GIULIA ADRIANA PENNISI, All-inclusiveness in Legal Language, Cross-Cultural Perspectives in Specialized Discourse, Ila Palma – Athena, Palermo, 2008.

È un approfondito studio sui recenti cambiamenti avvenuti nell’analisi del linguaggio, diviso in due sezioni in quanto l’autrice, esplora inizialmente il rapporto generale tra linguaggio e contesto, per sviscerare lo studio di un linguaggio legale specializzato in questioni di diritto comparato. La prima sezione è dedicata alla teoria e ai metodi di analisi del linguaggio, basandosi sull’idea che qualunque approccio allo studio non possa essere condotto al livello meramente grammaticale, ma che debba tener conto anche del contesto sociale e del background istituzionale. Importanti correlazioni si scoprono, infatti, sull’organizzazione ed interpretazione di un testo quando si studia il retroscena socioculturale e psico-cognitivo. 

La seconda parte approfondisce il discourse specifico e analizza il rapporto esistente tra il linguaggio legale, la cultura ed il contesto legale. Esemplificativo è il paragrafo che compara, in maniera volutamente semplificata, alcuni termini ed il relativo significato nellinguaggio della common law e della civii law: ad esempio contractlcontratto. 

Il libro, strutturato in maniera semplice, permette, anche a chi non è del mestiere, di capire i progressi avvenuti nello studio del rapporto tra linguaggio e contesto nel discorso legale. Illustra anche come il linguaggio non sia uno strumento neutrale, ma tenga conto dei cambiamenti politici, sociali e culturali del contesto di riferimento; lo fa perfino un linguaggio specializzato e professionale come quello, appunto, legale. 

Giulia A. Pennisi è ricercatrice in lingua e traduzione inglese presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Palermo, con diploma Master in «Arts in Comparative Literature» presso la Michigan State University (U.S.A.), specializzata nell’insegnamento della seconda lingua per scopi specialistici. Il suo ambito di ricerca verte sugli specialized discourses, con particolare riferimento all’analisi lessico-grammaticale del linguaggio giuridico-legale in un contesto multiculturale. 

Fra le pubblicazioni di G. A. Pennisi, si menzionano La traduzione legale nel panorama internazionale, Agorà 2004; Decodificazione del testo normativo. Conoscere per tradurre, Ila Palma 2004; e il saggio The lexicon 01 community “acquis”: how to negotiate the non-negotiable, in Atti del XXIII Convegno dell’ Associazione italiana di Anglistica «Forms of Migration», Università di Bari, 2007. 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 57-58.




MARIA CRISTINA MAGGIO, Il soprabito all’ingresso, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a. Palma, Palermo 2008.

 Se la vita di un uomo trascorre come un soprabito appeso all’ingresso 

Il soprabito all’ingresso è il nuovo coinvolgente romanzo della scrittrice Maria Cristina Maggio, ambientato nella Palermo. anni trenta e incentrato sulla vita di Santi e della sua tipica famiglia sicula, costretta a fingere per non subire l’onta di quel «peccato» che solo alla fine il protagonista comprende realmente. Il racconto si dipana agli occhi del lettore come un viaggio mentale che il protagonista fa rievocando il passato, «un’infanzia tabù, con un padre inesistente, una nonna fulcro e una madre che potevo chiamare mamma sempre con il timore di vederla sbiancare in viso». Lo fa, a ritroso, nel momento in cui la sua vita sta subendo una svolta, nel momento in cui rischia di perdere un membro della sua particolare famiglia. 

Il libro, che privilegia un taglio psicologico ed emotivo, è incentrato su riflessioni che il protagonista svela, a noi lettori, meditando sulle relazioni che ha tessuto con chi ha colorato la sua dissimulata esistenza. In questa storia il lettore è emotivamente coinvolto fino a divenire il confidente del narratore e del suo riscatto da una pedissequa quiescenza, da una vita trascorsa .. . come un «abito da uomo appeso in un armadio» in casa propria. 

Il contesto in cui si svolge la storia è descritto in modo tanto accurato da permettere, a chi legge, di crearsi un’immagine nitida e particolareggiata della situazione narrata. Così come dettagliati sono i gustosi spaccati della Palermo di allora. 

