CON QUESTI PESI 

 Con questi pesi che ti porti dietro 
giri per la città, tutto da solo, 
la cattiva coscienza t’importuna: 
un vino inacidito dentro l’anima. 
C’è un bar all’angolo dove ti fanno 
la carità di un dito di J&B 
e una voce sospira Summer time 
portando ti veleni d’oltre Oceano. 
Le colombe s’inventano Venezia 
e tu rinneghi nella tua laguna, 
senza violino. 
La cassiera sorride a una battuta 
arguta sul suo seno che è in rigoglio, 
ti tratta già da vecchia conoscenza 
e niente sa di te, dei tuoi fantasmi. 

Carmelo Pirrera

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 49.




CAMMINI

 Ho cantato i miei amori 
nei giorni luminosi 
di una luce accecante. Li ho cantati 
nei sogni 
chiusa nel sonno o in veglia, 
col favore del tempo 
o al soffiare di venti tempestosi. 
Li ho chiamati per nome 
quando urgeva 
la vita, nelle feste rumorose 
o nella solitudine. 
lo mi sono adattata sempre al tempo. 
Ho pianto per amori sgretolati 
lungo la via 
mentre io, quasi senza percepirlo, 
spinta dal vento andavo per cammini 
senza ritorno. 

Djanira Pio 

da «L.B .», 44, 2006

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 45.




Rinnovamento e continuità nella poetica  architettonica siciliana dal 1930 al 1950 

Gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale furono, per l’attività edilizia, anni di antinomia. Si ricercava, infatti, un equilibrio tra la necessità di operare e l’istanza di approntare un disegno organico di ciò che si dovesse fare. Le scelte operate in quegli anni affondano le proprie radici nel clima culturale che si era formato durante il ventennio fascista. In Italia, tra il ’20 e il ’30 si assiste ad una scarsità di contatti con l’Europa, accentuata dal protezionismo culturale del regime (che, in economia, doveva portare all’autarchia). Pochi, prima di Edoardo Persico, si erano resi conto di quello che succedeva nelle aree d’oltralpe. Questo clima è reso manifesto dalle sorprendenti parole con cui Marcello Piacentini descrive la situazione tedesca: «In Germania non si palesa ancora un carattere dominante e preciso: ancora perduta, in mezzo a grandi incertezze, la lotta tra la linea orizzontale e verticale»1. È soprattutto a partire dagli anni trenta che 1’Italia mostra notevole attenzione verso le nuove espressioni artistiche provenienti dal resto d’Europa. Le istanze di cambiamento, avanzate da più parti del nostro paese e caldeggiate in un primo momento anche dal regime, sembra possano coniugarsi alle novità in ambito architettonico promosse dal razionalismo; questo non risparmierà, tuttavia, di Raimondo Piazza l’accendersi di un dibattito tra i sostenitori del «tradizionalismo», inteso come la via più breve verso la soluzione dei problemi, e i promotori «dell’internazionalismo architettonico», secondo la definizione di Giuseppe Samonà2, che auspicheranno una concreta rivoluzione del linguaggio architettonico, nei metodi d’insegnamento e nell’ambito professionale. Entrambe le posizioni si pongono «come interpreti della modernità e fautrici di un ordine nuovo»3. 

L’accentuarsi delle posizioni conservatrici della dittatura e il conseguente intensificarsi del sentimento nazionalista, spinge comunque gli architetti verso la creazione di uno stile nazionale, fondato sulla riscoperta dell’architettura classica, ricco di toni celebrativi del potere del duce, scenografico e monumentale. L’imperativo del «ritorno all’ordine », contro l’eclettismo che aveva caratterizzato l’architettura del passato, in Sicilia si identifica con il superamento delle esperienze precedenti. 

Qui, come scrive Ettore Sessa, «l’ideale astratto di classicità assume quei connotati di “razionalità mediterranea” che, pur nelle dicotomiche valenze italico- monumentali [ … ] e italico-vernacolari […] ne assicurano l’appartenenza a quella “terza via dell’ architettura contemporanea” comune a Francesco Fichera e nella quale rientrano, fra le altre tendenze, il “classicismo moderno” scandinavo e il panslavismo architettonico di Kotera a Plecnick»4. 

Forse il maggiore esponente palermitano della nuova poetica architettonica è Salvatore Caronia Roberti, la cui sede del Banco di Sicilia a Palermo (1932-1938) ne è certamente l’esempio più paradigmatico. 

Lo scoppio della guerra frena com’è naturale, il maturare di una coscienza architettonica. Con la liberazione dell’ Italia, l’impegno maggiore cui vengono chiamate le forze della cultura riguarda non solo la ricostruzione materiale dell’isola, ma si rivolge anche ad una sorta di rieducazione delle masse affinché prendano coscienza del ruolo di cittadini della nuova Italia democratica: nuovi slogan predicavano un progressivo sviluppo culturale capace di mutare quelle condizioni esasperate che fino ad allora avevano favorito il fiorire del degrado. Anche gli architetti sono chiamati a svolgere il loro lavoro con un mutato spirito: dovranno farsi interpreti del cambiamento con le loro opere e sperimentare nuovi schemi funzionali, adatti a soddisfare le urgenze provocate dalle distruzioni della guerra. 

Per quanto riguarda l’edilizia residenziale, le prime costruzioni sono realizzate principalmente grazie ai finanziamenti del «Piano incremento occupazione operaia», attuato dalla legge Fanfani. Queste realizzazioni, in genere, sono improntate all’applicazione dei canoni del Razionalismo e attingono dalle esperienze degli anni venti, portate avanti dal Movimento Moderno nei «quartieri manifesto» tedeschi. Nel recupero, comunque, di quell’ eclettismo ereditato dall’Ottocento, ma avvilito dal progetto di unità stilistica nazionale messo a punto dal fascismo, vengono ripresi elementi tratti dalla tradizione costruttiva mediterranea, che contrassegnano molti quartieri abitativi. 

Dopo il conflitto, infatti, l’architettura cerca di rigenerarsi attraverso la storia che la letteratura ufficiale aveva ignorato, cioè rileggendo le manifestazioni spontanee dei luoghi. L’interesse per queste opere, per le tecniche costruttive tradizionali, che coinvolge progettisti come Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi, Giuseppe Samonà e molti altri, rivela la volontà morale di instaurare un discorso con la realtà semplice della vita quotidiana. È soprattutto nell’abitazione che verranno alla luce i primi frutti di questo rinnovato rapporto con la storia5. Abbandonata l’immagine della città-giardino degli anni venti, si tenta di ricreare l’unità e la ricchezza d’immagine dei centri storici, recuperando forme tradizionali di scale esterne, ritmi di finestre, deviazioni che disegnano strade non rettilinee, slarghi e piazze6. In qualche modo si cerca così di fondere schemi razionalisti ed elementi caratterizzanti della cultura vernacolare. 

In un clima culturale che non manca di evidenziare incertezze, come denota lo stesso bando di concorso per la creazione della nuova via del Porto a Palermo (1949), si può identificare nel progetto dell’Istituto tecnico nautico di Palermo (1948) di Giuseppe Spatrisano (con V. Ziino, A. Bonafede, P. Gagliardo), la prima opera dove si approfondisce il metodo progettuale sostenuto dal Movimento Moderno, che comporta l’abbandono dei localismi. 

Il nuovo Istituto doveva inserirsi in un’area particolarmente delicata in quanto densa di emergenze architettoniche e fomentatrice di relazioni spaziali complesse. Come scrive Edoardo Caracciolo nel 1950, «la sistemazione verso il mare risolve egregiamente la funzione di cerniera. La rigida massa parallelepipeda nella quale è incastonata la vecchia loggia dell’ospedale continua la “parete” formata dai palazzi sulle mura, dal De Seta al Trabia, e la conclude. Il tumulto di superfici, più che di masse, verso la cala, stacca nettamente la composizione aulica precedente e preannunzia i volumi frammentari estendentisi lungo l’ansa del vecchio porto»7. 

Edoardo Caracciolo mette in evidenza, inoltre, uno dei caratteri progettuali moderni dell’istituto, ovvero la scomposizione dell’edificio in «masse diverse a seconda delle esigenze funzionali interne»8. 

Il linguaggio aggiornato e sensibile dell’ Istituto nautico, sostiene Gianni Pirrone, «sembrava dovesse dare il via ad un nuovo corso dell’architettura palermitana»9. 

Il progetto, il cui nitore cristallino ricorda le opere dei milanesi Mario Asnago e Claudio Vender, viene però mutato in corso d’opera, forse per motivi economici, mortificando lo spirito dell’idea originaria ed evidenziandone, in definitiva, i difetti. Pur con le sue deviazioni dall’idea originaria, tuttavia, l’opera può essere considerata il primo tentativo cosciente di un’ interpretazione antiletteraria dell’architettura, forse il modo più corretto di inserimento in un luogo così delicato, analogamente alla stazione ferroviaria Michelucci, costruita a Firenze dietro le absidi di Santa Maria Novella. 

Creare un’ architettura per l’ uomo, fruitore dell’ opera dell’ architetto, è il motto che impera fra la maggior parte degli architetti italiani già all’indomani della guerra. Un imperativo che punta alla democratizzazione dell’ architettura e che proviene da lidi lontani, come l’America e la Finlandia. Le nuove vie dell’architettura indicate da maestri come Wright o Aalto hanno larga eco nell’Italia postbellica, promosse da Bruno Zevi con la fondazione dell’ Apao. 

