IL SILENZIO DEGLI ASSENTI 

 L’edera silente 
invade orme 
cadute 
sopra carcasse d’alberi. 
Echeggia un canto. 
Compunto disumano 
in coro uguale. 
Crepaccio 
calpestato a fatica 
strada perduta 
battuta da passi impietriti 
di anime umane. 

Elena Saviano (da Un cielo che non c’è. Federico, Palermo. 2000)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 44.




BORGATA

BORGATA 

Vecchie e novelle viti 
accompagnano 
la strada antica, 
forti umili ulivi 
abbracciano il vento 
nascondono filari di palme, 
paesaggi orientali, 
casolari e bagghi. 
Odore di cespugli non ancora arsi 
di terra secca, 
pomodori messi ad asciugare, 
profumi di un tempo che mi vide 
bambina, scrigno di antiche memorie. 

Maria Pia Sammartano

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 38. 




Echi biblici in Leopardi 

 La Bibbia esercitò sempre una notevole suggestione sull’animo di Giacomo Leopardi; tale suggestione fu certo dovuta al fascino, tutto romantico, suscitato nell’animo del poeta dalla poesia primitiva. Il mito romantico della popolarità dell’arte non poteva non trovare rispondenza nel Leopardi fin dagli anni della sua fanciullezza. «Mi dicono, scriverà più tardi, che io fanciullino di tre o quattro anni stava sempre dietro a questa o a quella persona perché mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io in poco maggiore età era innamorato dei racconti e del meraviglioso che si percepisce con l’udito e con la lettura»1. Da questo gusto del meraviglioso derivò la sua consuetudine con la Bibbia che, più di tutte le grandi opere dell’antichità, stimolava la sua fantasia, colpiva la sua immaginazione di precoce poeta. «Gli episodi della storia sacra nutrivano, accanto all’anima pia, quella fantasiosa del fanciullo e trasformavano il mondo in un altare adatto ai riti dell’immaginazione»2. 

Nello Zibaldone3 il Leopardi insiste nel dire che negli anni della sua fanciullezza ebbe grande predilezione per l’immaginoso, per Omero e per la Bibbia che, «essendo i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della verità•. Il fascino della Bibbia, precisa il poeta, sta nella sua capacità di conciliare «l’immaginazione orientale e l’immaginazione antichissima». Tra l’altro c’è da tenere presente anche il fatto che la Bibbia era il testo su cui i figli del conte Monaldo facevano le loro prime esercitazioni letterarie e il conte amava le Sacre Scritture al punto da avere dedicato ad esse un importante settore della sua biblioteca. Nella produzione leopardiana, specie in quella dell’adolescenza, ricorre frequente l’ispirazione biblica, non tanto per profondità di sentire religioso, quanto per la convinzione che «la religione nostra ha moltissimo di quello che somigliando all’illusione è ottimo alla poesia». Il gran numero di canti giovanili ispirati alla Bibbia denota, oltre che un’intima attitudine alla poesia, anche una profonda congenialità tra il pessimismo biblico e quello del giovane poeta già provato dalle prime delusioni. 

Nel 1809 il Leopardi undicenne compone una prosa in latino, Adami creatio4 dove rivela, oltre ad una notevole e sorprendente, per quell’età, capacità di scrivere in latino, una fervida fantasia dominata dalla visione biblica di un Dio giusto e terribile: c’è l’eco di bibliche punizioni, la coscienza dolorosa della fragilità dell’uomo troppo debole di fronte alla grandezza terribile di Dio. 

Anche nel Balaamo5, dove viene ripreso il racconto biblico dell’asina parlante, il gusto, classico ed illuministico insieme, della chiarità degli squarci paesistici si accompagna alla compiacenza che il poeta sente nel rappresentare la natura così come pensava che fosse nei tempi primordiali della storia umana. 

Ne Il Diluvio Universale6 viene rappresentato il diluvio con colori cupi: la coscienza della fragilità dell’uomo è incupita dal sentimento di colpe antiche che debbono essere espiate. 

Ci sono notizie di altri scritti, andati perduti o comunque ancora sconosciuti, ispirati sempre alla Bibbia, come il poemetto Paradiso Perduto e il canto L’incendio di Sodoma, oltre alle prose Il Lamento di Agar su Israele, La sconfitta di Sennacherib, La morte di Jezabel. 

L’Inno ai Patriarchi, che ha la struttura dell’antico inno greco nel quale si raccontavano le vicende degli eroi e degli dei, è una galleria di patriarchi dell’Antico Testamento: Adamo che per primo contemplò «il giorno e le purpuree faci delle rotanti sfere e la novella prole dei campi»; Noè che salvò «dall’etra infesta e dal mugghiante equoreo flutto l’iniquo germe»; Abramo giusto e forte, padre dei pii; tutti rappresentanti di un’età in cui fu «amica un tempo al sangue nostro e dilettosa e cara questa misera piaggia ed aurea corse questa caduca età». Lo stupore di Adamo, la suggestione favolosa dei paesaggi biblici, la pietà di Abramo obbediente sempre alle leggi del Signore sono le immagini più felici, dettate dalla nostalgia dei tempi aurorali della storia dell’uomo: «la verginità aspra del paesaggio e delle forze naturali, vista attraverso gli occhi del primo uomo, ha il fascino di una sbigottita barbarie»7. Questo è il tema di più vera poesia che scaturisce dalla nostalgia del mondo primitivo che l’uomo non aveva ancora contaminato con la sua presenza. 

La suggestione esercitata dalla Bibbia è dovuta alla sua antichità: «L’antico è un principalissimo ingrediente delle sublimi sensazioni, siano materiali, come una prospettiva, una veduta romantica etc. etc. o solamente spirituali e interiori. Perché ciò? Per la tendenza dell’uomo all’infinito. L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’anima uno spazio di molti secoli produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato dove l’anima si perde»8. Il mondo biblico è bello anche perché è un mondo passato: «Il passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. Perché? Perché il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero; e tutto il vero è brutto»9.

Il pessimismo biblico – il Leopardi incominciò a leggere la Bibbia nei primissimi anni dell’adolescenza e pervenne presto ad un’ampia preparazione biblico-cristiana – fu congeniale al poeta e divenne, anche allo stato inconscio, parte integrante della sua personalità; per questo i libri dell’Antico Testamento più spesso richeggiati sono l’Ecclesiaste e il Libro di Giobbe. Nel Canto Nottumo soprattutto ricorrono i concetti biblici della vanità del tutto e dell’irrimediabile destino di dolore dell’uomo. Il pastore si chiede il perché dell’adoperarsi continuo degli uomini sulla terra, dell’eterno girare degli astri nel cielo e conclude dicendo di non sapere indovinare alcun uso, alcun frutto di tanto movimento; tutte le cose nascono e periscono, rinascono e svaniscono. Anche la Bibbia a questo interrogativo aveva dato la stessa risposta: «Generatio praeterit et generatio advenit; terra autem in aetemum stat. Oritur sol et occidit et ad locum suum revertitur; ibique renascens gyrat per meridiem etflectitur ad aquilonem. 

Lustrans universa in circuitu pergitur spiritus et in circulos suos revertitur. Omnia flumina intrant in mare, et mare non redundat; ad lacum unde exeuntflumina revertuntur ut iterum fluant»10. La risposta è identica: la ragione umana non sa spiegare niente: le conclusioni del Canto Notturno sono le stesse della Bibbia11; la battuta finale del Canto Notturno è quella di Giobbe che il Leopardi12 diceva esplicitamente di aver fatto sua. 

Ma il sentimento biblico della vanità in Leopardi assume un significato diverso perché viene filtrato attraverso !’ideologia materialistica e le conclusioni scettiche del pensiero settecentesco, mentre nella Bibbia questo sentimento nasce dal paragone tra il transeunte e l’eterno, tra il contingente e Dio. E poi mentre Giobbe conclude dicendo che «militia est vita hominis super terram», il Leopardi, non credente, si ferma alla constatazione che è funesto a chi nasce il dì natale. 

