrano nella società creata dal patto tutti allo stesso modo: «dando tutti se stessi». 

Pregnante e densa di significato e di valore democratico è l’espressione che, ancora, si legge nel Contratto: «Chi si dà a tutti non si dà a nessuno, e siccome non vi è associato sul quale ciascuno non si acquisti un diritto pari a quello che gli si cede su di sé. tutti guadagnano l’equivalente di quello che perdono e una maggiore forza per conservare quello che hanno»3. Forse è da questa affermazione finale che nasce l’equivoco di Rousseau «padre del totalitarismo»? O non è più consono riflettere sulla prima parte dell’assunto e cogliervi, piuttosto, l’esaltazione della libertà? L’individuo, infatti, perde ciò che riceve e, dunque, mantiene la libertà che aveva in origine. 

Spostando l’attenzione sul concetto di volontà generale che fa tanto discutere, poiché a tale concetto si associa. come peraltro fa lo stesso Rousseau, quello di alienazione dell’individuo, va precisato che «l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità»4 comporta che nessuno (poiché tutti si trovano nella medesima condizione di eguaglianza) ha interesse a prevaricare sugli altri e la società stessa garantirà i diritti di ciascuno e servirà gli interessi di ciascuno e di tutti. L’alienazione è, dunque, a vantaggio dell’io comune, della volontà generale, l’alienazione è di sé a se stesso: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo, inoltre, ciascun membro come parte indivisibile del tutto»5. La volontà generale è per Rousseau l’espressione del bene comune, essa è ciò che vi è di comune negli interessi particolari di ciascuno: «Soltanto la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune.» 

La fiducia totale nella volontà generale è bene evidenziata da Rousseau laddove, ancora nel Contratto, si legge: «La volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica»6, anche se tale fiducia non è condivisa dagli esponenti del pensiero liberale che paventano, proprio a partire da tale volontà, una sorta di «dispotismo della maggioranza», timore che anche Aristotele, come già detto, aveva manifestato riguardo alla democrazia, la quale, quando lascia prevalere l’arbitrio della moltitudine, rischia di trasformarsi in tirannide. A questo punto, timori e perplessità, non presenti certo in Rousseau, potrebbero portare ad interrogarsi: chi è divenuto storicamente l’interprete della volontà generale? Il partito, il fuhrer, le oligarchie … 

Che la storia offra esempi numerosi di degenerazioni delle varie forme di governo, degenerazioni già teorizzate nell’antichità classica, è un dato di fatto e, in quanto tale, inconfutabile, questo però non deve portare a pensare che chi ha teorizzato dette forme di governo debba essere etichettato a partire dalle degenerazioni e non, piuttosto, dalle idee, sane peraltro, che ha messo a punto! Sostanzialmente si vuole affermare che definire Rousseau «padre del totalitarismo », a partire da quelle che sono state storicamente le degenerazioni del sistema democratico moderno da lui teorizzato, è davvero una forzatura. Prendere in esame il periodo del Terrore e non considerarlo quale degenerazione politica della Convenzione che avrebbe dovuto governare la Francia democraticamente, mentre si è scaduti nella dittatura di Robespierre, e attribuirne la paternità a Rousseau, potrebbe portare, mutatis mutandis, a riflettere sul fenomeno fascismo e, anziché considerarlo frutto della crisi del liberalismo italiano, attribuirne la paternità a Jonh Locke. Cosicché anche Locke, come Rousseau, si vedrebbe addossata l’etichetta di «padre del totalitarismo». 

Tutto ciò rasenta l’assurdo. È lecito, semmai, concordare con Jonh Stuart Mill, quando parla della tirannia della maggioranza, che è più pericolosa del dispotismo dei re del passato, così come è lecito difendere la libertà non solo dal dispotismo ma anche dal conformismo di massa in cui sono scadute le moderne democrazie. Alexis de Tocqueville, nella sua opera La democrazia in America, è tra coloro che ritengono legittimo rispettare il majority rule, cioè il principio di maggioranza. E la democrazia, infatti, trova la sua sostanzialità proprio nella maggioranza che, sulla base dei consensi ottenuti alle elezioni, governa, mentre la minoranza costituisce l’opposizione. Questo è il sistema migliore per la democrazia. Ma la preoccupazione di Tocqueville emerge quando sostiene: «Non vorrei che il potere di fare tutto, che rifiuto ad un uomo solo, fosse accordato a parecchi»7, preoccupazione che è rivolta a quella degenerazione cui la democrazia potrebbe andare incontro sconfinando nel potere tirannico della maggioranza che comporta, per l’individuo, la perdita della libertà. 