In Sicilia, l’adesione al movimento fondato da Zevi, viene accolta come un momento d’ incontro e di collegamento con le vicende che si svolgevano altre lo Stretto; a Palermo nel 1949 si tiene una riunione dell’ Apao, alla quale partecipano i nomi di spicco dell’architettura locale. Qui la lezione organica viene assimilata e rivisitata alla luce di quella atavica tendenza conservatrice, che opta per una rilettura dei nuovi canoni lessicali e per un loro accostamento ad elementi tipici dell’ architettura mediterranea. Si può dunque parlare di un’esperienza che acquisisce toni originali in quanto si lega alla riscoperta del concetto di sicilianità. Il confronto tra l’Istituto tecnico nautico, del 1948, e il posto di ristoro sul Monte Pellegrino, del 1954, dello stesso architetto, evidenzia chiaramente la mutata concezione architettonica. 

Tuttavia l’idea di dover fare (o di non dover fare) un’architettura organica, che si contrappone a quella definita razionalista, porta con sé anche aspetti piuttosto negativi, poiché abitua a pensare la tradizione moderna in termini indebitamente ristretti. Infatti, il dibattito si sposta inavvertitamente sui vecchi temi culturali e la storia dell’ architettura moderna appare allineata con quella dell’architettura antica come una successione di indirizzi formali, che si soppiantano tra loro all’infinito 10. 

La vastità degli stimoli formali, sia essi riferiti all’ architettura internazionale, sia riferiti a quella mediterranea, porta, in antitesi con le istanze iniziali, a trattare ogni tema più come occasione isolata che come proposta per il rinnovamento organico della città. Si apre così una nuova strada, che è quella della ricerca della perfezione qualitativa della singola opera o del singolo complesso. 

La momentanea conciliazione di tradizione e modernità mostra, a distanza di tempo, che solo una parte di questa attività vale come contributo alla soluzione di alcuni problemi della città moderna – la museografia11, l’ambientamento di nuovi edifici nei quartieri antichi monumentali, la ricerca di una identità regionale -, mentre alcune limitazioni implicite hanno pesato negativamente sulle esperienze successive in misura notevole. Tra queste, l’ abitudine di trasferire l’esigenza della continuità storica sul terreno formale e spaziale e soprattutto la difficoltà di affrontare sopra una determinata scala i problemi che condizionano sempre più urgentemente la vita della città moderna, quindi la mancata continuità tra l’impegno architettonico e urbanistico. Questa diviene il punto cruciale della cultura architettonica, non solo siciliana, che mostra i propri esiti nella scarsa vivibilità di molte città italiane. 

Raimondo Piazza

NOTE 

1 M. Piacentini, Architettura doggi, Roma 1930, p. 34. 
2 M. C. Ruggieri Tricoli, Salvatore Caronia Roberti architetto, Palermo 1987, p. Il. 
3 M. Capobianco. Gli anni quaranta. “La via più dura» dellarchitettura italiana, in M. Capobianco (a cura di ), Architettura italiana 1940·1959, Napoli 1998, pp. 61·145, cit. p. 70. 
4 E. Sessa, Salvatore Caronia Roberti. Opere e poetica, Dipartimento di Storia e Progetto dell’Università degli Studi di Palermo, «Bollettino della Biblioteca», n. 2, gennaio-dicembre 1993, pp. 130·133, cit. p. 131. 
5 Cfr. C. Conforti, Roma, Napoli, Sicilia, in F. Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura italiana, il secondo Novecento, Milano 1997, pp.176-241, cit. pp. 178-179. 
6 V. Fontana, Profilo dell’architettura italiana del Novecento, Venezia 1999, p. 219. 
7 E. Caracciolo, il teatro marittimo di Palermo, «Urbanistica», n. 3, gennaio-marzo 1950, pp. 75-77, cit. p. 77. 
8 Ibidem. 
9 G. Pirrone, scheda «Istituto tecnico nautico», in Architettura del XX secolo in Italia, Genova 1971, pp. 122· 123, cit. p. 122. 
10 Si veda a tal proposito: B. Zevi, Saper vedere larchitettura, Torino 1948. 
11 Si veda, per esempio, la sistemazione museale di palazzo Abatellis a Galleria nazionale di Sicilia, realizzata a Palermo da Carlo Scarpa negli anni 1953-54.

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 22-26.




 Architetti dei «centri minori» in Sicilia:  Salvatore Costanzo 

Giancarlo Lunati, presidente del Touring Club Italiano, definisce «centri minori» quelle città che, seppur di piccole dimensioni, hanno svolto una funzione di controllo del territorio circostante ed espresso significativi momenti di civiltà urbana. Qui si riscontra spesso una considerevole tipicità in termini architettonici e urbanistici, dovuta alla presenza di individui dotati di ingegno e sensibilità che, per motivi diversi, scelgono di operare lontano dalla ribalta delle grandi città. Di costoro, talvolta magistrali registi delle metamorfosi dei luoghi, la storia con difficoltà tenta di ricostruirne criticamente l’operato, anche per la dispersione del materiale documentario. 

La definizione di Lunati calza perfettamente a Mussomeli, «centro minore» della provincia di Caltanissetta, noto soprattutto per il trecentesco castello chiaramontano. 

Qui, tra i protagonisti della scena urbana si distingue l’architetto Salvatore Costanzo; attivo per gran parte dell’Ottocento – scompare il 29 gennaio 1889, all’età di settant’anni -, è tra gli ultimi professionisti ad operare in contatto con una committenza colta ed esigente, attenta ai problemi del «decoro urbano», prima che le modificazioni del centro abitato e del territorio divenissero preda di speculatori e di politici privi dei più elementari strumenti culturali e morali. 

Le fonti letterarie su Costanzo ne evidenziano1 il ruolo incisivo assunto all’interno di quel processo tendente alla modernizzazione di Mussomeli, consono ai progressi urbanistici, architettonici e tecnici di un secolo caratterizzato da profondi cambiamenti in molti settori della società, della scienza e dell’ arte2. 

Si può ritenere che la formazione accademica dell’architetto avvenga a Palermo tra la seconda metà degli anni trenta e i primi anni quaranta del sec. XIX. In questo periodo, la cattedra di architettura civile è tenuta da Carlo Giachery3, che dà un taglio tecnico ai suoi corsi, e affronta anche la trattazione dell’opera di Francesco Milizia (1725-98), uno dei più significativi teorici del Neoclassicismo. 

Il percorso universitario fornisce all’architetto mussomelese anche quelle basi culturali che lo inducono, certamente per inclinazione personale, ad essere al contempo pittore, cesellatore e poeta, nonché cultore di letteratura e storia, di scienze fisiche e naturali4. 

L’ambito cronologico in cui si forma ed opera Costanzo è certamente tra i più complessi della storia dell’architettura: da un lato, le scoperte archeologiche conducono al risveglio del classicismo; dall’altro, le evoluzioni della tecnica, l’adozione di nuovi materiali costruttivi come la ghisa e il vetro, la necessità di nuove tipologie edilizie adatte alle nuove istanze del progresso, spingono verso la formazione di nuovi linguaggi espressivi in grado di rispondere pienamente alle esigenze della vita contemporanea. L’Ottocento, pertanto, oscilla tra pionieristiche fughe in avanti e consolatori rifugi nel passato, che nella seconda metà del secolo sfoceranno nel vario e ampio formalismo architettonico dello storicismo e dell’eclettismo, talvolta con abili compromessi. Giovan Battista Filippo Basile e Giuseppe Damiani Almeyda riassumono perfettamente le contraddizioni dell’epoca5. 

Come molti progettisti che operano nell’Ottocento, Costanzo tiene disgiunta la nozione di arte da quella di tecnica, per cui la sua abilità ingegneristica si applica ad opere di carattere utilitario, altrimenti viene dissimulata in una veste architettonica d’ispirazione prevalentemente classica. 

Tra il 1867 e il 1882 l’architetto si cimenta in opere che denotano approfondite conoscenze nel campo dell’idraulica: la riforma dell’impianto idrico comunale, il pubblico lavatoio, le fontanelle a getto intermittente6. 

Nel 1871 si inaugura la strada che collega Mussomeli con la costruenda stazione ferroviaria di Acquaviva Platani; nel 1882, lungo tale strada, ad appena un chilometro fuori dall’abitato, Costanzo realizza la cappella funeraria Sorce-Malaspina, dedicata alla Madonna del Riparo. Si tratta di una piccola costruzione in pietra a faccia vista, a pianta quadrata, sormontata da una cupola emisferica, con ingresso a fornice affiancato da paraste ioni che; la paraste, due per lato, danno solidità visiva ai cantonali e reggono una trabeazione che si svolge lungo il perimetro. Sopra la cornice, in asse con le paraste, volute lapidee a quarto di cerchio creano un felice contrasto con la curva della cupola. I fondamenti storici – e quindi culturali – che qui presuppongono l’attività di progettazione rimandano ad esempi romani e rinascimentali. 

Il rigore geometrico dell’impaginato architettonico conferisce una solennità all’opera che ben si adatta a perpetuare la memoria delle virtù umane di chi vi è sepolto: nella cappella riposa, infatti, il cav. Vincenzo Sorce Malaspina, fondatore dell’omonimo orfanotrofio. Nella parte sommitale, oltre all’opera di Palladio, il riferimento più prossimo che Costanzo adotta è presumibilmente il gymnasium dell’ Orto botanico di Palermo, progettato da Leon Dufourny nel tardo Settecento. L’accostamento della cupola alle volute con opposta curvatura, infatti, ricorda da vicino l’opera palermitana dell’ architetto francese. Comunque sia, Costanzo dimostra di assimilare nella propria architettura la lezione della storia che, attraverso una considerevole abilità grafica nell’articolazione delle forme e un forte senso di equilibrio nella composizione volumetrica, trascende il passato con nuovi apporti non privi di originalità. 