Così i motivi più importanti per i quali la Bibbia ebbe tanta influenza sul Leopardi sono: l’educazione religiosa familiare fondata proprio sul Vecchio Testamento; le moltissime esercitazioni condotte su quel libro fin dagli anni della fanciullezza; !’incontro tra il pessimismo biblico e quello del poeta; la suggestione dell’antico e dei tempi aurorali della storia umana. 

Il pessimismo presente nel pensiero illuminista e del quale, per fare un solo esempio, il Poema sul disastro di Lisbona di Voltaire, che il Leopardi certamente lesse, è una delle espressioni più significative, si arricchisce nel Leopardi di implicazioni bibliche; si realizza così una salda, anche se non appariscente. fusione tra conclusioni illuministico-settecentesche ed echi del Vecchio Testamento: le affermazioni illuministiche si colorano di suggestioni antiche. Il pessimismo del Vecchio Testamento dà al dolore del Leopardi dimensioni più ampie, risonanze più profonde e più antiche, colori più cupi; il dolore del poeta si spoglia delle situazioni contingenti e particolari, si proietta in una sfera atemporale e si assolutizza. Gli elementi filosofici di ascendenza illuministica. la sensibilità romantica del recanatese nelle sue diverse implicazioni, le vicende autobiografiche, tutto acquista un sapore di antichità. di ieraticità e, dunque, di universalità. 

Giacomo Sammartano 

(1) Leopardi, Zib. 28 luglio 182l. 

(2. M.Corti, “La Stampa”, 4 novembre 1971. 

(3) Leopardi, Zib. 11 maggio 1821; 28 luglio 1821; 28 settembre 1823. 

(4) Pubblicata su “La Stampa” di Torino del 4 novembre 1971. 

(5) Pubblicato su “La Stampa” di Torino del 21 ottobre 1971.

(6) Pubblicato su “La Stampa” di Torino del 21 ottobre 1971. 

(7) Giannessi, Letteratura Italiana. I maggiori, Milano. Marzorati II. p. 1049. 

(8) Leopardi, Zib. l agosto 1821. 

(9) Leopardi. Zib. 18 agosto 1821.

(10) Ecclesiaste III. 10. 11. 

(11-12) Leopardi, Zib. 1, 400. 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 27-30.




NEI MARI DELLA STORIA 

 Nei mari della storia muore la balena 
col piccolo come pochi nomi in grembo. 
In un nembo nel cielo, 
qui, sobborgo, crescono 
non riusciti aborti: 
nasini che colano di muco 
mischiato ad una ciotola e a un sorriso. 
Per loro un bruco che sta sotto terra 
brucia i polmoni e porta su diamanti. 
I petali staccati uno per uno 
non saranno nemmeno frutta informe 
dentro barattoli suggellati a fiocchi 
spalmati su pane da secoli raffermo 
ammorbidito da uno strano odore. 
Cambiare canale mille volte 
so ch’è triste quando la visione 
è un visone addosso a due realtà. 
Meglio essere convinto 
che la Signora Fine 
aspetterà chi viene sorridendo 
chi ha tolto dal fuoco le castagne 
senza assaggiarne una. 

Antonio Sammaritano

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 39.




MARIO POMILIO  NARRATORE

Nel 1960, Pomilio così scriveva di se stesso: «Il 1953 fu per me l’anno cruciale. Ebbi preoccupazioni familiari, che mi temprarono, ma anche la fortuna di diventare intimo di Michele Prisco. Con lui, per interminabili serate, discutevo di questioni estetiche e di narrativa. E l’idea di poter contare su un vero lettore mi spinse di nuovo a tentare: la lirica dapprima (segno che ero ancora pieno di incertezze), e naturalmente a tempo perso. 

Composi una raccolta, tuttora inedita. Una sera mi balenò uno spunto: l’immagine di un uccello rimasto chiuso in una cupola. In un primo momento non voleva essere più di una comparazione, l’inizio di una lirica; in un’ora di tensione febbrile mi s’arricchì di mille implicazioni e fu il punto di partenza di una trama. Scrissi il primo romanzo «L’uccello nella cupola», tra il 1° maggio e il 20 giugno 1953. L’anno dopo il libro ottenne uno dei premi Marzotto e raccolse molti elogi. Ma, tranne due o tre casi, fu guardato dall’esterno. Se ne riconoscevano i motivi poetici, ma di rado s’entrava in merito alla tematica. Il mio tentativo di fare del romanzo essenzialmente uno strumento di meditazione sull’uomo, la mia polemica implicita contro un tipo di narrativa moralmente agnostica e povera di interessi speculativi, urtava contro i clichès, nei quali in Italia sembravano essersi adagiati i gusti correnti. Tuttavia il libro finì per essere meditato e di ciò raccolsi i frutti al momento del secondo romanzo «Il testimone», scritto tra il 1954 e il 1955 e pubblicato nel 1956. 

Il testimone mi nacque dalla suggestione d’un fatto di cronaca, dieci righe o poco più di una corrispondenza da Parigi e per un po’ fui incerto se documentarmi meglio o lasciar lavorare la fantasia. Prevalse quest’ultima soluzione, come prevalse il desiderio di dare più sul romanzesco, di scrivere cioè duecento pagine che si leggessero d’un fiato, senza però comportare rinunzie di fronte alle grandi domande che il tema poneva. S’è parlato, a proposito di questo libro, di varie fonti straniere. Se però si fosse tenuto conto della «Storia della Colonna infame» o meglio di quelle tre mirabili pagine introduttive dove il Manzoni parla delle passioni pervertitrici della volontà, come uniche responsabili dei «fatti atroci dell’uomo contro l’uomo», si sarebbero riconosciute le radici tipicamente italiane della mia storia parigina. Tuttavia l’opera fu apprezzata, il primo romanzo servì ad illuminare il secondo e viceversa, e si cominciò a parlare del mio come del mondo delle responsabilità. E non dico che la formula non sia giusta, purché si consideri che il tema che più mi tiene e che sta a fondamento del mio cristianesimo è quello della morte. È stato esso a dettarmi, non ne ho alcun dubbio, le più belle pagine, le prime settanta, per esempio, de «L’uccello nella cupola», le ultime settanta de «Il testimone», l’intero «Cimitero cinese», un racconto del 

1957 e certi capitoli del mio ultimo lavoro «Il nuovo corso», un romanzo tra simbolo e realtà, un discorso portato sul tema della libertà, al quale è stato assegnato il premio Napoli 1959 e di cui sono in corso alcune traduzioni. 

La mia poetica? È presto detto: credo nei personaggi, credo nei valori, credo al romanzo come ad uno scandaglio dell’uomo, credo che il narratore dia la misura di sé solo collocandosi al centro dell’animo dell’uomo. Le altre cose: stile compreso, sono strumenti, non fini.1 

Fin qui Pomilio. Da tale presentazione di se stesso noi prendiamo le mosse, per andare oltre: per verificare fino a qual punto quelle indicazioni siano valide dopo ventidue anni; per soffermarci di più sui lavori, di cui parla brevemente l’autore; per analizzare la produzione successiva e tentare, infine, di tracciare un consuntivo dell’intera opera del narratore e della sua incidenza sulla letteratura contemporanea. 

Il metodo da noi scelto, per l’indagine, è molto semplice: analisi di ogni opera (trama, forma, contenuti), per poi giungere ad un giudizio globale sulla validità, efficacia ed attualità del messaggio che il narratore intende sottolineare. 

L’UCCELLO NELLA CUPOLA2 

Un uomo sta morendo. Marta, la sua compagna, forse alla ricerca di eventuali giustificazioni per la propria coscienza, forse per un improvviso e inconscio bisogno di Dio, si reca in Chiesa per confessarsi. Non appare però convinta di essere in colpa. Anziché mostrare sincero pentimento, sembra cerchi conforto come vittima. Ha paura, addirittura, che il moribondo sopravviva. Non ha fatto nulla per tentare di salvarlo, ha evitato di prestare qualsiasi aiuto, perché, in fondo, desidera che egli muoia, perché non lo ama più, perché non l’ha mai amato, perché è un disgraziato, perché l’ha costretta ad uccidere il figlio che stava per nascere. 