Chiamare in causa Karl Popper potrebbe tornare utile per meglio comprendere il senso di quanto finora detto. Nell’opera La società aperta e i suoi nemici Popper ritiene che la democrazia non possa semplicemente caratterizzarsi come governo della maggioranza, ciò sarebbe, infatti, riduttivo. La democrazia si sostanzia, per Popper, nel limite che i governanti incontrano nel poter essere licenziati dai governati senza spargimento di sangue. La democrazia è tale nella misura in cui chi detiene il governo sia in grado di salvaguardare alla minoranza la possibilità di operare per un cambiamento pacifico della società, in caso contrario non si potrà parlare di democrazia, ma di tirannia. La lezione di Popper sulla società aperta, da lui considerata continuamente riformabile e migliorabile, apre la strada ad un ripristino della paternità del pensiero democratico che va, senza ombra di dubbio, attribuita a Rousseau. 

Avere definito Rousseau «padre del totalitarismo» significa essere partiti da un errore di fondo: avere considerato, cioè, gli avvenimenti storici dell’età moderna, in modo particolare la fase della radicalizzazione del processo rivoluzionario francese, non come «tentativi ed errori» della messa in atto delle teorie democratiche, ma come deliberate scelte politiche scaturite dalla coincidenza della volontà individuale con la volontà generale, scelte che avrebbero determinato una società in cui le parti, cioè gli individui, sono state subordinate al «tutto», dove il tutto ha prevalso ed ha predominato sulle parti. «In ogni campo possiamo imparare attraverso tentativi ed errori, facendo sbagli e miglioramenti […]. Dobbiamo aspettarci che, data la nostra mancanza di esperienza, saranno commessi molti errori che possono essere eliminati solo mediante un lungo e laborioso processo di piccoli aggiustamenti»8. 

Stallone Anna Vania

NOTE 

1. J. J. Rousseau, Il contratto sociale, a cura di V. Gerratana, Torino. 1977, p. 44. 
2. T. Hobbes, Leviatano, a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, 2000. 
3. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
4. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
5. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
6. J. J. Rousseau, op. cit., p. 42. 
7. A. de Tocqueville, La democrazia in America (a cura di G. Candeloro), Milano 1996, p.257. 
8. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, tr. It. R. Pavetto, Roma, 1973, p. 230.

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 17-20.




 Restituiamo a Gentile la sua identità 

Da qualche tempo si assiste ad un lavorio intellettuale finalizzato ad una sorta di riesumazione del passato, di quel passato che non passa, cui appartiene la figura del filosofo castelvetranese Giovanni Gentile, che alla neonata repubblica italiana appariva il filosofo scomodo, il simbolo del fascismo, il filosofo del «manganello». A distanza di oltre mezzo secolo Gentile non fa più paura, e si tenta di rivalutarlo, squarciando il velo dell’ostracismo che l’aveva coperto, per cogliere aspetti più o meno evidenti all’interno del suo pensiero filosofico-politico. Che si tratti di revisionismo storico è possibile, un giudizio storico infatti non è mai pronunciato per l’eternità; anche la più scrupolosa delle interpretazioni è suscettibile di mutamenti. 

Il revisionismo gentiliano presenta caratteristiche peculiari, anche se per certi versi simili a quello del tedesco Nolte. Se Nolte ha cercato di relativizzare i crimini nazisti (La guerra civile europea dal 1914 al 1945) interpretandoli come una derivazione-imitazione di quelli comunisti staliniani, allo stesso modo assistiamo ad un relativizzare la posizione di Gentile all ‘ interno del fascismo per mettere in evidenza aspetti della sua filosofia legati piuttosto all’ideologia marxista o liberalsocialista. 

