IL FUOCO DELLA RABBIA 

Per spegnere il fuoco 
della rabbia 
sciolgo la catena delle parole. 
L’urlo feroce del peccato 
diventa stelo sottile 
d’àloe. 
Al di là della disperazione 
l’anelito 
verso ritrovate armonie 
torna 
alla muta profondità 
delle origini 
dove il discorso 
si risolve. 

Pino Giacopelli 

Oltre la siepe, N. Calabria, Patti, 2004

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 29.




GIUSEPPE BAGNASCO, L’amore viola. collana «Poesia Oggi», l.l.a. Palma, Palermo, 2008.

Il colore del sentimento e la vitalità della memoria 

L’amore viola, cioè, l’amore come un nome, come un colore, forse come uno strumento a corda che vibra e produce suoni profondi. Sono poesie che, in una fitta trama di rimandi e nell’inarcatura tra verso e verso, ci restituiscono lo stupore, la magia, il dolore di un canzoniere d’amore che, come tale, si sottrae ai livelli della storicizzazione” che esprime l’uomo, la sua cultura, i suoi vissuti. 

È una poesia dell’io, che parla all’amore e dell’amore, che guarda dentro di sé per scavare le vibrazioni più intime. 

Fra le cinquanta poesie, ce ne sono almeno cinque (Felice il vento, La pazzia, Senza cuore, Poi arrivasti tu e Mura il tuo silenzio), in alcuni versi delle quali abbiamo trovato, quel senso del labirinto assunto emblematicamente da alcuni poeti siciliani della fine del’ 500, in primis il poeta di «Celia» nelle sue Canzuni amurusi. il monrealese Antonio Veneziano – limitatamente alla esperienza amorosa. Laddove il sentire la passione d’amore con un lirismo che ci confermaquanto il sentimento amoroso sia consonantico e senza tempo, e come la poesia di Bagnasco raggiunga vertici di espressione così nobili e rari. 

Fare poesia significa mettersi a servizio della natura, non per imitarla nel canto, ma per darle espressione; significa esplorare quel luogo segreto all’interno di noi per tirame fuori immagini e fantasie che non appartengono solo a noi, ma che racchiudono tutti i sogni del mondo. Non a caso Hermann Hesse ha scritto che «nei sogni dei poeti risiedono una bellezza e una grazia che si cercano invano nelle cose reali». 

Il poeta scrive una poesia, non inizia affatto un libro. Soltanto dopo si rende conto che, tra le diverse poesie scritte, si ri-trova la linea di un percorso, il tracciato di un discorso. Dove iterazioni, sineddoche, sinestesie, anafore, metonimie, ispirano ed evocano stati d’animo che si trasformano in immagini. 

Bagnasco propone una poesia in cui fantasia e verità si incontrano nel segno di una superiore armonia: «E poi arrivasti tu / e il tempo / non fu più il tempo. / Si accesero le vetrine dell’ amore … ». Molte sono anche le suggestioni (da sub gerere) con cui, attraverso metafore fortemente fisiche, i testi poetici si possono leggere come partiture dell ‘anima: «Se dovessi descrivere l’amore / disegnerei un chiodo / e lì appenderei tutti i suoi sogni / e per vincere la solitudine / starei solo assieme a un cane / a dividere la zuppa con lui» (Calcinacci). 

Una poesia, dunque, che più sembra lontana dalla vita veloce ed ipertecnologica 

di oggi, più riporta alla condizione eterna dell’uomo, alla maledizione e alla ricchezza della sua corporeità. Sì, perché la poesia non dà risposte, ma interroga «il silenzio delle cose» (Luzi). 

Voglio concludere riportando alcuni versi della poesia Mi manchi. Qui l’amore si fa confidenza e si circonda di letteratura senza perdere nulla della sua immediatezza. E per me è come chiudere un cerchio: come se l’ultimo pezzo del puzzle fosse stato già pronto a combaciare: «E tu mi manchi / mi manchi appena dopo / esserci lasciati / [ … ] Mi manchi oltre la vita / perché in me non c’è vita / se tu mi manchi … ». 

Pino Giacopelli

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 62-63.

 




 DAL SUD di Pino Giacopelli 

Vengo dal sud, quel mito che abita ere 
trapassate e si dissolve nella zona 
degli uccelli 
nel pendio scorticato dagli artigli 
del grifone, 
quella strada in salita merlata turrita 
vaga di essenze esotiche, di cedri, 
sulfuree pietraie 
e scende nel mare della mattanza 
dove leggiadro veleggia un catamarano 
corindone, 
e le donne (stordite dal profumo 
di tuberose?) si aprono al piacere 
forse senza sensi di colpa, degustando 
sorbetti 
al gelsomino, senza coturni ai piedi. 
Corpi che sono labbra spalancate. 
Per amare 
e mentire, sognare e tradire. 
Voci della boucherie, necropoli 
macchiata 
di fantasmi che il mattino accende 
di lucerne 
e si perdono nel crocevia che spezza 
la speranza, negli ancestrali mal (umori) 
tellurici, 
nelle confidenze custodite della prima 
età e diventano marzapane e malvasìa. 
Vengo dal sud, quella sciarada 
che traveste 
di verità ventri di madreperla, dove 
per le coccinelle i pipistrelli sono 
angeli 
e lo spaventapasseri attira i corvi senza 
spaurirli nemmeno. 
Quel percorso triangolare dei gufi dove 
la gente 
viene a deporre lame di coltelli, 
a perdere 
la testa (almeno una volta) 
per somigliare 
a se stessi e sceglie la libertà che 
non conosce 
e crede che le stazioni dei metrò 
sono catacombe e l’oceano una latomìa 
abissale 
che inghiotte il sole, dove la maschera 
rugosa 
della morte ha il volto di una P-38 
carica 
di polvere di eroina, dove hai paura 
di assopirti 
e di svegliarti, mani nelle mani, 
nella morte 
che passa e ripassa sul corpo disteso 
portando 
via, poco per volta, la luce dagli occhi. 
Un’amàca tramata, 
dove allungarsi per addormentare 
il dolore 
attraversando i secoli, paesi, oscurità 
silvestri 
cariche di porfido, sfrascando steccati 
fra i passi della storia e vetrine ex voto. 
Vengo dal sud, la schiena contro 
la solitudine, 
i colori mescolati ai sapori, 
la fronte contro le illusioni (orecchie 
di cane che spazzano le pietre), 
le pietre 
pagine scritte e cancellate con rametti 
di mentastro, 
l’amante contro il fascino fatale, 
l’azzardo e il rimorso bleu cobalto, 
i ricordi contro il computer, 
vivere come i segreti, sottoterra, 
i santi contro l’assenza della vita, 
la fedeltà l’enigma, dove le brillanze 
di percorsi 
labirintici sono nascondigli, cartilagini 
di favi d’api e fuga, rifugio del tempo 
a venire, 
dove il sole ha nostalgia dell’ ombra 
e il querceto bagnato tinnisce allibito. 
M’aggrappo alla terra che si muove 
senza legami 
con la terraferma, un ponte verso 
lo zenit. 
Resto al sud, progetti di futuro: andare 
a fragole, 
arrivare alla vecchiaia con la faccia 
rivolta 
all’infanzia, senza memoria, non senza 
immaginazione. Incontrarsi vicino 
al piccolo 
castello di Eloisa, alla Ciambrina, 
la minuscola 
medina segreta e misteriosa intarsiata 
di ciottoli spuntati che schiudono 
le porte 
all’ utopia evocata dagli artisti, 
dove nelle notti di luna, negli intarsi 
absidali venati di madore adamantino, 
fa capolino 
l’anima nuda, l’aurora della vita 
e si potrà vedere l’aria e l’erba crescere 
e, nel vento che gonfia la camicia 
ed accarezza il petto, le ancore levare. 
I sogni, nervosi tentacoli barbicati 
di gemme ascellari, sono sempre 
più importanti di chi li ha generati. 

Pino Giacopeli

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 45-46.




 La leggenda di Tristano e Isotta in Inghilterra 

di Giacomo Giacomazzi 

La leggenda di Tristano e Isotta è stata definita «il grande mito europeo dell’adulterio»1: Tristano, il più nobile cavaliere del re Marco (di cui è anche nipote) conquista la mano della principessa d’Irlanda Isotta, per darla in sposa allo zio. Durante il viaggio in mare tra l’Irlanda e l’Inghilterra, i due protagonisti bevono per errore un filtro magico con il potere di far innamorare perdutamente, preparato dalla madre d’Isotta per la prima notte di nozze tra gli sposi. Tra i due, dunque, inizia una turbolenta relazione adultera, condotta tra mille periperzie (inganni, separazioni, ricongiungimenti, combattimenti). Inesorabilmente, i due amanti si potranno ricongiungere solo nella morte, che li coglierà entrambi a breve distanza l’uno dall’altra2. 

Come per tutti i miti che si rispettino, le sue origini si perdono nei meandri del tempo e dello spazio. Ciò nonostante, più di cent’anni di studi filologici e letterari (coadiuvati dal supporto non indifferente di quelli archeologici) ne hanno significativamente individuato la chiara provenienza dalla Cornovaglia celtica3. 

La leggenda tristaniana, dunque, ha la sua origine proprio nelle isole britanniche; e originariamente si presenta indipendente e parallela a quella arturiana tramandata da Geoffrey of Monmouth e da Wace; e che successivamente la assorbirà al suo interno, in quella che, alla fine del XII secolo, viene definita da . Jean Bodel Matire de Bretagne. 

È ancora nelle isole britanniche che sembra ‘iniziare’ la storia prettamente letteraria di Tristano e Isotta. Infatti, l’ adattamento degli originali elementi ‘primitivi’ della leggenda celtica al più raffinato clima culturale dell’ allora nascente letteratura cortese si verifica alla corte di Enrico II Plantageneto, attraverso la contaminazione con elementi provenienti dalla cultura classica (in particolar modo Ovidio). 

Due sono gli autori operanti in seno alla corte plantageneta che, narrando in anglonormanno, rivestono un ruolo determinante in questa evoluzione della tradizione tristaniana: Marie de France e Thomas d’ Angleterre. 

«Marie de France» è la firma di una poetessa di cui si ignora qualunque notizia biografica, posta su tre opere: i Lais, dodici componimenti probabilmente scritti nel 1165; una raccolta di Fables esopiche, composta verso il 1180; l’Espurgatoire de Saint Patrice, che risale all’incirca al 11894. 

Nel Lai du Chevrefoil, la poetessa narra l’episodio di uno dei tanti incontri segreti tra Tristano e Isotta. Pur nella sua brevità (si tratta di 118 versi ottosil1abici), questo poemetto si presenta ricco di elementi estremamente interessanti, grazie ai quali Marie riesce volontariamente a creare un perfetto trait d’union fra tradizione orale celto-bretone e letteratura cortese. 

È già la definizione del componimento come lai che costituisce un chiaro rimando alla tradizione orale insulare: si tratta, infatti, di un termine che orginariamente designava un componimento musicale, cantato o semplicemente suonato da arpisti irlandesi e cantastorie bretoni. E, infatti, Marie stessa dichiara esplicitamente di averlo «più volte ascoltato» (plusurs le m ‘unt cunté e dit)5; ma, subito dopo, aggiunge un ‘elemento letterario’, dichiarando di averlo anche trovato «messo per iscritto» (E jeo l’ai trové en escrit)6. Anche la tipologia episodica e allusiva della narrazione rimanda in sé alla recitazione giullaresca; e presuppone – in virtù dell’essenzialità e condensazione degli elementi narrati – che il pubblico conosca perfettamente la storia nel suo insieme. Un altro elemento che esplicitamente manifesta l’intenzione autorale di creare la continuità tra i due sistemi culturali è contenuto nell’ epilogo, quando Marie riporta il titolo del lai sia in inglese (Gotele/) che in francese (Chevrefoil), attribuendone la creazione allo stesso Tristano7. 