Don Giacomo, il confessore, incatenato ad una visione troppo rigida del dovere e ancora poco esperto dei profondi travagli delle anime, non riesce a comprendere la disperazione di Marta: si rifiuta di capirne le ragioni: sente soltanto che le sue colpe sono imperdonabili e la respinge, anziché aiutarla a superare le enormi difficoltà in cui si dibatte. «Voi avete fatto questo? E perché siete qui?» Marta cercava vagamente la redenzione: don Giacomo, non ritenedola capace, l’ha praticamente abbandonata al suo destino, tradendo la sua missione sacerdotale. 

Di qui due esistenze tormentate. Marta, convinta ormai che si pretenda troppo da lei, che sia inutile ogni sforzo, si affida al suo istinto e alla sua fragilità, nella ricerca di qualcosa che dia un senso alla sua vita e la riscatti da umiliazioni e sconfitte subite. Crede di trovare la salvezza nell’amore di un uomo, al quale dedica tutte le energie, i sogni e in cui ripone tutte le speranze di creatura delusa. Anche questo amore si risolve ben presto in fallimento ed è la fine. 

Don Giacomo, che fin dall’inizio della vicenda aveva avvertito il peso di una enorme responsabilità, è perseguitato dal rimorso di essere stato la causa della perdizione di Marta. Aveva tentato più volte di riparare in seguito, ma con l’identico risultato. La sua intransigenza aveva finito per allontanare sempre più Marta da ogni possibilità di redenzione: come l’uccello, che tenta invano di lanciarsi verso la luce e verso il sole, irrangiungibili al di là della cupola. 

La trama, come si vede, è semplice, come in tutti i romanzi di Pomilio. Ciò che conta in lui è una grande capacità di indagine di stati d’animo complessi e difficili. Come conta la limpidezza dello stile, la proprietà di linguaggio, la ricchezza del vocabolario, la organicità del periodare, che indubbiamente pongono Pomilio tra i classici della letteratura. 

A titolo di verifica di ciò che Pomilio diceva ventidue anni or sono di se stesso, dobbiamo dire che risulta rispettato l’assunto del romanzo come strumento di meditazione sull’uomo. 

E i valori? Anch’essi sono fortemente presenti nella sua opera: l’importanza della coscienza nell’agire umano: l’amore, la comprensione e la tolleranza per le miserie dei nostri simili; l’esigenza della grazia come contrappeso alle debolezze e ai difetti degli uomini. Coscienza, amore, grazia: i tre poli, intorno a cui dovrebbe ruotare il destino di ciascuno, spesso segnato, però, dal peso di qualche realtà misteriosa e dolorosa, che solo la fede può dare la forza di accettare senza ribellione. Questa realtà, umana e religiosa insieme, Pomilio sottopone alla nostra riflessione per il tramite di un fanciullo paralitico, al quale Don Giacomo, un giorno, raccontando l’episodio biblico di Abramo, a cui sarebbe stato chiesto da Dio il sacrificio del figlio Isacco, giustificò la presunta crudeltà di Dio con l’esistenza di una prova di ubbidienza. «Solo per questo? – reagisce il bambino. Solo per questo ha voluto che Abramo soffrisse tanto? E può Dio chiederci tanto per prova? … Oh! non mi piace la vostra storia, non mi piace». 

Il mistero del dolore, difficile interrogativo del mondo cristiano, viene affrontato, così, da Pomilio, in un episodio apparentemente insignificante, conpo che magistrali pennellate: un fanciullo che paga di persona non si sa perché: un’indiretta implorazione, un po’ amara, quasi ironica di giustizia: una rassegnazione sofferta a certi inspiegabili voleri della Provvidenza, che, comunque, il fanciullo non osa condannare. «E il pianto, finora trattenuto, traboccò ormai liberamente». 

Quest’ultimo episodio ci offre l’occasione per mettere in risalto, pur se breve- mente, la poesia che circola in tante pagine de «L’uccello nella cupola». Le frequenti e belle similitudini, che spezzano il ragionare serrato i continui ripiegamenti delle anime sulle proprie gelose intimità: il pathos, la sofferenza, l’anelito verso il bene che, comunque, accompagna l’intera esistenza dei prota- gonisti, sono altrettante espressioni poetiche, che dimostrano l’intensa parteci- 

dell’autore alle ansie delle creature della sua fantasia. 

IL TESTIMONE3 

Romanzo altamente drammatico. Una madre, Jeanne, incarcerata perché involontariamente coinvolta in un fatto criminoso, resta forzatamente lontana, per qualche giorno, dal suo piccolo, che rimane, perciò, abbandonato a se stesso. Il padre del piccolo, amante della donna, responsabile del fatto criminoso accennato, s’era potuto prender cura di lui soltanto per poche ore, perché ucciso, poco dopo, da un’auto, mentre tentava di sfuggire alla polizia. Soltanto a seguito della confessione di Jeanne sulle responsabilità del suo amante, il commissario Duclair acconsente che il piccolo venga condotto alla madre. Il bambino, allo stremo delle forze, non è più capace di succhiare il latte. La madre, non riuscendo, nonostante ogni tentativo, a costringere il figlio a succhiare, in un eccesso di delirio e di follia, lo strangola. 

Anche in questo romanzo domina il problema del male, del peccato e della morte. A differenza, però, de «L’uccello nella cupola», dove si avverte anche la potente presenza del desiderio di riscatto, di redenzione, di fede profonda in certi valori, ne «Il testimone» non c’è posto per una quasi fatale, ostinata disperazione. Mentre, tuttavia, la donna è riscattata, in qualche misura, dal suo amore per Charles e, nonostante tutto, per il bambino e dalla stessa sua improvvisa follia, per il commissario Duclair non c’è scampo: «Annaspò follemente, con nell’animo un bisogno divorante di pietà e il senso di una miseria, che non era più solo della donna o di lui, o di essi due soltanto, ma di quanto, vivo o morto, lo circondava. Come sempre succede quando la cupa irrazionalità della vita ci si scopre nella sua interezza e nulla ci aiuta a sperare nell’esistenza d’una realtà meno assurda o quanto meno nell’opera di un volere meno cieco. Cercò di raffigurarsi una dimensione diversa, nella quale tutto quello che era accaduto potesse annullarsi e quel che la donna stava soffrendo venir consolato e quel che lui aveva fatto perdonato. Ma non ne fu capace…». 

E i valori, in cui l’autore crede, dove sono andati a finire? Per contrasto essi emergono con più forza, appunto perché sottintesi, dal nudo dramma dei protagonisti: il bisogno continuo, nonostante tutto, di scavare nelle proprie responsabilità, il richiamo ad una superiore giustizia. 

IL NUOVO CORSO4 

«La Voce della verità», l’unico giornale autorizzato dall’unico partito al potere, un bel giorno proclama l’inizio d’un nuovo corso: l’inizio, cioè, della libertà. L’annuncio provoca le reazioni più complesse e varie: dal dubbio alla fede, dalla diffidenza all’ottimismo, dalla gioia alla delusione, all’attesa, rappresentate dall’autore con grande perizia e, cosa nuova in Pomilio, possiamo dire, con benevola ironia, che ci ricorda il Manzoni. A mano a mano, però, che la vicenda avanza, il sorriso sparisce e ricompare il dramma, forse più amaro che nelle altre opere. Il direttore del carcere che, all’annuncio del nuovo corso, aveva deciso spontaneamente di non dare esecuzione alla 

condanna a morte di un recluso per ragioni politiche e che aveva profondamente gioito per aver dimostrato, così, a se stesso di sapere agire secondo coscienza, all’arrivo di un telegramma delle autorità, con il quale si chiedono assicurazioni sull’avvenuta esecuzione del condannato, trova quasi naturale, senza alcuna lotta interiore, il ritorno al rispetto della legge e si precipita a dare esecuzione alla sentenza, per timore di essere accusato di scarso senso di responsabilità. 

