Lamentu di picciottu· 

Ccassupra ‘sta tirrazza a Taurmina 
cu ‘sta brezza chi ciucia da marina 
cu ‘sta luci chi ‘ndora lu jardinu 
cu ‘stu mari di splendidu azzurrinu 
-com’un mantu di sita d’un rignanti 
timpistatu di perli e di diamanti- 
cca ‘nna ‘sta terra amabili e firaci 
jo sulu ancora nun ci trovu paci! 
‘Nna ‘sti posti filici e luminusi, 
costi di li sireni e di li musi, 
c’è ‘na malìa chi l’animu t’oscura 
comu fussi ‘ncantesimu o fattura 
chi veni di li tempi di ‘gnuranza 
‘mpastati di chiusura e tracutanza. 
Dunni natura è duci e profumata 
e la vita putissi essiri biata 
ficiru un cimiteru pi li vivi 
chinu di priggiurizzi e di currivi! 
Ch’è tristi ‘nna sti beddi paesaggi 
starisi comu ‘nchiusi ‘nna li gaggi 
ch’aspetti cu t’accatta o cu ti spara 
pi mòriri d’ossequi o di lupara! 

Salvatore Ingrassia 

• Lamento di giovane. Qui sopra questa terrazza a Taormina/con questa brezza che soffia dalla marina/con questa luce che indora il giardino/con questo mare di splendido azzurrino/come un manto di seta di regnante/ tempestato di perle e diamanti/qui in questa terra amabile e ferace/ io solo ancora non vi trovo pace/In questi posti felici e luminosi/ coste di sirene e di muse,/c’è una malia che l’animo t’oscura/come incantesimo o fattura/che risale a tempi di Ignoranza/ oscurati da chiusura e tracotanza./Dove natura è dolce e profumata/ e la vita potrebbe essere beaia/han fatto un cimitero per i vivi/pieno di pregiudizi e di odi!/ Ch’è triste con questi bei paesaggi/starsene come chiusi in una gabbia/aspettando chi ti compra o ti spari/per morire di ossequi o di lupara!

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pag. 56.




Ritorno al cielo

Ho seguito le tue orme sulla sabbia 
le ho calpestate per cercarti. 
Poi l’onda di battigia 
ha riportato i tuoi vestiti 
che ho conservato 
sui fili dei ricordi. 
E lì ho pregato 
quando è nata mia figlia. 
Con lei ora tornerò al mare 
e ti aspetteremo 
mano nella mano 
col volto all’orizzonte 
e l’acqua alle ginocchia. 

Roberto Inciocchi

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 22.




 Adelfia E. Cardinale, La grande scienza in Sicilia, Napoli,Idelson-Gnocchi ed., pagg. XXIV – 161.

Quando si tenta di ricostruire il profilo culturale della Sicilia negli ultimi 150 anni, i nomi che invariabilmente ricorrono sono, di solito, quelli della tradizione letteraria. 

Si fa, cioè, riferimento a quegli autori, talvolta sommi, che, dai Veristi a Sciascia, hanno imposto alla cultura italiana una considerazione della peculiarità isolana e questa realtà, spesso dolorosa e tragica, hanno rappresentato in modo tale da farla acquisire come patrimonio della nazione e come emblematica di una condizione umana più generale. 

Talvolta, allargando il discorso, si fa riferimento a qualche economista, a qualche pensatore politico, ai grandi storici e alle loro scuole, alla folta schiera dei politici che si assunsero il compito di inserire la Sicilia nella comunità nazionale e che mediarono, attraverso la politica, la partecipazione, nello stato unitario, della cultura, dell’economia e della vita civile dell’isola. 

Da questo panorama è solitamente assente la Scienza, e questo fatto pare indicativo della parzialità dello sviluppo della cultura siciliana e finisce per suggerirne la subalternità rispetto ad altri apporti. 

La grande scienza in Sicilia, il nuovo libro di Adelfia Elio Cardinale (Idelson – Gnocchi Editore, Napoli, pp. XXIV – 161, Euro 22,00) consente di avere le idee più chiare sull’argomento. 

Il libro ha una struttura molto semplice, e consta di una raccolta di 26 biografie di uomini di Scienza siciliani o che in Sicilia hanno operato, qui realizzando alcune delle loro scoperte. 

Ma la semplicità è solo apparente. Infatti le narrazioni biografiche sono mediate dalla Presentazione di Antonino Zichichi, e dalla Prefazione dello stesso autore, le quali danno indicazioni esplicite sulla tipologia dell’operazione culturale che risulta condotta sapientemente e con molteplici finalità cosicché il libro si presta ad una serie di considerazioni ed è suscettibile di diversi livelli di lettura. 

Innanzitutto si tratta di una ricerca condotta dall’interno perché Adelfio E. Cardinale è egli stesso uomo di scienza, ed ai massimi livelli. Da anni ai vertici del mondo accademico, dal ’91 al ’94 Pro-Rettore dell’Università di Palermo, è attualmente Preside della facoltà di Medicina, è stato Presidente della SIRM (Società Italiana di Radiologia Medica), è autore di numerosi e poderosi volumi sulla diagnostica per immagini utilizzati in diverse Università come testi di studio. 

Ma Cardinale è anche, e con convinzione, un divulgatore scientifico perché la Scienza rimane altera e isolata, mentre la divulgazione scientifica consente una riconciliazione con la società dando la possibilità ai non specializzati di comprendere il significato ed il valore della cultura scientifica, superando le difficoltà linguistiche nel rispetto del cammino e del progresso intellettuale compiuto nei secoli dal genere umano. 