Analoghe considerazioni possono farsi per il palazzo del barone Mistretta, in piazza Umberto I. 

Il palazzo Mistretta, anch’esso realizzato in muratura portante con pietra a faccia vista, si articola su tre livelli: piano terra, piano nobile e mezzanino. Il prospetto sulla piazza riflette l’uso interno dei piani ed è quindi tripartito: il piano terra, destinato a magazzini, si presenta con una teoria di aperture a fornice; l’ingresso principale è inserito in un leggero risalto che comprende tutte le elevazioni. Il piano nobile è articolato da coppie di paraste ioniche e lesene pensili, alternate a balconi a petto in asse sia con le aperture sottostanti sia con quelle del mezzanino, ed è concluso da una evidente cornice che lo separa dal piano superiore, presumibilmente destinato alla servitù. 

La tipologia trova ancora echi nell’arte del Cinquecento, ma l’astratto rigore geometrico del secondo rinascimento, che Costanzo adotta nella cappella Sorce-Malaspina, ha qui lasciato il posto ad un pregevole virtuosismo grafico, in particolare nelle mostre e nei decorativi rilievi sopra i balconi; non si può escludere che sia stata la stessa committenza a richiedere una maggiore enfasi formale quale simbolo evidente di un solido status economico. Osservando il palazzo con attenzione, si nota come il risalto centrale paradossalmente non sia al centro. Ovvero, sul lato destro si trovano due moduli di balconi compresi tra paraste binate, mentre sul lato sinistro si trova un unico modulo. Tuttavia, esaminando la cornice del lato destro, si nota che rigira ad angolo retto per attestarsi come limite laterale del palazzo. La cornice del lato opposto, invece, prosegue rettilinea per un breve tratto oltre le ultime paraste, segno che la costruzione sarebbe dovuta continuare nel sito oggi occupato da un altro fabbricato, il cui fronte equivale proprio ad un modulo del palazzo. Anche nel paramento lapideo è evidente la predisposizione all’ammorsamento con altra struttura laterale, cioè con il modulo del palazzo forse originariamente prevista, ma non realizzata. Non sappiamo per quale motivo il palazzo venga ridimensionato; fortunatamente, il risalto centrale, poco accentuato, rende meno evidente lo squilibrio della facciata, che rimane, però, degna di merito per il rapporto proporzionale tra piano terra e piano nobile e per l’eleganza degli intagli, pur notandosi qualche forzatura compositiva proprio nell’innesto del risalto sulla facciata. Questo palazzo è solo il prologo dell’intervento che più di qualunque altro caratterizza urbanisticamente l’espansione di Mussomeli extra moenia: «la bella e moderna via Palermo», per citare l’articolo del 1955 di Raimondo Piazza sull’architetto mussomelese. 

L’idea di un tessuto stradale che costituisse la matrice della nuova espansione edilizia non è estranea alla cultura siciliana: validi esempi si riscontrano a Palermo nella settecentesca addizione regalmicea o nella via della Libertà che si realizza a metà dell’Ottocento7. E certamente sulla base di questa nuova cultura urbanistica che Costanzo immagina la strada capace di regolare la nuova espansione all’abitato verso est e collegarsi con la provinciale che porta alla stazione ferroviaria e alla statale Palermo-Agrigento. Ma maggiori pregi di questa nuova strada si ritrovano soprattutto nelle qualità dello spazio, nelle proporzioni complessive della sezione, nel confluire elegante verso la piazza Umberto I. 

Nonostante l’importanza architettonico-urbanistica, l’approvazione del nuovo tracciato stradale non è immediata. Pare che l’architetto trovi forti resistenze non solo da parte dei proprietari delle aree da espropriare, ma persino da parte dell’ Amministrazione comunale, che difficilmente può comprendere lo spreco di tanto suolo edificabile. Superate le resistenze e i particolarismi, l’opera viene realizzata. Purtroppo oggi, il valore di exemplum viene trascurato: l’attuale sviluppo urbanistico dell’abitato mette in evidenza soprattutto atteggiamenti speculativi che, per soddisfare interessi personali, ignorano quella che è la più elementare istanza di una società civile: la qualità ambientale. È proprio vero, come scrive Giuseppe Spatrisano, che «ogni epoca esprime la propria condizione materiale, morale e spirituale [ … ] nell’architettura, per quel rapporto fisico e profondamente umano che essa ha con la società»8. 

I lavori di cui si è detto costituiscono solo frammenti dell’intensa attività progettuale dell’ architetto Costanzo. Ad esempio, nel 1867, per tutto l’anno solare, l’architetto si occupa delle «fabbriche di campagna dello Stato di Mussomeli di proprietà degli eredi del principe di Trabia»9. Un documento dello stesso anno conferma la sua presenza anche nel castello, per interventi di manutenzione10. Nel 1870 è incaricato dal Comune del completamento della piazza Sant’Antonioll . Nel 1872, in esecuzione della legge del 1865 sulla sanità pubblica, che vieta la tumulazione dei defunti nelle chiese dell’ abitato, l’architetto redige il progetto per la costruzione del cimitero. Il complesso funerario comprende anche la costruzione di una cappella, di una stanza mortuaria e una per il custode, cui si è accennato. 

Nel 1883 Costanzo si occupa del progetto di rifunzionalizzazione dell’ex convento di San Domenico, destinato a scuola elementare. Giuseppe Sorge, nelle sue Cronache, scrive che l’architetto, nell’esercizio professionale, dirige lavori di costruzione per conto del municipio, delle chiese, dell’amministrazione Trabia e di altra committenza12. 

Possiamo supporre, pertanto, la sua influenza, se non proprio il suo intervento, nei prospetti delle chiese di Sant’Enrico e soprattutto di Sant’Antonio, ascrivibili agli anni della sua attività e stilisticamente coerenti con la sua poetica. La facciata della chiesa di Sant’Antonio, ad esempio, oltre ad essere ispirata morfologicamente e sintatticamente all’arte del Cinquecento, presenta in sommità quelle singolari volute a quarto di cerchio che abbiamo già osservato nella cappella Sorce-Malaspina. Si evidenzia in queste opere una predilezione per l’esibizione dei materiali naturali, soprattutto la pietra, modellata con singolare maestria. 

L’opera di Salvatore Costanzo connota profondamente l’attuale morfologia dell’abitato. I risultati ottenuti nel campo della tecnica, del restauro, dell ‘ architettura, dell’urbanistica, dell’ arredo urbano, almeno nell’accezione ottocentesca dei termini, impongono uno studio approfondito della sua operal3, congiuntamente a quella di molti altri architetti operanti all’ombra di «centri minori». In questo modo emergerebbe un quadro più esaustivo di quello che, senza dubbio, può essere considerato tra i più complessi e contraddittori, nonché fecondi, periodi della storia dell’architettura: l’Ottocento. 