Ma è, forse, il tema centrale dell’unione indissolubile tra il noce e il caprifoglio, simboleggiante quella tra gli amanti, a rievocare dei precisi elementi provenienti da entrambi gli universi culturali, sintetizzandone la sovrapposizione e suggellandone la continuità. 

Se da un lato, infatti, questo tema richiama la tradizione classica della poesia d’amore latina – in particolare, le Metamorfosi di Ovidio -, dall’altro presuppone un chiaro legame con il ruolo magico ed evocativo delle piante nella cultura celto-bretone. Inoltre, sempre su un ramo di noce (cui era riconosciuta soprattutto la virtù di donare l’ispirazione poetica), Tristano incide il messaggio cifrato che solo Isotta riesce a comprendere e che, molto probabilmente, è scritto in caratteri ogamici (corrispondente celtico del runico germanico), facilmente comprensibili da una principessa irlandese8. 

Come per Marie de France, anche di Thomas d’Angleterre ignoriamo praticamente tutto. Di lui rimane solo il nome, citato due volte all’interno del suo Roman de Tristran, e da Gottfried von Strassburg che nel prologo della propria versione delle leggenda tristaniana nomina «Thòmas von Britanje» come suo modello. L’opera stessa è stata tramandata in stato frammentario e lacunoso da sei manoscritti, che ne contengono parti differenti. Si pensi che dei 13.000 versi ipotizzati da Felix Lecoy, se ne sono conservati solo 32989. 

Se il Lai du Chevrefoil si presenta come una ‘sintesi perfetta’ fra la tradizione orale celto-bretone e l’allora recente narrativa cortese in lingua d’oil, il roman di Thomas d’Angleterre presenta dei caratteri molto più spiccatamente letterari, fortemente legati alla componente più dotta della cultura del XII secolo. 

È già la natura romanzesca della narrazione thomasiana a rivelare come egli ‘propenda’ (molto più della contemporanea Marie) verso la cultura continentale. Se è vero, infatti, che il termine roman come tipo di componimento narrativo, è indicativo del processo di ‘volgarizzazione’ della cultura dotta di origine latina, allo stesso tempo, però, ne rivela anche l’ideale continuità10. 

E pur tuttavia, rimangono delle evidenti tracce dell’origine celto-bretone della leggenda. Tra quelle più palesi si hanno: l’esplicito riferimento alla tradizione oralell; il riferimento a un certo conteur bretone Breri come al migliore conoscitore della matire de Bretagne12; la composizione ed esecuzione di un lai da parte di Isottal3; l’indipendenza della leggenda tristaniana da quella arturianal4. 

Il mondo tristaniano di Thomas, comunque, è pienamente cortese, ben lontano dagli eroi della tradizione celtobretone. Non a caso, infatti, proprio la sua versione è indicata come capostipite del filone ‘cortese’ della tradizione, in contrapposizione a quello ‘comune’ dai caratteri più ‘primitivi’ls. 

Lo stile narrativo thomasiano si presenta, inoltre, estremamente distante dallo spirito originale della leggenda. Esso manifesta, infatti, un chiaro intento didattico-moraleggiante, molto vicino al modello argomentativo della filosofia scolastical6. Questo aspetto non appare affatto casuale, dato che, attraverso un’ attenta lettura del testo, sembra possibile riscontrare dei rimandi ad alcune delle più importanti e dibattute questioni filosofiche dell’ epoca. Queste tematiche filosofiche si legherebbero all’intenso dibattito sull’ amore e sul libero arbitrio che percorre tutto il XII secolo. Un ruolo predominante sarebbe ricoperto, innanzitutto, dalla riflessione filosofica di Pietro Abelardo, a partire dalla posizione che egli assume nella famosa querelle des universaux, e che avrebbe ispirato il progetto didattico-culturale del cosiddetto ‘Circolo di Canterbury’, i cui ‘aspetti teorici e programmatici’ risulterebbero evidenti nel Metalogicon di John of Salisbury17. 

Anche se chiaramente derivato dal Roman de Tristran di Thomas, l’anonimo Sir Tristrem in middle english della prima metà del XIV secolo si discosta molto dallo spirito del proprio modello. 

Quest’ opera è stata tramandata da un unico manoscritto, il Codice Auchinleck, conservato alla National Library of Scotland. Questo codice è di notevole importanza per lo studio della letteratura inglese medievale, poiché costituisce una delle più vaste e antiche antologie di opere scritte in middle english; di cui otto in copia unica (tra cui proprio il Sir Tristrem). Quando nel 1804 Walter Scott ne fece l’editio princeps, prestando fede alla prima strofa del poema ne attribuì la paternità a Thomas the Rhymer of Erceldoun, leggendario vate del XIII secolo, giungendo financo a identificarlo proprio con il Thomas von Britanje citato da Gottfried von Strassburgl8. 

Il Sir Tristrem presenta delle caratteristiche che ne hanno sempre fatto un’opera molto controversaI9 : · è, infatti, estremamente allusiva ed ellittica; i nessi logici narrativi non sono esplicitati, come se chi scrive dia per scontato che il proprio pubblico conosca fin nei minimi dettagli il racconto. 

Il metro utilizzato, inoltre, è estremamente complesso: si tratta di strofe di undici versi, divise in una fronte di otto versi a rima alternata (ABABABAB), seguita da una coda di tre versi collegati alla fronte dallo schema rimico (cBC). Ogni verso presenta solo tre sillabe accentate, tranne il primo della coda che ne contiene uno. Data la complessità della stanza, la sintassi risulta spesso stravolta, vengono utilizzate parole strane e poco adatte, si fa ricorso spesso all’uso di zeppe. 

Tutte queste caratteristiche, in realtà, risultano essere tipiche della poesia anglosassone. Dal punto di vista stilistico, ad esempio, è riscontrabile un chiaro rinvio al BeowulfO. Ma ancora più significativo è, certamente, il fatto che la stanza del Sir Tristrem si configura come una forma ridotta della cosiddetta bob and wheel stanza, la strofa del Sir Gawain and the Green Night, considerato il capolavoro della letteratura arturiana in middle english del XIV secolo21. 

Oltre alla tradizione diretta, nell’Inghilterra medievale sono numerose anche le attestazioni «indirette», che testimoniano la popolarità e diffusione della leggenda tristaniana. Geoffrey Chaucher, per esempio, vi allude nella ballata ironica To Rosemounde, in The Parliament oj Fowls, in The Legend oj Good Women e in The House oj Fame. 

Inoltre è possibile trovare un po’ ovunque in Inghilterra vetrate, arazzi, sculture, miniature, piastrelle decorate, risalenti al Medioevo che rappresentano le scene più famose della leggenda. 

Giacomo Giacomazzi

NOTE 

I «TI existe un grand mythe européen de l’adultère: le Roman de Tristan et Yseut», D. de Rougemont, L’amour et l’Occident, Paris, 1972′, p. 18. 
2 Riassumere esaustivamente e brevemente l’intera storia risulta essere piuttosto problematico, anche in virtù delle numerose varianti della leggenda che sono state tramandate. Per un approfondimento, cfr. A. Punzi, Tristano. Storia di un mito, Roma, 2005. 
3. Gli studi sull’ argomento sono piuttosto numerosi; per una sintesi abbastanza esaustiva, si vedano: J. Chocheyras, Tristan et Yseut: genese d’un mythe littéraire, Paris, 1996; F. Benozzo, Tristano e Isotta. Cent’anni di studi sulle origini della leggenda, in Francofonia, 33, 1997, pp. 105-130. 
4 Per informazioni più dettagliate su Marie, cfr. C. Rossi, «Marie ki en sun tens pas ne s’oblie». Marie de France: la Storia oltre l’enigma, Roma, 2007. 
5. Marie de France, Lai du Chevrefoil, in Ch. Marchello-Nizia (a cura di), Tristran et Yseut. Les premières versions européennes, Paris, 1995, pp. 213-216: p. 213, v. 5. 
6 Ibid., v. 6: Ci si è chiesti se Marie non alluda al ‘famigerato’ poema archetipo che Jospeh Bédier ha tentato di ricostruire con metodo lachmanniano (cfr. 1. Bédier, Le Roman de Tristran par Thomas: poème du XII siècle, Paris, 1902-1905). 
7 «Pur les paroles remember, I Tristram, ki bien saveir harper, I En aveit fet un nuvel lai. / Asez brefment le numerai: / Gotelef l’apelent Engleis, / Chevrefoille nument Franceis»: Marie de France, op. cit., pp. 215-216, vv. 111-116. 
8. Su questo aspetto della narrazione di Marie de France, cfr. M. Cagnon, «Chievrefueil» and the Ogamic Tradition, in Romania, XCI, 1970, pp. 238-255; M. Demaules, Notice au Lai du Chèvrefeuille, in Ch. Marchello-Ni?-ia, op. cit., pp. 1287-1298. 
9. Per notizie più dettagliate, cfr. I. Short, Notice au Fragment inédit de Carlisle, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 1208-1214; Ch. Marchello-Nizia, Notice au Tristan et Yseut par Thomas, in ID., op. cit., pp. 1218-1247. 
10. Allo stesso modo in cui, scegliendo la forma del lai, Marie dimostra invece di volersi collegare idealmente con la tradizione orale celtobretone. 
11. Anche Thomas, cosÌ come Marie, riferisce sia di narrazioni orali di tipo giullaresco, sia di versioni scritte della leggenda tristaniana: «Di’ en ai de plusur gent / asez sai que chescun en dit / e ço que il unt mis en escrit.»: Thomas, Roman de Tristran, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 123-212: p. 184, vv. 2270-2272. 
12 Si tratta forse del «famosus ille Bledhericus» citato da Giraud de Barri (Giraldus Cambrensis) nella Topographia Hibemiae, scritta nel 1194. Oppure potrebbe essere anche quel Bléheri, citato da Wauchier de Denain nella continuazione dell’incompleto Conte du Graal di Chrétien de Troyes, che avrebbe narrato la storia di Tristano e Isotta alla corte di Poitiers (cfr. P. Gallais, Bleheri, la cour de Poitiers et la diffusion des récits arthuriens sur le continent, in Actes du Vile Congrès National de la Société Française de Littérature comparée [Poitiers, 27-29 mai 1965J, Paris, 1967, pp. 47-79). 
13. Si tratta del Lai du Guiron, famoso componimento sul tema del «cuore mangiato», non conservatosi, ma più volte citato nel corso del Medioevo; cfr. Thomas, op. dt., pp. 150-151, vv. 987-1000. 
14 Thomas cita Artù esclusivamente in relazione al suo duello con un gigante, il cui nipote viene a sua volta affrontato e battuto da Tristano, in un episodio che egli stesso dichiara del tutto gratuito nell’economia della narrazione: <<<4 la matire n’ afirt mie, I nequedent boen est quel vos die» (ibid., p. 149, vv. 935-936). 
15. L’origine di questa distinzione all’interno della tradizione tristaniana in «versione comune » e «versione cortese» è dovuta a Joseph Bédier. Quando si allude alla versione comune, ci si riferisce a quelle opere che risulterebbero fedeli alla struttura e al senso del presunto archetipo: Béroul, Eilhart von Oberg, la Folie de Berne. Quando si parla, invece, della versione cortese, si intende il roman di Thomas e le opere ad esso ispirate: Gottfried von Strassburg, la Tristamssaga norrena, la Folie d’Oxjord, il Sir Tristrem. 
16 Cfr. V. Bertolucci Pizzorusso, La retorica nel «Tristano» di Thomas, in Studi Mediolatini e Volgari, 6-7, 1959, pp. 26-61. 
17 Questo aspetto del roman di Thomas costituisce il punto di partenza del mio progetto di ricerca attualmente in corso nell’ambito del dottorato di ricerca in Letterature moderne e Studi filologico-linguistici presso l’Università degli Studi di Palermo. 
18 Per maggiori informazioni a riguardo, cfr. C. Fennell (a cura di), Sir Tristrem, Milano-Trento, 2000; A. Crépin, Notice au Sire Tristrem, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 1541-1554. 
19. Già Robert Mannyng of Brune, nella Story oj lnglande (1338), citava il Sir Tristrem come esempio di narrazione storpiata e incomprensibile agli ascoltatori, a causa della pretestuosa arte di «menestrelli vanagloriosi»; cfr. C. Fennell, op. cit., pp. 51-52. 
20 Cfr. C. Fennell, op. cit., p. 42. ” Per un’analisi della bob and wheel stanza e un confronto con quella del Sir Tristrem, cfr. A. Crépin, op. cit., pp. 1545-1548. G. G.