Una pagina del revisionismo gentiliano è quella che ha cercato e scavato nelle opere del nostro filosofo, sottolineando quello che sicuramente in epoca fascista non poteva venire alla luce. Ecco allora che Gentile è diventato ispiratore del movimento liberalsocialista, lo vediamo sostenitore dell’antirazzismo (caso Kristeller), lo consideriamo aperto alle stesse istanze dell’antifascismo nel «discorso» del 24 giugno ’43, che ha ispirato interpretazioni diverse, talvolta contrastanti. Ma chi fu veramente Gentile? Perché mettere in secondo piano, o addirittura sconfessare, da parte di certa critica gentiliana, l’intima convinzione fascista del filosofo? Forse la sua centralità nel mondo intellettuale del ‘900 filosofico verrebbe a essere offuscata? 

Eppure studiosi di grande portata rifiutano l’immagine di Gentile filosofo del fascismo, sostenitore del totalitarismo, e cercano di accreditare l’opposta figura di un Gentile paladino della libertà. Se è vero che, dopo il delitto Matteotti, Gentile prese le distanze dal fascismo, è anche vero che la sua adesione al fascismo sopravvisse a questo difficile momento. Tanto che nel 1943, aderendo al governo fantoccio, dimostrerà sicuramente la sua coerenza morale, ma anche la sua fedeltà al regime. 

Un momento di riflessione su qualche pagina di Genesi e struttura della sociepotrebbe aiutarci a restituire a Gentile la sua vera identità. Là dove si legge: «La forza del volere, in quanto forza che si chiama diritto (dura lex sed lex), è il volere voluto, che si pone come limite alla libertà», emerge una concezione che riduce il diritto alla forza, che si concretizza nella realtà politicamente organizzata, cioè nello Stato. Visione del diritto che porta Gentile verso posizioni antitetiche rispetto a quelle su cui poggia invece il liberalismo moderno, che si fonda, al contrario, sul diritto naturale. 

È il diritto naturale che fa da substratum a qualunque diritto positivo e che a questo conferisce validità. 

Gentile filosofo della libertà? Ciò che sostiene Gentile è distante, addirittura, dalla stessa visione del diritto di Hobbes, da sempre considerato teorico dell’assolutismo, ma che, in questo caso, sarebbe di un assolutismo, direi, più moderato rispetto a quello gentiliano. Hobbes ha riconosciuto, infatti, come via d’uscita dell’uomo, dalla guerra di tutti contro tutti, quella di un diritto naturale che comunque non è infallibilmente realizzata. Il «volere voluto» che leggiamo in Gentile è il diritto come forza, che si è realizzato, che si è tradotto in legge, non un diritto come dover essere, ma come identificazione di dovere essere e essere, come identificazione di norma e realtà. 

Questo è sicuramente l’insegnamento che Gentile ha ereditato da Hegel e che, come Hegel, lo distanzia dalla stessa concezione kantiana del diritto. Hegel prende le distanze da Kant per il quale il diritto è «l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell ‘uno può accordarsi con l’arbitrio dell’ altro, secondo una legge universale della libertà». Secondo questa teoria, diritto naturale e diritto positivo non differiscono, ma la loro di versità consiste nel fatto che il diritto naturale si fonda sui principi a priori e il diritto positivo nasce invece dalla volontà del legislatore. 

Hegel sosteneva che, accolta la volontà del singolo, la sua individualità particolare, il suo particolare arbitrio, siamo scaduti nella «superficialità» del pensiero da cui sono scaturiti gli orrori della rivoluzione francese, ed è a questa e alle teorie illuministiche che Hegel sferra il suo attacco. 