Raimondo Piazza

NOTE 

1 La prima pubblicazione di rilievo, dove si trovano notizie sull’architetto Costanzo è dello storico Giuseppe Sorge, Mussomeli nel XIX secolo, 1812-1900, Palermo 1931; una seconda è dello studioso Raimondo Piazza, La bella e moderna via Palermo, testamento ideale di Salvatore Costanzo, «Giornale di Sicilia», 3 setto 1955, p. 5. 
2 Pur non volendosi sminuire la dimostrata attendibilità degli autori, poiché le notizie riportate nelle fonti bibliografiche non sono riconducibili a documenti di archivio, saranno presi in considerazione solamente i dati ritenuti attendibili sulla paternità e la datazione di alcuni progetti. 
3 La cattedra di architettura tecnica viene affidata, nel 1837, all’appena venti sei enne Carlo Giachery, che la manterrà fino al 1852. 
4 R. Piazza, La bella e moderna , cit. 
5 Lo stesso Costanzo dimostrerà di cogliere questa valenza revivalistica nella modesta chiesa del cimitero di Mussomeli (1872), dove mutua elementi desunti sia dall’ architettura gotica sia da quella paleocristiana, forse con l’intento di conferire una maggiore spiritualità ad un luogo così sacro. Allo stato attuale degli studi, la chiesa del cimitero costituisce soltanto l’eccezione di una visione prevalentemente classicista dell’architettura. 
6 Il primo intervento in cui Costanzo mostra approfondite conoscenze tecniche e di idraulica è la riforma dell’impianto idrico comunale attraverso una nuova conduttura d’acqua che dalla contrada Bosco confluisce in una fontana posta nel centro dell’abitato di Mussomeli, dinanzi al palazzo Trabia, oggi piazza Roma (1867). L’architetto sostituisce la precedente conduttura in tubi di argilla con elementi in ferro fuso, che possano resistere alla pressione di ben sedici atmosfere, importati direttamente dell’Inghilterra, all’avanguardia in Europa. Il percorso studiato dall’ archi tetto per la nuova conduttura attraversa ambiti irregolari e scoscesi, come i burroni nella zona dell’ Annivina, conseguendo una sostanziale riduzione della lunghezza complessiva delle tubazioni rispetto all’impianto precedente, che portava l’acqua nell’attuale piazza Umberto I. Alcuni anni dopo, Costanzo progetta il pubblico lavatoio presso la fontana dell’Annivina (1872), nel periodo in cui la zona viene dotata della strada carrabile di circonvallazione. Il lavatoio merita particolare interesse per i rilievi lapidei che vi sono integrati. Nel 1874, poiché l’Amministrazione comunale vuole rendere agevole agli abitanti la presa dell’acqua per uso domestico, egli progetta delle fontanelle a getto intermittente che vengono collocate in vari punti del paese e in cui confluisce, attraverso diramazioni realizzate con tubi in ghisa, l’acqua della condotta principale. Altra conduttura viene realizzata nel 1882, insieme a un abbeveratoio nella «via del Signore», presso la chiesa di Santa Maria. 
7 Si consideri la riqualificazione parigina con arterie spaziose e rettilinee ad opera del barone Haussmann, prefetto della Senna dal 1853 al ’69, che assume in Europa un valore ecumenico. In Italia sono poche le città dove non si realizzi una strada in linea retta fra il centro e la stazione ferroviaria: via Nazionale a Roma, via Indipendenza a Bologna, via Roma a Torino e Palermo, mentre nella Firenze capitale d’Italia l’intervento è ancora più comprensivo. 
8 Cito in Vincenza Balistreri (a cura di), con scritti di Raimondo Piazza e Agnese Sinagra, Giuseppe Spatrisano architetto (1899 – 1985), Palermo 2001. 
9 Archivio di Stato di Palermo, Fondo Trabia, Serie A, voI. 509: comprende fasc. 1-2-3-4, Mussomeli. Cautele e spese 18561868, fasc. 4, f. 38, anno 1867: «Nota di giorni di servizio prestati dall’architetto Salvatore Costanzo per le fabbriche di campagna dello Stato di Mussomeli di proprietà delli eredi del Principe di Trabia da gennaio a dicembre». 
10 Ivi. 
11 Archivio Storico di Caltanissetta, Deliberazioni comunali, delibera 1085 della Prefettura di Caltanissetta, 11 luglio 1970. 
12 G. Sorge, Mussomeli nel sec. XIX. 1812-1900. Cronache, Palermo 1931, p. 139. 
13 Molti sono, infatti, i punti ancora da chiarire: ad esempio, ci si chiede perché i suoi primi interventi documentati risalgano al 1867, quando l’architetto ha quasi quarant’anni; qual è stata la sua attività, anche progettuale? In quale ambito territoriale opera? 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 33-38.




UN TRENO CHIAMATO MORTE 

Pi Lai (n. 1987, Pechino) 

La speranza non c’è ed il dolore 
non dura per natura. 
Al via si slancia 
il treno del mattino contro il vento. 
Tesse la gente un lungo andirivieni 
per le strade costrette: tutti stretti 
per amore o per odio … Chi lo sa? 
E la città 
trabocca di notizie-imprecazioni 
di morte 
con fragore di vetri 
che il capriccio innocente di bambini 
manda in frantumi 
per gioco in un allegro girotondo. 
Il mondo 
è un concerto di suoni e di motori: 
le nuove voci prive di motivi 
consolatori. 
Più non ci sono orecchie per intendere 
e il cielo è chiuso in sé 
senza una nuvola 
che prometta una pioggia di ristoro. 

Pi Lai

Traduzione dalla lingua cinese di Veronica Ciolli, versione di Patricia Lolli e Renzo Mazzone. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 39.




 L’osservatorio astronomico di Palermo 

Chiara testimonianza scientifica e patrimonio storico, l’osservatorio astronomico di Palermo si eleva su un’ala dell’antico Palazzo Reale, valida immagine che, alla fine del XVIII secolo, rappresentò il mezzo più significativo dell’astronomia moderna italiana. 

Con la determinazione del moto proprio di oltre 1000 stelle e, nel 180l, con la scoperta del primo asteroide, Cerere, collocato in un’orbita tra Marte e Giove, l’astronomo abate Giuseppe Piazzi portò l’osservatorio di Palermo all’attenzione del mondo scientifico di allora, facendogli occupare uno dei primi posti in Europa nella ricerca e studio del cielo settentrionale. 

Piazzi nacque nel 1746 a Ponte in Valtellina (Sondrio) e nel 1789 fu il primo ad organizzare a Palermo l’osservatorio astronomico. La scoperta di Cerere gli procurò una vasta simpatia e particolarmente quella dell’ammiraglio inglese William Hemy Smyth, che si trovava a Napoli per alcuni lavori di idrografia. Nel 1819, lo stesso ammiraglio diede ad un suo figlio il nome di Charles Piazzi Smyth, il quale divenne, in seguito, regio astronomo per la Scozia e direttore dell’osservatorio di Edimburgo; a lui si attribuisce il calcolo delle misure della piramide di Cheope. Si sottolinea che l’istituzione dell’osservatorio astronomico di Palermo sollecitò l’interesse delle altre città italiane, tanto da dare un impulso alla costruzione di una serie di alquanto modesti osservatori, aggregati alle rispettive Università di Bologna, di Pisa, di Torino, di Milano, di Padova e di Firenze. 

Oggi, uno dei più importanti cataloghi stellari è quello pubblicato nel 1803 da Piazzi, in edizione riveduta nel 1814 e messo in commercio nel 1933, dopo essere stato sottoposto ad un lungo e laborioso esame e poi ridotto da Francesco Porro per le sole ascensioni rette e, ulteriormente, completato nelle declinazioni. 

Giova precisare che 1’osservatorio di Palermo nacque su un progetto scientifico elaborato nel 1786, contemporaneamente alla istituzione di unacattedra di Astronomia presso l’Accademia dei Regi Studi1 e costruito, in appena otto mesi di lavoro, nella Torre di S. Ninfa, o Pisana, del Palazzo Reale. Ufficialmente fondato il l° luglio 1790, l’osservatorio s’impose subito come uno dei migliori esistenti in Europa, sia per la sofisticata strumentazione che per le felici ricerche scientifiche. Dopo la morte dell’abate Giuseppe Piazzi, ebbe la direzione dell’osservatorio di Palermo il suo stretto collaboratore Niccolò Cacciatore e dopo, nel 1842, il di lui figlio Gaetano. 

Nel 1853, a causa dei moti rivoluzionari del 1848, l’astronomia in Sicilia e bassa Italia subì un arresto, risvegliandosi soltanto per opera dell’astronomo Domenico Ragona che, nel 1855, acquistò il rifrattore equatoriale Mertz di 25 cm. di apertura, attualmente esistente nella cupola grande della Torre Pisana. Con l’unificazione italiana, l’astronomo Gaetano Cacciatore, prima allontanato dall’incarico e incarcerato (1849), quale rivoluzionario, venne reintegrato nella carica di direttore dell’osservatorio di Palermo e riprese la sua intensa attività, sviluppandola, ulteriormente, nelle tre sezioni, di Astronomia, Meteorologia ed Astrofisica. Nella sezione di Astrofisica, dal 1863 al 1879, si distingue il primo astronomo aggiunto Pietro Tacchini, il quale, dopo circa dieci anni di giacenza in magazzino, riesce a montare (1865) l’equatoriale Mertz e a dare inizio, primo in Italia, allo studio spettroscopico delle protuberanze solari. La figura di Pietro Tacchini s’inserisce fra quelle appartenenti a scienziati di fama mondiale, specialmente per essersi trovato fra i sostenitori e poi fondatori degli spettroscopisti italiani, che diedero origine all’attuale «Società Astronomica italiana» (S.A.It.). 

Purtroppo, l’osservatorio di Palermo è una costruzione che sempre è stata soggetta ad oscillazioni quotidiane per la sensibile escursione termica, dalla notte al giorno e viceversa, nonché a deviazioni del piano meridiano; elementi questi che influenzarono gli errori sulle osservazioni fatte dal Piazzi e che oggi si assommano alle cattive condizioni ambientali esterne ed interne. 

I palermitani, passando per Piazza Indipendenza e per le aree adiacenti, ammirano l’argentea cupola astronomica di Palazzo Reale e si domandano che se n’è fatto del vecchio e famoso osservatorio e se ancora oggi ha la sua giusta funzione nello studio della sfera celeste accanto ad altri osservatori nazionali. 

La risposta, purtroppo, sarebbe molto deludente per il profano, anche se confortata da vecchi attributi di gloria. Allo stato attuale, anche quando se ne avesse la volontà, non si potrebbe intraprendere alcuno studio stellare, neppure a livello didattico, ad eccezione di osservazioni visuali dei grossi corpi solari, come la Luna, Venere, Giove e Saturno. A questa limitazione concorrono soprattutto l’inquinamento atmosferico e le abbondanti luci cittadine. 

Nonostante quanto si è detto, la cupola più grande (m. 12 di diametro), continua ad ospitare, con muta dignità, il già menzionato rifrattore di di 25 cm., mentre quella più piccola, un recente Schmidt-Cassegrain di 35 cm. di diametro, che viene usato dall’Istituto universitario. 

Il vecchio e prezioso «Cerchio di Rarnsden», costruito dallo stesso Ramsden, sotto gli occhi del Piazzi e con cui l’abate aveva studiato le stelle e scoperto Cerere, illuminato da una flebile lampada elettrica, resta relegato in un angusto ambiente, immeritato destino di un valoroso guerriero, chiuso in prospetto da una impolverata e grande vetrata, attraverso cui il lucente ottone dello strumento viene intravisto dall’ammirato nostalgico. 

