ANGELO LIVRERl CONSOLE, La scuola del cambiamento nella società complessa, «Processi culturali», collana di studi sociologici, I.l.a Palma, Palermo.

Autonomia delle scuole e unità dell’istruzione 

La scuola si caratterizza oggi in termini di sistema organizzativo complesso, volto a realizzare gli scopi istituzionali fissati da uno Stato che regola i percorsi delle scuole autonome. Di qui i complessi obiettivi formativi, i progetti innovativi, la flessibilità, l’organizzazione della scuola tra tecnologie, processi e relazioni, tali da orientare e soddisfare gli utenti dell’istruzione e i soggetti nel territorio. Si tratta, allora, di realizzare un’organizzazione in grado di rilevare correttamente la domanda formativa personalizzata, anche nel caso di difficoltà di apprendimento, realizzando percorsi formativi da verificare, valutare e documentare. 

Il legame col territorio non può ovviamente essere considerato sufficiente per conferire cittadinanza in una società sempre più globale e complessa: anzi, solo la comprensione dei grandi scenari e delle cause remote dei fenomeni permette di elaborare soluzioni e prospettive corrette e sostenibili a livello locale. 

Di qui la necessità di promozione di uno sviluppo professionale continuo da parte di un dirigente scolastico con competenze professionali strategiche, in grado di gestire le professionalità dei docenti in perenne, indispensabile sviluppo. Le rapide e radicali trasformazioni che hanno investito la società richiedono una scuola capace di garantire ai ragazzi di oggi, uomini di domani, i saperi e le competenze essenziali per rendersi artefici di uno sviluppo ordinato e costruttivo dell’ attuale società. 

Quali competenze, allora, si richiedono oggi? 

Il lavoro di Livreri, ricercatore di sociologia presso l’Università di Palermo, pur nella sinteticità della sua impostazione, traccia una panoramica degli interventi di riforma dal 1985 ad oggi e mette in evidenza l’attuale configurazione come risultato di un disegno riformatore progressivo e coerente affinché possa venir fuori una scuola che risponda alle esigenze reali del paese. 

Stella E. Gois

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 50-51.




 Questa città 

Ahi povera Italia, terra di guai, 
vai come nave senza guida 
nella tempesta, 
nazione senza prestigio, ricettacolo 
di troppe porcherie, 
se un animo gentile predica amore 
e gioia per la sua terra 
la maggior parte degli abitanti tuoi 
d’odio si pasce, d’invidia e di vendette. 
Non c’è regione in te né spiaggia 
ove si possa stare in pace. 
Il diritto di cui sei stata madre 
ora è per te motivo di vergogna. 
E il clero, anche il clero va dietro 
a favori materiali 
e le anime non guida per la retta via. 
E voi, gente di potere, guardate 
a che punto siamo: 
pensate solo ai vostri affari 
mentre lo stato 
va in malora e la gente imbestialisce 
oltre ogni limite, 
che Dio vi maledica e angosciose pene 
rovesci 
su voi e i vostri figli, sicché 
ne venga monito 
ai futuri governi, giacché l’avidità 
di potere 
vi tiene stretti alle poltrone e vi porta 
all’ abbandono del comune bene. 
Da ogni parte azzUlTi e rossi 
e bianchi e verdi fanno cagnara 
opprimono l’umana dignità 
accampano magagne; 
e a chi resta la cura del paese ridotto 
ormai al buio e all’abbandono? 
Se ci è lecito osare l’invocazione a Cristo 
non possiamo non dire: 
dove hai volto lo sguardo? 
Ci hai forse abbandonati, o Padre, 
o il nostro male rientra nel mistero 
dei tuoi disegni provvidenziali per noi 
incomprensibili? 
Certo è da stupire come in ogni città 
qualsiasi villanzone diventa 
un pezzo grosso 
per meriti di partito. 
Tu, Palermo, ne sai qualcosa, 
rallègrati davvero del falso progresso 
della tua gente, 
specie stando alla fama di mafia 
che ti porti dietro. 
Qui tutti sputano sentenze, 
tutti si affannano per conquistare posti, 
i pochi onesti vivono nascosti. 
Gli antichi saggi ormai contano nulla 
rispetto ai governanti d’oggi 
che fanno e disfanno leggi, 
futili proclami, ridicole ordinanze 
che magari durano un sol giorno, 
per cui, chi ha memoria, 
vede questa città 
come eterna ammalata che di qua 
di là si volta 
nel letto di una politica, con la quale 
anziché guarire vieppiù si ammala. 