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 16-20.




 VIRGILIO TITONE, Politica e civiltà , ed. Sciascia, 1951 

All’indomani della prima guerra mondiale un’opera di filosofia della storia emblematicamente intitolata Il tramonto dell’occidente veniva pubblicata dal pensatore tedesco Oswald Spengler. In essa si dava un giudizio negativo sul destino della civiltà europea, avviata secondo lui ad una inevitabile catastrofe. A partire d’allora, di fronte alla grande mutazione che appariva chiara nelle istituzioni e nell’economia, il concetto di civiltà nella sua essenza, la storia delle diverse civiltà del presente e del passato, comparate tra di loro, entrarono tra i temi più discussi della saggistica contemporanea, anche per lo spessore culturale degli autori che vi hanno partecipato. 

Virgilio Titone scrisse sull’argomento il libro Politica e civiltà, pubblicato nel 1951 dalle edizioni Salvatore Sciacca, nel quale si rifaceva alla “morfologia della storia” prospettata dallo Spengler. Lo storico siciliano apprezzava questa come contributo all’inevitabile rinnovamento degli studi storiografici e delle dottrine politiche, richiesto dal nostro tempo. Il Titone faceva riferimento ad Arnold J. Toynbee, inglese e di professione storico, a differenza dello Spengler. Nella sua poderosa opera, A Studi of History, 12 volumi apparsi tra il 1934 e il 1961, con metodo comparativo, venivano studiate ventuno società che avevano in comune il carattere di civiltà, a differenza delle società primitive. 

Le civiltà sono, al pari degli individui viventi, degli organismi che nascono, crescono e muoiono, le cui vicende il Toynbee narra con un “ottimismo cosmologico”, che lo distingue dal radicale pessimismo dello Spengler (Lucin Febvre, Problemi di metodo storico, Reprints Einaudi, Torino, 1976, pag.1 01). Titone, nel riferirsi a questi autori, che tra gli storici d’allora venivano accolti con diffidenza, avvertiva l’importanza che le loro opere avevano per l’innovazione degli studi storici, per un loro incontro con le scienze dell’uomo e sociali, prendendo (e dando) linfa alla loro metodologia. ((Ogni età – scrive – ha la sua storia. E forse può credersi che qualche volta la nostra età abbia la sua in questi scritti che in quelli che propriamente si considerano come storie, e ciò puri tra i molti paradossi, le generalizzazioni gratuite e le astrazioni o analogie arbitrarie» (Politica e civiltà, pag. 8. D’ora in avanti di quest’opera citerò solo la pagina). 

Movendo dalle due guerre mondiali della prima metà del ‘900, l’attenzione del Nostro si allarga ad altri periodi storici, alla ricerca di ((come avvenga il passaggio da una certa serie di forme storiche a un’altra» (pag. 26), lo sviluppo delle singole civiltà. Lo fa elaborando i concetti che costituiscono la trama di «Politica e civiltà». Tra essi contesta l’uso che di quelli di crisi si è fatto tra gli anni Trenta e Quaranta, rendendolo un termine generico e ormai fin troppo abusato» (pag. 141). Considerare le crisi come fuoriuscita da una condizione di normalità, intensa come qualcosa di stabile e di duraturo, non ci dà una interpretazione corretta della storia, la cui regola è il divenire. 

((Se per crisi dunque – scrive il Titone – s’intende, come vuole intendersi, un periodo di transizione, poiché di nessun periodo della storia può dirsi che transizione non sia, la storia stessa non sarebbe se non un succedersi ininterrotto di crisi, anzi un’unica interminabile crisi: il che sarebbe come negare che di crisi, comunque definibili, possa parlarsi» (p. 142). Spiegare i fatti storici, il loro

succedersi, non può consistere in una sovrapposizione di modelli prestabiliti, il che fanno le varie teorie. 

Quella del Titone non è arida metodologia. Nel saggio qui esaminato troviamo un notevole stile narrativo, quale si addice ad un’ opera di storia, con un richiamo costante ad avvenimenti situati tra l’antichità e l’età contemporanea, nei quali si manifesta il processo stesso della vita, il movimento. Leggiamo: «La storia ci si presenta come una serie di organismi che, compiuto il ciclo dell’affermazione e dello sviluppo, si esauriscono per dar luogo a nuove vite» (pag.61). Ed ancora, e questa valga per tanti altri richiami che si ricavano dalla lettura del libro: «È certamente un grave errore parlare dei romani della decadenza come di degeneri e indegni nipoti dei loro avi gloriosi. In sé, anche quando abbandonano ai barbari la difesa dell’impero, non lo sono più di quanto non fossero stati prodi coloro che avevano combattuto con Annibale. Non ci sono generazioni di eroi e generazioni di poltroni, nati a servire. Si tratta sempre di bisogni e di concezioni della vita diverse: di circostanze, anche, nelle quali è necessario o superfluo l’eroe… Figlia di Roma è la Chiesa Cattolica … Quegli stessi motivi che ci fanno nel declinare dell’impero pensare alla fine imminente, qui ci parlano di una promettente giovinezza» (pagg. 65-67). 

A spiegare la storia valgono poco le filosofie della storia, le sociologie che tendono a prendere il suo posto nel nostro tempo, il tentativo di ridurla entro i limiti di una scienza esatta. Essa non ubbidisce alle regole della nostra logica, non valgono gli accorgimenti dell’individuo: «La storia è più accorta che egli non sia. Può magari girare l’ostacolo, ma prosegue ugualmente per la sua via» (pag. 41). 

Gli avvenimenti successivi alla seconda guerra mondiale fanno esitare il cattedratico palermitano sulla chiave di “interpretazione” dei fatti storici che ha usato sinora. «Abbiamo – scrive – mostrato come si alternino le fasi di espansione e quelle di contrazione e come pervengano a una saturazione e quindi alla crisi, alla guerra o alla rivoluzione, che segnano il passaggio alla fase successiva, del resto preparata dall’esaurimento progressivo della fase in questione… Ci si affaccia il dubbio … se questo presente sia tale da potersi in qualche modo porre sul piano stesso del passato. E sembra che tutto sia così diverso e così radicalmente nuovo da escludere senz’altro ogni possibilità di confronto» (pagg. 241- 243). Qui emerge il limite del saggio del Titone. Esso sta nella concezione elitaria della storia che spinge il nostro autore ad auspicare il ritorno sulla terra di nuove primavere nelle quali sia possibile il formarsi «di una vera aristocrazia che si erga a maestra e guida del popolo» (pag. 105). Invece – osserva turbato – si assiste all’emergere non di «quella che il Fichte chiamava la classe dei dotti», ma dell’altra, («quella degli indotti» (pag. 245). 

La crisi del nostro tempo non terminerà con una restaurazione, come nelle passate, perché sono entrate come nuove protagoniste le “masse” ( un termine che il Titone non usa). Esse, “gli indotti”, non hanno radici nell’ordine tradizionale della società, non riconoscono le aristocrazie, come portatrici di valori, che giustifichino il loro predominio sociale. L’atteggiamento del Titone si avvicina all’angoscia del Croce timoroso che l’avvento della democrazia liberale di massa travolgesse, insieme alle élites, la loro morale (Domenico Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia. 1860-1989, Laterza, RomaBari, 1991, pag. 400). Un altro hegeliano, il Weil, avverte la fine della tensione che divideva la società del passato. Ancora una volta la storia dimostra di essere “accorta”, con la possibilità di accesso per tutti ai gruppi superiori, rendendo sempre più uniformi il modo di pensare e lo stile di vita. «Così non c’è niente di sorprendente se i vecchi valori mettono di nuovo radici nella massa» (Eric Weil, Masse e individui storici, Feltrinelli , Milano 1980, pag.98). Lo testimonia la vicenda dei “diritti umani”, in nome dei quali oggi si può fare anche la guerra. E su quella del Kosovo leggiamo: IlGli Stati democratici dipendono dall’opinione dei cittadini e quest’ultima va conquistata attraverso l’impiego di argomenti in cui la giustificazione morale abbia peso… il mondo costituito sugli arcana imperii era il mondo chiuso delle corti e dei principi. Ora quell’universo autistico non esiste più e regna il potere trasparente della democrazia. E quindi gli Stati sono legittimati solo se sono in grado di giustificare moralmente le proprie azioni… in guerra non si punta più sulla conquista e la gloria, ma sulla difesa dei diritti umani» (Sebastiano Maffettone, Guerra e pace sotto gli occhi degli innocenti, in “Il Sole – 24 ore”, n°124/8 Maggio 1999, pagg. 1-5). 

Giovanni Gerardi

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 43-46.




Un viaggio nel labirinto dell’anima

«Così conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» 

(Gv. VIII – 32) 

Un famoso filosofo cinese affermava: «Vi è una sola verità sulla terra: che qui non vi è verità». Pur comprendendo la plausibilità di tale tesi e pur essendo consci delle innegabili limitazioni della nostra mente, mezzo della «conoscenza», nonché delle numerose difficoltà che si presentano sul cammino del ricercatore, nessuno di noi può accettare di esimersi dal ricercare il «vero», che rappresenta la meta ultima della nostra esistenza intesa come esperienza conoscitiva. 

Nell’allegoria della Genesi, l’uomo e la donna si nutrono del frutto della conoscenza del bene e del male (o albero della scienza), che è stato loro proibito da Dio in quanto portatore di morte. E’ operando una scelta precisa che essi si dividono la famigerata «mela»; si tratta di un’unità simbolica che viene spezzata, e che li condurrà in un mondo sperimentabile esclusivamente attraverso l’esperienza nella duplicità degli opposti. Essi stessi, rappresentanti di questa dualità, nei loro opposti aspetti di «maschile» e «femminile» destinati a riunirsi, si inseriscono in un ciclo non più esclusivamente spirituale, rappresentato dalla «caduta nella materia», il cosiddetto «ciclo delle necessità», nel quale, entrambe le esperienze, sia quella del vissuto interiore che quella più esteriore di sopravvivenza nel mondo fisico, divengono la meta e il mezzo di conoscenza necessari ad attuare quella scelta costante tra «bene» e «male», ricerca di equilibrio tra gli opposti, e più avanti, superando l’impasse, lenta liberazione dai legami terreni. Ciò può essere rappresentato simbolicamente dal moto circolare discendente ed ascendente, dalla caduta al ritorno a Dio, dal cielo alla terra, dalla terra al cielo. 