IL CIMITERO CINESE5 

Un italiano incontra una ragazza tedesca in Belgio. Fanno insieme una gita di fine settimana in Francia. Nasce una profonda simpatia, reciproca, forse l’amore. Le circostanze, però, non consentono che esso venga confidato serenamente e liberamente. La ragazza è tormentata dal ricordo dei tanti morti causati dalla guerra, per colpa dei suoi compatrioti. In quella zona di Francia c’erano, infatti, i resti di molti bunker, un cimitero di guerra francese, uno cinese. L’italiano, che avverte l’amarezza della ragazza, preferisce rispettare i suoi stati d’animo e non forzare la mano. Un bacio solo, alla fine, suggella una corrispondenza desiderata e sofferta. 

Un quadro, una pennellata di sentimenti delicati e dolcissimi che, nel ricordo e nella cornice di tanti disastri, ci obbligano a riflettere come soltanto l’amore riesca a vincere la morte. Essa, presente in maniera drammatica ne «L’uccello nella cupola» e tragica ne «Il testimone» cede il posto ad uno stato d’animo di mestizia, di rassegnazione e, più che altro, al desiderio di vincere la morte stessa, con la vita e con l’amore. «E così compatto era il silenzio e così arioso e sereno nella sua purezza domenicale, da rendermi ad un tratto inverosimile il pensiero della morte o qualsiasi altro sentimento connesso a quest’idea. E tale stato d’animo mi si accentuò quando fummo alle spalle del tabernacolo, sul crinale dell’altura: di li si scorgeva il mare, o meglio, il confine tra cielo e mare assomigliante a una linea tra luce e luce: verso sud la natura digradava sfumando entro un velo lustro di caligine: sicché lassù, tra il biancore dei tulipani, si aveva come l’impressione d’essere sospesi tra due cieli: e che compassione o tristezza o smarrimento dovessero per forza lasciare il posto a una sorta di consolata e alleviata mestizia». 

LA COMPROMISSIONE6 

Il protagonista, Marco, professore di lettere in un liceo di provincia, alla fine della vicenda si scopre «incapace sia di rifiuti che di certezze». È il succo morale del romanzo… Un uomo si illude di credere in qualche cosa, ma sostanzialmente non crede in niente, come a mano a mano evidenzia egli stesso, raccontando, in prima persona, una parte della sua vita. Si illude di credere, perché con facilità passa da una posizione ideale ad un’altra, senza convinzione, né per la verità che lascia, né per quella che insegue e che gli sfugge sempre. Una serie indefinita di compromessi da parte di una coscienza fiacca, incapace di scelte valide e durature, disfatta e delusa, chiusa nel proprio egoismo e nella propria aridità: così di fronte ai problemi politici, come a quelli sentimentali, religiosi, esistenziali. Non esistono ideali, valori; non esiste l’amore, Dio , il lavoro, l’umanità, la stessa soddisfazione delle esigenze naturali e vitali. Tutto è frammentario, provvisorio, occasionale; tutto passa senza lasciare un segno, una traccia, se non la consapevolezza di una universale inutilità. Non un rimpianto sincero, non un rimorso, non una aspirazione, non un atto d’amore e di abnegazione, spontaneo e senza riserve. Tutto all’insegna di un’accettazione rassegnata, anzi passiva, del destino che preme, d’una insoddisfazione sempre presente, d’una povertà di sentimenti, dello spirito di contraddizione, che impediscono al protagonista di pervenire con gioia ad una qualsiasi conquista. 

IL CANE SULL’ETNA7 

Raccolta di cinque racconti: Il cane sull’Etna Il vicino Il Nemico – Il commissario La sentinella. Il contenuto, in generale, è sintetizzato nel sottotitolo «Frammenti di una enciclopedia del dissesto». Trattasi, infatti, di testi incentrati sulla solitudine, sulla paura, sullo smarrimento, sulla nevrosi, sulle frustrazioni dell’uomo, «avventizio dell’esistenza», «soggetto, per una specie di ironia, alle aporie del destino Carlo Bo sul «Corriere della Sera» scrisse: «Alcune delle pagine più ferme che siano state scritte negli ultimi quindici anni, ci rendono il Pomilio più autentico, quello che sa saldare la voce inquieta del nostro tempo a un racconto che ha la certezza dell’ordine classico». 

Il narratore, nell’introduzione del libro, non esclude che la singolarità dei personaggi possa essere attribuita, dagli altri naturalmente, a delle esigenze sperimentali. In tale cornice i racconti si presentano come pezzi di un virtuosismo linguistico e descrittivo e come sottile scavo psicologico. 

Giovanni Salucci 

(*) Il saggio Mario Pomilio narratore di Giovanni Salucci, per ragioni tecniche, è stato diviso in due. La seconda parte verrà pubblicata nel prossimo numero. Lo studio, nel suo insieme, è di estremo interesse, perché scritto quando ancora non era stata pubblicata l’ultima opera di Pomilio, che ha per oggetto alcuni momenti della vita del Manzoni (a cui tra l’altro è stato assegnato il premio Strega), fa un raffronto tra Pomilio e Manzoni. E il rapporto acquista maggior valore, perché alla critica allora la cosa era quasi del tutto sfuggita. 

1 Da «Ritratti su misura» a cura di Elio Filippo Accrocca – Sodalizio del Libro, Venezia 1960. 

2 Ed. Bompiani – Milano 1954 (Premio Marzotto). 

3 Ed. Massimo – Milano 1956 (Premio Napoli). 

4 Ed. Bompiani – Milano 1959 (Premio Napoli). 

5 Ed. Rizzoli – Milano 1969 (già Ed. Guanda – Parma 1958). 

6 Ed. Vallecchi – Firenze 1965 (Premio Campiello).

7 Ed. Rusconi – Milano 1977 (scritto tra il 1967-68. Premio Roma Città Eterna).

Da “Spiragli”, Anno I, N. 1, 1989, pagg. 29-36




 La mia vita col Re Farouk 

Lunedì 15 gennaio 1990 è stata ospite della trasmissione televisiva di Canale 5 «Maurizio Costanzo Show» la Principessa Irma Capece Minutolo, famosa nella sua qualità di cantante lirica e per la sua relazione con il Re Farouk d’Egitto, che riempì, a suo tempo, le cronache di tutto il mondo. 

Nella trasmissione la Minutolo, oltre a parlare di una sua prossima tournèe di concerti in tutta Italia, si è soffermata sulla sua autobiografia dal titolo: La mia vita col Re Farouk, recentemente scritta con la collaborazione del poeta e scrittore Giovanni Salucci, per la cui opera la stessa ha avuto parole di grande stima e ammirazione. Ha ricordato di aver molto apprezzato la prima volta Salucci, per aver letto un suo bel romanzo di amore, La lampada rossa, edito dalla E.I.L.E.S. (Edizioni Italiane di Letteratura e Scienze) di Roma. Dopo la lettura del romanzo, la Minutolo ha voluto conoscere l’autore e l’ha pregato di aiutarla a scrivere la sua autobiografia. 

Incuriositi, siamo riusciti a procurarci in anteprima il testo di questa autobiografia, non ancora edita e per la quale sarebbero in corso contatti con un editore arabo, proprietario anche di una vasta rete di periodici e con un editore francese. Abbiamo letto il dattiloscritto nel timore, a dir la verità, di trovarci di fronte ad una storia piccante o addirittura scandalosa, come la vicenda in passato fu presentata dai mezzi di comunicazione di massa. Con enorme sorpresa, invece, ci siamo trovati di fronte ad una bellissima ed esemplare storia d’amore: quella di una ragazza sedicenne, che si innamora di un Re in esilio, di venti anni più grande di lei, e che lo segue per nove anni (fino alla morte di lui) con estrema dedizione e fedeltà, senza interessi di alcun genere, se non quello dell’amore e dell’abnegazione. 