In più egli è convinto assertore dell’ufficio civile assolto dall’insegnamento scientifico: educazione alla scienza e società sono sinonimi strettamente connessi, ed esempi di impegno civile trova in ognuno degli scienziati di cui traccia la biografia. Cosicché delineando il profilo di quelle personalità che fecero uscire la scienza della Sicilia dall’isolamento intellettuale, contribuendo a produrre cultura e diffonderla operosamente e con profitto nella società, egli erige una sorta di Pantheon scientifico che nasce come atto di devozione e doveroso omaggio a personalità alte e complesse, che spesso difesero i punti cardinali della civiltà occidentale: storia, libertà, democrazia e scienza e si pone sulla loro stessa linea di continuità. 

Anche la scelta del taglio biografico non è casuale ma deriva dalla consapevolezza della difficoltà di una ricostruzione organica di un contesto e di un processo storico: missione quasi disperata, perché di qualunque avvenimento si tenti di fare una ricostruzione, non si riuscirà mai a fornirne una definitiva. Perciò egli ripiega sulla storia attraverso i personaggi ove l’elemento umano entra anch’esso nella costruzione della storia della scienza, come piccola fiamma che chiarisce e conferma i grandi percorsi dottrinali. 

E ricordando con Schlegel che il futuro appartiene ad una comunità nella misura in cui essa possiede il proprio passato, Cardinale imprende a narrare de La grande scienza in Sicilia. 

Appare subito evidente come la Sicilia, nel secondo ‘800 non fosse estranea al progresso scientifico al quale contribuì con grandi personalità e con apporti originali talvolta derivati dalla peculiarità della situazione storica e dell’ambiente. 

Il Palermitano Stanislao Cannizzaro, ad esempio, fece le sue prime scoperte a Parigi, perché vi si trovava esule dopo la rivoluzione del ’48. A Palermo, poi, dove nel ’61 venne chiamato alla cattedra di chimica dell’Università, proseguì i suoi studi. Egli formulò una coerente teoria atomica della materia sulla base dell’ipotesi di Avogrado del numero fisso di particelle che si trovano in una grammolecola di gas, enunciò la regola di Cannizzaro per determinare il peso atomico di un elemento chimico e descrisse la reazione di Cannizzaro, un fenomeno caratteristico di alcune aldeidi. Fu uno dei fondatori della Chimica moderna. 

La biografia di Cannizzaro, che con Michele Amari era stato l’estensore della relazione illustrativa del progetto di statuto regionale siciliano approvato, all’indomani dell’unificazione, dal Consiglio straordinario di Stato, è tra i tanti emblematici dell’impegno civile degli scienziati siciliani e, dal terreno proprio della formazione della classe politica, intro- Reperto del Museo Geologico Gemmellaro duce ad un fenomeno più vasto di compenetrazione, fra l’isola e il continente, a livello della formazione di una coscienza nazionale e di una comune cultura. 

All’inizio di questo itinerario si pone pure Gaetano Giorgio Gemmellaro, catanese, spinto dalla particolare situazione derivata dalla presenza del vulcano, a iniziare ricerche mineralogiche e sulle rocce. Indirizzò i suoi studi sulla geologia e sulla stratigrafia fino a diventare il più grande paleontologo mai avuto in Italia. Due volte Rettore dell’Università di Palermo, accademico dei Lincei, grazie a lui la Sicilia fu la regione italiana geologicamente meglio conosciuta e descritta. Curò il Museo Geologico Universitario facendo in modo che il Museo di Palermo diventasse il più importante d’Europa, forse secondo solo al British Museum di Londra. 

E strettamente legata alla realtà siciliana risulta anche la vicenda scientifica e umana di Alfonso Giordano, nato a Lercara Freddi, paese di miniere, medico e filantropo, precursore nel campo della medicina sociale. 

Mentre diversi politici ed economisti tentavano ancora di giustificare le terribili condizioni di vita e di lavoro nelle miniere con le necessità imposte dalle leggi economiche, egli senza mezzi termini, denunciò la insostenibilità della situazione. E dal punto di vista scientifico quando l’anchilostomo anemia mieteva 

innumerevoli vittime nelle zolfare della Sicilia, con scarsi mezzi di indagine ne intuì la causa, mentre generalmente si affermava trattarsi di malaria. L’esperienza siciliana del Giordano permise, poi, di curare gli operai impegnati nel traforo del Gottardo, e sempre da quell’esperienza e grazie al suo afflato umanitario si organizzava più tardi il 1° Congresso Internazionale per le Malattie del Lavoro e poi il Congresso Nazionale, e prese avvio la Medicina del Lavoro. 

Andando avanti negli anni, nel libro risulta, inoltre, molto bene delineato il rapporto diretto tra la Sicilia e la vicenda scientifica e umana dei ragazzi di via Panisperna. Si può dire anzi che parte del cammino della Fisica Atomica abbia preso avvio a Palermo. 

La storia inizia con Pietro Blasterna, fisico illustre, professore a Palermo dal 1863. 

Si occupò di geofisica, di elettronica, delle proprietà dei gas reali, delle correnti indotte, della polarizzazione della luce, modificò dalle radici gli insegnamenti di matematica e fisica, riuniti nella Facoltà Fisico – Matematica (denominata dal 1874 Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali). 