L’aspetto fenomenico duale, sul quale ci soffermeremo più volte, è una costante legge della natura e del conoscibile, poiché appartiene ad ogni fenomeno indagabile dalla nostra mente. Come al giorno si oppone la notte, alla materia lo spirito, al bene il male, alla morte la vita, al sonno la veglia, così ogni fenomeno conoscibile presenta in natura il suo opposto complementare che lo rende intero. 

Il nostro stesso cervello simbolizza anche dal punto di vista anatomico l’aspetto duale: esso si divide in due lobi inscindibili, preposti, sembra, a due funzioni diverse ma entrambe essenziali, rappresentate in termini generici dall”«intuito» e dalla «logica». L’alternarsi paritetico delle due parti conduce ad un buon equilibrio dell’essere umano, mentre la preponderanza schiacciante di uno dei due aspetti è in grado di «squilibrarci», di renderci, cioè, sempre in termini molto generici, troppo «aridi» o troppo «astratti», ma è in ogni caso uno stato di cose che non può condurre alla «conoscenza» dello spettro di verità da noi raggiungibili, poiché rende incompleto e parziale il nostro «conoscere». 

Oggi possiamo affermare che la nostra «evoluzione» si stia servendo quasi esclusivamente del parziale mezzo di indagine della «logica», strumento razionale con il quale si è affidato alla scienza (termine che, propriamente o no, significa conoscenza) il compito di porre l’accento sullo studio dei fenomeni fisici, visibili, sperimentabili e ripetibili in laboratorio. 

Questo tipo di «conoscenza» alla quale sempre più esclusivamente ci affidiamo, ha avuto il pregio illusorio di offrirci una relativa sicurezza: difatti la legge sull’evoluzione darwiniana, posta a monte della «genesi scientifica», ha dato al nostro conoscere un doppio colpo di coda: da una parte la quasi certezza di non essere che animali evoluti, dall’altra, lo sfruttamento di tale possibilità evolutiva, la nascita di una volontà diretta alla dimostrazione del contrario attraverso l’affermazione della «ragione» che ci separa dal regno strettamente animale. 

Secondo Diel, l’intelletto umano trova il suo scopo specifico nell’adattamento alle necessità strettamente vitali dell’individuo, serve cioè alla sopravvivenza. Ma senza andare troppo lontano, potremmo allora affermare che se il frutto dell’intelletto dirige esclusivamente verso lo scopo della sopravvivenza fisica, dovremmo riconoscere anche agli animali tale tipo di «intelletto». 

Ma l’animale, a differenza dell’uomo, uccide veramente per sopravvivere, non si lascia condizionare dall’odio. L’animale non prova sensi di colpa, è giustificato dalla sua stessa natura quando uccide per fame. Si dovrebbe allora spostare il tiro dal termine «intelletto» a quello di «istinto», ed individuare la linea di demarcazione che separa gli uomini dagli animali nella cosiddetta «coscienza». Una coscienza, o consapevolezza di tipo morale, che conduce sempre all’eterna scelta tra bene e male, e con la quale l’essere umano è in grado di tenere salde le redini dell’istinto, di vincere, cioè, la sua natura animale combattendola e soggiogandola con la sua natura «positiva» o «morale». 

È luogo comune affermare che la nostra società «civile» sia una giungla nella quale si continua a lottare per la sopravvivenza, nella quale omicidio, odio e violenza non sono sconosciuti nemici, ma compagni di viaggio. Ma c’è un altro vero «genocidio» commesso ai danni dell’umanità, e non esclusivamente quello perpetrato con le armi. Esso si propaga anche con mezzi più sottili, con l’abuso di mezzi intellettivi al servizio della propria natura «negativa» a danno degli anelli più «deboli» della catena per inciso, contro i «giusti». 

Nella giungla umana il nostro successo, la nostra autoaffermazione, vengono fatti dipendere dal soccombere altrui; il nostro ego (o il nostro egoismo) è il piccolo limitato mondo dal quale non sappiamo uscire per andare verso l’universo del prossimo, e per la cui conquista siamo spesso disposti a tutto. Se è vero che la lotta umana si svolge ad un gradino «superiore» a quello degli animali, siamo davvero ben poca cosa rispetto ad essi, poiché il nostro errore è sempre intenzionale, volontario, privo d’amore, non più affidabile esclusivamente alla natura istintiva, non più giustificato dall’animalità umana. 

Sempre per esprimerci in termini simbolici, è la «Bestia» dell’Apocalisse che sorge in noi dal grande mare (dell’inconscio). È il Leviatano, l’antico serpente condannato a strisciare, che bisogna guardarsi dal risvegliare, perché non sollevi la testa: il latore delle forze negative dentro chi non accoglie in sé la forza dell’amore. Le sue sette teste, con su scritti «nomi di bestemmia» potrebbero rappresentare i sette peccati capitali, le forze negative sempre latenti nell’anima umana. 

La «Bibbia di Gerusalemme» definisce la Bestia apocalittica come «un mostro del caos primitivo… che incarna la resistenza contro Dio delle potenze del male». Nella cosmogonia babilonese esiste in merito questa descrizione: «Tiamat, il Mare, dopo aver contribuito a dare la vita agli dei, era stata vinta e sottomessa da uno di loro. L’immaginazione popolare o poetica riprendendo questa immagine attribuiva a Jahvè questa vittoria anteriore all’ordinamento del Caos o lo vedeva sempre mantenere in soggezione il Mare e i Mostri che lo popolano»1. 

L’evoluzione del negativo non ricerca Dio come Entità superiore, ma desidera emularLo; nasconde in sé l’insidia del desiderio di sconfiggerLo, superarLo, svalutarLo, spiegando razionalmente i Suoi «piani segreti»: il mistero della vita, la sconfitta della morte. Ma se è vero che Dio è Amore, nessuno di questi «imitatori» potrà penetrarne il segreto, poiché l’Amore è partecipazione della natura divina, è immedesimazione, «incarnazione», è unione che non può non essere raggiunta assemblando dei pezzi casualmente o razionalmente nemmeno per milioni di anni. 

Questa illusione di potere e di sapere, che fu già prerogativa degli angeli ribelli ed arma che condusse alla disubbidienza dell’uomo fu causata dall’uso sconsiderato dell’albero della scienza che conduce alla morte. «Ma …erano condannati a “cadere e perdere i loro poteri” non appena le due metà della dualità si furono separate. Il frutto dell’Albero della Conoscenza dà la morte senza il frutto dell’Albero della Vita. L’uomo deve conoscere se stesso prima di poter sperare di conoscere l’ultima genesi anche di esseri e poteri meno sviluppati, nella loro intima natura, dei propri. Così avvenne per la religione e la scienza: unite in uno erano infallibili, perché l’intuizione spirituale era pronta a supplire i limiti dei sensi fisici. Una volta separate, la scienza esatta rifiuta l’aiuto della voce interiore, mentre la religione diviene una semplice teologia dogmatica: e ognuna è solo un cadavere senza anima»2. 

Questa illusione misconosce Dio come volontà intelligente ed organizzatrice della vita, Lo nega indirettamente, sostituendoLo con il «caso» (anagramma di caos) e le sue combinazioni. In sostanza essa è estremo orgoglio di disconoscimento dei propri limiti umani, totale mancanza di umiltà. D’altra parte, un Dio costretto nella materia, ricercato con il microscopio, chiuso in una provetta, sarebbe una ben misera cosa rispetto all’uomo che lo osserva. Ma la somma delle esperienze attuali ci porta ad affermare che lo scienziato-antagonista non cerca Dio, cerca le prove del suo essere Dio. 

Questa illusione, questa univocità di direzione finalizzata a questo scopo, oltre ad aver ridotto il pianeta ad un immenso letamaio avvelenato dai residui chimici e dalle nubi atomiche, ci ha posti al centro dell’universo per dimostrarci oggi sconfitti dalle nostre stesse opere. 

Questo folle «illuminismo oscuro», con un lavorio costante durato in fondo pochi anni rispetto all’esistenza dell’uomo sulla terra, ha soffocato la nostra spiritualità, già poco sorretta dalla freddezza dell’interpretazione ufficiale dei dogmi religiosi: non ha interrogato affatto l’«intuizione» (e a me sembra neppure la ragione) per prevedere quali sarebbero state le conseguenze dell’operare umano. Quella intuizione o spiritualità che anche i popoli antichi, considerati ingiustamente «incivili», non tralasciavano mai di considerare. 

Si è affermato che le religioni nacquero proprio da uno stato di soggezione che l’uomo antico provava verso i fenomeni inspiegabili della natura. E che nel tentativo pavido di placarli, li divinizzò sottomettendosi ad essi con un’adorazione che tentava, come poteva, di dominarli. Ma il famoso, e più attuale, asserto di Campanella, che insegna come la natura si possa dominare solo servendola, possiede molta di questa antica saggezza e resta teorema pur sempre valido. 

L’uomo, con tutta la sua «scienza» non è e non sarà mai in grado di dominare la natura. Egli non si è voluto abbassare al livello di «guardiano» affidatogli da Dio, come compito e poi come punizione («E tu, perché hai dato ascolto alla donna (natura istintiva) coltiverai la terra con gran fatica, raccogliendo coi frutti spine e triboli, con il sudore della tua fronte»). 

Oggi, la nostra «disubbidienza» recidiva, la ricerca di supremazia ad oltranza su una natura che sta divenendo sempre più ostile, ha abbrutito la nostra moralità, ha compromesso i rapporti con la propria coscienza, con il prossimo, con il pianeta, con Dio stesso. I frutti coltivati dall’uomo con gran sudore sono i risultati nefasti della scienza. «L’albero si riconosce dai propri frutti» afferma Gesù in una parabola, rispondendo al dilemma umano sull’individuazione e il riconoscimento della differenza tra bene e male. 

Noi, quali frutti abbiamo prodotto? E dove, presumibilmente conducono le nostre opere? E ancora, Dio•, dove l’abbiamo nascosto? 

L’altra metà della mela, quella non dominata dal «caso», ma dalla volontà unita all’amore, libera meta del libero arbitrio, l’Intuizione, gemella della ragione, madre dell’arte, delle invenzioni, del sogno, è da troppo tempo racchiusa nel blocco di ghiaccio della materia; atrofizzata e schiacciata dalla Logica, non può essere trascurata oltremodo. Essa ci lancia disperati messaggi attraverso i sogni, ma spesso usa anche sensazioni, premonizioni o comunque esperienze che ci informino della sua esistenza, che ci facciano intuire l’«insostenibile leggerezza dell’essere» citata da Kundera. 