I personaggi sono presentati, uno ad uno, attraverso gli occhi del protagonista con una semplicità ed innocenza tipicamente infantile, fusa però ad una matura saggezza; bagaglio interiore che la scrittrice riesce abilmente a trasmettere al suo personaggio. 

L’autrice continua a meravigliarci sposando passato e presente, dettagli e personaggi reali, ripescati dal suo passato, con altri magistralmente inventati e descritti con una puntigliosità tale daapparire realmente vissuti. Esemplare è la descrizione del lavaggio delle mani di uno dei personaggi che il protagonista-bambino osserva, rimanendone sempre affascinato e ammutolito; la minuziosa descrizione fa vacillare la mente del lettore tra realtà e fantasia. Altro elemento di rilievo è il linguaggio, che possiamo dire antitetico. Infatti riesce ad armonizzare quotidianità e poesia, semplicità e raffinatezza, dialetto e lingua italiana, in un modo che solo una scrittrice e palermitana doc può fare. I dialoghi concitati e le descrizioni lente completano l’articolata struttura del romanzo. 

Il soprabito all’ingresso è un exploit, un delirio di sentimenti, emozioni, colori e profumi indimenticabili. Credo che Maria Cristina Maggio continuerà ancora ad emozionarci con i suoi romanzi. 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 58-59.




GIUSEPPE DI STEFANO, C’era ‘na vota ‘na lumera antica, a cura di Iolanda Di Stefano, lla Palma, Palermo, 2009.

 Sfide in lingua e in dialetto con la spada e col fioretto 

Giuseppe Di Stefano è un noto autore di poesia in dialetto siciliano e in italiano, nato a Ciminna nel 1903 e scomparso nel 1998. In questa opera, C’era ‘na vota ‘na lumera antica, l’autore ha riassunto (anche se il tenni ne è riduttivo e restrittivo rispetto alla ricchezza del testo) la sua vita vissuta dalla nascita fino al ’68. II libro, così come lui stesso lo definisce, «non è un trattato di storia, né di politica, né di antropologia, ma un po’ di tutte queste cose insieme e qualcos’altro ancora». 

È un incredibile tessuto di vita privata con le esperienze fatte, di storia siciliana, di storia italiana e di politica; intreccio creato però da piccoli cenni, da riferimenti che non permettono al lettore di confondersi o di allontanarsi dal filo conduttore del testo. Richiami che spazi ano da Mussolini ad Aldo Moro, dai caroselli agli Ardizzone del «Giornale di Sicilia». 

Oltre alla ricchezza contenutistica è d’uopo sottolineare la raffinatezza, l’eleganza e la singolarità che caratterizza lo stile in cui è scritto. Anche la scrittura, così come la storia, è un intreccio di lingua italiana e di dialetto siciliano, di prosa e di emozionante poesia. 

Così come la vita dell’ autore fa da filo conduttore e la realtà circostante viene intercalata a questa, così la prosa in lingua italiana fa da colonna portante e le poesie in dialetto siciliano da contorno, da dettaglio, d’approfondimento. 

Giuseppe Di Stefano nel libro, infatti, rievoca tutta la sua vita, le circostanze vissute e le spinte interiori che lo hanno di volta in volta portato a scrivere sonetti, per difendersi e per attaccare, e che poi ha riportato all’interno del testo. 

Solamente per dare dimostrazione della raffinatezza e della maestria della sua poesia riporto alcuni versi della poesia che ha poi dato il titolo al testo: 

C’era ‘na vota ‘na lumera antica 
Ca pi lu meccu d’ogghiu sempri china 
Lucia comu un faru di marina 
Sibbini fussi di statura nica. 
A lu so’ lustru ognunu travagghiava 
Secunnu lu misteri chi facia 
E sulu cocchi gatta si vidia 
Ch’attornu di la lampa firriava. 
S’allisciava li baffi e cu la scusa 
D’allucintari i fila d’a tistera 
Si saziava d’ogghiu dda lagnusa. 
Cancianu i tempi. .. Sicca è la lumera 
Ma prontu, pi sucarisi a micciusa, 
c’è u sìnnacu e crisceru i cunsigghiera. 