Elio Giunta

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 63-64.




 MONTE PELOSO 

Sorge la luna piena 
planetaria sorella 
fulgida luce brilla rosa pallido, 
sorride appena giunta in cima al monte 
nel ceruleo ancora vespertino. 
L’astro pudico si nasconde, 
profuma già di sera il gelsomino, 
l’uccello di Minerva ha da ridire 
mentre grilli allietano frinire. 
Orizzontali nubi, pennellate 
sparse, 
coloriture tenui ormai soffuse 
al calare del sole, 
piccole luci tra gli abeti, 
la città, discreta, vive. 
Apre alla sera una rinascita 
e attende già l’alba, 
adesso, all’ imbrunire. 

Silvia Giudice Crisafi

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 39.




 GIOCHI DI FUOCO 

Accarezzano lo sguardo 
a mille a mille 
nuova gioia perpetuano i colori, 
stupore infondono dorate 
scintille ed è armonia. 

Silvia Giudice Crisafi

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 39.




TERMINAL

 Quest’ assenza del sacro 
mi sconforta 
ma cosa resta 
da offrire in olocausto agli déi? 
Ora più non negoziano i mercati 
le primizie del campo 
che Abele offriva. 
E sgozzano gli agnelli 
per un rituale. 
Tento di udire il sole 
che picchia come un suono 
di campana 
in un silenzio che non ha l’eguale. 

Maria José Giglio 

da «L.B.», n. 6, 1997

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 45.




 SOLTANTO IL SOGNO 

di Maria José Giglio 

Sono i sogni la nostra eternità 
perché nel sogno il tempo non trascorre. 
Permane, 
ma non come un rifugio nell’inerzia: 
movimento in cui tutto si riflette. 
Siamo sin dall’ origine nel sogno, 
è l’universo il mondo immaginario, 
l’unica forma che possiamo intendere. 
Non c’è animale che non abbia un sogno: 
anche nel sonno 
girano intorno a volte gli occhi suoi. 
E s’ agita 
chissà per quali oscure aspirazioni. 
Soltanto il sogno vendica l’effimero 
dell’ esistenza. 

Maria Josè Giglio

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 41.




 INVITO / l 

Vieni, 
senza magie, senza incantamento 
senza filtri d’amore. 
I pori aperti all’ intendimento 
e il passo corto che ci dà la vita 
nell’ infinito. 
Amore / l’Angelo. 
La porta s’apre tutta verso il fondo, 
dentro il grembo del mondo 
e tu sei qui. 

Maria losé Giglio 

(da Poema total, Ila Palma, Sao Paulo) 

(Trad. di Renzo Mazzone)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 51.




 ALFA-OMEGA 

O Signore Alfa-Omega, 
tu guardiano del Verbo, dove inscrivi 
il tuo simbolo astratto? 
E dove la parola non segnata, 
idea comunicata 
forma e significato? 
Mormora l’immutabile suo ciclo 
la sfera. E nello spazio che si curva 
tramo paure … 
Qui nei segni inventati come includo 
l’imponderabile 
di un linguaggio futuro? 
La parola e il pensiero separati 
– ala aperta 
e istinti di radice. 
Perché il pensiero pensa 
e la parola 
non dice. 

Maria José Giglio 

(da Poema total. Ila Palma, Sào Paulo 1971)

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 30.




 Occhi 

Racconto di Angela Giannitrapani 

Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. 

Che impertinente, pensai, non appena gli occhi scuri penetrarono oltre la sottile ma resistente barriera che avevo costruito per dividermi dal mondo, fino a quel momento. 

Feci finta di niente e mi immersi nelle pagine di giornale che quasi mi nascondevano il viso. Ma non riuscivo a concentrarmi. Sapevo che, al di là dei fogli sottili, c’era quello sguardo. E mi scrutava. 