Promotore di scienza, Blasterna dapprima aderì al Circolo Matematico di Palermo, fondato da Giovan Battista Guccia, istituzione di smisurato prestigio internazionale, successivamente, trasferitosi, fondò il Circolo Fisico di Roma. 

Successore di Blasterna fu Augusto Righi che occupò a Palermo la Cattedra di Fisica dal 1880 al 1888. 

Un primo gruppo delle sue ricerche sperimentali riguarda il comportamento degli isolanti posti nei campi elettrici e, conseguentemente, la teoria dei condensatori, dell’elettroforo e della macchina a induzione. In un altro gruppo di lavori Righi cercò di riportare le varie forze elettromotrici a un’origine comune: comparvero qui, per la prima volta, le idee generali sulla natura dell’elettricità. Si occupò poi di onde elettriche riuscendo a scoprire una serie di fenomeni ed a costruire strumenti che furono alla base di esperimenti di Marconi e Maxwel1. 

A Palermo a Righi successe Damiano Macaluso, valente fisico che poi divenne Rettore dell’Ateneo, e Macaluso ebbe ben presto come allievo e aiuto Orso Mario Corbino, catanese, venuto quasi per caso a Palermo, anzi in quel periodo il maestro e l’allievo scoprirono il cosiddetto effetto Macaluso Corbino collegato all’effetto Zeeman. 

Corbino divenne così una delle speranze della comunità scientifica italiana e fu conosciuto ed apprezzato dal Righi che nel frattempo si era trasferito a Roma: da allora la sua carriera si svolse rapida e brillante. 

Nel 1904 fu chiamato ad insegnare a Roma e qui, egli che a Palermo aveva creato uno dei primi impianti radiologici universitari, si applicò a migliorare gli apparecchi a raggi X, e sviluppò studi di elettricità, elettrotecnica, elettroacustica. Nominato senatore da Giolitti fu due volte Ministro e, organizzatore di scienza, creò la scuola di fisica romana, nota come la scuola dei ragazzi di via Panisperna con riferimento a Segrè, Amaldi, Rasetti, Majorana, Pontecorvo. 

Nella famosa scuola fisica romana gli scienziati avevano icastici soprannomi: il fondatore Orso Mario Corbino era il padreterno, Enrico Fermi il papa, Emilio Segrè, per il carattere ispido e pungente, il basilisco. 

Nel 1935 la cattedra di Fisica di Palermo era rimasta libera e fu chiamato a coprirla Segrè. 

Il fisico alloggiò dapprima in una pensione di via Lincoln, quindi alI’Hotel Excelsior; infine acquistò un appartamento in piazza Crispi e aderì al Rotary Club, deciso a considerare il suo incarico universitario non transitorio. Nello stesso periodo si sposò con Elfride Spiro ed ebbe un figlio, Claudio. 

Grazie a Fermi stava nascendo la moderna radiobiologia. 

Segrè, anche a Palermo, continuò questo filone di studi e scoprì nel 1937 il tecnezio, sperimentando il materiale fornito dal prof. Lawrence e proveniente dal ciclotrone di Berkeley, in California: il tecnezio fu così chiamato per ricordare che era il primo elemento artificiale, mentre allo scopritore era stato suggerito di chiamarlo Trinacrio. 

Sempre a Palermo un gruppo di fisici e fisiologi, Segrè, Camillo Artom, Carlo Perrier, Gaetano Sarzana e Mariano Santangelo, dava conferma, nel 1937, del dinamismo delle strutture viventi dimostrando l’attiva incorporazione del radiofosforo nei fosfolipidi dell’organismo e aprendo la strada nel mondo al metodo isotopico in biologia e medicina. 

Nel 1938, mentre Segrè era negli Stati Uniti per studiare altri isotopi del tecnezio, fu licenziato da Palermo a causa delle leggi razziali promulgate dal governo fascista. Si fece allora raggiungere dalla moglie e dal figlioletto e si stabilì a Berkeley. 

Negli USA scoprì l’elemento di numero atomica 85, astato, entrò nel gruppo di Los Alamos che realizzò la bomba atomica e scoprì l’antiprotone, che gli valse il premio Nobel. 

Tornò a Palermo solo nel 1987, a 82 anni, ed inaugurando il Congresso di Medicina Nucleare alla Fiera del Mediterraneo si espresse con queste parole: È difficile esprimere i miei sentimenti, quando arriverete alla mia età e, dopo mezzo secolo ritornerete nel luogo dove avete iniziato il vostro lavoro e fondato la vostra famiglia, queste emozioni vi saranno più chiare. 

La vicenda umana di Segrè introduce a quella di tanti altri scienziati e professori che, in quanto ebrei, furono epurati e subirono persecuzioni. 

In Italia furono licenziati 279 presidi e docenti delle scuole secondarie e 104 professori universitari. A Palermo i professori di razza ebraica espulsi furono Segrè, Camillo Artom, Maurizio Ascoli, Alberto Dina, di elettrotecnica, Mario Fubini, di letteratura italiana. 

A questi si deve aggiungere Giuseppe Levi, il padre di Natalia Ginzburg, biologo, maestro di 3 premi Nobel: Salvador Luria, Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini. A Palermo aveva creato un laboratorio nell’Istituto di Porta Carini e aveva fatto ricerche importanti sull’accrescimento e invecchiamento dei tessuti e sulla struttura e le connessioni delle formazioni nervose. 