Elisabetta Lipari 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 64




GIOVANNI GIORDANO, Cuntari Bellanova. Campofiorito tra storia e memoria popolare, collana «Memorie/Testimonianze», Ila Palma, Palermo, 2008.

Il cuntu su Campofiorito di Giovanni Giordano, Cuntari Bellano va è un tripudio di colori, immagini, suoni e parole di questa terra fiorita di pensieri inascoltati, fiorita da gemme di desideri irrealizzati. Dall’ origine misteriosa e nefasta della città, fondata dal Principe di Campofiorito, l’autore ripercorre sentieri tortuosi in cui si racconta di miti, episodi ed usanze del piccolo centro dell’entroterra palermitano. 

Il nobile scopo di Giovanni Giordano è quello di realizzare un dono, per le generazioni presenti e future, per svelare e far conoscere l’identità e l’anima di Bellanova, termine ancora usato nel dialetto locale. Durante la lettura si partecipa, così, a diverse occasioni tipiche della «città nuova» come la festa di San Giuseppe, A festa d’u Signuri, ‘A Festa d’i Morti, ‘A Festa d’u Bamminu e per finire all’addio al pupu nella notte di Capodanno; si assaporano, sempre mentalmente, alcuni cibi tipici come i ficu sicchi e nuci della feste dei morti, la cuccìa di Santa Lucia, i cucciddati e cuddureddi di San Giuseppe. 

La lettura del cuntu è accattivante e formati va perché permette al lettore di conoscere la profonda e nobile identità antropologica di Campofiorito, inspiegabilmente ignota ai più. 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 60-61.




G. BONAFFINI, LUCIA BONAFEDE, TERESA DISPENZA, La Sicilia per l’unità del Mediterraneo, Collana «Cronache e Storia», Ila Palma, Palermo, 2008.

Per la cooperazione mediterranea bandiera sempre alzata a mezz’asta 

È una ricerca di studio storico-economico, ma anche una sorta di manuale con cui si vuole delineare una forma, un confine ed uno status del Mediterraneo. Questa shape mediterranea è disegnata affrontando diversi aspetti e problematiche della questione. 

Si inizia con una esauriente «introduzione » in cui si fa luce sulla situazione mediterranea attuale, sulla sua storia e sull’importanza della Sicilia che «non si inserisce come passivo punto di approdo o campo di battaglia di tre mondi diversi» e che risulta essere oggi «la più adatta delle regioni d’Italia a incentivare il concetto di multiculturalità, a promuovere e intensificare gli scambi culturali fra i Paesi del Mediterraneo». 

Si prosegue con un capitolo incentrato sulla politica nel Mediterraneo dove sono passati in rassegna molti anni, dalla nascita della Comunità Europea del 1957 ai nostri giorni, soffermandosi sul perché e sulla nascita di enti come l’Accademia del Mediterraneo, la Fiera del Mediterraneo e il Centro per la Comunità economica e culturale del Mediterraneo. Si ribadisce inoltre la centralità della terra siciliana: «Vista dal cielo la Sicilia appare quella che è sempre stata, non un lembo di terra tagliata dal resto dell’Italia e dall’Europa, ma la punta del nostro paese e dell’Europa, dove diverse correnti di civiltà vengono ad incontrarsi». 

Il terzo capitolo si incentra sulla sicurezza del Mediterraneo con un interessante approfondimento sul Maghreb (Tunisia, Algeria, Marocco e Libia). Si continua nel quarto capitolo con il diverso sviluppo che ha toccato i singoli paesi del Mediterraneo fino ad arrivare al turismo di questi stessi paesi. E si conclude, con varie considerazioni sulle migrazioni. 

La seconda parte, altrettanto importante, è l’ appendice, caratterizzata da quindici diverse testimonianze che affrontano diversi temi, quali la funzione economica e culturale della Sicilia o il mondo arabo e il M.e.c., giusto per fare qualche esempio. 

L’intera opera risulta istruttiva ed interessante. Nonostante sia ricca di dati tecnici e statistici, non risulta mai tediosa o ripetiti va. La Sicilia per l’unità del Mediterraneo è un’ottima fonte di conoscenza soprattutto per chi, magari molto giovane, non conosce le radici del Mediterraneo, la sua storia e la sua tra vagliata evoluzione. 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 56.