Ma la tristezza non s’addice ai giovani scienziati che dirigono l’osservatorio di Palermo, tanto che, negli ultimi cinque anni, lo studio della fisica solare rappresenta l’unico orientamento tradizionalistico dell’osservatorio astronomico che, sotto la guida degli illustri astrofisici G. Vajana e S. Serio, non può non aspirare ad una rapida rimonta per riprendere il posto fra gli osservatori più importanti d’Europa. Certamente, un’adeguata attrezzatura operativa, dislocata in area montana del palermitano, dove un fotometro a 4 colori potrà scandagliare il cielo nel lontano infrarosso, stabilirà i meriti che competono alla specola siciliana. 

A. Pezzati 

1 L’Accademia de’ Regi Studi era un settore della pubblica istruzione, organizzato dalla «Deputazione de’ Regi Studi», organo creato dal governo borbonico nel 1778. 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 43-45.




LUCIA MEZZASALMA, Amo la pace, poesie, I.l.a. Palma, Palermo, 2006.

La poesia come messaggio sociale 

Dopo Amo la vita del 1999 Lucia Mezzasalma è tornata a sorprenderci con una nuova silloge lirica dai toni pacati e sereni, ispirata a temi universali: la pace, l’incontro tra i popoli, la solidarietà, l’amore per la vita … Ed è questa sua capacità di saper saldare lirica ed etica. visionarietà e saggezza, che marca a tinte forti l’appartenenza ad una cultura intrisa di valori, tradizioni e sentimenti. Una cultura in contrasto con quella formale alla moda, che usa tutti i mezzi per ridurla a espressione di controcultura. La quale non risparmia nessuno dei media, conniventi nelle ipocrisie con cui si offrono i fatti all’opinione pubblica; agli inganni del capitalismo sfrenato, della falsa democrazia; alla miopi a degli intellettuali che non vedono le dinamiche del mondo. 

I fatti che cita ricordano tante tragedie dimenticate, i falsi miti del mondo d’oggi, spiegato come prosperità e acquiescenza all’amore del cosiddetto consumismo, in un ordine in cui la deregulation significa nessuna regola di vita associata al cinismo individuale. A cominciare dal mondo del lavoro, coi suoi falsi miti, come quello dei vantaggidella flessibilità indiscriminata, che tradotta in parole povere significa: «se oggi avete un lavoro, domani chissà». Il risultato è un baratro che aumenta l’insicurezza e minaccia la società, strangolata nella morsa tra i privilegi di pochi e la riduzione dei diritti dei molti. 

Come milioni di altri uomini subiamo un bombardamento di bugie sull’economia, sulla sanità, sulla qualità della vita, e giorno dopo giorno sentiamo il bisogno di dire basta e riprendere il filo di un ragionamento, così come ha fatto Lucia Mezzasalma. In Amo la Pace, il verso suona vasto, ridondando dignità e altezza alla parola, oggi così abusata e vana. Difficilmente in poesia si trova questa globalità, resa come se avesse il compito di innalzare la parola ad invocazione universale purificante. 

Questo libro si impone come voce di tantissime voci che non hanno tempo e rappresentano il dramma di una umanità nella sua intima storia. E non serve citare questa o quella poesia, perché l’intera silloge si muove sul filo della memoria, per visitare le note tristi dei periodi bui della vita e chiedere ai ricordi il senso di ciò che accade; per riconfermare alla vita la voglia di esserne partecipe e offrire un contributo per l’affermazione della pace e dell’ amore. 

Un libro nel quale la donna e il poeta camminano insieme e l’Autrice non si risparmia in sincerità, come nel suo primo libro Amo la vita, dove c’è già il nucleo del messaggio spirituale che Lucia sviluppa in Amo la Pace, in un crescendo di visione allargata per un programma di pace e di incontro con l’altro, sia l’espressione dei nostri fantasmi inconsci, sia l’uomo estraneo al suo stesso nucleo sociale e dunque nemico … 

La poesia ha certo una funzione di ricerca ontologica, ma non ha poteri taumaturgici per guarire i mali del mondo. E tuttavia essa può rappresentare una spina nel fianco della demenziale attitudine alla sopraffazione e all’egoismo; può rappresentare un grido di protesta lanciato a profanare i sacrari della prepotenza ideologica e sociale; può rappresentare un momento di riflessione e uno stimolo all’azione. 

Adriano Peritore

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 61-62.




GIANNI GIANNINO, Il nido tra le stelle. Haiku e altri versi, collana «Pagine di Poesia», I.l.a. Palma, Palermo, 2007.

Quando nella parola si fa strada il Logas, esso esige necessariamente un silenzio per accoglierlo e allora la parola poetante diventa dono che tacitamente consente un rapporto tra soggetti che reclamano uno scambio differito. Dono sono, infatti, questi teneri haiku coronati da un mazzetto di liriche, specchio del creato che Gianni Giannino ha voluto, sì, regalarei per riportare lo spirito a un dialogo interiore. In tale direzione diventano una sfida per pensare, perché accettare un dono come questo significa impegnarsi a rendere di più. 

Se per i contenuti cui essi alludono occorre tuffarsi nella memoria storica d’un vissuto dolce-amaro di ricordi vivi del natio borgo di Acquaviva Platani: «una solitudine in bocca a un monte», non così è per ciò da cui essi provengono, perché impegna ogni lettore a diventare soggetto universale di questi poemetti brevi e originali. 

Siamo in presenza d’alta poesia lirica, dove la forma un po’ orientale radica ed illumina ancor di più i contenuti d’una cultura religiosa occidentale, che però qui non conosce tramonti. L’atteggiamento poetico antimoderno della nostra civiltà vuol salvaguardare un nucleo tradizionale di temi e problemi in quella forma originaria e originale che l’ Autore riesce a trasmetterei quale retaggio della migliore tradizione e gli consente di godere e cantare: «il mio nido sarà oltre le stelle, lontano lontano, per contemplare terre e cieli nuovi». 

Gli haiku sono brevissimi componimenti di tre versi, poco usati nella poetica italiana, pensieri da centellinare e auspicio che essi lascino nell’anima tracce di luce e desideri di santità. 

Valeria Patinella

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 61.




Padre G. Raimondi, Le nozze folli del giullare S. Francesco d’Assisi, ed. Krinon, 1991. 

 “Il Signore mi ha detto di volere che io intraprendessi una follia nuova nel mondo. Non ha voluto condurmi per altra via che questa”. Sono le parole che S. Francesco d’Assisi esclama ai frati, seguaci della sua regola, in un capitolo in cui si discute se essi debbano essere addrottinati. Dinanzi a taluni che si fanno sostenitori del valore della sapienza e della dottrina, Francesco ribadisce energicamente che la salvezza del cristiano può venire soltanto dalla “nuova follia”, la follia di chi, come lui, ha scelto di porsi al servizio della povertà evangelica. Di Francesco e della sua follia ci dà un ritratto, storico e al tempo stesso sovrumano, Padre Giuseppe Raimondi nella sua biografia del Santo, uscita per le edizioni Krinon. 

È un ritratto storico, perché viene puntualmente fornito un quadro minuto e realistico della società comunale entro cui si compì la predicazione del Santo: le rivalità tra Assisi, sua città natale e Perugia, le lotte, anche sanguinose, tra nobili e popolani, tra nobili e nobili, un mondo di violenze e di sopraffazioni, su cui Francesco fece valere la sua opera di pacificazione e di concordia. Ma è sopratutto un ritratto sovrannaturale, perché animato dalla visione tutta interiore che Francesco ebbe di Dio: nel momento in cui scelse, nella piazza principale di Assisi, alla presenza del vescovo, di rinunziare alle ricchezze del padre e di darsi interamente nudo nel corpo e nell’animo a Cristo, si avviò, ma, forse sarebbe meglio dire, si proseguì una comunicazione unica e irripetibile col Signore. 

Una metafora viva e reale accompagna il racconto, che a volte raggiunge toni leggendari, gli stessi toni dei primi testimoni del Santo: è la metafora delle nozze con Madonna Povertà, la decisione, cioè, di seguire fedelmente e integralmente il messaggio del Vangelo. Ed è una povertà vissuta non come rinuncia e disprezzo delle cose, ma accolta con gioia e semplicità. 

In un’atmosfera, che in certi momenti, può risultare idealizzata, a tal punto da richiamare la letteratura cortese o cavalleresca, si realizza la vicenda del giullare di Dio, che con animo lieto ne canta le lodi e la grandezza. Una vita, quindi, che ha quasi “l’andatura di un romanzo” come scrive l’autore nella prefazione, a rischio di sembrare un “sorpassato” rispetto alla critica storica più accreditata. 

Vito Parisi

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pag. 76.




Ponzio Pilato: vile indeciso o illustre magistrato? 

 Un personaggio da sempre discusso e criticato, accusato di viltà e di aver impunemente fatto condannare e crocifiggere nientemeno che il Cristo, può all’improvviso essere riabilitato? La risposta è senz’altro negativa, se si analizza la questione impiegando categorie contemporanee e notizie vulgate, se si chiudono gli occhi della mente per non-volontà di approfondire gli studi riguardo al personaggio o per la mancanza del coraggio necessario per accettare o affermare una teoria nuova e rivoluzionaria. In tal modo non si accettano le verità né si smentiscono le bugie, ma si imbrattano solo fogli di carta con l’illusione di aver scritto qualcosa di nuovo, ma, nella maggior parte dei casi, non si fa altro che perpetuare ignobili calunnie o presunte verità. È più opportuno, invece, chiedersi le ragioni degli eventi e dei comportamenti, cercando testimonianze attendibili che illuminino, al di là di ogni dogma o pregiudizio, la mente non solo dello studioso, ma anche dell’uomo della strada. 