Camillo Artom, biochimico, al momento dell’epurazione stava per andare a Zurigo per un congresso. Impeditone, affidò a due allievi delle lettere segrete per chiedere di essere ospitato dalla comunità scientifica e riuscì, così, ad emigrare negli Stati Uniti, da dove non volle più tornare. 

Maurizio Ascoli, preside della facoltà di Medicina dal 1933 al ’35, dal 1929 docente di Patologia Medica, autore di numerose scoperte, medico sommo, posto d’autorità in pensione, subì il divieto di esercitare liberamente la professione medica, fu posto al bando della società civile e, anziano e solo, non potendo avere, in quanto ebreo, persone di servizio ariane, fu ospitato alla clinica Noto, una delle oasi di tolleranza civile della città. 

Questa e tante altre vicende umane rendono avvincente, oltre che interessante la lettura de La grande scienza in Sicilia. Libro scritto con passione per rendere il dovuto omaggio a maestri che furono magistrati civili, alle scuole accademiche, intese nel senso più nobile come sodalizio nel quale operano uomini che condividono ideali scientifici, animati da forti e reciproci interessi intellettuali che allargano gli orizzonti umani, costruendo un percorso culturale. Un contributo alla storia del progresso scientifico, nel quale un posto va riconosciuto anche alla Sicilia ed ai Siciliani delle ultime generazioni. 

Salvatore Ierardi

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 51-59




 IRONIA DELLE COSE 

(n. 1984, Lishui, Zhejiang) 

Ho lavorato duro per crearmi 
una maschera di serenità 
vicino alla natura 
e parlarne il linguaggio, eppure vedo 
d’essermi spinto sino 
a un punto estremo 
di solitudine e di vanità, 
tra le anse del fiume e le sue insidie . .. 
o le benedizioni. 
Per esempio, una frase 
acquista un senso 
tradotta a tempo in gesto 
o in sentimento, 
o somiglia ad un foglio scritto invano 
se lasciato su un piano 
esposto al vento. 

Li Hui

Traduzione dalla lingua cinese di Veronica Ciolli, versione di Patricia Lolli e Renzo Mazzone. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 39.




 POCO A POCO 

Cuando cumplió setenta años le oyeron afirmar: 

«Alegra tener, pero si hay que dejarlo se deja. 

Queda la salud». 

Cuando la artrosis le hizo arduo el caminar, me confesaron que dijo: 

«Es más triste perder la vista». 

Las cataratas le nublaron la visión; ya no podía leer; ni bordar. Y éste fue su comentario: «Debe ser muy penoso perder la cabeza, como la pobre Juana». 

Unos días antes de que la embolia se nos la llevara, me había dicho: 

«Vas renunciando a cosas, hoy a una, mañana a otra, poco a poco. Hasta que renuncias a la vida misma». 

Gracias por enseñármelo, madre. 

Poco a Poco

Quando compi settant’anni le sentirono dire:
«L’avere agevola la vita, però, se per un motivo qualsiasi vi si deve rinun-ciare, vi si rinunci pure. Che si stia bene in salute.»

Quando l’artrosi le rese difficile il camminare, mi confidarono chedisse: «Ma è più triste perdere la vista.»

Le catarratte non le permisero più di vedere; non poté né leggere né ricamare. Ecco quale fu il suo commento: «Deve essere molto più brutto uscire di senno, come è capitato alla povera Giovanna.»

Alcuni giorni prima che il collasso ce la portasse via, mi aveva detto: «Vai rinunciando alle cose ad una ad una, un mattino dopo l’altro, a poco a poco. Fino a che rinunci alla stessa vita.»

Grazie, madre, per avermelo insegnato.

 

Avelino Hernandez 

Nota introduttiva e traduzione di Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 40-41.




 MELANCOLÍA 

Tralee, 16 de mayo 

 

Esta noche te escribo desde la nostalgia. Pero no de ti, ni por tu ausen- cia.
Llegarà pronto la aurora a la bahia y acaso el amanecer pueda borrar- me esta tristeza antigua que me brota de no sé dónde por el recuerdo de aquella muchacha.
Déjame, mientras tanto, que te cuente cómo fue.
Era hija de campesinos, venia de algún lugar en los valles de esta Irlanda varada en el océano; tendria quince años y una rara belleza de manzana en agraz aflorando en su cuerpo nubil, muy pálido.
Estabamos en un teatro abierto al mar en la primavera de Dingle.
Cuando concluyó su danza, mientras sonaban todavia, rendidos, los aplausos, tres personas nos levantamos irresistiblemente para ir a enco- trarnos esperándola en el pasillo hasta el vestuario: su madre,una mujer joven, y yo mismo.
Sólo su madre se atrevió a besarla, mientras se la llevaba consigo.
La mujer y yo la estuvimos viendo alejarse, perdiéndola, los dos vulne-
rados de una rara nostalgia…
Después nos miramos, sin decirnos nada.
La mujer regresó al teatro.
Yo ya no pude. Salí a la noche y busqué, solo, la melancolia eterna dela orilla del mar en los acantilados de Irlanda.
Sé que llgara pronto la aurora a la bahia y acaso ed amanecer pueda borrarme esta tristeza antigua que me brota de no sé dónde.
Sólo a ti puedo contartelo.
Un beso, hasta mi vuelta, pronto.