• N.B. – In un lavoro come questo, il ricorso a Dio è molto frequente. È bene precisare che usando il termine «Dio», l’autrice non si riferisce al Dio specifico di qualche religione. Questo testo, pur con tutte le difficoltà legate all’oggettivazione, non vuole condurre a soluzioni specifiche né a indirizzi forzati. Esso si limita a riportare quanto di comune ci sia nelle scelte religiose, filosofiche, morali o psicologiche dei diversi popoli, partendo anche da quelli antichi fino a ripercorrere le tappe dell’evoluzione interiore dell’uomo. Il termine usato va quindi inteso in senso generico molto ampio poiché ‘siamo tutti figli di un unico Creatore’ afferma più avanti. Esso sottintende dunque I diversi significati di Creatore, Padre, Energia Primaria, Ordinatore del Caos, Causa Prima, Forza Positiva, Volontà Organizzatrice, ecc., così che anche I Suoi attributi, come ad es. Intelligenza, Bontà, Verità, Eternità, vengano sostantivati. Il termine comprende tutto questo e molto di più, seppure ridotto al minimo per facilitare la scorrevolezza del testo e rivolgersi ad ogni uomo, di qualsiasi razza sia e a qualsiasi religione appartenga. Esso è espressione di unione, desidera allontanarsi dai termini di separazione, e dalle lotte che per questo sono state perpetrate nascondendosi dietro la propria bandiera religiosa, uccidendo spesso, c per assurdo, proprio «nel nome di Dio». 

Si tratta di fenomeni confinati genericamente sotto la assurda dicitura di «Paranormale». D’altra parte la casistica di tali fenomeni è vasta e innegabile e fortunatamente si sta uscendo dall’oscurantismo razionale, o anche dalla paura, che impediva a molti di esternare le proprie esperienze in tal senso. Ufficialmente, il dileggio o l’allusione all’ala della pazzia, erano la punizione per chi osava parlarne. Ma in verità, ognuno di noi almeno una volta nella vita ha avuto a che fare con tali manifestazioni, poiché esse sono retaggio umano. Si tratta di fenomeni che non sappiamo spiegare, perché sfuggono alla stretta razionalità, e sembrano piuttosto far parte del mondo dei sentimenti; e come tali sono difficilmente riproducibili «a comando». Ma se la scienza rappresentasse un vero desiderio di conoscenza dovrebbe occuparsi anche di questo, senza paraocchi, senza paure, senza preconcetti. Occorre, è vero, una grande apertura mentale per conciliare gli opposti, per mettere in campo i risultati scientifici accanto a quelli spirituali. Ma io credo che il giusto atteggiamento di chi desidera veramente «conoscere» non sia quello di infilare la testa sotto la sabbia. Dovremmo accettare l’idea che anche questo accade e accade non lontano, ma dentro di noi, perciò anche questo diviene normale (e non para-normale), sebbene i nostri mezzi limitati non siano ancora riusciti a spiegarci i «perché», i «come», e i «quando». 

Questo esercizio mentale conduce all’umiltà, al riconoscimento di qualcosa che ci sovrasta e che è in grado, se glielo permettiamo, di penetrare fin dentro le nostre fibre. C’è qualcosa di sconosciuto, da tempo in attesa di essere risvegliato per trasformarci in esseri completi, per condurci ad un’evoluzione vera e positiva. 

I messaggi in bottiglia provenienti dall’anima o dal grande mare dell’inconscio, se preferite, sono sintomi di naufragio e di malessere spirituale. Sono richieste d’aiuto dell’anima destinate spesso a rimanere inascoltate a causa della nostra crescente aridità. Forse è proprio questa la tanto temuta -apocalisse.: una morte interiore già iniziata, dalla quale, come detto più avanti, la bestia nemica dell’uomo sta emergendo per condannarlo in un terribile autodafè. 

Il nostro mondo interiore, insondata sede delle opposizioni, del bene e del male, del patrimonio spirituale ma anche istintivo dell’uomo, è già di per sé emblema dell’anima racchiusa nella materia. Esso è microcosmo nel macrocosmo, ma attenzione, anche macrocosmo nel microcosmo, poiché il grande contiene il piccolo, ma anche il piccolo contiene il grande. Ciò espresse Ermete Trismegisto nella Tavola di smeraldo posta a base dello studio delle scienze esoteriche: «E come è in basso così è in alto… per rappresentare le meraviglie della Cosa Unica». 

I due mondi si compenetrano e non sono scindibili fino alla morte della forma fisica. Le due fasi del pensiero conoscitivo, la «negativa» e la «positiva», si alternano nel preponderare l’una sull’altra, producendo movimento e non stasi. evoluzione e non status quo. Esse conducono inevitabilmente verso una scelta. Spogliano l’anima degli inutili orpelli e, dirigendosi verso i comportamenti e le scelte più costanti e ripetute di un’anima, conducono l’essere ad una scelta libera e cosciente tra bene e male. 

Questo mondo segreto, Eden abbandonato dall’uomo, sede della nostra vita più vera, ha avuto diverse definizioni nel corso della nostra storia culturale e spirituale, legata alle diverse connotazioni imposte dalle differenti scelte individuali: la psicologia ci ha parlato di inconscio, le religioni e le filosofie di anima. spirito, energia, pneuma, l’esoterismo di corpo astrale, la scienza di cervello; ed il loro frutto. l’astratto pensiero, dovunque abiti in noi, ha così subìto diverse interpretazioni; da essenza divina a energia di origine fisica prodotta dal cervello; da fenomeno biochimico ad incompresa astrazione. Ma poco importano i termini. È importante scoprire ciò che unisce alla base e non ciò che divide. Ciò che ogni scienza, ogni religione. ogni ramo dello scibile umano hanno in comune con le altre teorie, è quanto più si possa avvicinare alla plausibile parte di «verità» a noi concesso comprendere. In ogni tempo, sotto ogni scuola di pensiero, si è riconosciuta all’uomo una parte luminosa e sfuggente, che non può essere costretta nella materia fisica. Almeno non esclusivamente. 

Essa passa nel nostro cielo interiore come una meteora. Si mostra e fugge, ma ci informa della sua esistenza. È la nostra parte più autentica, vera e distintiva del sé individuale che conduce alla porta del Sé universale. Una porta alla quale non tutti sono in grado di accedere. Ma esiste una chiave che ci permetta di aprire quella porta? 

Diana Garland 

1. J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, Milano, 1988, vol. II, pag. 23. La nostra dunque è un’evoluzione o un’involuzione? E’ un ritorno a Dio o al Caos iniziale? La strada che abbiamo scelto coscientemente, per percorrere una ipotesi di evoluzione, è principalmente quella scientifica, che abbiamo visto più avanti. Sebbene la scienza non sia di per sé negativa, poiché ha molte ragioni di essere, essa contiene nel suo polo negativo molte insidie. Il pessimo uso che spesso se ne fa, non solo si volge verso la distruzione, ma ci rende diretti antagonisti di Dio. E come non notare che il nome del «distruttore» per antonomasia sia proprio Satana, che significa antagonista? Come ignorare il parallelismo esistente tra il peccato di orgoglio degli angeli e quello di Adamo ed Eva? Come non notare che entrambi furono scacciati dalla presenza di Dio? S. Agostino identificava la stessa umanità nella schiera degli angeli ribelli. Ma per ora, fermiamoci qui. Parleremo di questo in altro momento. 

(2) H. P. Blavatsky, Iside svelata (trad. di M. Monti), Ed. Armenia, Milano, 1984. 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 23-30.




Le chiavi dell’anima

 L’uomo ha diverse chiavi a sua disposizione. Diversi mediatori che aprono le porte che conducono nelle due fasi opposte. Il cervello, in senso generico, la mente o, comunque, il proprio sé, mediano le due realtà: quella esteriore e oggettiva con il vissuto interiore soggettivo. Ciò significa che ogni realtà non solo diventa una realtà diversa per ognuno, ma anche lo stesso individuo può viverla in diversi modi dipendenti strettamente dal suo stato d’animo” o “mentale” che dir si voglia. Esiste dunque una realtà per ognuno di noi: una realtà che sfugge dalla sua oggettività, caricandosi di tutti quei significati che noi gli attribuiamo. “L’oggetto osservato non può prescindere dall’osservatore”, affermava Groddek. Questa la porta di entrata che usa il mondo per penetrarci. 

La chiave che l’uomo usa invece per entrare a far parte della realtà oggettiva, o per aprire la porta di uscita dal sé, è rappresentata dalla parola. La parola è il medium, il mediatore tra pensiero e oggettivazione del pensiero. Con questa chiave noi possiamo penetrare in altre menti, dare informazioni che ci riguardano, scoprire una parte di noi, non sempre la più vera. La parola è un “segno” unanimemente riconosciuto, ma non per questo perfetto. Anzi, essa è un mezzo assai limitato se pensiamo che deve racchiudere il pensiero, astratto ed infinito, riconducendoci al contrasto più volte rappresentato della convivenza degli opposti. 

Della parola e del suo uso corretto o scorretto si è detto tutto o quasi (Gesù: “Che la vostra parola sia: Sì, sì – NO, no.) Per quanto limitata essa sia, è anche l’unico mezzo che abbiamo per comunicare, per mostrare realtà soggettive. Per assurdo, essa può essere usata per nascondere invece che per mostrare. La parola è in grado di mascherare il pensiero, la verità, essa può vendere piombo per oro. L’uso della chiave della parola ci costringe, pur con tutti gli intenti di sincerità, ad essere interpretati, a costringere l’infinito nel finito. La parola è delimitazione, ma unita all’intuizione, legata all’arte, è in grado di mostrare la nostra piccola parte di verità, può “pescare” nell’inconscio collettivo. 

Se al segno scritto, concretizzazione del suono, partecipa anche il nostro mondo interiore, la parola smette di essere segno per diventare simbolo: 

allora essa è in grado di librarsi, come accade nella poesia e nella letteratura, se le opere sono tali da mostrare tra le righe l’anima comune: se sono tali da cogliere sentimenti universali, attimi che sono uno specchio nel quale ricercarsi soli per ritrovare il mondo, essere uno e divenire moltitudine. L’arte è una delle manifestazioni dell’interiorità umana, un raro momento in cui si dà voce all’infinito che è in noi. 

Se in qualche caso la parola può divenire “voce dell’anima”, per la maggioranza 

dei casi essa viene usata nel suo ruolo specifico di “segno”. Se, per esempio, esprimiamo delle teorie matematiche, essa può razionalmente contenerle, poiché il “segno” attribuito ha un valore unico per tutti. Ma se “sconfiniamo” come normalmente accade e cominciamo ad esprimere sentimenti o sensazioni, ecco che essa diviene interpretabile, passibile di valutazioni personali che mettono in gioco il filtro delle esperienze personali di chi ascolta. Una carta difficile da giocare senza bluffare. 

L’altra chiave, la più densa di misteri interpretativi, è il simbolo, voce dell’intuizione, parola dell’anima. Essa apre la porta che conduce dall’incoscio al conscio, dall’infinito al finito, dall’interno all’esterno. Così come l’intelletto serve all’uomo per adattarsi alla realtà e alle condizioni di vita, così l’intuizione insegna 

che la realtà non si limita al suo aspetto fisico e materiale. Essa viene sfuggita perché scuote le nostre pseudo-verità, le nostre labili certezze. Essa offre sicurezze, offre dubbi, speranze, paure, meraviglie. È umiltà e non ribellione a Dio: tentativo di avvicinare il segreto senza violarlo, poichè questa é la parola che conduce a Dio, la “strada stretta” del Vangelo, il mezzo attraverso il quale si acquistano “occhi per vedere” ed “orecchie per sentire”. Ciò significa che non tutte le orecchie sono in grado di ascoltare, che non tutti gli occhi sono in grado di vedere, perché offuscati dalla propria razionalità, dal proprio smisurato orgoglio. L’intuizione riconosce Dio come Padre, fa nascere il bisogno di ritorno allo spirito. Ma è, comunque, una chiave molto, molto difficile da usare. 