Dentro l’influsso del pensiero hegeliano matura la riflessione etico-politica di Giovanni Gentile, che ancora in Genesi e struttura della società continua a parlarci di «limite necessario» che non può mancare. Questo, per Gentile, «è il momento del diritto, dello Stato come autorità, che è volere potente, innanzi a cui deve cedere l’arbitrio», parole che si commentano da sole, forti, che segnano la distanza dalle teorie liberali alle quali Gentile è stato forzatamente avvicinato. Le leggi vengono a limitare così le libertà degli individui, singolarmente presi. Ogni arbitrio individuale deve cedere di fronte alla volontà universale dello Stato, «lo Stato è lo stesso individuo nella sua universalità». In questa visione diventa costitutiva, dello Stato la forza, l’autorità. Una vera e propria ripresa della concezione hegeliana del primato dello Stato sugli individui, di contro al pensiero liberale che, rivendicando la priorità dei diritti individuali, intende salvaguardarli dalle eccessive ingerenze dello Stato. 

È questa l’identità che Gentile rischia di perdere e che, pur non condivisa da tutti, non pregiudica «il convincimento che il filosofare gentiliano è prima di tutto una condizione speculativa anche per quanti militano, per così dire, sotto altre bandiere filosofiche» (N. Abbagnano). 

Anna Vania Stallone

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 20-21.




Un ponte tra l’effimero e l’Immenso e maturità poetica di Tommaso Romano 

Emana un fascino singolare la poesia di Tommaso Romano, recentemente riproposta in questa ricca antologia. Una riflessione in versi lunga quarant’anni, un’instancabile interrogazione esistenziale vibrante di tensione etica ed ansia gnoseologica, che ne fanno un originale esempio di poesia-pensiero di ascendenza filosofica. Una vera e propria Weltanschauung (mai termine fu più appropriato) si dispiega in queste liriche ‘elementari’, spesso d’intensa brevità come quelle che compongono la prima sezione della raccolta, costruite sull’ossessivo ritorno di parole-chiave – tutto/nulla, vita/ morte. Liriche dall’ apparente freddezza cerebralistica, e che invece lasciano affiorare, con straordinaria efficacia, un flusso di coscienza al contempo oscuro e profetico. 

Si affaccia l’ombra del nichilismo in questa solipsistica confessione di un mondo inteso come «chaos di vuoti senza uscite», apparentabile al mondo come «grande deserto» cantato da Sbarbaro, un universo astratto e metafisico dove si staglia la reverie sonnambula del poeta, quella che risente ancora delle atmosfere del sogno notturno: «Il mio era pensiero triste; / camminavo e la via era deserta / non vidi bene, / la nebbia, pensai, / e continuai i tristi sogni / ad occhi aperti, ma non sognavo, piangevo». La componente gnomica di questi versi giovanili, immersi in un clima di stanchezza esistenziale, scandito dai rintocchi inesorabili del demoniaco Χρóνoς, si ritrova con sorprendente coerenza anche negli esperimenti poetico-visuali d’impronta futurista, come se dietro la parola agita, quella che graffia la superficie del foglio, s’insinuasse sempre il rovello filosofico, ma anche l’istanza religiosa scaturente dall’urgenza di sfidare il Tempo, lanciando un ponte fra l’Effimero e l’Eterno: «linfa / latomie / in fiore / accende / il suono / anelito / vita-morte / apparenza / D.N.A. = eterno / amen». 

È proprio di una duplicità di piani che si sostanzia la poesia di Romano, oscillante fra un’ anima futurista, piena di élan vital – specchio dell’ anima agens dell’autore – e una tormentata vena intimistica – l’anima cogitans, che spesso prende il sopravvento. Quasi che la cognizione dolorosa della sostanza effimera delle cose umane – il mondo delle apparenze – frustasse in partenza l’ansia febbrile del fare, a meno che questa non si orienti in tutt’altra direzione, nell’ottica di una panteistica trascendenza, di un superamento del transeunte. Quest’ansia di Assoluto, del resto, scaturisce proprio dalla consapevolezza senecana dell’implicito legame tra la vita e la morte; da qui il ritorno ossessivo di questa diade nelle poesie dell’ autore, che trova un precedente illustre soltanto in certe meditazioni filosofiche michelstaedteriane: «Vita, morte / la vita nella morte; / morte, vita, / la morte nella vita». 