CAMILLA SANTORO, Il ladro di sentimenti, romanzo, postfazione di Maurizio Piscopo, Ila Palma, Palermo, 2009.

 Un passato grigio non vissuto e un avvenire tutto da vivere 

Camilla Santoro con il suo Ladro di sentimenti tocca l’animo del lettore, rapendolo in un vortice crescente e sempre più profondo che non permette di distogliere l’attenzione dalla storia. Il libro si legge con una semplicità eccezionale. Ad essere chiaro e semplice è il modo in cui è scritta, la storia narrata, mentre profondi e complessi sono i sentimenti a cui si fa riferimento. Il nostro Professore, nostro perché alla fine del libro il personaggio fa parte di ognuno di noi che legge, è un ladro. Ma lui non ruba beni, né cose materiali. Ciò che cerca e prende per sé sono i sentimenti. Il suo è un rubare giustificabile, l’unico modo che questo personaggio ha per provare determinate sensazioni che nella sua vita sono mancate provocandogli un vuoto incolmabile. 

E così, ormai in pensione, decide di prenderseli da solo questi esperimenti, di prenderli dalla vita quotidiana anche se non gli appartengono. Ovviamente si appropria di quelle emozioni che solitamente caratterizzano e segnano la vita di un uomo, quelli senza i quali la propria vita non viene considerata «completa». Questo è il regalo che lui stesso si fa per il compleanno. Il più bello di tutta la sua vita. Anzi quello che finalmente segna l’inizio della sua vera vita. 

«Sposo – padre – ladro – nonno, queste sono le parole intorno alle quali ruota l’intero racconto … Soprattutto ladro .. . Sei un miserabile ladro che elemosina gli altrui sentimenti, pur di sentirti vivo, incapace come sei stato di viverne di tuoi! Ma la vita, se non la vivi o non la puoi vivere, devi pure inventartela, per non morire.» 

Il testo è tutto colorato da un’alternanza di vita reale e frammenti che vengono in mente al professore grazie ad un dettaglio, una parola o una sensazione che lo catapulta indietro, al suo passato ed ai suoi alunni. 

Un racconto delicatissimo che emoziona ogni volta che si legge, che rattrista e che rallegra ad ogni parola, ad ogni periodo. Un linguaggio colto, elegante e raffinato è sposato ad una descrizione meticolosa dei particolari, dei colori e dei profumi soprattutto nei flashback della sua carriera di maestro; quella che per lui è stata la sua intera vita. 

Il libro è un unico viaggio onirico, sia nel passato già trascorso o mai avvenuto che in una realtà fantastica che il bimbo-professore si crea per cercare di sanare le cicatrici che la vita gli ha procurato. Alla fine il ritorno alla consuetudine lo lascia svuotato, spaventato di non poter più riprovare quei sentimenti e quelle sensazioni esperite per la prima volta. Ma queste emozioni, questo suo compleanno non è che il vero inizio della sua vita futura … 

Elisabetta Lipari 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 61-62.




BIAGIO SCRIMIZZI, Spigolature dall’isola, prefazione di Tommaso Romano, collana «Le Giade», Ila Palma, Palermo, 2008.

 Spigolature dall’isola di Biagio Scrimizzi: più di questo non si dovrebbe scrivere per non far innamorare, il lettore di quest’opera. Il libro è equiparabile ad un viaggio che sviscera le fiabe e le superstizioni dell’ isola, i suoi modi di dire come anche i suoi paesaggi. Ogni capitolo è abilmente composto da diversi elementi intrecciati tra loro in modo da creare una melodia perfetta; ritroviamo infatti parti di racconti e di storie di personaggi più o meno noti, riferimenti all’esperienze di vita proprie dell’autore, così come citazioni religiose, filosofiche, letterarie e storiche. Biagio Scrimizzi, solamente per citarne alcune, richiama alla memoria parole di Pitrè, Leonardo Sciascia, Ariosto, Plinio e Martin Lutero; citazioni che rivelano quanto la conoscenza dell’autore sia vasta e profonda. Le stesse poesie che Scrimizzi inserisce nei capitoli per spiegare, completare o agghindare ciò di cui sta parlando, sono tratte da sue opere precedenti ma anche da quelle di Pablo Neruda, Federico Garcia Lorca e tanti altri. 