Il simbolo, mediatore e chiave dell’intuizione, parla attraverso i sogni, ma non esclusivamente così: passa per l’anima e si dirige verso la nostra coscienza, mascherato con qualcosa di comprensibile. È la maschera della verità, una verità forse troppo grande per noi, che per toccarci senza distruggerci, deve nascondersi sotto il velame simbologico. 

Nel Dizionario dei simboli Chevalier – Gheerbrant, il simbolo viene così definito: “Il simbolo è bipolare… Coglie relazioni che la ragione non coglie. Ha forza centripeta stabilendo un centro di relazioni al quale il molteplice si riferisce trovando la sua unità. È elemento unificatore… perché è in grado di farsi comprendere da chiunque, qualunque lingua parli… esso non usa parole ma solo ciò che di vero in comune hanno gli, uomini. E si comunica solo in proporzione alla misura e all’apertura delle capacità personali”. E ancora: “… [L’intuito] risveglia energie che il simbolo concretizza. Esso va indagato con l’anima ed ogni anima vi nasconde le sue verità”. G. Durand lo definisce in “dinamismo organizzatore”; J. Jacobi afferma che “mantiene sempre viva la tensione tra i contrari che è alla base della nostra vita psichica”. “Il simbolo separa e unifica, ha in sé l’idea di separazione e riconciliazione”. Ha quindi un’importanza determinante in un mondo dominato dalla legge degli opposti, poiché ha un potere equilibratore, ma non impedisce il “movimento” dell’energia psichica. 

Secondo Jung, esistono dei simboli comuni all’intera umanità, che definisce “archetipi”: Più il simbolo è arcaico e profondo più diventa collettivo e universale”. Esistono quindi delle basi comuni, che poi vengono “elaborate” dalla cultura e dal contesto sociale e religioso di ognuno. L’archetipo è comune retaggio, ma non mostrandosi uguale per tutti, diviene assai importante saperne riconoscere la radice. 

Anni fa, discutevo con un ragazzo egiziano conosciuto casualmente di come a volte i problemi religiosi possano condurre, al di là dell’apparente ricerca del bene, a guerre sanguinose e fratricide. Era da poco tornato dalla guerra e l’esperienza era ancora molto viva in lui, pregna di emozione. Io, da parte mia, ero molto disponibile all’ascolto. emozionalmente partecipe. Forse proprio per questo, senza quasi avvedercene, iniziammo a comunicare in maniera molto profonda, quasi che le nostre anime o i nostri inconsci fossero entrati in contatto diretto. superando le difficoltà linguistiche e poi il bisogno stesso di parole. Difatti, diverse volte comunicammo telepaticamente. 

Fu un’esperienza assai insolita che ci lasciò una sensazione di fratellanza. O che, comunque, aveva stabilito un legame che andava al di là di ogni limite umano. Eravamo proprio sulla stessa “lunghezza d’onda” e lo eravamo già da tempo, probabilmente ancor prima di conoscerci, perché, parlando scoprimmo di aver fatto dei sogni molto simili che, ad un’analisi più approfondita, ci mostrarono delle “verità”. In un sogno fatto molti anni prima, avevo ricevuto un messaggio da un “angelo”. Era un messaggio, il cui contenuto non riporto, che riguardava la mia persona. Fu con grande sorpresa che A. mi disse di aver ricevuto lo stesso messaggio, che però lui aveva ascoltato da una voce proveniente dal sole. L’elemento in comune, oltre al messaggio, era anche la luce, una luce sconosciuta, indimenticabile. 

Era la stessa energia ad essersi manifestata in noi, seppure simboleggiata in due modi differenti legati alla nostra cultura socio-religiosa. Come non pensare infatti, alla lunga tradizione storica religiosa e culturale egiziana, nella quale il sole, Ra, era considerato un Dio? Quella tradizione che A. portava in sé, forse geneticamente, forse in maniera più ancestrale, aveva dato vita a quel simbolo, tanto diverso ma tanto simile al mio. Sorridemmo pensando che allora, un induista poteva aver ricevuto lo stesso messaggio da una Mucca Sacra, ma comprendemmo una cosa assai importante e cioè, che pur essendo due persone appartenenti a due gruppi etnici diversi, provenienti da culture e religioni differenti, in momenti diversi delle nostre “storie”, avevamo trovato quell’anello che legava le nostre esistenze: la fratellanza, quella vera, data dall’essere figli di un unico Creatore. E, inoltre, che il messaggio ricevuto conduceva ad un’unica fonte, conteneva una verità comune ad entrambi e a tutti quegli esseri sparsi per il pianeta che si fossero trovati in grado di riceverla in quel momento (infatti, per uno strano “caso” avevamo fatto quel sogno la stessa notte di molti anni prima). Questa strana simbiosi di anime era scevra da qualsiasi altra implicazione di tipo più umano. Ed ebbi la prova della non casualità della cosa, quando, con l’aiuto inconsapevole del ragazzo stesso, riuscii a salvare la vita in una situazione molto difficile. 

Non l’ho più visto. Credo che ormai sia tornato al suo Paese, ma il nostro incontro è stato determinante, ha acquisito un significato profondo e una magia che sembrano inspiegabili. Da parte mia, una profonda riconoscenza, che vorrei dimostrargli. Ma so che è impossibile, poiché all’epoca non ci scambiammo né indirizzi né cognomi. Sembrava che tutto ciò che ci riguardasse si fosse esaurito lì: in quello strano incontro finalizzato alla “conoscenza” di alcune cose. E che noi ne fossimo consapevoli, seppure a un livello molto lontano dalla coscienza razionale. 

Questa esperienza mi insegnò che le differenze di espressione non tolgono ai simboli il loro aspetto di specchi della verità, di universalità, poiché la mente, una volta entrata a contatto con energie che non conosce e che non è in grado di afferrare, le simbolizza in qualcosa di accettabile, di comprensibile. Nella stessa Bibbia. Dio appare a Mosè sotto diverse forme, come il fuoco, la nube ecc. Era Dio a mettersi alla portata dell’uomo o viceversa era l’uomo stesso a simbolizzare, a trasformare cioè la realtà superiore in una realtà finita. più consona ed abituale alla sua natura? 

In questo senso. ogni religione. ogni cosmogonia. può essere spiegata completamente e razionalmente. perché una volta logicizzata perderebbe il suo valore spirituale di comunicazione tra le anime. E il messaggio non è per tutti. Cristo spiegava agli apostoli i misteri della fede. ma parlava in parabole agli uomini comuni. Così facendo Egli operava una scissione, una scelta tra chi sia in grado di “comprendere” e chi no, tra chi sia dotato di spirito e chi sia racchiuso ancora nel suo piccolo mondo materiale. “Non date perle ai porci”. Questo insegna il Vangelo. Ed anche: …..affinché guardino bene, ma non vedano, odano bene, ma non intendano, perché mai avvenga che si convertano e sia loro perdonato” (Mc N, 11-12). 

Uno dei tanti motivi della caduta della fede sta proprio in questo voler razionalizzare Dio, in questo credere come Tommaso, solo se ci viene offerto il costato. Ma la chiesa, qualunque essa sia, non può confrontarsi con la scienza. Non possiamo pretendere di spiegare la “genesi” con le leggi scientifiche. alle quali, in ogni caso, l'”origine” sfuggirebbe comunque. Ciò significa che anche se accettassimo il “Big-Bang” come “inizio”, non potremo comunque spiegare il pre-esistere dell’energia e della materia che costituivano la massa informe in seguito esplosa formando i pianeti del nostro sistema solare. È come dire che il Caos si evolse, ma ciò non spiega l’esistenza del caos stesso. 

É il confine tra esistenza e non esistenza che sfugge ad ogni nostra volontà 

d’indagine. È l’amletico “essere o non essere”. 

Così come dal caos biblico emerse una volontà organizzatrice, lo spirito di Dio librato sulle acque dell’abisso che fecondò le acque originando la vita, così dentro di noi, nel nostro caos interiore, fusione di bene e male (Plinio: il bene è commisto al male), di natura e spirito, emergono quelle forze organizzatrici o distruttrici. Il caos è porta della vita, ma contiene anche l’idea dell’abisso, la fase disgregativa, la porta della morte, proprio come la figura femminile, rappresentazione dell’istinto, contiene in sé l’aspetto di datrice della vita, ma anche il suo opposto, poiché “Eva” offre ai suoi figli una vita mortale. Una vita che contiene in embrione il suo opposto. È essa stessa rappresentazione, nel teatro simbologico, di un’evoluzione involutiva. 

Ma non possiamo comprendere a fondo il concetto di vita e, di morte, di essere e non essere, se ci arrocchiamo su posizioni prestabilite, se non ci apriamo spiritualmente, se non ci svuotiamo lasciandoci liberamente penetrare dalla verità; se non smettiamo di opporgli dei muri a difesa della nostra roccaforte personale legata all’io e alla difesa strenua dell’io. 

La natura ci mostra come ad ogni fine corrisponda un nuovo inizio, scandito dal continuum, dall’eternità del tempo. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Questa legge scientifica, che a prima vista sembra negare Dio. poiché nega il potere creativo, invece, forse involontariamente, la preesistenza del “tutto”, l’assenza della “fine”, della morte, sostituita dal “mutamento di stato”. Essa mostra l’universo e noi, parte di esso, in moto, in continua trasformazione, in evoluzione. Il moto circolare, forza creativa dell’universo, tendenza di ogni pianeta, è come il serpente che si morde la coda. È metamorfosi senza fine, poiché la fine di un ciclo conduce in un altro ciclo, la fine di un’esperienza conduce in un’altra esperienza che è suo prodotto, risultato finale di quella anteriore. 

Così si esprime H.P. Blavatsky nella Dottrina segreta: .All’inizio di un periodo attivo avviene un’espansione di questa essenza divina dall’interno all’esterno, in obbedienza all’eterna e immutabile legge, e l’universo fenomenico o visibile è l’ultimo risultato di una lunga catena di forze cosmiche messe così, progressivamente, in moto. In egual modo, quando riprende una condizione passiva, avviene una contrazione dell’essenza divina e il precedente lavoro di creazione è gradualmente e progressivamente distrutto. L’universo visibile si disintegra, il suo materiale viene disperso, e la “tenebra” solitaria e unica si raccoglie ancora una volta sulla faccia dell’abisso. Per usare una metafora che chiarirà ancor più l’idea, una espirazione dell”‘essenza” produce il mondo, e una inspirazione provoca la sua scomparsa. Questo processo avviene da tutta l’eternità, e il nostro attuale universo è solo uno di una infinita serie che non ha inizio e non avrà fine •. Ma in questo aprirsi e chiudersi di porte del nostro spaziotemporale, dietro quale porta cercare Dio? 

Il famoso “conosci te stesso” è la risposta implicita alla nostra annosa domanda. “Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo”, ci insegnavano a recitare all’oratorio. 

Dio è anche in noi, Dio è una parte di noi, Dio è nell’uomo che si fa Buddha, Dio è nell’uomo che supera le prove iniziatiche che la vita gli pone. Dio è quell’essenza che lotta per venire alla luce, e non è assurdo pensare che saremo noi stessi a giudicare le nostre azioni e le nostre opere; ma non con la nostra attuale coscienza egoista, parziale e interessata, che ci induce ad essere tanto benevoli con noi stessi quanto malevoli siamo con il prossimo, che ci mostra la pagliuzza nell’occhio altrui ignorando la trave conficcata nei nostri occhi che ci impedisce di “vedere”. 

Sarà la nostra parte divina, la verità ora nascosta a giudicare. E giudicheremo noi stessi con lo stesso metro con il quale avremo giudicato gli altri. Questo è il potere della nemesi, la vera giustizia, la legge di causa-effetto, il karma o che dir si voglia. Soltanto il vero può giudicare il falso, poiché il falso non può conoscere la verità. 