MELANCONIA

Mia amata Teresa,
questa notte ti scrivo dalla nostalgia. Ma non di te, né per la tua assenza.
Tra poco arriverà l’aurora nella baia e forse l’albeggiare potrà concellar- mi questa tristezza antica che mi sgorga da non so dove, ricordando quel- la ragazza.
Lasciami, intanto, raccontare come è stato.
Era figlia di contadini, veniva da qualche luogo sperduto nelle valli di questa Irlanda varata nell’Oceano; avrà avuto quindici anni e una bellez-za rara di mela acerba che stava affiorando dal suo corpo nubile, moltopallido.
Ci trovavamo in un teatro aperto al mare nella primavera di Dingle.
Quando terminò la sua danza, mentre risuonavano ancora, arresi, gliapplausi, tre persone ci alzammo in modo irresponsabile per andarla ad incontrare, aspettandola nel corridoio che porta allo spogliatoio: sua madre, una giovane donna ed io stesso.
Soltanto sua madre si permise di baciarla, mentre se la portava con sé.
La giovane donna ed io la vedemmo allontanare, perdendola, entrambi presi da una rara nostalgia.
Poi ci guardammo, senza dirci niente.
La giovane donna ritornò al teatro.
lo non più. Uscii a sera e cercai, solo, la melanconia eterna della riva del mare nelle scogliere dell’Irlanda.
So che tra poco l’aurora arriverà nella baia e l’albeggiare forse potrà spazzare via questa tristezza che mi sgorga da non so dove.
Solo a te posso raccontarlo.
Un bacio, al mio ritorno, presto.

Avelino Hernandez 

*Nota
Traduzione di Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 42-43.

 




 CUMPLEAÑOS 

Los amigos se han ido cuando amanecía ya.
Nos hemos quedado solos.
No hemos querido acostarnos; Teresa ha preferido salir al encuentro de

la alborada remontando el río en la barca por entre las frondas; yo me he quedado a comenzar la redacción de este nuevo libro, que no sé adònde me llevani.

Ahora, mientras escribo, tras el ventanal al huerto se está levantando la niebla lentamente.

Pronto el sol coronarà las cumbres.

Ese bando de azulones que se levanta asustado de entre la alameda medice que Teresa retorna ya.

Sé que embocará, remando, el caz que desagua en el rio; que amarrarála barca en la argolla; que ascenderá por la escalera en la roca con losremos al hombro.

Desde allí se volvera a mirar el horizonte amaneciendo.

Luego – ahora – me mirarà a mi, que estoy en la ventana abierta, ya sinescribir, sonpriéndole.

Sé que nos besaremos; que desayunaremos juntos; ella me dira que una garza rezagada volò al paso de la barca; yo le pediré que me escuche mientras leo en voz alta los párrafos últimos que acabo de trenzar.

Luego nos amaremos; nos amaremos conscientes de que estamos

comenzando juntos un tiempo nuevo – anoche celebramos su cumpleaiios

con los amigos.
Estoy seguro de que me dirá, cuando la abrace:
«Cincuenta años ya… »
Y sé que le contestaré, mientras me acoge, madura, en su vientre.«Sí, es tiempo de vendimia.»

Avelino Hernandez

COMPLEANNO

Gli amici se ne sono andati quando già stava albeggiando.
Noi siamo rimasti soli.
Non siamo andati a coricarci. Teresa ha preferito andare incontro

all’alba risalendo con la barca il fiume tra le frondi; io ho iniziato la stesu- ra di questo nuovo libro che non so dove mi porterà.

Adesso, mentre scrivo, dall’altra parte della vetrata dell’orto si sta alzando lentamente la nebbia.

Presto il sole incoronerà le cime dei monti.

Questo stormo di anatre che s’innalza spaventato tra la boscaglia midice che Teresa sta già arrivando.

So che imboccherà, remando, il rigagnolo che sfocia nel fiume; che ormeggerà la barca nella gogna; che salirà, i remi nella spalla, la scala di roccia.

Da lí si volterà a guardare l’orizzonte ormai luminoso.

Ed ora si rivolgerà verso di me, che sto dinanzi alla finestra aperta; e,sorridendole, ho smesso di scrivere.

So che ci baceremo, che faremo colazione assieme. Mi dirà che un airo- ne rimasto indietro volò al passo della barca. Le chiederò di ascoltare, eintanto leggo ad alta voce gli ultimi paragrafi che ho finito di intrecciare.

Ora ci ameremo; ci ameremo consapevoli di cominciare insieme una vita nuova – con gli amici ieri notte abbiamo celebrato il suo compleanno.

Sono sicuro che, abbracciandola, mi dirà:
«Cinquant’anni. .. »
So che le risponderò, mentre mi stringe consapevole al seno:«Sì, è tempo di vendemmia.»

Avelino Hernandez

*Note
Traduzione di Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 38-39.




 INNAMORARSI 

di Chen Hai Bo 

(n.1986, Shuni, Hubei) 

C’era una volta un uomo 
in riva a un fiume 
che amava la corrente 
e decise di mettersi ogni giorno 
a tagliare tre alberi con l’ascia 
per costruire zattere: una al giorno. 
Vi si metteva sopra e si affidava 
alla corrente 
per andare lontano dai suoi simili 
(che sono sempre gli altri). 
Lui amava il suo fiume e la sua fonte 
perenne 
come la sua corrente senza fine. 

Hai Bo Chen

Traduzione dalla lingua cinese di Veronica Ciolli, versione di Patricia Lolli e Renzo Mazzone. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 38.