Tutto il libro è realmente coinvolgente; tanto per citare un argomento: il capitolo sui modi di dire in cui l’autore disamina il perché ed il per come di molte frasi fatte o di termini che si usano correntemente nella lingua italiana, di cui noi frequentemente ignoriamo l’origine o il reale significato. Una tra tutte la spiegazione del mobile di tradizionale uso domestico, comunemente chiamato credenza. 

Con piccole Spigolature dall’isola, con i riferimenti alle storie ed ai personaggi siciliani, ma non solo, e con le sue poesie l’autore racconta la storia della sua terra, la Sicilia. E lo fa creando un’assoluta armonia tra un linguaggio raffinato, colto, ma nello stesso tempo semplice e comprensibile; lo fa abbagliando il lettore con un uso puntuale dell’italiano ma intercalato, come in un tentativo di fusione, ad un dialetto siciliano colto ed elegante. Un dialetto, purtroppo, spesso abbandonato e deprezzato dai giovani. 

La descrizione accurata e realistica di alcuni luoghi palermitani, come la Villa Giulia, permette a chi conosce la città di rivederla nella propria mente e, a chi invece non c’è mai stato, di immaginarsi la bellezza dei luoghi. La lettura del libro è per tutti; per chi è già innamorato della Sicilia ma anche per chi ha ancora voglia di innamorarsi di «una Sicilia alla quale, forse più che a ogni altra regione italiana, si può adattare l’appellativo di sconosciuta, anche da parte dei suoi stessi abitanti, che poco o niente sanno del luogo in cui sono nati, delle splendide chiese antiche, dei monumenti favolosi, dei palazzi aristocratici e di quant’altro la Sicilia è ricca». 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 63-64.




Franco Nicastro, autore di diverse opere sulla storia dell’autonomia regionale, ha una consolidata tradizione di impegno contro la mafia, dimostrato dal 1961 al 1978 attraverso il giornale «Sicilia domani » e testimoniato da Romolo Menighetti nel libro Un giornale contro la Mafia (Ila Palma, Palermo, 1984). 

Nei 4 volumi dedicati ai rapporti tra mafia e Pci, Nicastro ha insistito sull’intento dei comunisti di fare della lotta alla mafia solo uno strumento di competizione politica, e sulla loro incapacità di condurre una valida azione di contrasto al fenomeno mafioso. Intento dell’Autore non è di allargare l’arco delle responsabilità come alibi per una sanatoria delle responsabilità della D.C. e delle altre forze politiche, ma precisare che l’avere strumentalizzato l’antimafia ha impedito il formarsi di un fronte comune per una incisiva azione contro quella piaga storica della società siciliana. 

La conclusione non è di pareggiare i conti, attribuendo a tutte le forze politiche la responsabilità del deficit nella lotta alla mafia, ma di rilevare che il Pci con il suo comportamento ha impedito alle forze politiche di saldarsi in un fronte unico contro quello che Giovanni Paolo II ha chiamato «prodotto del diavolo». 

Nei primi due volumi dell’opera, si dimostra che la linea della purezza anti mafiosa del Pci si era inclinata fin dal 1944, con l’invito alla giovane mafia, rivolto su La Voce Comunista, di staccarsi dai padrini tradizionali e mettersi a disposizione del Pci! Purezza ulteriormente offuscata nel 1947, con l’appello di Girolamo Li Causi al bandito Giuliano; con l’appoggio dato nelle prime elezioni regionali del 1947, dallo stesso bandito al separatismo di sinistra, confluito nel Pci; con l’ospitalità offerta nelle proprie liste nazionali, nel 1953, al capo del separatismo agrario Andrea Finocchiaro Aprile (per il quale, se la mafia non fosse esistita, bisognava inventarla); infine col sostegno dato dalla mafia all’operazione Milazzo, voluta dal Pci, come è anche dimostrato dallo schiaffo del boss Paolo Bontade a un deputato che si rifiutava di votare per Milazzo. Per cui nel mondo massmediatico si è diffusa la convinzione che «le coppole storte pendevano a sinistra». Di ciò si può trovare riscontro nel nulla di fatto con cui nel 1959 si conclusero i lavori della Commissione di studio sulla mafia, nominata dall’ A.R.S. a fine 1956 e presieduta da un esponente comunista. 