Uscirà dal fondo dell’uomo l’anticristo che condurrà all’apocalisse. E sarà una battaglia tra le forze del bene e del male, non necessariamente combattuta a livelli atomici o mondiali. Sarà la lotta che ognuno già conduce dentro di sé, nel suo luogo segreto e interiore; una guerra che separerà i “giusti” dai “malvagi”, in cui il bene sarà scisso dal male, poiché le “forze” in noi si stanno accrescendo, stanno emergendo, stanno maturando un’evoluzione su due binari opposti. Forse allora il bene non sarà più commisto al male, e l’apocalisse non avrà più il significato che gli è sempre stato attribuito ingiustamente. Apocalisse significa rivelazione. Ma attenzione: rivelare significa svelare, sollevare il velo del segreto, ma anche ri-velare, riscoprire, rinascondere. Ciò significa che il “segreto” si mostra per attimi sfuggenti, si illumina e scompare di nuovo nel mistero. L’apocalisse si preannuncia dunque come una rivelazione: come il raggiungimento della verità. Il punto finale di uno stato di cose che prelude ad un nuovo inizio piu consapevole. 

Ci attende, ed è inevitabile, una “revolutio”, e sarà un’esplosione o un’implosione. Un buco nero o il Big-Bang di un nuovo inizio. Una battaglia che a livello esoterico si annuncia combattuta sui campi dell’anima, dove nella lotta tra gli avversari solo uno dovrà soccombere. 

La rivelazione è già iniziata, sebbene pochi se ne avvedano. Pensiamo alle parole di Cristo: «…Quando sentirete parlare di guerre vicine o lontane, non abbiate paura: tutto ciò deve accadere, ma non sarà ancora la fine… Ci saranno terremoti e carestie in molte regioni. Sarà come quando cominciano i dolori del parto… E quando vi arresteranno per portarvi in tribunale, non preoccupatevi di quel che dovete dire: dite ciò che in quel momento Dio vi suggerirà, perché non sarete voi a parlare, ma lo Spirito Santo». “Cristo annuncia quindi la “discesa” dello Spirito Santo negli ultimi tempi. Questa è la “forza”, la “luce” che si sta accrescendo e che ci condurrà a quanto fu annunziato per mezzo di Gioele: «Ecco – dice Dio – ciò che accadrà negli ultimi giorni: manderò il mio Spirito su tutti gli uomini: i vostri figli e le vostre figlie avranno il dono della profezia, i vostri giovani avranno visioni, i vostri anziani avranno sogni. Su tutti quelli che mi servono, uomini e donne, in quei giorni io manderò il mio Spirito ed essi parleranno come profeti…». Finalmente i doni dello Spirito saranno rivalutati, il veggente vedrà compresa l’origine della sua luce interiore, perché chi è stato scelto per “intendere”, intenderà. 

È bene precisare che anche in questo campo sarà saggio applicare la parabola 

dell’albero e dei suoi frutti. Bisognerà, cioè, saper discernere alla luce della propria verità e coscienza, i frutti del male che apparentemente sono assai simili a quelli del bene. Non dimentichiamo che il “falso profeta” ha conosciuto il cielo, ha collaborato alla “creazione”, ed è un buon imitatore dei poteri divini, sa mescolare la verità alla menzogna, sa illuderci che il nostro male sia il nostro bene. Non saranno i “negromanti” le stelle da seguire nella navigazione della notte dei “tempi bui”, ma ancora quelle “voci che gridano nel deserto” nel deserto di silenzio interiore della nostra epoca. 

Ma come uscire dal labirinto di confusione che è dentro di noi, quel labirinto formato da strade vane, da nozioni culturali e religiose acquisite passivamente? lo non possiedo il filo di Arianna, né ho la presunzione di conoscere la verità. Posso soltanto limitarmi a mostrare la strada scelta per ritrovare verità comuni, delle conoscenze vicine o lontane nel tempo e nello spazio. La ricerca parallela tra scienza, arte, religione, filosofia, mitologia e scienze esoteriche mi è sembrata un buon mezzo di conoscenza. L’uso costante di intuito e ragione mi ha aiutato a mettere da parte i pregiudizi, ad aprirmi ad ogni possibilità di verità, nella ricerca della libertà, nella libertà. La libertà offerta da un cammino non ostacolato da freni di imposizioni culturali o religiose. Uno svincolarsi da ogni sovrastruttura mentale per far affiorare il sentire più vero. Una ricerca dell’Amore compiuta con amore. 

Il centro del labirinto, meta da raggiungere è il tempio simbolico dello Spirito santo; è illuminazione, rivelazione, raggiungimento di Dio. È Buddhità, Nirvana o che dir si voglia, concesso a chi si accinge al viaggio e alle sue prove, con coraggio, amore, apertura mentale. Il labirinto è simbolo delle strade sbagliate, dei vicoli ciechi, delle anse del nostro cervello, ricerca di un centro di attrazione comune, di iniziazione spirituale, di superamento delle “prove” imposte dalla vita. Esso è il sogno di libertà (“Così conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, Gv VIII – 32). 

Sono d’accordo: non si devono offrire perle ai porci, ma occorre almeno far conoscere la possibilità di salvezza a chi desidera tentare il cammino ma è offuscato dal rigido dogmatismo privo di anima, dalla scienza lontana di Dio. Con la speranza che per qualcuno il velo si sollevi, la mitica porta si apra. Ma attenzione: per vincere dobbiamo uccidere il mostro metà uomo e metà animale che è in noi, posto a guardia del segreto. Dobbiamo, cioè, combattere la nostra natura animale. E non limitarci all’uso della scienza. Icaro con le sue ali di cera si illuse di contrastare le forze della natura. Ma il sole lo abbatté, la legge di gravità lo precipitò di nuovo sulla terra. Ciò significa che non possiamo sfuggire alle prove che la vita ci impone. Sono proprio quelle prove lo scopo della nostra vita. Ed esse sono lì per renderci liberi. 

Diana Garland 

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 31-39.

 




 EMOZIONI 

 

Eu parlu cu li stiddi, 
e i stiddi lassanu u celu ‘ ncantatu 
e vennu supra a terra. 
Eu parlu cu lu mari, 
e l’unna si stenni supra la rina 
e tutti i pisciteddi cu i sireni si mettinu,
iddi puru, supra l’unna. 
Eu parlu cu li ciuri, 
e i margariti spuntanu ‘nte rocchi 
e i cunigghiedda vennu cu amuri 
e cantanu i cicali sutta u suli. 
Eu parlu comu si fussi profeta, 
e u ciavuru di ciuri 
s’ammisca cu lu cantu di l’oceddi. 
Quannu sugnu cu tia 
mi tremanu li gammi, 
mi batti ‘n pettu u cori forti forti 
e ‘un sacciu cchiù parlari. 

Erminio Gandolfo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 49.




La Comunità di salvezza come cura e terapia dell’uomo 

 di Claudia Gaeta 

La presente riflessione parte dalla domanda se per lo Stato moderno l’eugenetica, la scienza del giusto allevamento umano, non sia da considerare come un ideale di salvezza o sanità dei corpi. 

Nel mondo occidentale la parola salvezza rimanda immediatamente all’ambito del cattolicesimo ed è partendo dal suo contesto originario che si è indagata in varie sfaccettature fino a concludere che lo Stato ha fatto proprie queste istanze religiose, secolarizzandole e rendendole operative nel contesto socialel; slittamento, questo, posto in essere dalla stessa religione cattolica nel momento in cui sottolinea come non possa esserci salvezza, nemmeno sul piano prettamente individuale, al di fuori della comunità. 

Con la fondazione dello Stato moderno si ricrea, sul piano secolare, il grande ideale di comunità che era da sempre stato il pilastro portante del cattolicesimo. La comunità, in entrambi i casi, si configura come una «comunità di salvezza»2, nella quale salvezza viene ad indicare una «prospettiva» alla quale tutti i membri della comunità devono necessariamente aderire per salvaguardare la sanità/santità della comunità stessa: «Soltanto una razza intimamente sana potrà essere sicura del suo avvenire. Questo concetto ha valore universale e perenne perché corrisponde ad una legge generale della natura»3. 

Chiaramente essendo una prospettiva, la salvezza4 è anche un progetto che indirizza l’azione e la vita stessa. 

E, per rendere più chiaro il concetto, possiamo affermare che la salvezza svolge in ambito cattolico lo stesso ruolo che svolge l’utopia all’interno del pensiero politico, quello, cioè, di orientare «la condotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto»5, rivelando così la sua attuabilità nel futuro. È anche in virtù di ciò che la salvezza cattolica si fa nella storia, anzi la salvezza si identifica con la storia, col tragitto, cioè, che riconduce l’uomo al regno di Dio: «La salvezza è già realizzata, ma non ancora perfetta, cresce nella storia, esige impegno storico6», leggiamo in G. Mongillo. Lo stesso «destino di salvezza» è attribuito allo Stato moderno, soprattutto dopo aver fatto proprio il concetto positivistico di progresso e dopo essersi identificato con questo processo storico-naturale di continuo miglioramento. 

La prosecuzione nel cammino della salvezza implica un forte impegno politico, da cui tutti gli uomini non possono prescindere, in un rapporto di dipendenza che assoggetta l’intero essere umano al compimento di questa missione, ed è in questo senso che prende forza una normativizzazione assoluta della vita; dal momento che al di fuori della norma che ci dirige l’uomo rischia di perdere di vista la sua necessità. È indispensabile, quindi, forgiare uomini nuovi capaci di portare avanti questa missione, ma per far ciò è necessario in primo luogo incanalare la vita attraverso la normati-vizzazione dell’ uomo. 

Il problema sorge fattualmente nel momento in cui la vita, e quindi l’uomo come essere per la vita, si forma a partire da Dio o si identifica con lo Stato. Questi ultimi si definiscono come termini superiori di un’alleanza al di fuori della quale non c’è salvezza, ma dissoluzione, nella forma del peccato e della degenerazione. Questo sancisce la fine dell’ uomo come essere autodeterminantesi, soggetto primo del movimento della vita, per divenirne «oggetto» sul quale si esercita la forza di una vita sviluppata a partire dalla necessità. Necessità che si esplica a partire dalla normativizzazione della sua dinamicità. Canalizzando la dinamicità si nega, quindi, la libertà come possibilità incondizionata di scelta; si afferma, di conseguenza, una libertà ad un livello più alto proprio perché questa nasce dalla necessità di aderire ad una volontà superiore che ha creato e, quindi, preordinato il mondo. 

Con questo, si ha la trasformazione della vita come cominciamento in una vita per la salvezza, che è eterna e non più unica ma finalizzata ad un’identità superiore che la qualifica e la forma in prima istanza proprio dalla definizione del corpo, che altro non deve essere che la rappresentazione materiale di questo cosmo ordinato e funzionale. Non è, infatti, un caso che l’uomo sia stato creato ad immagine e somiglianza di Dio: «L’uomo nuovo che è creato a immagine di Dio nella giustizia e nella santità»? Quindi il corpo di Adamo, essendo ad immagine e somiglianza di Dio, fu creato secondo la bellezza e la bontà del Padre creatore8, in perfetta salute e non soggetto alla morte. Soltanto il peccato di Adamo introdusse nel mondo, e di conseguenza nel corpo dell’uomo, la bruttezza, la malattia e la morte come segno dell’ esplicita ribellione a Dio, dato, anche, che al di fuori della bellezza di Dio non esiste comunicazione, e quindi alleanza, fra le parti della comunità: 

Per ogni cosa, dunque, il bello ed il buono sono amabili e desiderabili; da ogni cosa sono prediletti. Grazie ad essi anche le cose inferiori amano quelle superiori, convertendosi ad esse; [ … ] quelle superiori amano le inferiori, provvedendo ad esse’. Non solo ma senza questa bellezza non esiste l’ordine per cui le cose sono state create: Per tutte le cose, infatti, c’è uno stato ed un moto che [ … ] colloca ciascuna cosa nella propria condizione e la dirige verso il proprio movimento [ … ]. Tutto ciò che proviene dal bello e dal buono, ed in essi risiede, si volge verso il bello e il buono”’. 