Guarda caso, proprio Michelstadter invocherà, nella sua ansia di redenzione, la figura di un Salvatore inteso come l’antiZarathustra, e Romano, sottraendosi alla delusione del quotidiano, rilancerà sempre la sua sfida a Χρóνoς, nell’attesa salvifica dell’Eterno. Una sfida reiterata anche nei componimenti più maturi, quelli che compongono la seconda sezione dell’antologia, dove un lirismo nominale traduce la frammentazione del vivere, di cui il poeta fa l’inventario: «La mia solitudine, / una canzone di Leo Ferrè mille volte ripetuta / un pezzo di piombo / miraggio d’immortalità, / qualche poeta maledetto / nostalgie di memorie perdute / vecchie stampe e fiabe sui castelli / carta su carta / di mistici, filosofi e sapienti … » Ma ciò non basta e allora l’autore, «qualche volta incatenato alla noia / – apprendista eremita -» ricompone esausto ogni giorno «frammenti d’esistenza mortale / in attesa d’eterna, sacra quiete». Perché la sua vera aspirazione è quella di fuggire la noia, il cui alleato più fedele è proprio il Tempo, dio sinistro e implacabile, veicolo di lutti e sventure. 

A dare corpo a quest’inesausta riflessione è allora una pronuncia scarna e rigorosa, che non si compiace in vacui estetismi, so stanziata di memorie poetiche – Ungaretti, Rebora, Caproni, Luzi – ma sostenuta anche da memorie filosofiche – ad esempio Julius Evola, traduttore degli oscuri e profetici Versi doro dei Pitagorici – e soprattutto di memorie musicali, – Beethoven, Wagner, 

Dvorak, Malher – che dettano al testo un’orchestrazione polifonica, rimandante i diversi stati d’animo dell’ autore. Certo, il tono dominante è quello luttuoso-malheriano della quarta sinfonia, eppure, coerentemente con queste fantasie funeree, si celebra l’ansia metafisica dell’io, la dolcezza addolorata che ci rammenta la caducità del vivere e, al contempo, la «speranza dell’altezza». Quello della morte è infatti uno dei leit-motiv delle liriche, la morte che «prende ogni giorno» come «un implacabile doganiere asburgico», ma in un misterioso rito iniziatico è possibile «rigenerare i corpi / eternare la vita / al fuoco sacro». Il desiderio di risarcimento nella sfera del Sacro non rimuove tuttavia la consapevolezza dolorosa della finitudine umana: «So che ricerco infinito / più arduo è comprendere quest’ esistente / che risveglia dai sogni / inesorabile e scarno»; «È facile invocare il sole d’Eone / più difficile ammettere la paglia umida di Chrònos». 

La quotidianità, fatta di urgenze e «diari di bordo», è analizzata sempre con ironico distacco, e persino le incombenze della politica, ridotte talvolta a monotona routine priva di significato, sono spogliate di qual si voglia narcisistico compiacimento perché è un’altra la meta cui anela il poeta, oltre le concatenazioni spazio-temporali, oltre i miraggi e le lusinghe inconsistenti. Ma, come dicevamo all’inizio, l’ansia prometeica è talvolta minata dalla stanchezza esistenziale, spesso oggettivata dai luoghi «in antica decadenza pietrificata», come la Venezia viscontiana de I logori merletti, o la Palermo tomasiana delle dimore avite, rose dall’usura del tempo. A fronte di questa condizione, di questa malheriana percezione del vivere, la parola poetica, misurata ma straordinariamente pregna d’intensità espressiva, si configura allora come «esmesuranza», enfasi e delirio beethoveniano, viatico d’intensa spiritualità per chi non accetta di piegarsi alla «vacua temporalità» del mondo, ma osa far risuonare, ostinatamente, la sua confessione nel deserto. 

Lavinia Spalanca 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 59-61.




GIARDINO DI IERI 

Inutilmente s’apre la finestra 
sul giardino di ieri. 
Ancora verde 
l’erba del prato. 
Il profumo dei fiori 
ora mi punge 
come 
il vociare gioioso dei bambini 
che fummo. 
E guardo appena. 
Perché non c’è una porta. 