Una ragazza che, dopo la prematura scomparsa del protagonista, si ritrova, per una serie di complesse vicende, sola, senza sostegno, alle prese con una dura lotta per l’esistenza, con un fardello pesante che, a quell’epoca, suonò soltanto disapprovazione e condanna. 

Senza risentimenti e senza rancore, ma con un ricordo denso di contenuti fortemente ideali, la Irma Capece Minutolo ha saputo trovare, nella musica e nel canto, una nobile ragione di vita. Al di là, però, della bella storia d’amore e dei tanti episodi curiosi e interessanti, abbiamo scoperto, nel libro, anche motivi di notevolissimo valore storico, come nell’incontro con Papa Giovanni XXIII (nel quale emerge la rivoluzionaria visione di questo grande Papa su alcuni contenuti dci suo pontificato e del ruolo della Chiesa tra gli uomini) e come nelle considerazioni sulla morte di Farouk, le quali non escludono l’ipotesi di un assassinio politico, In difformità alla versione ufficiale, che parlava di morte naturale per emorragia cerebrale. A questo riguardo è doveroso precisare che la Irma Capece Minutolo intende dissociarsi (lo dice chiaramente nel libro) dagli interrogativi e dai sospetti che Giovanni Salucci fa sorgere con la sua attenta ricerca e di cui lo stesso si assume la personale ed esclusiva responsabilità. Ancora una volta la Minutolo, con tale comportamento, dimostra di avere vissuto la sua particolare storia con serietà estrema, rifuggendo sempre dalla tentazione di dare ogni occasione agli altri, di chiasso, di scandalo e di strumentalizzazione della propria vita privata. 

Con la pubblicazione di alcuni brani, dietro l’autorizzazione degli autori Irma Capece Minutolo e Giovanni Salucci. intendiamo offrire ai nostri lettori, In anteprima, un documento di grande valore umano e storico degno di essere additato all’attenzione generale. 

LA FUGA DA NAPOLI 

La macchina che si allontanava da Napoli segnava il termine di un’altra fase della mia vita. La fanciullezza era veramente finita. Nelle due ore di macchina, da Napoli a Roma, gli occhi dell’anima rividero, come in una pellicola, il periodo passato fino allora e intravedevo quello avvenire. 

Ero felice di andare incontro al mio destino, ma il distacco reale da tutto il mio mondo abituale non fu indolore. Nell’istante preciso in cui presumevo che avrei soltanto sorriso, mi assalì una grande malinconia, mi calai nell’anima di papà. di mamma, dei miei familiari e vi vidi sconforto, tanta rassegnazione. Mamma sapeva, papà intuiva, gli altri osservavano lo svolgersi degli eventi. 

Nessuno di loro, comunque, mi aveva lasciato con la gioia della certezza, per me, di una vita migliore, lo stessa, pur nella consapevolezza del coronamento del mio amore, cominciai a chiedermi se ero stata giusta, generosa: se avevo compiuto tutto il mio dovere di figlia e di sorella o se non, piuttosto, avessi seguito semplicemente l’impulso del mio egoismo e della mia spregiudicatezza. 

Avevo abbandonato tutto per inseguire un mio sogno sincero e mi ritrovavo sola, abbandonata, a mia volta, nel momento più delicato del mio cammino, in cui avrei avuto tanto bisogno della solidarietà e del calore affettuoso dei miei cari. 

Il conforto di una macchina di lusso acuì, anziché attutire. la mia sensazione di abbandono. 

Non era colpa di nessuno. Avevo fatto le mie scelte. semmai, contro il volere e il parere di tutti. 

Era solo mia la colpa, se c’era una colpa nelle scelte, di cui in quelle ore avvertii la pesante responsabilità. A mano a mano che mi allontanavano da Napoli, si ingigantiva in me l’amarezza della privazione di innumerevoli ricordi, di cui, mentre sparivo, assaporavo. come forse non avevo mai fatto prima. la dolcezza. 

Ricordi che, forse, non si sarebbero ripetuti e di cui non avevo apprezzato, al momento giusto, il grande valore. Non avevo avuto il tempo di gustare la felicità che viene spesso dalle piccole cose e già ne era vivo il rimpianto. 

Le circostanze degli ultimi mesi erano state così insolite per me, tanto da cancellare, con violenza, la fanciullezza, già prima che fosse matura. 

Una conquista, una sconfitta, una condanna? Non lo sapevo ancora. 

Io andavo incontro al mio destino con malinconia, ma anche con tanta fede. Chiedevo perdono, nell’intimo, a coloro ai quali avevo fatto involontariamente del male e pregavo il cielo che non sfogasse il suo eventuale rancore su una creatura che, tutto sommato, aveva il solo torto di amare. 

Purtroppo, quando gli amori da rispettare sono tanti, è difficile indovinare a quale di essi spetti la precedenza. 

Io l’avevo data, per inclinazione spontanea, senza calcoli, a quello più gravido di incognite e di pericoli. […] 

Alla fine di gennaio del 1958 tornammo a Grottaferrata dal lungo giro in Europa. 

Mancavano pochi mesi al compimento del mio diciottesimo anno di età. Aspettavo quella data con una certa ansia. ma non sapevo neppure io perché. Percepivo che doveva succedere qualcosa, ma che cosa con precisione mi sfuggiva. Avevo sentito dire che avrei raggiunto la maggiore età. Forse per la legge egiziana era così. Non lo so. Ma in Italia, allora, la maggiore età si raggiungeva al 21° anno. Eppure spesso quella data veniva indicata come una tappa importante della mia vita. Si insisteva tanto su quel particolare. che finii anch’io per convincermi, più per far piacere agli altri che a me stessa, che doveva essere per forza così. Prima di quella data, comunque, accadde un fatto che ha lasciato un segno nella mia vita. 

Ero seduta in un angolo appartato del giardino della villa, sotto l’ombra di una magnolia. Avevo voglia di stare sola. Ero presa da un momento di mestizia, di cui non sapevo rendermi conto. Spesso ero assalita, il più delle volte all’improvviso, da momenti di malinconia. Forse per un bisogno di fare. di tanto in tanto, nelle pause di una vita molto movimentata, il bilancio della mia esistenza. Avvertivo in essa, pur nella spensieratezza dell’età, dei vuoti, che mi spingevano a meditare, a riflettere sul mio passato, sul mio presente e sul mio futuro. 

Spesso non ero soddisfatta di me stessa. Vedevo nella mia vita ampie zone d’ombra, che nulla riusciva a dissipare, cercavo di allontanarle, tuffandomi maggiormente nelle distrazioni che il ménage con Farouk mi offriva. Ma, anziché allontanarle, la ricerca affannosa di diversivi, le ingigantiva, facendomi piombare in stati di scoraggiamento, di prostrazione, quasi di disperazione, dai quali mi riavevo con fatica. 

Quel giorno, sotto l’ombra di quella magnolia, stavo vivendo uno di quei momenti sconsolati, quando fui riportata ad una realtà completamente diversa da un’apparizione, che mi sembrò miracolosa, tanto la vissi intensamente e con uno slancio improvviso dell’anima, che mi fece ritrovare quasi le ragioni valide di una esistenza, che troppo spesso ormai avvertivo, dentro di me, come inutile, nonostante i bagliori e i colori di avvenimenti apparentemente ricchi di colpi di scena e di emozioni. 

Un bambino bellissimo, che poteva avere cinque o sei anni, spuntato come per incanto da dietro una siepe, stava correndo verso di me, mentre gridava «mamma, mamma, mamma». 

Non ebbi neppure il tempo di domandarmi cosa stesse succedendo, che già il bambino mi era saltato al collo, continuava a chiamarmi «mamma», mi baciava e mi carezzava con violenza. Sembrava che avesse ritrovato un tesoro perduto e che fosse convinto di non trovare più. 

Dopo avere sfogato la sua violenza con le carezze e con i baci, rimase aggrappato a me, deciso a non lasciarmi più. 