Nel caso di Ponzio Pilato, il preambolo appena terminato era addirittura indispensabile, perché ci si trova in presenza di un personaggio discusso e bersagliato come “una testa di turco contro cui lanciare palle di stracci” per non aver avuto la forza, il coraggio o l’autorità di far assolvere Gesù. È opportuno, allora, riprendere la questione ab imis fundamentis, secondo i dettami della Filologia Sperimentale e, facendo tabula rasa di tutto ciò che si sa (o che si è accettato finora). cercare di ricostruire l’identità dell’uomo e il carattere del magistrato. 

Dell’esistenza di Ponzio Pilato si è assolutamente certi a causa di una epigrafe ritrovata nel 1961 durante gli scavi del teatro romano di Cesarea di Palestina dalla Missione Archeologica Italiana diretta da Antonio Froval. 

L’iscrizione, mutila sul lato destro e sinistro, dice: 

………..TIBERIEVM 
…….TNS PILATVS 
……ECTUS IVDAEE 
……E . 

Il filologo sperimenttale Davide Nardoni ricostruisce l’iscrizione, traducendo: “Ponzio Pilato Prefetto della Giudea, levava sacello in onore dell’Imperatore Tiberio nella città di Cesarea Marittima, sede della Prefettura di Giudea”2. 

Del Prefetto di Giudea conosciamo il cognome (nomen): Pontius e il soprannome (cognomen): Pilatus, ma non il nome proprio (praenomen). 

Il cognome Pontius consente di inserirlo nell’antica famiglia Pontia, di chiara origine sannitica, come è testimoniato da due iscrizioni presenti nella città d’Isernia3. Il cognomen Pilatus indica che Ponzio era stato un Pilus, ossia un Centurione Primipilare severissimo, poiché usava il pilum, il giavellotto e non il ramo di vite per esercitare il suo diritto e dovere di punire i soldati imbelli, percotendo le loro natiche scoperte4. Ciò consente già di delineare alcuni caratteri del personaggio: era Centurione Primipilare; consente, inoltre, di smentire con assoluta certezza la prima accusa, quella di viltà, infatti la carica di Centurione Primipilare si guadagnava sul campo, combattendo con valore degno di decorazione in almeno trenta occasioni. A ricoprire tale carica i Centurioni giungevano crescendo di grado, dal decimo al primo manipolo degli astati, dal decimo al primo manipolo dei principi, dal decimo al primo manipolo dei triari. 

Il Centurione Primipilare, oltre ad essere il capo di tutti i centurioni, aveva grandissima autorità ed era tenuto in conto di “cavaliere” (Eques)5. Ciò gli consentiva di aspirare ed, eventualmente, di ricoprire la carica di Prefetto di Giudea, che era risezvata agli uomini di rango equestre. 

Secondo quanto è dato sapere, Pilato conosceva tre lingue: il latino appreso da bambino, il greco appreso in età scolare e l’aramaico appreso durante il servizio militare in terra semitica6. Questa circostanza e l’indiscutibile valore di condottiero, oltre alle favorevoli presentazioni all’Imperatore da parte degli illustri parenti che frequentavano il Palatium, Ponzio Nigrino e Ponzio Fregellano, indussero Tiberio ad affidare a Pilato la Prefettura di Giudea. 

I Prefetti che precedettero Pilato furono Coponio (in carica dal 6 al 9 d. C.), Ambibulo (in carica dal 9 al 12 d.c.), Rufo (in carica dal 12 al 15 d. C.) e Grato (in carica dal1S al26 d.c.). Come si può vedere, se si esclude l’ultimo, nessuno di essi rimase in carica più di tre anni, a testimonianza della severità con cui l’Imperatore giudicava i suoi amministratori e i suoi magistrati. Il “cavaliere” Ponzio Pilato rimase in carica, invece dal 26 al 36 d. C., per ben dieci anni, e ciò prova che egli seppe bene interpretare la categoria romana suprema: l’imperium. Tale categoria che in origine indicava un “atto concreto di parificazione”7 e non il 

L’imperium, parte costitutiva della patria potestas era retaggio dei patres familias che morendo lo lasciavano al figlio maggiore o erede con l’ultimo bacio. 

I “padri di famiglia” che esercitavano l’Imperium come “potatori” nella vigna e come “aratori” nei campi, lo stesso imperium: “autorità suprema” che li rendeva sacri, esercitavano nella Curia nell’interesse di Roma, esercitavano nei castra sulle Forze Combinate Romane nell’interesse superiore della Pax Romana. L’obiettivo dell‘Imperium esercitato nelle vigne e nei campi era la “parificazione” delle viti potate ad occhi pari nei due tralci perché portassero uve per il nuovo vino, era la “parificazione” del terreno con aratro, erpice e rastrelli perché portasse buon grano. 

L’Imperium esercitato dai patres familias nell’ambito familiare mirava ad assicurare la “parità” dei diritti e dei doveri tra tutti i componenti: i figli liberi e i figli degli schiavi venivano educati alla “pari”: sub imperio matris. 

L’Imperium esercitato dagli Imperatores tra i legionari mirava a rendere “pari” le Forze Combinate Romane davanti alle fatiche di guerra, davanti al bottino di guerra, manubiae, davanti ai premi, alle promozioni e alle pene. 

L’Imperium esercitato nella sfera politica sui popoli “interni”, all’Orbe romano, mirava a dare ai popoli la “parità” dei diritti e dei doveri, concedendo a quanti se ne dimostravano degni la cittadinanza romana: ius civitatis.

comando, era esercitata nei riguardi di tutti coloro che, obbedienti alle leggi di Roma, si dimostravano degni di godere dello ius civitatis. L’atto di aggregazione era considerato un principio fondamentale della politica di diffusione dell’Impero; infatti, secondo quanto dice Virgilio nell’Eneide, lo stesso Giove aveva proclamato alla figlia Venere la missione assegnata dal Fatum a Roma e ai Romani: agire in vista della “parificazione” dei popoli: Imperium sine fine dedi8. 

La missione eterna assegnata dal Fatum a Roma veniva ripetuta dal padre Anchise al figlio Enea, nel lucòre dei Campi Elisi: 

Tu regere imperio populos, Romane, memento! 

“Romano ricorda di guidare i popoli al parime”9. 

Lo stesso padre Anchise al figlio Enea svelava le tre “arti” esercitando le quali Roma avrebbe dato la “parità” del diritto a tutti i popoli: 

1) Paci imponere morem10; 
2) Parcere subiectis 11; 
3) Debellare superbos12. 

I Romani, agendo in accordo a tal direttive di imperium, cercavano sempre e innanzitutto di applicare la prime e la seconda con l’intenzione di stabilire le condizioni, affinché potesse regnare la pace e di rendere produttivi i popoli sottoposti. Solo quando le prime due risultavano inefficaci, solo quando la pervicacia non poteva essere vinta con altri mezzi, Roma ricorreva alla debellatio, annientando la tracotanza con azione bellica violentissima. Si sa che l’applicazione della prima e della seconda “arte” d’imperium era lasciata alla discrezione dei vari governatori, amministratori e prefetti dei territori “aggregati”, mentre la terza poteva essere decisa solo dal potere centrale. 

La temibile debellatio, come la storia c’insegna, fu applicata nei riguardi del popolo giudeo tramite le legioni stanziate in Siria, che, nell’anno 70, rasero al suolo la città di Gerusalemme. Ciò indica con chiarezza quanto difficile fosse il compito di Pilato, il quale venne a trovarsi tra gente che nulla faceva per farsi intendere dallo straniero e che nulla faceva per intendere lo straniero. Pilato veniva a trovarsi tra gente che non poteva amare il “barbaro” venuto da città lontana ad amministrare la terra e il popolo che riconosceva una sola autorità, quella dell’unico dio dei Padri: Jahwéh. 

Pilato veniva a trovarsi tra gente che nulla avrebbe fatto per facilitare al Prefetto il suo compito; tra gente sempre pronta a mandare rapporti a Roma per levare lagnanze contro la condotta del prefetto davanti all’Imperatore. 

II compito posto sulle spalle del Prefetto mandato da Roma, era gravoso. 

Il compito di amministrare e reggere la Giudea comportava incombenze per il Prefetto, che si concretizzavano in atti che a tempo e luogo dovevano essere fatti. 

Il compito del Prefetto di Giudea erano uguali ai compiti di tutti i governatori: alcuni compiti solo dei “prefetti” della Giudea: 

l) Risiedere a Cesarea Marittima: 
2) Salire a Gerusalemme durante la Pasqua; 
3) Cooperare con le autorità locali; 
4) Controllare i “pubblicani”; 
5) Inculcare il culto dell’Imperatore; 
6) Mantenere l’ordine pubblico; 
7) Tenere in ordine l’archivio; 
8) Dare l’allarme al governatore della Siria; 
9) Chiedere delucidazioni a Roma; 
l0) Aggregare la Giudea a Roma; 
11) Fare i lavori pubblici; 
12) Conservare nella Baris i paramenti del Sommo Sacerdote; 
13) Vigilare sulla condotta del Sommo Sacerdote e sulle Autorità locali; 
14) Riscuotere le tasse per l’erario e per il fisco; 
15) Amministrare la giustizia(13. 