 Per una storia del futurismo in Calabria 

La storia del futurismo è complessa e ricca di riferimenti. È anche una scoperta che incuriosisce e crea un consenso positivo di lettori. Il mio “I futuristi” pubblicato nel 1990 con la “Newton Compton” viene ristampato e richiesto nelle librerie. I manifesti, la poesia, le parole in libertà, i quadri, i disegni, i progetti musicali e architettonici (e così via) dimostrano che il futurismo fu una sicura alternativa. È l’unica avanguardia che abbia avuto la cultura italiana di portata europea. 

A Reggio Calabria si tiene un convegno sul tema del futurismo in Calabria. È un segnale. Il rapporto tra calabresità e futurismo è anche un gioco affascinante che si ammanta di tradizioni e di folckore. La girandola di riviste, di mostre e di libri diventa un fuoco pirotecnico in una regione che sembra avere posseduto soltanto la memoria, la grecità, il mito e la nostalgia. 

Pochi futuristi calabresi furono autenticamente artisti mentre molti sono dilettanti della passione poetica, amici di Marinetti o amici degli amici. La città dove ebbe maggiore accoglienza il futurismo fu Reggio Calabria. 

Ecco una prima numerazione. Principio Federico Altomonte, Umberto Boccioni, Piero Bellanova, Michele Berardinelli, Enzo Benedetto, Pier Paolo Carbonelli, Giuseppe Carrieri, Alfonso Dolce, Armiro Jaria, Silvio Lo Celso, Luca Labozzetta, Saverio Liconti, Mimi Mancuso, Antonio Marasco, Mario Potente, Orazio Pigato, Nino Pezzarosa, Giovanni Rotirosi, Alberto Strati, Angelo Savelli, Giuseppe Sprovieri. Luigi Scrivo, Geppo Tedeschi, Zanolli Misefari, Luigi Versace. 

Molti ebbero un fugace incontro che presto dimenticarono. Per altri il futurismo fu una occasione combattentistica e giovanile. Per pochi fu una adesione culturale. E, infine, per pochissimi fu la vita. 

Venivano i futuristi dai paesi e dalle città. Il più significativo è Umberto Boccioni seguito dai pittori Benedetto e Marasco. Tra i poeti Geppo Tedeschi che fondò il gruppo “Adoratori della patria” a Reggio. Tra i collezionisti e i critici è da annoverare Luigi Scrivo con “”Sintesi del futurismo / Storia e documenti”. 

Quasi tutti emigrarono nelle città dove la vita culturale andava concentrandosi. In particolare Roma. Parteciparono alla prima guerra mondiale. Alcuni persero la vita come Boccioni. Altri furono feriti come Pigato, Marasco. Benedetto fonda due riviste (“Originalità” 1924 e “Futurismo-oggi”). Carbonelli pubblica nel 1916 a Reggio Calabria “Rivolta futurista”. Versace dirige la “Galleria-nuova europa” in Roma. Bellanova sottoscrive il manifesto del “romanzo sintetico”. Tedeschi scrive il manifesto della “poesia sottomarina”. 

Il più fascista è Antonio Marasco che raggiunge il grado di colonnello nella milizia nella Repubblica sociale. Notevole successo riscuote la mostra a Reggio nel 1926 organizzata da Enzo Benedetto di 17 pittori futuristi per 41 opere nel contesto della IV biennale d’arte animata da Alfonso Frangipane che sulla rivista “Brutium” tenta un accostamento convincente tra la Calabria e il futurismo per un veloce apparentamento. Scrive “la nostra visione ardente, schietta; ardente, scevra di esotiche siilizzazioni è talvolta come quelle del futurismo libera, violenta, nello splendore delle bande cromatiche”. 

Filippo Tommaso Marinetti (che ebbe come segretario particolare Luigi Scrivo di famiglia calabrese dal 1930 al ’43) venne due volte a Catanzaro. Come ha documentato Cesare Mulè. La prima del novembre 1913. Al teatro Ferdinando ancora splendente di oro e di velluti recita poesie dopo la presentazione di una sua composizione teatrale “elettricità” da parte della compagnia di Domenico Tumiati. La seconda il 22 maggio 1927 in occasione della commemorazione di Boccioni e della presentazione del suo libro “L’alcova di acciaio”. 

Inviato dal circolo “F. Squillace” (fondato da Vivaidi. Patari, Corali e altri) Marinetti nella memorabile serata tra fischi e applausi dettò con declamazione retorica Arte non è realtà fotografica ma trasfigurazione del reale di cui si deve cogliere non la sua oggettività ma le sensazioni che da. Si recò, poi, a Reggio Calabria il 2 aprile 1933 per ricordare Umberto Boccioni al politeama “Siracusa”. 

Il futurismo in Calabria fu più un movimento nobile e anarchico che popolare e politico. La cosidetta “Calabresità” (di cui lungamente ho scritto nel mio Le leggende e racconti della Calabria) fondata sulla tradizione come epopea greca intrecciata con i miti della devozione sacrale creò una barriera. I maggiori scrittori calabresi (da Alvaro a Selvaggi, Gambino, Calabrò, Bruni) restano alla finestra. Ma la vita obbliga ai bilanci. 