– «Mamma mia, mamma bella, perché sei stata lontana tanto tempo? Io ti aspettavo e tu non venivi mai, perché? Adesso non devi lasciarmi più. Me lo prometti?» 
– «Sì. te lo prometto, non ti lascerò più, bello mio. Ti voglio tanto bene. sai?» 
– «Vieni a giocare con me a nascondino?» 
– «Sì. mi piace tanto. Chiudi gli occhi contro quell’albero e conta fino a 10. Io mi nascondo e tu vieni a cercarmi». 
– «Non te ne andare però. No, no – ci ripensò -. Non voglio giocare a nascondino. Tienimi per mano. Passeggiamo insieme». 

Ero enormemente commossa. Le effusioni così forti e sincere di Fuad (si chiamava così il figlio più piccolo di Farouk, avuto dalla seconda moglie Narriman Sadek) mi avevano colpito profondamente. 

Pur nella rapidità delle sequenze dell’incontro inaspettato. in un attimo mi immedesimai tanto nel ruolo della vera madre, che riuscii a vivere le emozioni con la stessa intensità e la stessa purezza. 

Mi sentii sua madre e lo sentii mio figlio. Volli, senza mentire e senza dire la verità, vivere quei momenti, nell’illusione di una verità che non esisteva. Mi augurai, per un momento, che quella illusione diventasse realtà. Desiderai ardentemente di essere, per miracolo, sua madre e che Fuad fosse mio figlio. […] 

La fine di Farouk: morte naturale o assassinio politico? 

Per quanto mi riguarda, non ho alcunché da aggiungere alle dichiarazioni da me rilasciate al giornalista Alberto Libonati e pubblicate su «Gente» del 21 luglio 1975 e di cui ho già parlato nel capitolo Ciò che è stato scritto e detto sulla morte di Farouk. 

Consento, però, che Giovanni Salucci si soffermi su alcuni interrogativi e alcuni eventuali moventi, di cui si assume la totale ed esclusiva responsabilità, alla quale io sono completamente estranea. 

«Non intendo con queste mie parole accusare qualcuno. Pongo solo quesiti che, a suo tempo, né la Irma Capece Minutolo, né altri furono capaci o vollero porsi e che, invece, avrebbero dovuto, ognuno in relazione al ruolo svolto e alle rispettive competenze, sia in Egitto che fuori dell’Egitto». 

Tutto, solo per il rispetto che ognuno avrebbe dovuto avere per la verità e per la giustizia. 

Chi può, avrebbe il dovere, oggi, anche se a distanza di anni, di rispondere a questi quesiti. 

Egualmente, chi ne disponesse, avrebbe il dovere di fornire ogni elemento utile a chiarire i dubbi che da più parti sono stati avanzati sulla morte di Farouk e sui quali anche la Irma Capece Minutolo, ha, volontariamente o involontariamente, contribuito a far cadere il silenzio. 

A lei per prima faccio notare che con troppa sicurezza fece, a suo tempo, certe affermazioni, senza avere elementi inconfutabili dalla sua parte, se non il desiderio di evitare che si speculasse sulla morte di Farouk, come s’era speculato spesso sulla sua vita; di evitare che di nuovo Farouk diventasse motivo di chiasso e non di ricerca seria della verità; di evitare, ancora, che si offendesse il suo ricordo con la soddisfazione di curiosità morbose e con il piacere di sollevare problemi scandalistici, utili soltanto agli speculatori. 

In quel momento – posso capire – il suo stato d’animo le suggerì di buttare acqua sul fuoco, per non assistere al risveglio del veleno della maldicenza, della ingenerosità e della cattiveria. 

Ma, in seguito, passato quello stato d’animo dettato dall’amore, non era più logico che le capitasse di rivolgere a sé stessa qualche domanda, che allora, non era stata capace di rivolgersi? Non avendo dalla sua parte elementi inconfutabili di prova, per scartare con assoluta certezza l’ipotesi di un delitto, non le è mai sembrato di avere commesso dei torti verso Farouk per avere omesso di considerare, anche soltanto a titolo di ipotesi, la eventualità di un delitto? Non ha mai pensato che, Farouk per primo, avrebbe potuto disapprovare il suo comportamento, anche se in buona fede, per desiderare che si facesse piena luce su tutto, anche su semplici ipotesi? Si è mai chiesto di aver fatto o meno tutto il proprio dovere, cercando di soffocare sul nascere tanto categoricamente qualsiasi dubbio? 

Anche se tutto le lasciava supporre che non vi fossero motivi per pensare ad ambienti interessati a sopprimere l’ex Re, non avrebbe, almeno, potuto supporre che certe macchinazioni possono anche essere provocate (come spesso è accaduto per personalità molto in vista) da fanatismo, irrazionalità, gesto, cioè, inconsulto? 

Ammesso che motivazioni serie per l’assassinio di Farouk non esistessero, perché escludere che potessero esservene di riflesso: come strumentalizzazione, tanto per dirne una, di quell’assassinio proprio contro persone e ambienti che non avevano alcuna motivazione per perpetrarlo? 

Certi delitti, si sa, restano impuniti soltanto perché l’apparente assenza di moventi impedisce di percorrere il cammino giusto per arrivare ai colpevoli. Sarebbe doveroso, pertanto, che, in ogni caso, specie per le persone in vista, nulla venisse tralasciato per la individuazione di eventuali moventi delittuosi. 

Perché non considerare, ad esempio, il timore, da parte dei governanti egiziani dell’epoca, che la spartizione e la distribuzione, al popolo, delle proprietà e delle ricchezze della Corona, potesse suscitare la reazione e la ribellione dell’ex Re, che, attraverso suoi emissari segreti, avrebbe potuto rappresentare un ostacolo alle riforme? 

Tale ostacolo non sarebbe potuto diventare elemento sufficiente a giustificare una sua eliminazione? 

Ammesso pure che non si fosse trattato di ostacolo vero e proprio, non avrebbe potuto dar fastidio, ai governanti egiziani, la sola eventuale critica severa e condanna dell’operato, a cose fatte, delle autorità egiziane, da parte di Farouk? 

È proprio da escludere che potesse esistere gente interessata a venire in possesso di eventuali ricchezze di Farouk, per caso sfuggite alla requisizione delle autorità, dopo la sua destituzione e la sua condanna all’esilio? 

Le disavventure della guerra con Israele non avrebbero potuto risvegliare, nel popolo e in una parte dei governanti, nostalgie monarchiche pericolose per i fautori della rivoluzione? 

Non potevano esserci potenze straniere desiderose di ristabilire il precedente «status quo», anche per la salvaguardia di grandissimi interessi che la rivoluzione aveva messo in pericolo? Dinanzi a questo timore, non potevano i governanti ritenere più oppotuno sbarazzarsene, per evitare qualsiasi tentazione nostalgica? 

La stessa lotta, senza esclusione di colpi, tra mondo arabo e mondo ebraico, non sarebbe bastata a creare un terreno favorevole a tutte le insidie, a tutte le ipotesi e a tutti gli intrighi? 

La soppressione di Farouk non sarebbe potuta scaturire anche da un semplice calcolo sbagliato? 

Né era – mi pare – da scartare totalmente l’idea che, in una vita sentimentale movimentata, come quella di Farouk, potessero sorgere ragioni di risentimento, di rancore e di vendetta sia in campo maschile che femminile. 

E il suo mondo degli affari, non avrebbe potuto offrire l’occasione di incomprensioni, di delusioni, di prospettive non gradite, tali da spingere a soluzioni radicali e definitive? 