Appena assunta la carica di Prefetto, Pilato fece il suo ingresso in Gerusalemme di notte e ad insegne spiegate. Come dice giustamente il Nardoni14, tale gesto aveva due spiegazioni: 1) le insegne recanti l’immagine dell’Imperatore, alzate nella Città Santa costituivano “sacrilegio” intollerabile agli occhi degli israeliti della Madrepatria e “profanazione” agli occhi dei credenti della Diaspora; 2) Le insegne con l’immagine dell’Imperatore, piantate nel cuore di Gerusalemme, agli occhi di Tiberio, di Seiano Praefectus Praetorii, del Prefetto, dei legionari posti a difesa dell’Impero e di tutti i romani, costituivano il primo tentativo del Prefetto per fare accettare ad Israele Roma e per “aggregare” territorio e popolo all’Orbe romano. 

Con quel gesto Pilato, dimostrando la sua intenzione, chiariva la sua azione nella Giudea: rispettasse la Giudea Roma come Roma rispettava la Giudea sine ullo discrimine15: senza differenze, senza discriminazioni. 

In opposizione a tale gesto, gli Israeliti manifestavano il loro disappunto e il loro rigetto alla proposta di “aggregazione”, sostando per ben cinque giorni in pacifica dimostrazione davanti alla sede della Prefettura di Cesarea Marittima ed ottennero la rimozione delle insegne. Tiberio non batté ciglio, non criticò Pilato: egli stava tentando di applicare la prima direttiva d’imperium. 

A Pilato è stato anche fatto il rimprovero di essersi impossessato del Tesoro del Tempio, Korbonàs, per costruire l’acquedotto di Gerusalemme. Non è difficile smontare anche quest’altra accusa. Si sa, infatti, che il Korbonas16, che era stato costituito da tredici casse o ceste contenenti gli “scicli” della tassa del Tempio e delle elemosine si trovava nell’azarah, nel cortile delle donne, ossia nella parte più interna del Tempio, alla quale i Romani, Gentiles, Goyìm, “infedeli”, “miscredenti”, giammai sarebbero potuti pervenire senza compiere un grave atto di profanazione che il Sommo Sacerdote avrebbe immediatamente denunciato a Tiberio. Ciò non accadde. Neppure le fonti ebraiche Filone Giudeo e Flavio Giuseppe lamentano tale profanazione. La conclusione è, quindi, semplice: i Romani non avevano preso in modo coatto il Tesoro, ma lo avevano ricevuto dal Sommo Sacerdote Caifa, il quale, anche in altre occasioni, dimostrerà di intendersela politicamente con l’illustre funzionario di Roma. 

Il secondo tentativo di far accettare agli Ebrei la presenza di Roma, Pilato lo fece esponendo i clipei virtutis sul Palazzo di Erode, sede del Prefetto. Tali scudi non recavano l’immagine di Tiberio, ma solo la sua “nominatura”: 

Ti. Claudio Neroni, divi Aug. F., Imp.? 
Con.? Trib. Potest.? P.P. 

Anche ciò fu ritenuto un oltraggio dagli Israeliti, i quali ne chiesero l’immediata rimozione e, poiché Pilato non esaudì tale richiesta, gli stessi inviarono un rescritto a Tiberio, il quale ordinò al suo magistrato di togliere i clipei. Pilato obbedì. L’Imperatore non rimosse il Prefetto dalla sua carica, dimostrando chiaramente di aver capito quale era la funzione politica della sua mossa. 

Altra accusa comune diretta al celebre Ponzio è quella di essere stato spietato e sanguinario. A sostegno vengono addotti due passi del Vangelo. Il primo è quello in cui Luca dice: “In quel tempo. alcuni presenti riferivano a Gesù di Galilea, il sangue dei quali Pilato aveva mescolato con il sangue delle vittime sacrificali” 17, volendo dire che le forze legionarie profanarono addirittura il Tempio massacrando i Galilei mentre compivano i loro sacrifici. Ancora il Nardoni18 fa giustamente ed acutamente notare che la voce greca “Thysiòn”, genitivo plurale di “Thysia”, indicando le “vittime da sacrificio”. non fa alcun riferimento al luogo del massacro. Lo stesso evidenzia che. poiché Israele era suddiviso «in tanti maamadoth con il compito di fare i sacrifici nel Tempio, questi quel giorno toccavano ad un maamad galileo. Salivano i rappresentanti del maamad galileo a Gerusalemme ma prima che entrassero nella Città Santa venivano affrontati dalla forza Romana in ricognizione perché allarmata. Romani e “Galilei” si affrontavano; dopo lo scontro, sul terreno “Galilei” uccisi e bestie sgozzate. Il massacro avvenne fuori del Tempio». 

L’altro episodio, riferito da Marco19, parla di una repressione operata dalle forze romane contro “ribelli che avevano commesso assassinii durante una rivolta”. 

Mi sembra che in entrambi i casi non si possa parlare di “sete di sangue” del “prefetto”, ma semplicemente di due azioni di polizia tese a preservare l’ordine pubblico. compito questo che. come si è già detto. era fondamentale per il Prefetto e per tutti i magistrati e governatori di Roma. 

Oltre agli eventi citati, se si fa eccezione per l’esecuzione di Cristo, di cui parleremo ampiamente. non si rilevano altri eventi di spicco in Giudea durante il mandato di Pilato e, sembra, durante il regno di Tiberio, che fu un periodo di quies, come sostiene l’insigne storico Tacito20. 

Prima di affrontare la difficile analisi delle vicende di Cristo, è opportuno ricordare che, al tempo di Pilato, vigeva la Magna Charta Libertatum, che Cesare aveva concesso agli Israeliti, come riconoscimento dei validi aiuti ricevuti durante il Bellum Alexandrinum, grazie ai quali era riuscito a vanificare gli attacchi di AchUla, il generale di Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra Filopàtore21. La Magna Charta riconosceva agli Israeliti il diritto di professare liberamente la loro religione sia nella Madrepatria che nella diaspora, nonché il diritto di giudicare ed eventualmente di condannare a morte (pena che le legioni avevano l’obbligo di eseguire), coloro che fossero risultati rei e condannati a tale pena dal Grande Sinedrio; il Bet Din haGadol. La forza romana e quella giudaica avevano, quindi, una chiara, rigida sfera d’azione entro la quale agire: l’una giudicare secondo lo ius romano, l’altra secondo la Torah, la Legge dei Padri. 

Quando mancavano pochi giorni alla Pesach, la Pasqua degli Ebrei, Gesù fu arrestato da una forza “combinata” di guardie del Tempio e di legionari dell'”Antonia” (n.d.r.: la torre Antonia, la Baris, fungeva anche da carcere locale), in presenza dell’ “accusatore”, Giuda22, che, come si sa, non poteva mancare, dal momento che la legge e la prassi romana non accettavano le denunzie anonime, segno di tirannia e corruzione23. Poiché Cristo non aveva commesso reati contro Roma, l’impiego di una forza “combinata” è giustificato dal tentativo di Pilato di mantenere l’ordine nella città di Gerusalemme in un periodo particolare, quello della Pasqua, in cui confluivano nella Città Santa, fedeli da tutte le comunità ebraiche, locali e non. La prova di ciò sta nel fatto che il Cristo fu condotto in giudizio dinanzi ad Anna24, suocero di Caifa e capo del Bet Din (Piccolo Sinedrio), e non dinanzi al magistrato romano. Inoltre, il fatto che Gesù non fu lapidato, come accadeva di solito in presenza di un sacrilego (perché tale era l’accusa contro Gesù, tacciato di essere un “bestemmiatore del nome di Dio e un nemico del Tempio” per essersi proclamato Rex Judaeorum e la lunga durata nella carica di Sommo Sacerdote di Caifa durante la Prefettura di Pilato, testimoniano una tacita intesa tra il Sacerdote e il Prefetto. Dopo la condanna del Bet Din, Gesù fu condotto, per un giudizio scontato, dinanzi a Caifa, Sommo Sacerdote in carica e capo del Bet Din haGadol25. Condannato, fu condotto da Pilato26, perché il Prefetto, nelle cui mani era lo ius gladii, procedesse all’esecuzione. Sappiamo, infatti, che i due Sinedri avevano la capacità giuridica di arrestare, processare e condannare chi si macchiava di colpa religiosa, ma non quella di eseguire la sentenza. Sappiamo anche che nessuna delle due parti, ebrea e romana, avrebbe tollerato che l’altra ne usurpasse le competenze. Il Sommo Sacerdote e i suoi complici sapevano che il Sinedrio, non avendo potere politico, non poteva pronunciare condanne su chi era accusato di aver commesso un reato politico. Sapevano anche che sarebbe stato perfettamente inutile portare Gesù dinanzi a Pilato accusandolo di colpa religiosa, perché lo stesso, senza infrangere le rispettive sfere di azione, li avrebbe liquidati dichiarando che l’accusa non era di sua competenza, Era indispensabile che Gesù venisse riconosciuto colpevole di reati politici, perché Pilato fosse costretto ad agire. Per queste ragioni, Gesù fu condotto dal Prefetto sotto l’accusa di essere un malefactor27. Dopo l’interrogatorio, Pilato proclamava l’innocenza di Gesù davanti a Roma con la frase: Ego nullam invenio in Eo causam. Il Prefetto, dichiarato Gesù innocente verso Roma. credendo di poter chiudere l’affare, chiedeva se poteva rimettere il libertà Gesù: “Re dei Giudei”.28 La risposta del popolo fu: Non Hunc, sed Barabbam/29. “Non Lui, ma Barabba!”. 