Avrei anche voluto avere una lente, non reggevo bene la vista di quei colori così intensi, dopo tutto il bianco in cui avevo vissuto. Ma, benché mi ferissero gli occhi e mi scombussolassero l’anima, ne godevo, come un affamato ad un banchetto nuziale. Mi ci era voluto un po’ per penetrare in quel punto del parco, proprio a causa di tutto quel verde e giallo e rosa e blu: solo quando mi ero seduta sulla panchina mi ero resa conto dei suoni e delle voci. Fino a quel momento avevo solo visto, come se il mio contatto uditivo con il mondo si fosse ripristinato proprio nel momento in cui, esausta e guardinga, mi ero seduta. 

Udire quell’accozzaglia di suoni desueti era un po’ come imparare una nuova lingua e nuove regole armoniche. Dapprima arrivavano mischiati e, man mano, andavano distinguendosi, ma continuavano a sovrapporsi e sentivo il cervello bombardato, ma avido di ingoiare quella musica recente. Tuttavia era troppo. Troppo, tutto in una volta. Fortunatamente avevo il giornale e lo usai di nuovo come schermo. Sì, certo, mi aiutava a filtrare quell’abbondanza che tentava di travolgermi. E cominciai a rilassarmi. Ci sarei riuscita completamente, se non avessi avuto quegli occhi puntati su di me. 

Perché proprio io, poi, tra tanta gente? Non avevo fatto nulla per essere notata ed era certo l’ultima cosa che desiderassi. In quel momento non desideravo molto, a dir la verità. L’ unico pensiero chiaro che ricordo di avere avuto in mente era quel programma, che mi ero prefissata di portare a termine. Quel progetto, fatto più di bisogni e di risoluzioni pratiche che di desideri . Non mi restava che decidere dove andare. Non doveva poi essere così difficile. Ricordavo bene da dove venivo. 

Così, mi immersi più attentamente nelle pagine del giornale. Se non fosse stato per quei leggeri capogiri si sarebbe detto che ero in perfetta forma. Allora, presi a respirare più lentamente e più profondamente, come avevo imparato. Quegli occhi erano ancora fissi su di me, avrei potuto scommetterlo. Bisognava far finta di niente. 

Cercai, tra gli articoli e le rubriche, qualche luogo che mi ispirasse; ma venivo continuamente inghiottita dalla cronaca scarna e quotidiana. Che titoli banali per fatti complessi! Chi scriveva non sembrava accorgersene. Io sapevo cosa c’era dentro quelle storie, ma avevo anche imparato a non dirlo più. 

Ci fu appena un sospiro e fui costretta a scavalcare i fogli. Mi scontrai con il suo sguardo, adesso più incuriosito che mai; e ne fui scossa. Mi leggeva i pensieri? Ero certa di non aver parlato ad alta voce. Non questa volta, almeno. Mi sistemai meglio sulla panchina, che sentii un po’ più scomoda e rigida di prima e annaspai tra gesti indecisi e, ne ero certa, sguardi vaghi. Decisi, alla fine, di apparire attratta dagli alberi, dallo scintillio del sole e addolcita dal vociare dei bambini. Feci finta di concentrarmi su una pozzanghera affollata di passeri; emisi un profondo sospiro che risuonasse di soddisfazione e sperai che anche lo sguardo dirimpettaio mi seguisse, distogliendosi da me. 

Lo fece, per pochi secondi. Poi, decise di tornare a me, come se, dopo un breve intermezzo, fosse di nuovo il mio turno. 

Delusa e un po’ indispettita, trafissi i suoi occhi con il mio sguardo tagliente, antico di anni, ma dissepolto di recente. Consapevole, ne ebbi paura, nel ricordo di ciò che mi aveva sempre causato. E mi risuonarono urla, domande, silenzio, irruzioni, lunghi sonni indotti. 

Ingolfata nel mio stesso respiro, non mi resi subito conto di aver provocato soltanto maggiore interesse e un tentativo, discreto, di accorciare le distanze da parte di chi mi stava di fronte. Non era un’aggressione e questo bastò a rassicurarmi. Rallentai il mio respiro, chiusi gli occhi, svuotai la mia mente e contai finché potei, come mi era stato insegnato. Quando li riaprii, nulla era cambiato intorno, e in certo qual modo ne fui rassicurata. 