Lilia Souza 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 53.




NEI MEANDRI DEL TEMPO 

 Nei meandri del tempo a ritroso 
ripercorro le galassie del mondo: 
i fondali marini, le vette, l’ombroso 
mio cielo, le nubi squarciando 
con luce del cuore redento. 
Ho lottato con le tigri celando 
teneri agnelli agli artigli 
dell’antico nemico: ho nascosto 
ritornando fra le orme torchiate 
di porpora e giallo come sogni sfumati 
dell’ alba, ho ascoltato i suoni dell’ora 
più vera, la sera, sperando fioritura 
d’ inverno di germogli per sempre perduti. 

Francesca Simonetti 

DANS LES MÉANDRES DU TEMPS 

Dans les méandres du temps je reparcours 
à reculons les galaxies du monde: 
fonds marins, hauts sommets, ombres 
de mon ciel; je déchire les nues 
avec les rayons de mon coeur rédimé. 
J’ai combattu des tigres et soustrait 
de tendres agneaux pattes, griffues 
de l’ancien ennemi: j’ai caché 
papiers et livres sous les frondaisons, 
en retournant sur mes empreintes piétinées 
de pourpre ed d’or comme reves évaporés 
de l’aube,j’ai écouté les sons de l’heure 
véridique et vespérale, en escomptant 

l’hivernale floraison de bourgeons perdus à jamais. 

versione francese di J.P. de Nola

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 52.




DICEMBRE A PALERMO 

 Solo dicembre 
qui prelude all’inverno 
perché il sole è ancora 
dolce e luminoso a tratti. 
L’araba mollezza si protrae 
per la magia dei suoni e dei colori, 
le facciate antiche 
illuminate nel contesto 
del mistero delle chiese sparse, 
ovunque c’è un mercato o il mare, 
parlano di una città 
regina e prigioniera, 
nobile negli intenti ma caduca 
e vinta nello svolgersi silente 
di tragedie e d’eventi … 

Francesca Simonetti 

Conversazioni per una poesia, Ila Palma, Palermo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 39.




F. Grisi, Affettuoso sentiero, Palermo 1995.

Una plaquette in versi di Francesco Grisi, Affettuoso sentiero, pubblicata elegantemente dalle edizioni Thule di Palermo. Collana “Oltre il sole” diretta da Tommaso Romano. Un volume prezioso. Occasioni per riflettere e per inoltrarsi assieme nei viali della memoria. Ma, attenzione. La poesia di Grisi è sorpresa. È un cerchio che non si chiude nel .chiaroscuro del ricordo. Il diario è vitale. Segreto e vibrante. C’è nostalgia stemperata nell’allegria. Perché per Grisi il passato è sempre strettamente connesso al futuro. Tutto è avvenuto e tutto è avvenire. Ecco. Il gioco dinamico del poeta. Il gioco infinito. Luci e ombre. Momenti e figure. E il giocoliere che agisce. La grande magia accomuna la tradizione all’iperbole. Infrange usato e abusato. Non sopravvivono diaframmi. Lo spazio è aperto nel vento fresco dell’immaginazione del sentimento. Le occasioni. I motivi. Chi mi legge e chi legge Grisi da tempo capisce. 

La trama si dipana su temi ormai familiari al lettore amico. La Calabria dove sempre -un fremito scorre tra le pietre•. Cutro e Crotone. -La stagione dell’infanzia / quando l’acqua tremava sulla pelle•. Il mare -colorato con musica-musica / in variazioni tonali•. La figura del padre: -Con te rivivrò mattini di rugiada e ricorderò le lunghe stanchezze del crepuscolo.. L’Umbria. Todi, -città misurata in secoli•. La donna -nata tra cavalli sognati / e calici colorati di vento•. Roma, appena intravista: -Camminiamo tra le foglie accartocciate / dei platani. Gianicolo. / L’autunno romano cicaleggia•. E poi c’è Cristo. E c’è Dio: -Tu sei l’infmito senza geometrie / e io sono nel cerchio confinato•. 