I nomi trascritti, gli avvenimenti accennati sono quasi tutto il futurismo in Calabria. Mancano forse altri particolari ma il futurismo è un movimento complesso, dispersivo e sparpagliato come ombre e luci. I1a una teoria della vita. Il problema è quello di vedere la fedeltà del momento creativo alla tematica critica. Il futurismo è stato però meno dei “manifesti”. Ma ha una sua storia appassionata. E l’unica rivoluzione che abbia avuto la letteratura calabrese. La retorica si insinua nelle pagine. Forse non se ne poteva fare a meno. Anche per colpa di Marinetti che imbarca sulla sua navetta buoni e cattivi. Ma la poesia c’è e si sente. Un nuovo modo per vivere. Il linguaggio diventa magia-simbolo. Abbandona la grammatica e il dialetto. Il futurismo è anche storia d’Italia nel bene e nel male. È stata una rivoluzione che ha agitato bandiere in Calabria e che, nella sua sfrenata ambizione, intende definirsi in una nuova cultura. L’idea della Calabria deve confrontarsi con il futurismo. Le mode passano e le avanguardie decidono. Profetizzare il futuro è stato sempre il sacro peccato dell’uomo. 

La creazione nel futurismo esalta l’artista e lo inizia ad una missione “sacerdotale”. Laico incantatore che celebra riti magici, l’artista scrive una storia rivoluzionaria perché libera le “cose” dalle forme. I segni sono simboli e l’ideologia è nella scoperta dei valori primari. 

Il futurismo viene ripreso per ritrovare forse oggi impegno e vitalismo. Tra nichilismo negativo e consumismo rampante al limite dell’inutile gli uomini cercano antiche emozioni. Anche in occasione dei cinquant’anni della morte di Marinetti. Il futurismo è come un fiume carsico che tra le montagne si nasconde e all’improvviso appare. Viene riproposto per testimoniare una rivoluzione e per dare indicazioni sulla unica avanguardia che ha avuto il nostro paese e forse la Calabria. Il futurismo è memoria per una storia che ha l’idea della cultura della rivoluzione. 

In questa problematica rivoluzionaria più che sulla calabresità è possibile trovare fragili e sottili equazioni tra futurismo e Calabria. Niente, infatti, è più rivoluzionario del sacro, del mito, della memoria e della nostalgia. Voglio dire che soltanto i valori cambiano la storia e la rendono affettuosa nel dolore, amica nella solitudine e provvidenziale nella gioia. 

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 28-30.




Nel ricordo del 4 novembre. La famosa telefonata

Trascrivo una telefonata avvenuta molti anni or sono. Il telefono allora era un privilegio. Pochi, pochissimi lo possedevano. In genere era appeso al muro. Per chiamare bisognava girare una maniglia e fare suonare la campanella. Ora tutto è più facile.

La telefonata avvenne tra una donna di nome Maria Bergamas, residente nel Friuli, e il generale Armando Diaz, duca della vittoria, comandante generale delle truppe italiane nella prima guerra mondiale. La conversazione telefonica è avvenuta realmente. Il servizio segreto che controllava la linea del generale che abitava a Roma (e che diverrà ministro della guerra, come allora si chiamava il Ministero, nel primo governo Mussolini di coalizione) ha inciso sul nastro.

Un mio amico perfetto archivista lo ha trovato “buttato” in uno scantinato. Pensando alla mia curiosità me lo ha prestato e io ne ho fatto una copia.

Ancora il telefono ci porta un frammento del nostro passato. Il telefono è anche memoria della nostra storia.

La donna Maria Bergamas è vissuta per lunghi anni ed è morta a Trieste a ottantanove anni. Ho fatto ricerche per saperne di più. Era madre di un ragazzo colpito al cuore mentre usciva dalla trincea. Dimenticavo di dire che la telefonata avviene il cinque novembre 1921. Il giorno prima era stato portato nel Vittoriano il milite ignoto da Santa Maria degli Angeli. Il nostro milite ignoto venne accompagnato dal rullo dei tamburi con le corde allentate.

Il telefono mi ha fatto riflettere a lungo sull’episodio. E adesso provve-a trascriverlo. La voce femminile è quella di Maria Bergamas. Quella maschile è di Armando Diaz. Immaginate, cari lettori, le cadenze e i toni.

Maria. “Buongiorno, signor generale”.
Diaz. “Buongiorno. Chi parla?”
Maria. “Come, non mi riconosce? Sono io Maria Bergamas. Ci siamo visti più volte.
Maria Bergamas.”
Diaz. “Ho capito. Mi dica, Signora.”
Maria. “Ecco.

Mio figlio non è stato più ritrovato. Era tra la terra quando un cecchino lo inquadrò nel mirino. Ta-pum, ta-pum, ta-pum. E chiuse gli occhi per sempre.

Finita la guerra sono stata chiamata ad Aquileia per scegliere il milite ignoto. Nell’antica basilica lasciata alla nudità della pietra ai piedi della gradinata dell’altare c’erano due catafalchi coperti di tappeti viola, crespi neri e festoni verdi. Vi erano allineate undici bare (cinque da un lato e sei dall’altro) avvolte nel tricolore. Sopra erano gli elmetti cinti di lauro.”

Diaz. “Ricordo bene, Signora. Mandai un mio generale da lei a Trieste per portarla a scegliere l’ignoto milite da tumolare a Roma. Lei doveva indicare l’ignoto tra gli undici morti sorteggiati in undici cimiteri di guerra. È così. È stata una madre fortunata…”
Maria. “Fortunata? No. Fortunata no, signor generale. Allora fu tremendo. Chiusi gli occhi e pensai al mio povero figliolo disperso tra le montagne del Friuli. Nella basilica c’era il Duca d’Aosta, i ministri, i sindaci, le scolaresche. Il vescovo di Trieste, capo dei cappellani militari, monsignore Bartolomasi sull’altare pontificale celebrò la santa Messa. Intorno, fiori e le bandiere dei reggimenti. Con me madri e vedove pregavano e piangevano per l’uomo che non era più tornato.