Ma che impertinente, pensai di nuovo, non appena incrociai quegli occhi scuri. Adesso, mi studiavano con una certa comprensione e sembravano volerne sapere di più. No. Non ero disponibile a far capire di più. Mi era sfuggito fin troppo. Fin troppo adesso e in passato; quando con ingenuità avevo dato in pasto agli altri i miei umori, le mie tristezze, i moti di entusiasmo, l’amore, una vitalità fastidiosa che costava fatica a tutti, e me stessa, d’impaccio per chi mi amava e odiava. 

Adesso potevo perfino sentire il suo odore, tanto vicini eravamo. Avrei voluto fuggire, ma ero inchiodata contro lo schienale della panchina. Se mi fossi alzata avrei comunque rischiato d’essere sfiorata e ne avevo il terrore. Così, decisi di sbarrare quel breve spazio con l’unica arma in mio possesso e mi nascosi ancora dietro il giornale. 

Ma le righe e le parole presero a tremolare convulsamente, prima di sparire e riapparire come per incanto, in una indesiderata quanto improvvisa liquidità, che non riconobbi subito come mia. Quanti giorni, quanti mesi, quanti anni erano passati dalle mie ultime lacrime? Quante me stessa? Frantumata in mille e dispersa in frammenti divisi tra coloro che, inconsapevoli di possederli, vivevano nelle strade, nelle case, nelle loro famiglie? Quanti anni avevo vissuto sola, più nella memoria altrui che nel mio presente? 

Non avrei permesso oltre quell’intrusione nella mia vita. Decisi che avrei fatto un gesto spazientito o detto parola, per allontanare quella sfacciata indiscrezione che mi stava di fronte. Abbassai il giornale con uno scatto dal suono secco, come una schioppettata; ma non intimorii altri che me stessa. 

Al contrario, adesso potevo specchiarmi in tutta la sua simpatia. Calda e accattivante, come di chi, sicuro del proprio passato, non teme il dolore né la gioia altrui ed è pronto alle sorprese, purché vissute in comunione. Non seppi più cosa dire e cosa fare. E, indesiderato, mi sfuggì un debole sorriso. Anche l’altro sembrò sorridermi, tra i tanti sentimenti affiorati nei suoi occhi. Sembrava, perfino, pronto alla lucida follia di consorziare il suo destino ad una sconosciuta e a scommettere su di me, senza riserve. 

Mi sentivo travolta da tanta sicurezza. Ma, invece che disagio, ne ebbi un caldo piacere che, scivoloso, andò giù fino in fondo e risalì alla mia mente riordinata di recente, facendorru dire: perché no? Pensandoci bene, il rischio più grosso l’avevo corso alcune ore prima e non potevo che compiacermi del luogo in cui mi trovavo. Nell’ultima mezz’ora, a causa di quella investigazione silenziosa, ero anche stata costretta a ripercorrere i miei anni e le mie fughe. Compresa l’ultima. E giurai a me stessa che non ce ne sarebbero state altre. 

Mi ritrovai la mano sul suo viso tiepido e, bisbigliando, dissi: «Sì, grazie.» 

Fece cenno di goderne e ricambiò lambendomi le dita con tenerezza. 

Raccolsi i frantumi dei miei ultimi pensieri e il giornale, scivolato ai miei piedi; mi alzai dalla panchina lentamente e insieme ci incamminammo. 

Sì, sarebbe stato facile trovare dove andare. Avrei chiesto di una casa con giardino. Per via del mio compagno, naturalmente. L’avrei ottenuta. 

Chi mai avrebbe potuto sospettare di una giovane donna con un cane? 

Angela Giannitrapani

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 30-32.




 Entro ogni voce d’uomo

 Entro ogni voce d’uomo, 
entro tutti gli anfratti 
sillabe d’assoluto hai seminato 
Non sono lombrico, Signore, 
che si nutre di zolle, né scattante 
puntino su pagine ingiallite. 

Gianni Giannino 

da Il nido fra le stelle. Haiku e altri versi. Ila Palma. 2007

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 37