Come rileva giustamente il Nardoni30. •Giovanni non parla di un aut-aut posto dal Prefetto alla folla: Gesù o Barabba: Giovanni non dice neppure che Pilato abbia liberato quel latrò di Barabba: Giovanni dice il vero e si deve credere a Giovanni se Pilato non poteva mettere sui piatti della stessa bilancia l'”Innocente” verso Roma e il latro sicarius- (“terrorista”) nemico dell’Urbe; “Barabba era stato arrestato dagli uomini dell’Antonia-, Gesù, invece, “dagli uomini del Tempio e dai legionari dell’Antonia; Pilato non avrebbe potuto giustificare agli occhi di Tiberio la liberazione di un sicarius e la condanna di Gesù. Pilato non desisteva dal tentativo di rimettere in libertà l’accusato, perché è dovere del giudice -liberare gli innocenti e punire i colpevoli-o Anche la flagellatio, a cui fu sottoposto il Cristo, fu un ultimo tentativo di dimostrarne l’innocenza. Pilato, mostrando l’uomo inerme al popolo, gridava, Ecce Homa31, ripetendo per altre due volte: Ego non invento in Eo causam32. 

Pilato con quel brachicologico: Ecce Homo! voleva significare ai Giudei che Gesù di Nazareth non era un Rex, se lo era mai stato, se la flagellazione ne aveva dimostrato l’innocenza nell’inesistenza delle pretese regali. 

Gesù dichiarato “Uomo”, cadeva l’accusa politica presentata dal Tempio e, caduta l’accusa, Pilato poteva procedere a liberarlo: Ponzio tentava di rimetterlo in libertà ma non ci riusciva: la legge non gli dava questa facoltà. Caduta l’accusa politica, restava l’accusa religiosa che, restando in piedi con la condanna che ne derivava33, costringeva Pilato a procedere all’esecuzione. La “Legge” dai Romani era rispettata in modo assoluto anche se essi sapevano che: Summa Lex summa iniuria34. Inoltre, in risposta alla ennesima richiesta rivolta al popolo e tesa alla liberazione di Gesù, a Pilato furono ironicamente ricordati i suoi obblighi di rispettare la Magna Charta Libertatum, alla domanda: “Crocifiggerò il vostro Re?”, il popolo rispondeva: “Solo Cesare è nostro Re”’. È chiaro che, dato l’odio nutrito dagli Ebrei nei riguardi dei Romani, considerati infedeli al punto che gli stessi Ebrei facevano lunghe abluzioni purificatorie anche dopo aver solo toccato un Romano, non si può che dare alla frase il significato di: “Ricorda ciò che Cesare ci ha concesso e che tu devi rispettare!”. Pilato infatti, sapeva che se avesse violato la Legge, il Sinedrio, che ne aveva facoltà, lo avrebbe fatto rilevare al governatore della Siria e allo stesso Imperatore con rapporti e legazioni. La punizione da Roma sarebbe giunta implacabile: reprimenda, rimozione dalla carica. processo e, forse. il perentorio codicillo seca venas! Pilato non aveva scelta e, anche se cosciente di commettere una grave ingiustizia, da buon magistrato. applicò la legge attirando su di sé l’enorme quantità di critiche e damnationes, che gli sono piovute addosso nel corso dei secoli. Ciò nonostante, fino al momento in cui i calones non inchiodarono il Messia alla croce, egli ebbe grande rispetto per la persona del Cristo, sia dal punto di vista umano che da quello giuridico. Egli non lo fece flagellare per la seconda volta, come si faceva di solito con i colpevoli politicamente, non lo fece maltrattare durante la Via Crucis, gli consentì di avere un titulus con la nominatura completa sulla croce (JESUS NAZARENUS REX JUDAEORUM). cosa che non era concessa ai peregrini. Ciò prova che Cristo, non colpevole verso Roma, godeva ancora dello jus civitatis, e Pilato lo fece rispettare sino alla fine, facendolo crocifiggere da Romano e non da straniero da quel buon magistrato e amministratore della Lex Romana quale era, nonostante le accuse rivoltegli. A riprova di ciò è il fatto che Tiberio non censurò le sue decisioni. Pilato, infatti, rimase in carica per altri tre anni e fu destituito solo quando commise l’errore di attaccare i Samaritani, alleati dei Romani (e nemici giurati dei Giudei) a Tirathana, forse con l’intento di procurarsi simpatie tra gli Israeliti. Da Samaria partiva legazione al Governatore della Siria, Vitellio, il quale riconobbe che Pilato aveva attaccato un popolo amico senza nessuna valida giustificazione e, depostolo dall’incarico, lo inviò a Roma affinché fosse sottoposto al giudizio dell’Imperatore. 

Ma, -navigando da Cesarea verso Ostia e Roma, Ponzio Pilato si perdeva dalla storia35. ed entrava nella leggenda. 

Adolfo Panarello 

1. Cfr. A. DE GRASSI, Scritti vari d’Antichità, Venezia, 1967, vol. III, p. 268.
2. D. NARDONI, Sotto Ponzio Pilato, Roma 1987, p. 10. 
3. Cfr. M.J. OLLIVlER, Ponce Pilate et /es Pontii, in RB 5 1986, pp. 247-254; pp. 594-600. 
4. Cfr. D. NARDONI. op. cit., p. 15, nota 16. 
5. Cfr. AG.H. NIEUPOORT, Rittum apud Romanos explicatio, Venezia 1749, Sect. V, Cap. II, § 2 p. 357: Optima quoque praemia capiebat et pro equite erat. 
6. Cfr. D. NARDONI, op. cit., p. 18. 
7. D. NARDONI, op. cit., p. 28, nota 34: “Imperium: “atto concreto di parificazione”, “Pàrime”, “Oleichgeltungsreich”, “Ausgleichungsreich” ancor prima che “comando”, “impero”. Nel Sermo rusticus: parlata dei campi, dal quale tutti gli altri sermones derivavano le espressioni: imperare vitibus, imperare arvis indicavano l’attività del “potatore” nella vigna e dell’ “aratore” nei campi; nello stesso sermo rusticus, la voce imperator indicava il “potatore” nella vigna e l’ “aratore” nei campi; la voce imperium: “attività parificatrice” indicava l’attività del “potatore” nella vigna e dell’ “aratore” nei campi. 
8. Cfr. VERG., Aen, I, 279. 
9. VERG., Aen, VI, 851. 
10. VERG., Aen, I, 852. 
11. VERG., Aen, I, 853. 
12. VERG., Aen, I. 853.
13. Cfr. D. NARDONI, Op. cit, p. 37. 
14. Cfr. D. NARDONI, Op. cit., p. 115. 
15. VERG., Aen, I, 574. 
16. Cfr. D. NARDONI. Op. cit., p. 119.
17. LUC. XIII. 1. 
18. Cfr. D. NARDONI. Op. cit., p. 125-126. 
19. Cfr. MARC. XV. 7. 
20. Cfr. TAC., Hist. • 9: Sub Tiberio quies.
21. Cfr. R NEHER-BERNHEIM, Le Judaisme dans le moncle romaine, Parigi 1959, p. 27: “César, lors de son expedition d’Egypte…trouve une aide appréciable auprés des Judeéns, dont il se fait dés lors le protecteur, il autorisa notamment la reconstruction des murs de Jerusalem”; JOS. FLAV., Ant. Jud. XlV, 8. 
22. Cfr. JO. XlIX, 3; MAITH. XXVI, 47; MARC. XlV, 43; LUC. XXI, 47: Judas ergo cum acceppiset cohortem et a Pont!ficibus et Phariseis ministros venit Uluc cum latemis et Jacibus et armis. 
23. Cfr. PLIN. JUN., Paneg. Traiani: Vidimus delatorum indicium quasi grassatorum, quasi latronum Non solitudinem illi, non iter, sed templum, sed forum insederant. Nullajam testamenta secura, nullus status certus, non orbitas, non libri proderant. Auxerat hoc malum principum avaritia. 
24. Cfr. JO. XlIX, 13; MAITH. XXVI, 57; MARC. XlIII. 53; LUC. XXII, 34:Et adduxerunt Eum ad Annam. 
25. Cfr. JO. XlIX, 24: Et misit Eum Annas ligatum ad Caipham Pontificem. 
26. Cfr. JO. XlIX, 28; MATTH. XXVII, 2; MARC. XV, l; LUC. XXIII, 2: Adducunt ergo Jesum a Caipha in praetorium.
27. Cfr. JO. XlIX, 30; MATTH. XXVII, 12; MARC. XlV, 3; LUC. XXII, 3: Responderunt et dixerunt ei: si non esset malefactor, non tibi tradidissemus Eum. 
28. Cfr. D. NARDONI, Op. cit., p. 160. 
29. Cfr. JO. XlIX, 40; MATIH. XXVII, 17; MARC. XV, 11; LUC. XXIII, 18. 
30. D. NARDONI, Op. cit., p. 160-161. 
31. Cfr. JO. XIX, 5. 
32. Cfr. JO. XlIX, 38; XlX, 4; XIX, 6; LUC. XXIII, 4; XXIII, 14; XXIII, 22. 
33. D. NARDONI, Op. cit., p. 165. 
34. Ivi, p. 165. 
35. Ivi, p. 132.

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 20-30.