Ma, come dicevo, è un cerchio che non si chiude e si apre a orizzonti sempre più vasti. Ventitré poesie. Ventitré perfette occasioni nelle quali Grisi tiene fede a quanto esplicitamente dichiara a chiusura della breve intervista in apertura al volume: -La vocazione-uomo è quella di ‘raccogliere’ tutta la storia del mondo•. 

Pierpaolo Serarcangeli

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pag. 31.




Giuseppe Ferrante, Un treno lungo più di cent’anni sino ad Enna da Castrogiovanni, Palermo, Ila-Palma, 2010.

Storia siciliana del I Novecento 

Una storia siciliana dell’emigrazione, uno spaccato di usi e costumi siciliani misti a valori di un umanesimo novecentesco scomparso nei dedali della modernità repubblicana e dell’attuale nichilismo morale che lo scrittore Giuseppe Ferrante rievoca in questo romanzo della memoria, la cui trama s’intreccia con l’epoca fascista che nel 1936 ribattezzò la città di Castrogiovanni in Enna e con certe riflessioni del protagonista Giuseppe senza esondare nel genere del romanzo di idee. Dunque, un romanzo della memoria, a tratti storico. 

Giuseppe, natìo di Castrogiovanni, è un giovane sognatore, bello come un adone, in cerca di affermazione e riscatto dalla consueta arretratezza siciliana. Quando partì alle h. 4,50 per Catania, era riuscito a maritare Maria, la ragazza più bella del paese. 

La partenza è il cauterio secolare dei siciliani che tuttora partono in cerca di fortuna. Insieme alle tiritere dello stereotipo mafioso, questo dell’emigrazione è un tipico remarque della letteratura siciliana, che Ferrante ha avvolto in una prosodia nostalgica che permea tutta la narrazione. Il treno a vapore non solo simboleggia il progresso e le aspirazioni dei siciliani che sperano nel distacco veloce dall’arretratezza, ma nello stesso tempo è il feticcio narrativo di una ambiguità che non recide il cordone ombelicale con la terra natìa, e si presume mezzo di ritorno al punto di partenza. Uno stereotipo, dunque, che tuttavia l’opera di Ferrante impregna di una umanità che reagisce e non si piega alla protervia di un canone violento, ovverosia mafioso. Sotto questo profilo, èun’opera originale che ha meritato la fiducia dell’Ila Palma, nota casa editrice palermitana che pubblica all’insegna della qualità. 

Il viaggio di Giuseppe non è un percorso fine a se stesso, ma è uno slancio interiore che dura «più di cent’anni», ovverosia, oltre lo spirito d’iniziativa che scema in misura inversamente proporzionale all’etàanagrafica. Una statistica che sembra tanto ovvia quanto la necessità che l’esperienza del protagonista si tramandi ai suoi figli, lasciando subodorare al lettore la storia futura di questo prevedibile fato che non perde i connotati della sicilianità dopo avere perduto la congenita negligenza della sicilianitudine: un altro marchio impresso come un cauterio dalla cronaca e dalla letteratura nostrana. 

La struttura ellittica del romanzo si scopre presto, e il feedback è dietro l’angolo. Infatti, la tensione narrativa esaurisce tutta la sua energia nelle vicende amichevoli spese senza tradimenti o congiure. Un’amicizia di vecchissimo stampo, un legame indissolubile, quasi la realizzazione perfetta della filosofia epicurea incarnata da Mario, il maestro di vita di Giuseppe. Insomma, il vero amico è un filantropo, un ottimista capace di dare senza chiedere nulla in cambio. Ad onore del vero, la moglie di Giuseppe, Maria, sentirà spontaneamente il dovere di ricambiare l’ospitalità offerta senza condizioni, garantendo un felice desco quotidiano a tutti gli ospiti della grande casa signorile. 

Sappiamo bene che stature spirituali così alte, purtroppo, non esistono più. Ciononostante, dall’unità d’Italia in poi, è proprio la Sicilia a vantare il maggior numero di filantropi del fare e del dare in amicizia, con onestà e umanesimo solidale. E oggi, uno, non più di due, sono tuttora in vita: che Dio li renda immortali!, affinché siano esempio di abnegazione contro l’intoccabilità delle caste che approfittano dei più deboli fino al delirio d’onnipotenza. 