Nicastro osserva che di una mafia di sinistra aveva scritto per primo l’ufficiale dei carabinieri Renato Candida, nel libro Questa mafia, trovando conferma in quanto affermato da Leonardo Sciascia sull’esistenza, in alcune zone dell’agrigentino, di una mafia di centro-sinistra superiore a quella di centro-destra, nonché dal mafiologo Michele Pantaleone (secondo cui, nel nisseno l’atteggiamento dei comunisti verso la mafia era improntato al «vivi e lascia vivere»). 

Mentre nello e 2° volume si contesta la pretesa verginità comunista nei confronti della mafia, nel 3° e 4° si oppugna un altro topos creato dal Pci sulla sua diversità etica rispetto alle altre forze politiche. Per contrastare l’assunto, Nicastro richiama la partecipazione del Pci al sistema dei finanziamenti occulti e delle tangenti pubbliche. Ad iniziare dal saggio monumentale, Oro da Mosca, in cui Valerio Riva riferisce sui finanziamenti erogati dal Pcus al Pci, sulla tangente multimiliardaria per il gasdotto Urss-Italia, e sulle risorse finanziarie ricavate dal Pci attraverso la rete di società di export-import organizzate fin dal dopoguerra. 

Nel volume Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta di Guido Crainz sono i verbali del Pci, da cui si rileva il malessere suscitato in alcune componenti dell’alta dirigenza del partito (tra cui Giorgio Napolitano) «dalle entrate straordinarie derivanti da alcune attività malsane». 

A dare corpo al sistema che consentiva tale pratica Nicastro riporta dai volumi Le carte del Pci di Giuseppe Averardi e L’oro di Mosca di Gianni Cernetti, il sistema per introitare fondi attraverso militanti disposti a scagionare il partito e ad assumersi ogni responsabilità (emblematico il caso giudiziario di Primo Greganti e il dissenso di Eugenio Reale da Palmiro Togliatti). Altre testimonianze vengono da Misteri d’Italia di Fabio Tamburini, suocero di Achille Occhetto, definito il re Mida della borsa, e la Politica a memoria d’uomo di Paolo Emilio Taviani, nonché da un servizio di Filippo Ceccarelli su la Repubblica nel vivo dello scandalo Unipol. 

Ma Nicastro non abbandona il filo dell’incoerenza del Pci sul tema mafia. Così non manca di coglierne un aspetto eclatante nella decisione del Pci di accordarsi, nel 1976 e fino al 1979, per l’amministrazione del Comune e della Provincia di Palermo con gli esponenti della Dc, che nello stesso anno Pio La Torre aveva indicato come i più esposti. Di questa tregua beneficerà Vito Ciancimino, allora segretario della Dc palermitana e come tale interlocutore dei dirigenti comunisti locali. Un’operazione inutilmente contestata da Emanuele Macaluso in sede di direzione nazionale. L’accordo avviene nel contesto del compromesso storico, per cui il Pci manifesta la sua disponibilità a smettere la lotta alla Dc, pur di avere responsabilità di governo. Tale linea si realizza, oltre che al Comune e alla Provincia di Palermo, alla Regione siciliana con il governo di unità autonomistica di Piersanti Mattarella. In questo contesto si consuma l’esperienza governativa di Mattarella, che i comunisti, ai .primi del 1979, mettono in crisi avviando una deriva che si concluderà con il disimpegno dei socialisti, e nella tragica epifania del 1980. Così come i comunisti avevano fatto con l’on. Giuseppe D’Angelo, il cui governo, come quello di Mattarella, rappresentava la trincea istituzionale più avanzata contro il prepotere mafioso. 