I moventi, dunque, potevano essere tanti, da non far escludere a priori, come capitò ad Irma Capece Minuttolo, le ipotesi di un assassinio politico. Senza lasciarsi prendere la mano dai sentimenti, la stessa avrebbe dovuto far funzionare di più il freddo e realistico raziocinio e non influenzare alcuno con le sue convinzioni, indubbiamente molto attendibili e autorevoli per l’esterno, dal momento che conosceva intimamente la vita, le confidenze di Farouk. Avrebbe potuto offrire, mentre non offrì, qualche spunto perché si esperissero approfondite indagini. Lei per prima scagionò tutti e insistette perché non si facesse nulla. Proprio lei che doveva essere una delle maggiori interessate acché non si escludesse alcuna ipotesi e non si lasciasse alcunché di intentato per fare piena luce sull’intera vicenda. […] 

– «Non voglio neppure sentirlo. Non farti prendere dalle fantasie anche tu. È morto di emorragia cerebrale e basta. Argomento chiuso. Se i familiari sono convinti di questo, perché non dovrei esserlo io? No. Non voglio neppure sentirlo. A suo tempo i Governi italiano e egiziano hanno fatto certamente il loro dovere». 
– «Non accuseremo nessuno. Porremo soltanto degli interrogativi». 
– «No. Non voglio». 

Si era quasi seccata che io avessi osato tanto. Non ho mai capito quella presa di posizione così dura. Forse ha avuto paura di poter andare incontro a dei guai. avventurandosi in un ginepraio pericoloso. Forse si ribellava al solo pensiero che Farouk fosse stato assassinato. perché la sentiva come una realtà enormemente ingiusta. 

Non è escluso, però, che abbia influito anche un altro fatto: più di una persona pare che, in quell’epoca, l’abbia dissuasa a parlarne, dicendole che si sarebbe potuta cacciare nei pasticci: che i governi italiano ed egiziano avevano fatto tutto ciò che c’era da fare: che era tempo perso recriminare sull’accaduto, che niente e nessuno avrebbe ormai potuto modificare. 

È stato proprio questo particolare che mi ha indotto ad insistere perché consentisse che certi interrogativi venissero posti. Tanto io li avrei posti egualmente, magari al di fuori del libro, giudicando ancora più severamente i suoi scrupoli e le sue paure. Così ha accettato, che io ne parlassi, assumendomene tutta la responsabilità. 

Dopo che Irma Capece Minutolo ha letto queste mie considerazioni, ha esclamato: 

«Io confermo che Farouk è morto di morte naturale. Comunque, ammesso che potessero essere formulati interrogativi, perché dovevo essere io a porli? Perché non lo hanno fatto coloro che erano tenuti più di me? Cioè le sorelle, la madre, le ex mogli, i parenti?». 
«Io – ho aggiunto e concluso – ti inviterei a riflettere. So che hai letto il servizio della giornalista Carla Pilolli, pubblicato su «Il Messaggero» del 24-12-1989, a proposito di un incontro avuto a Parigi con Fuad, figlio del re Farouk. Hai notato che lo stesso figlio ha affermato che il padre «è morto in una trattoria romana, in una maniera niente affatto chiara». Se anche il figlio ha dei dubbi, perché non dovrebbero averne gli altri»? 

Irma Capece Minutolo ha annuito, senza rispondere, ma è rimasta molto pensierosa. 

I. Capece Minutolo G. Salucci 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 47-54.




F. Monaco, Ma perché scrivono? (La lingua italiana devastata), Roma, E.I.L.E.S., 1987, pagg. 105.

 L’autore F. Monaco, giornalista, titolare anche di un’agenzia di stampa (Italia Notizie), con sede in Roma, è di quegli scrittori che possiamo definire, per molti -scomodo… 

Senza peli sulla lingua, e con coraggio, da 20 anni circa, sottopone al vaglio della sua critica pungente gli argomenti più disparati, tutti, però, riconducibili al filo conduttore di un costume sociale disinvolto e dai valori discutibili. Basta scrivere il solo titolo di alcuni suoi libri per rendercene conto: La buonanima dello Stivale, Il circo degli inconcludenti, Dizionario della mala repubblica, etc. 

Con il nuovo lavoro, Ma perché scrivono, è sotto accusa e sotto tiro la leggerezza con cui viene usata la lingua italiana a tutti i livelli e in tutti i settori, senza rispetto alcuno per la grammatica, la sintassi e il buon senso. Dall’indice si capisce che l’Autore non risparmia nessuno. C’è da dire che nulla è lasciato all’anonimato e che ogni citazione porta il nome e il cognome dei responsabili. 

È motivo, perciò, anche di notevole curiosità, perché compaiono tanti insospettabili che mai, prima d’ora, avevamo immaginato colpevoli di sviste negligenze o ignoranza in tema di lingua italiana. 

Il libro prende le mosse dall’art. 21 della Costituzione che sancisce: -Tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero con le parole, con lo scritto e ogni altro mezzo d’espressione… L’autore non contesta, ma commenta con ironia: -Però fra le tante, madornali amnesie dei Costituenti c’è stata anche quella relativa a un fondamentale dovere di chi scrive: il dovere di rispettare chi legge. E rispettare chi legge significa non propinargli corbellerie in maniera oltre tutto, pedestre… 

Da tali espressioni si può arguire facilmente che il libro, oltre ad essere caratterizzato da un’analisi pungente di certi andazzi, contiene anche elementi che lo rendono oltremodo spassoso e piacevole alla lettura: lo stesso stile brillante e incisivo di tutte le altre opere del nostro Autore. 

G. Salucci

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pag. 60




L’amara eloquenza del silenzio dello scrittore 

 Da «Il Manifesto» del 26-9-2005 riprendiamo una lettera di Nello Sàito, che ci sembra significativa della condizione dell’ editoria italiana e dello scrittore in genere. 

Cari Amici, 

non sono morto. Ma non è colpa mia se mi è stato assegnato nel 1970 il Premio Viareggio. 

Non è colpa mia se, dopo il Premio Viareggio i miei romanzi sono stati rifiutati da tutti gli editori italiani, con l’eccezione di un piccolissimo, sconosciuto editore siciliano che poi non ha voluto distribuirlo minimamente. Silenzio. 

Utopia anarchica? Può essere, dato che mio padre e mia madre sono siciliani. O perché nei romanzi era descritto il sogno di un Risorgimento siciliano che si poteva avverare riprendendo la tradizione del glorioso separatismo siciliano. 

Altro che Bossi per attuarlo! 

Ci voleva un Savonarola siciliano per una vera rivoluzione del Sud contro il Nord. Altro che ponte sullo Stretto! 

La Sicilia doveva utopicamente allontanarsi dal continente, non avvicinarsi, congiungersi. Doveva e può divenire la Sicilia del Mediterraneo con le sole sue forze. E così la finta lotta contro la mafia; è vero il contrario, semmai la mafia doveva aiutare a creare l’indipendenza, la singolarità, la diversità geniale della Sicilia, vale a dire si trattava di chiamare dall’ America e dal mondo i mafiosi a unirsi per aiutare il Risorgimento siciliano. 

Invece, da sempre si è tentato di crocifiggere, uccidere quella singolarità che non aveva nulla a che fare con il continente. 

Si è preferito inchiodarla a uno stereotipo, come per esempio i romanzi di Camilleri, di indicibile volgarità, perché questo faceva comodo alla volontà colonizzatrice del Nord, alla sua inesausta volontà di dominio. 

La Cassa del Mezzogiorno? Cos’è? La povertà innalzata a mito, così la violenza cantata, scritta, musicata del Sud siciliano in un quadro stravecchio, sempre lo stesso, soffocato da polizia, esercito, vessazioni di ogni tipo, tasse sull’intelligenza, esproprio di ogni bene, donne comprese, declassate a meretrici del cinema. 

La Sicilia? Volutamente ignorata per secoli, quando non mitizzata per violenza, mafia, povertà, bruttura. Perfino la sua origine culturale venne negata. 

L’intelligenza, la cultura, invece che dalle meravigliose colonie greche non più nominate, venne fatta iniziare più tardi, né scrittori, né architettura, né società e costumi ma piuttosto dai menestrelli di corte di Re Federico, poveretti. Addio Grecia. E i siciliani che erano stati dèi, cioè greci, fenici forse anche ebrei e soprattutto arabi, furono declassati a poveri extracomunitari cui si doveva solo elemosina e disprezzo. 