Il romanzo è ambientato bene. Inizia dalla fine del XVIII secolo e si conclude alla metà del XIX. Nel mezzo, il tempo del dominio regale dove incise l’arretratezza culturale, ma anche un periodo di transizione storica dalla terra all’industria: la posa delle strade ferrate e le macchine a vapore sono la nuova forza motrice applicata al servizio dell’uomo e della produzione; la radio e le traversate transoceaniche fanno sognare il popolino curioso di alterità e l’incetta di notizie è preda di esagerazioni popolari che ingrandiscono a dismisura il mantello della fama; il mito dell’Arcadia è ricorrente, ma lo scrittore Ferrante non esagera, anzi lascia decidere a Giuseppe di quale fato fidarsi. E lui, artigiano del berretto, decide bene, non volta le spalle alla fortuna e insieme alla famiglia raggiunge Alessandria d’Egitto. 

L’autore intesse la sua trama intorno al saggio Mario, il ricco borghese di origini triestine, benefattore di Giuseppe e mentore dell’umanità Dopo la morte di costui, il romanzo si inonda di nostalgia e rammarico. La morte del filantropo porta pesantezza esistenziale, i rapporti economici e sociali di Giuseppe con la gente d’Alessandria d’Egitto si adombrano di sospetto e malafede e Giuseppe entra in crisi, diventa abulico. La borghesia alessandrina è ipocrita e snob, incline alla sufficienza e all’affettazione della verità. E mentre scivola nell’ozio, tradisce Maria per la seconda volta, ma Elisa non è innamorata, ama la lussuria. Egli si sente usato. La società egiziana è volgare e violenta, non tollera neanche la marachella di un bambino. 

Il punto di vista del narratore esterno che corrompe il contesto rivela al lettore la natura melodrammatica della stesura. Il treno è un simbolo onnipotente. Come trascina i vagoni, esso trascina con leggerezza i sogni di Giuseppe, a cominciare dall’amore indelebile della moglie Maria capace di resistere ai rovesciamenti a favore di una meticcia che tradirà il marito incapace di apprezzare la sua femminilità e dolcezza. Fatima è una bella donna. Questa parte centrale del libro denuncia un Ferrante nello stato di grazia che, purtroppo, coincide frettolosamente con l’inizio del denuement. Non inizia la stesura di un romanzo di idee, bensì il contesto si piega alle introspezioni destinate ad esaurirsi subito, perché le paturnie sono dichiarate, non traspaiono fra le righe. 

Giuseppe decide di tornare a Castrogiovanni, dove produrrà berretti insieme ai figli, ormai giovanotti. La svolta è rosea, gli nasce una figlia, gli affari vanno bene, Maria indossa abiti da sera e gioielli da mostrare alla cittadinanza. Il primogenito che nel 1909 si specializza a Torino, tornato a Castrogiovanni, apre la premiata sartoria di piazza Balata. Sull’abbrivio del successo Giuseppe fa innamorare ancora, tradisce di nuovo e lancia una sfida commerciale ai ricchi commercianti della via Etnea di Catania. Tuttavia, la Sicilia di Ferrante danza il ballo del mattone, la vita di paese è quella della piazza e delle speranze riposte nei nuovi ideali fascisti. 

Il fervore patriottico investe anche Castrogiovanni che nel 1936 diviene capoluogo di provincia con il nome di Enna, dove Benito Mussolini è al centro di un aneddoto divertente che riguarda la preparazione di un minestrone. 

Scoppia la guerra. Se le notizie dal fronte non fossero state disastrose, queste pagine sarebbero lietamente intonate con la «sensazione che un passato stava per morire e che il sogno, anche degli ennesi, di un’era di grandezza e di progresso stava per avverarsi». Giuseppe morirà vittima non solo dell’età avanzata, ma di una brutta notizia che alimenterà un senso di colpa mortifero fino al crepacuore. 

Marcello Scurria 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 59-61.