Sulla discontinuità e la strumentalità comunista nella lotta alla mafia, Nicastro riporta le critiche del libro Un lungo incantesimo di Simona Mafai al Comune di Palermo negli anni Ottanta, e segnala i possibili riscontri in Sicilia alla politica della doppia morale comunista, citando la dichiarazione dell’esattore Nino Salvo di aver finanziato tutti i partiti, compreso quello comunista. La cosa assumerebbe contòrni significativi, se rispondesse al vero la denuncia di Bettino Craxi alla Camera, secondo cui una cantina sociale dei Salvo era grande esportatrice in Urss; e c’è una dichiarazione del senatore Ludovico Corrao, secondo cui il presidente dell’Ente minerario siciliano, Graziano Verzotto, aveva distribuito soldi a tutti i partiti, compreso il Pei. Significativo è il fatto che le querele annunciate non abbiano avuto seguito, come eloquente è il fatto che, a proposito del procedimento giudiziario per la costruzione della raffineria Isab in provincia di Siracusa, gli inquirenti fondavano le accuse su un file in cui comparivano finanziamenti a partiti, burocrati e giornali, tra cui il Pci e «l’Ora». Certo l’attività delle Commissioni antimafia nazionali non corrispose alle speranze suscitate. Si veda l’esito fallimentare dei processi di mafia celebrati tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70, nonché l’evoluzione della mafia, trovando una logica nelle uccisioni di magistrati, giornalisti, funzionari e imprenditori, avvenute non per il ruolo che ricoprivano ma secondo il grado di pericolosità per i loro affari. È il tempo delle uccisioni del giornalista Mauro De Mauro, del procuratore della Repubblica, Pietro Scaglione, del segretario provinciale della Dc palermitana Michele Reina e del giudice Cesare Terranova. 

Il libro è corredato da una attenta postfazione di Ferdinando Mannino, che riferisce dei tentativi di tacitare le tesi sostenute da Nicastro e cioè che «qualitativamente la morale pubblica del Pci non è stata dissimile da quella degli altri partiti. Escludendo i finanziamenti sovietici e delle attività commerciali, la misura dei proventi illeciti può essere stata inferiore, per il fatto che l’area di governo del Pci era molto più ristretta di quella della Dc e dello stesso P.s.i.». La conclusione è che nessun Partito può chiamarsi fuori da collusioni con la mafia, e non serve proseguire il tragico balletto per cui ogni partito continua a scandalizzarsi della mafia degli altri. 

Renzo Mazzone

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 54-56.




ELIO GIUNTA, Il diritto al disprezzo. Cosa pensa la gente della politica, collana «I corsivi», Ila Palma, Palermo, 2007.

L’antipolitica del poeta 

Il poeta Elio Giunta non è nuovo a pubblicazioni di forte impegno socioculturale, tant’è che la sua produzione ha sempre registrato l’alternanza di scritti tipicamente letterari con libretti riguardanti problematiche del tempo, in genere provocatori e polemici. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se, nell’odierno clima di malcontento generale della gente contro il tipo di politica che si pratica, egli se ne fa interprete e ci dà una urtante pubblicazione col titolo Il diritto al disprezzo. In sostanza, per Elio Giunta ormai la gente non è più capita dai politici, è demotivata dall’esercizio di una vera democrazia, sa che le pretese cadono nel vuoto; le rimane il diritto al disprezzo di una politica, per così dire, sceneggiata sul gioco elettorale o pressappoco. 

Il discorso che l’Autore porta avanti nelle pagine è tuttavia tutt’altro che sbrigativamente polemico. Vi sono addotte, seppure in sintesi, profonde motivazioni corredate di esemplificazioni. In una prima parte, rivolta a modo di lettera a suoi ex allievi illustri Ce tra questi figurano Leoluca Orlando e Marcello Dell’Utri, il procuratore De Francisci, Gianni Puglisi e il prefetto Finazzo), si pongono le basi storico-sociologiche del recriminare: la crisi della civiltà che sacrifica l’uomo al mercato, la tecnologia che accelera il processo di disumanizzazione, la televisione che mistifica la politica e la reale portata dei suoi problemi, non ultimo quello che ormai le decisioni della politica sono quasi nulle rispetto a quelle dei poteri forti, della finanza, cui la politica è asservita. 

Di fatto, in Italia non si è riusciti ad avere ricambio, per cui i politici sono sempre quelli, anche se legati a un sistema usurato, responsabile dell’abituale dissenso del paese. Insomma, la politica in Italia è solo gioco di conservazione del potere. Il che è quanto accade anche nel mondo della cultura, a proposito del quale Giunta rileva il tradimento degli intellettuali, la loro libidine di primi piani, i loro asservimenti o lo spirito di cricca. 