L’intelligenza è come la mondezza, si diceva in Sicilia. Ora è negata. Anche se giuristi e uomini di pregio hanno invaso il Nord donando il loro sangue, cioè la loro intelligenza che non aveva più patria. Lasciando solo la schiuma degli assassini e degli stupratori che non erano quasi mai i siciliani ma i loro oppressori. Così la Sicilia è stata lacerata, crocifissa Ci romanzi di Camilleri) e mitizzata come i Sassi di Matera di cui Togliatti, appena vistili, disse: che vergogna! Invece di distruggerli e ricostruire case nuove, decenti, umane sono stati mitizzati. 

In Sicilia invece si distrugge solo il bello, vale a dire, il barocco, le chiese, il 

paesaggio, l’idea della bellezza e dell’intelligenza (e l’intelligenza come la musica non ha bisogno di traduzione); importante è distruggere quello che poteva e ancora potrebbe essere, come ho detto, il giardino del Mediterraneo, la Mecca della nuova civiltà che al Nord sta morendo o è già morta. 

Perciò, mi ripeto: siciliani di tutto il mondo, tornate a casa; mafiosi di tutto il mondo, il vostro lavoro è qui, venite a ricostruire, a difendere la Sicilia che i coloni del Nord stanno da secoli uccidendo. 

Mafiosi, unitevi, accorrete, ne avete la forza, l’intelligenza; non soccombete ancora all’inganno che da sempre dura contro di voi. Reagite! 

Nello Sàito 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 23-24.




Otto nuovi saggi di poesia cinese in una pregevole versione italiana 

 Il quaderno n. XX / 2008 di «Spiragli» ha presentato otto giovanissimi poeti cinesi, appartenenti all’ area di Pechino (Lin Ceng, Lai Pi, Mu Yun), Hunan (Chen Xiao, Peng Kan, Liao Wenjun), Huber (Chen Hai Bo) e Zhejang (Li Hui). Si tratta di testi che, quasi all’unisono inneggiano alla vita come bene supremo delle aspirazioni umane, e rivolgono lo sguardo alla natura come possibile scenario di una contemplazione salvifica delle problematiche esistenziali. È una poesia fluida e di ampio respiro che ci fa scoprire nuovi paesaggi scritturali nel panorama della poesia a livello internazionale, oltre a farci comprendere che talune tensioni interiori del genere umano hanno elementi comuni, a prescindere dalle latitudini e dalle situazioni sociali e politiche in cui si manifestano. Una poesia che si orienta verso una ricerca tematica e la sperimentazione di forme e linguaggi nuovi, dando spunti ad eventuali dibattiti sul ruolo dell’ «io» poetico, sul rapporto tra poesia ed esperienza umana, tra forme di espressione autoctone e quelle provenienti dal nostro Occidente. 

Certamente possiamo cogliere il concetto vero e proprio del dettato poetico, perché, se la traduzione può essere, come si suol dire, tradimento, dobbiamo rilevare che i testi integrali dei giovani poeti giungono a noi attraverso l’esperta versione dal cinese all’italiano di Veronica Ciolli e da un secondo registro di adattamento poetico effettuato da Patricia Lolli e Renzo Mazzone. E se dopo tali magistrali interventi gli esiti sono questi, dobbiamo senz’altro annotare che ci troviamo dinanzi ad una poesia matura, che scandaglia con mestiere le questioni del vissuto, e si propone al dialogo umano inserito nella sempre più incalzante globalizzazione da tentare anche a livello culturale. 

Un elemento che lega i testi degli otto giovani poeti segnalati dall’Università Normale della capitale cinese, è «la speranza» sgorgante dalle ariose metafore contenute nei testi, una speranza che non viene manifestata a seguito di risentimenti verso la politica (quale poteva essere la poesia degli anni Ottanta di Bei Dao, di Shu Ting o di Gu Chenh, tanto per fare qualche nome), ma una speranza di vita intima migliore, un’aspirazione in forma poetica verso forme di vita più armoniche e consustanziali. 

Abbiamo inoltre notato che, fra i riferimenti agli elementi della natura, se c’è un motivo che predomina, questo è il motivo «equoreo», dal momento che nei vari testi spiccano numerosi richiami all’elemento marino o sintagmi come fiume, torrente, lago, mare, luoghi che sembrano riflettere le singole scene di un panorama paesaggistico teso ad indagare la sensibilità degli autori, ma che in astratto rappresentano taluni luoghi dell’anima entro cui si dibattono tutte le contraddizioni e le solite dualità dell’ esistenza. 

Di sicuro una poesia molto più aperta rispetto al periodo di fine Novecento, in cui la poesia, pur risultando ancora oscura (in cinese veniva definita menglong shi), lasciava intendere la ricerca di una nuova espressione come strumento di approccio e di conoscenza del reale. E tale conoscenza si è sempre più sviluppata probabilmente grazie anche all’influenza del simbolismo e dell’immaginismo occidentale, sino a ritrovare fusi insieme nei testi la razionalità, l’ intuizione e l’originalità del gesto poetico. 

Nicola Romano 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 57.




Stefano Bissi, Lu munnu ca firria (Il mondo che gira), Agrigento, s.d.

Nell’accostarmi a questo autentico poemetto mi sovviene il nome di quel Cielo d’Alcamo che per primo in seno alla Scuola Siciliana usò il volgare per esaltare la natura e la vita rude della sua gente. Parafrasando il Carducci potrei asserire che 

Stefano Bissi, seguace della lingua siciliana delle più autentiche voci, è e resta “di Sicilia il vate o la stagion più dura”, 

Con il linguaggio più schietto e coerente all’autentico dialetto della terra delle zagare, il poeta di Siculiana inizia il suo “poema di fede” vindice e nume, poeta e uomo, nel quale traccia il cammino di una nuova, vigorosa e necessaria strada verso la rigenerazione dei costumi, pur attraverso l’analisi di “ogni aspetto del nostro vivere civile di ogni giorno”: esaltazione della conquista della scienza che rende più gioiosa la quotidianità. dunque. e al contempo denuncia del degrado globale sovrastarci. 

Un poema. o una pregevole raccolta, questa del Bissi, nella quale il poeta recupera fondamentalmente il valore della disciplina formale e del rigore che deve riguardare la scrittura poetica in dialetto. 

Infatti egli, trattando con sapienza misurata gli endecasillabi e la rima, scrive la maggior parte dei suoi componimenti nella struttura del sonetto e dell’ottava. Ciò significa che il Bissi vuole affermare una precisa idea di poesia, ed è quella legata alla disciplina del verso e della parola nonché della musicalità tutta affidata al ritmo vincolante della metrica classica. 

Il poeta inoltre trae ispirazione dai ricordi, dalla memoria e dalle immagini in un “flash beack” che lo fa in pari tempo interprete e cantore della gente semplice, che è poi la gente del popolo. di ieri magari. Se quella del Bissi, dunque, non è ovviamente poesia popolare, è certamente poesia apertissima ai sentimenti del popolo e il suo mondo ruota sempre attorno ai valori essenziali della vita: l’amore, la famiglia, l’amicizia, il lavoro, i mestieri, la fatica: ma la vera protagonista delle liriche è una soltanto, la Sicilia. 

Sicilianità forte, dunque, di cui è espressione questo volume dal titolo Lu munnu ca firria, dove ai motivi tradizionali della ispirazione del nostro autore si accompagnano più diversamente motivi sociali incentrati sulla condizione umana nel nostro presente. 

Un libro con la bellezza della parlata agrigentina piegato all’armonia della creatività del poeta. E ancora: la profonda saggezza umana di cui è forte la poesia del Bissi. e il mondo degli uomini incontrati nella semplicità del vivere quotidiano. 

Bissi vi canta liberamente il mondo ricco dei propri sentimenti e della propria malinconia, e si rivela un filosofo dell’esistenza prima che un cantore della vita forte di quella saggezza che hanno spesso i poeti. 

Trovo che la produzione poetica di Stefano Bissi sia ormai molto consistente e che le prove della sua validità letteraria siano state abbondantemente date. Segnalo anch’io, perciò, i risultati importanti di questo Autore completo che spero “incontrare” ancora. 

Lina Riccobene

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 46-47.