Non so cosa successe. Ma, nello scegliere la seconda bara della fila di sinistra, ebbi la sicurezza che dentro c’era mio figlio. E il dolore si attenuò al pensiero che tutti gli italiani per i secoli avrebbero amato e pregato per lui. Poi, il vescovo con l’aspersorio colmo di acqua del Timavo benedisse.

La cassa di legno dopo mezzogiorno venne racchiusa in una di zinco. E poi in una di quercia. Sul coperchio, ricordo, c’erano un fucile, un elmetto, una bandiera e le medaglie d’oro delle tre città friulane.”

Diaz. “Ricordo. Ricordo, Signora. È ancora in linea? Pronto. Sì. Iniziò così il viaggio da Aquileia verso Roma sul treno con diciassette vagoni. Tacquero le fazioni. Uomini di ogni ideologia alle stazioni ferroviarie si accostavano al treno, baciavano le bandiere e salutavano le medaglie d’oro e i decorati di guerra che scortavano l’ignoto amico.

Il treno giunse a Termini il 2 novembre. Vittorio Emanuele III con i principi venne alla stazione su berline, con staffieri in livrea rossa e parrucca bianca, precedute da carrozzieri a cavallo in alta uniforme. In attesa, il Re si fermò a conversare con un giovane dimesso che portava sul petto la medaglia d’oro del fratello caduto del quinto reggimento genio. La cassa fu deposta su un affusto di cannone e lentamente nello sventolare armonioso delle bandiere raggiunse Santa Maria degli Angeli. Le batterie dei cannoni sistemate su monte Mario, sul Gianicolo e altre alture sparavano a salve.”

Maria. “Una perfetta messa in scena. Perfetta liturgia. Sì. Pronto. Era una perfetta manifestazione.

Ma lei dove lo mette il nostro dolore di madri? Il nostro disperato dolore per un figlio partito in grigio verde e non più tornato tra le nostre braccia? Ma lei lo capisce? Ricordo che sulla facciata di Santa Maria degli Angeli c’era un’epigrafe:«Ignoto il nome, folgora lo spirito, dovunque è Italia, con voce di pianto e d’orgoglio, dicono innumeri madri, è mio figlio». Rimasi turbata perché capivo i motivi dell’epigrafe, ma non volevo dividere mio figlio morto con nessuna altra madre. Non esiste il dolore universale. Il dolore come l’amore è solamente mio. Non so se si ricorda di me, signor generale Armando Diaz. Nella basilica le venni presentata. Lei mi guardò a lungo e mi disse che la Patria onorava i suoi eroi. E io le risposi che la Patria onorava i suoi morti. Dopo questa mia battuta lei mi voltò le spalle e non ci siamo più incontrati.” Diaz.

(Dopo un lungo silenzio) “La basilica era decorata con lunghi festoni di alloro. Il feretro era circondato da tripodi di bronzo sui quali ardevano fiammelle che rendevano ancora più immenso lo spazio.

Molti dopo la preghiera si fermavano nel lato destro del transetto per osservare sul pavimento la meridiana che segnava il mezzogiorno per la città fino al 1846. Era chiamata la “clementina” in omaggio a Papa Clemente XI Albani. Venne realizzata dal canonico veneziano Francesco Bianchini. L’inaugurazione avvenne il 6 ottobre del 1702. Il papa fece coniare una bella medaglia con la chiesa attraversata da un raggio di sole.

” Maria. “Pronto. Signor Generale non se ne vada. Non abbassi il telefono. La prego. Dopo che lei mi aveva volto le spalle mentre il milite ignoto (che io, nell’illusione, forse credo ancora mio figlio) era tra le bandiere vegliato dai corazzieri, dagli alpini e dai bersaglieri che si davano il turno, anch’io sono andata alla “clementina”. C’era una linea di sole che veniva dal foro gnomonico ricavato lassù nella congiustione sud della navata con il transetto. Mi sembrò allora che il sole della meridiana illuminasse anche il corpo del figlio. Tu diventavi il mio tempo, figlio mio. E ti vedevo nel sole mentre correvi nei campi assolati o quando ti portavo al mare alle porte di Miramare a Trieste. Tu non eri più soltanto un ricordo ma la memoria della mia vita. E per quelle illusioni che prendono all’improvviso quando l’amore è grande, vedi mio figlio accanto a lei, signor generale Armando Diaz. Lui giovane sorridente e lei già vecchio e stanco.”

Diaz. “La prego, Signora. Lei parla con il generale Diaz. Ho organizzato tutto per bene. Una cerimonia impeccabile, mi ha detto il Re. La prego, Signora…”
Maria. “Non la offendo. Ma mio figlio è morto giovane. E lei è vivo vecchio. È contronatura. Sì. Pronto. Mi faccia finire. Santa Maria degli Angeli così carica di fiori profumati era come una giornata di primavera. E c’era mio figlio con tutti i dispersi, le medaglie d’oro alla memoria, i morti mentre andavano all’assalto. Erano vivi e insieme cantavano canzoni di pace. La chiesa diveniva così la casa della risurrezione. Poi, come lei sa, signor generale, mio figlio venne portato a piazza Venezia al Vittoriano… Pronto. Pronto.”

Il nastro è terminato. La trascrizione mia è finita.

Il telefono mi ha restituito la madre che soffre disperatamente e il generale. Il telefono non è solo comunicazione.

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 46-49.