La seconda parte parrebbe indirizzata a suggerire lo slancio, specie dei giovani, verso l’utopia, ma in realtà finisce solo per attualizzare la prima, con l’aggiunta di sollecitanti esemplificazioni circa le principali tematiche dei nostri giorni, come la crisi dell’Europa, il problema del lavoro precario e del futuro dei giovani, l’impossibile liberazione della politica dalle trame clientelari, con l’auspicio tuttavia che sorgano nuovi attori disposti a far tabula rasa di quanto in politica si vede fare per puntare a ciò che si deve fare, purché sia connesso a un fine il più umano possibile. 

Adele Liberati

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 55-56.




ALESSANDRA PERA, La tutela degli interessi collettivi dei consumatori. Modelli e regole in una analisi comparatistica, Ila Palma – Athena, Palermo, 2008.

L’autrice analizza l’insidioso e complesso campo dell’ accesso dei consumatori alla giustizia, attraverso un approccio metodologico storico e comparatistico. In particolare, lo studio condotto riguarda gli strumenti rimediali, contenziosi e non, concessi ai consumatori a livello comunitario e non solo. Più precisamente, nei primi capitoli l’autrice analizza i modelli comunitari di azione inibitoria collettiva e individuale, nonché di conciliazione, e li raffronta con gli omologhi modelli di attuazione nell’ordinamento italiano ed in quello inglese. Nell’ultimo capitolo, l’Autrice si confronta con un istituto risarcitorio extracomunitario – la class action americana – pure utilizzato quale strumento di tutela degli interessi collettivi dei consumatori e imitato in ordinamenti sia di civillaw che di common law, caratterizzati da una tradizione giuridica e processuale diversa da quella statunitense. 

In generale, l’analisi è stata condotta non soltanto attraverso l’esposizione delle regole normative di riferimento, ma con attenzione ai meccanismi con i quali le regole, le definizioni e i principi si compongono, mettendo in rilievo il processo storico, culturale, giurisprudenziale, dottrinale, che porta all’affermazione di una determinata regola. La prospettiva dinamica con cui l’analisi è condotta viene valorizzata dall’utilizzo del metodo comparatistico, che permette al lettore, soprattutto nella prima parte riguardante modelli intraeuropei, di comprendere il grado di armonizzazione ed omogeneizzazione sistematica delle regole a tutela dei consumatori, segnalandone pregi e difetti. 

Nella seconda parte, si affronta il modello extra-europeo della class action americana, raffrontandolo con l’omologo inglese, cercando di individuare pro e contro, ed anche al fine di valutare il recente trapianto dell’ azione risarcitoria nell’ordinamento italiano. Tale indagine è condotta, partendo da una analisi dell’evoluzione storica dell’istituto e proseguendo con un raffronto tra le regole americane e inglesi, con quelle contenute nelle proposte di legge italiane, che hanno portato all’introduzione dell’ art. 140-bis del Codice del Consumo. Si tratta, però, di una vana aspirazione. Infatti, l’Autrice si mostra particolarmente critica rispetto all’intervento del nostro legislatore in questa materia, peraltro non ancora riuscito, atteso che la norma non entrerà in vigore prima di luglio 2009, viste le proposte di restyling in corso d’opera. 

Dall’analisi condotta emerge che il modello italiano di azione risarcitoria collettiva si allontana per molti aspetti dagli omologhi inglese e americano e che le limitazioni che tale modello condivide con gli analoghi europei vanno contro lo spirito di uno strumento geneticamente predisposto ad assicurare l’effettività dei diritti sostanziali attraverso l’accorpamento in un unico procedimento di più pretese simili. Infatti, se l’obiettivo è ridurre i costi privati e pubblici della giustizia, allontanare le imprese da comportamenti opportunistici, realizzando economie di scala, il legislatore italiano ha fallito già nel momento in cui ha previsto una procedura farraginosa ed ha negato la legittimazione ad avviare l’azione al singolo consumatore, limitandola alle associazioni e, comunque, ad enti collettivi rappresentativi di interessi diffusi, senza peraltro disciplinare il regime delle spese legali e processuali, che nei sistemi di common law è il motore di queste macchine complesse. 

Adele Liberati

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 58-59.