L’uomo nel contesto della comunità, pertanto, deve essere «curato» in tutti i suoi aspetti, proprio perché deve essere garantita la sua funzione di membro del corpo comunitario ed è in virtù di ciò che il pensiero cattolico delle origini assume la concezione dell’ uomo come unità inscindibile di anima e corpo. Quest’affermazione può spesso trarre in inganno perché nasconde in sé un dualismo basato sulla differenza di importanza fra i due termini del rapporto; infatti, il corpo è visto in funzione dell’anima, vissuta come la parte immortale del rapporto, l’unica che, almeno fino alla cosiddetta «resurrezione della carne», può assurgere a Dio con la morte della sua parte materiale, il corpo appunto. Il corpo più dell’anima determina il nostro essere perché non solo dà forma alla nostra vita, ma implicitamente la determina essendo esso l’elemento corruttibile del rapporto: 

Il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. [ … ] Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? [ … ] Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo11 ! 

Ma la chiusura nei confronti del corpo va oltre, arrivando ad affermare che nel momento in cui è quest’ultimo a determinare le azioni dell’ uomo, non solo non ci sarà sanità, ma ci sarà un fiorire del peccato, e quindi della malattia, che dovrà essere estirpato. 

Solo quando la carne, che è «piena di brame contrarie allo spirito» sta sotto il dominio dell’anima, noi siamo sani e liberi, e veramente sani e liberi. Allora infatti il corpo segue il giudizio dell’anima e segue la guida sicura di Dio. [ … ] Se infatti il terreno del nostro corpo non viene continuamente lavorato, restando incolto e inattivo, subito produce spine e rovi. Porta allora frutti che non verranno raccolti nei granai, ma dovranno essere sterminati col fuoco, secondo le parole del Signore: Ogni piantagione non coltivata dal mio Padre celeste verrà estirpata (Mt 15, 13). Dobbiamo dunque proteggere con cura ogni seme e germoglio nobile che abbiamo ricevuto dal giardino del divino seminatore. Con calma circospezione dobbiamo perciò curare che l’astuzia dell’odiato nemico non arrechi danno a questo dono di Dio e che nel giardino paradisiaco della virtù non germogli lo sterpame del vizio12. 

Secondo lo stesso principio, nel contesto dell’ organizzazione statale, la popolazione e la pianificazione della vita divengono così affari di Stato in nome della necessaria superiorità non solo degli interessi, ma proprio dello Stato in quanto essere naturale. È così che si arrivò alla formazione di un apparato statale per la salvaguardia della salute pubblica che passava inesorabilmente dalla determinazione a priori della «forma» della popolazione. Forma che poteva essere perseguita attraverso la coincidenza degli interessi dell’ eugenetica intesa come trasposizione artificiale di un meccanismo naturale quale la selezione della razza -, con lo Stato, anch’esso visto come prosieguo della Natura. 

I totalitarismi, ma anche i regimi cosiddetti democratici, fecero loro snodo portante la centralità dello Stato, facendo divenire questo il regolatore della vita pubblica e privata, il che comportava inesorabilmente l’espansione della sua necessità razionalizzatrice e moralizzatrice a livello globale partendo proprio dalla possibilità eugenetica di modellare il corpo e la vita del cittadino a sua immagine e somiglianza. Di conseguenza, l’essere umano è soltanto una delle parti dell’intero organismo, con un ruolo definito e una funzione specifica, per cui esso sarà sciolto nella sua biologicità, per essere governato dalle stesse leggi che regolano l’ordine naturale, favorendo un progressivo svuotamento dell’identità del singolo, ma anche, ad un livello più ampio, ponendo in essere un processo d’annullamento dell’umanità dell’uomo, inteso sempre più come appartenente alla specie, ad una specie omogenea alla quale si offre la possibilità di essere depurata ed allevata e, di conseguenza, salvata. Si può, a questo punto, meglio denotare il rapporto che intercorre con l’eugenetica di Stato, anch’essa nutrita dal desiderio di «riprogettare» il cittadino affinché col suo inserimento organico nella struttura statale portasse alla rigenerazione individuale e collettiva. Rigenerazione – morale ma anche necessariamente biologica – che sola può condurre la società civile verso il suo destino di miglioramento e di benessere. 

Non per tutti, comunque, è la salvezza, intesa come l’entrata nel cosmo della grazia, ma solo per un’élite che lo è per nascita. Per il resto della popolazione la via della salvezza è essenzialmente quella dell’obbedienza e del sacrificio, come sottolinea lo stesso Paolo quando afferma che: «ciò che Israele cercava non l’ha ottenuto, ma l’ha ottenuto soltanto la parte eletta»l3. Parole a cui fanno eco quelle di Galton, il fondatore dell’eugenetica, che la definì «la scienza del miglioramento della specie umana, garantendo alle razze o alle stirpi più adatte una migliore opportunità di prevalere rapidamente su quelle meno adatte» 14. Andando più a fondo è rinvenibile, già in ambito cattolico, l’idea per cui la diminuzione dei soggetti a cui è ascritta la caduta, o in termini contemporanei, la degenerazione, è utile, funzionale, diremmo, all’accrescimento del potere dei gentili; gentili che sono una parte del popolo, sicuramente la parte più alta: 

Ma se la loro caduta è stata la ricchezza del mondo e la loro diminuzione la ricchezza dei gentili, quanto più lo sarà la loro totalità15. 

È chiaro che la comunità di cui stiamo parlando è una comunità organica, ordinata e funzionale, perfettamente in linea con una concezione che inserisce il mondo umano in una visione predeterministica; in altre parole, sia lo Stato che la Chiesa concepiscono il mondo come inserito in una rete di valori e di volontà da cui non si può prescindere, perché diretta emanazione di una volontà superiore alla quale gli «inferiori» devono aderire con tutto il loro essere. Non solo, ma è presente anche una specificità per nascita, per la quale ognuno deve rispettare il suo ruolo e la sua funzione, se vuole contribuire alla sanità del corpo comunitario: 

Per la grazia che mi è stata data, io dico a ognuno di voi di non stimarsi più di quanto si deve, ma d’ispirarsi a sentimenti di giusta stima, ciascuno secondo la misura di fede che Iddio ha dispensato. Come infatti in un sol corpo abbiamo più membra e di queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così noi, benché in molti, formiamo un sol corpo in Cristo e, da singoli, siamo membra gli uni degli altri. Poiché noi abbiamo dei doni differenti secondo la grazia che ci è stata data: il dono della profezia, da usarsi in proporzione della fede; l’insegnante, nell’insegnare; l’esortatore, nell’esortare; il donatore, con liberalità; chi presiede, con premura; il compassionatore con gioia16. 

Ed ancora: «Secondo la natura di ciascuno, egli ha diviso il suo beneficio»l7. 

È qui che si apre la possibilità del peccato, dato che per la teologia cattolica «la vera essenza del peccato» sta «nell’opzione fondamentale con la quale si rifiuta di accettare la volontà di Dio come norma incondizionata della propria esistenza»18. 

Chiaramente anche lo Stato riconosce una volontà superiore che ha formato ed informato di sé la Natura e così come per il cattolico il peccato definisce la «condizione escludente» dalla comunità di salvezza, per lo Stato, diretta emanazione della natura, il peccato, divenuto sociale, viene identificato con la malattia, che è un ribellarsi alla sanità del corpo sociale/statale. Questa trasposizione di piano è supportata anche dal fatto che la malattia è da sempre, anche se in maniera più velata, interpretata come frutto di comportamenti morali sbagliatil9: 

Poiché ci è stato ordinato di tornare alla terra alla quale eravamo stati tratti e siano stati legati alla dolorosa carne, destinata alla morte per causa del peccato e soggetta per questo alle malattie, affinché talora, in una certa misura, i malati potessero guarire20. 

Più esattamente nella concezione statale si ha la sovrapposizione fra il male naturale (malattia) e il male morale (peccato)21, per cui, nel momento in cui viene sancita a livello scientifico la corrispondenza fra caratteri fisici, psichici e morali, la malattia diviene peccato. Il peccato, infatti, nella sua formulazione originaria è «l’infrazione di una legge», in altre parole la rottura di quell’ alleanza che costituisce il patto, cioè le regole, dell’alleanza. Sostanzialmente il peccato allontana l’uomo dalla comunità perché disintegra le sue relazioni con Dio e con gli uomini e non tende più a finalizzare l’uomo alla salvezza della comunità. 

Nel contesto statale, il cosiddetto deviante – dove per deviante si intende qualunque soggetto si discosti dai parametri fisici, psichici o morali socialmente dati, includendo al suo interno categorie molto diverse che vanno dal delinquente al malato – si sovrappone alla figura del peccatore e come quest’ultimo diviene, di conseguenza, la rappresentazione vivente, corporea diremmo, dell’individuo che si è posto al di fuori della comunità; esso, come ha affermato D. Chapman, «viene visto come una funzione del mantenimento dell’ordine costituito, un individuo costruito per rappresentare in sé, funzionalmente, […] con immagini stereotipiche formate da quelle caratteristiche che un dato sistema sociale ha interesse a presentare come negati ve ed oggetto di sanzione»22, proprio perché la devianza, così come il peccato, è la condizione che pone al di fuori della comunità stessa, tanto da indicare «un destino da evitare, più che dei comportamenti da evitare»23. Più che la condizione escludente, quella del peccatore/degenerato rappresenta già la condizione dell’escluso, di colui che si è distaccato dalla comunità24 e, quindi, dell’ altro, del «nemico» diremmo, usando una terminologia schmittiana, che rappresenta un pericolo per la comunità stessa non riconoscendone lo stesso fondamento superiore; in questa chiave, dunque, vanno lette affermazioni del genere: «Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde.25» Certo non è esclusa la possibilità di essere reintegrato all’ interno della collettività qualora si accetti la cura offerta da quest’ultima. 

Sovente, poi, caduti nelle malattie a motivo di castigo, siamo condannati a sopportare un’aspra e pesante cura onde sfuggire alle sofferenze della malattia. In tal caso il raziocinio ci persuade a non ripudiare né le amputazioni né le cauterizzazioni né l’asprezza dei rimedi amari e molesti né i digiuni né l’osservanza d’una dieta o di un particolare tipo che ne deriva per l’anima: colui il quale avrà fatto tesoro di quest’esempio, infatti, imparerà ad imitarlo nella cura di se stesso26. 

Ma non solo, perché essendo il peccato, così come la degenerazione, caratterizzato da questa forte dimensione sociale, la comunità non può subire «passivamente che il penitente si reintegri in essa», ma deve concedere «attivamente la sua appartenenza, attraverso l’atto del potere pubblico esercitato dal capo della comunità»27; se ciò non avviene per un libero atto della collettività allora la cura necessaria sarà la morte dell’individuo; rivelando, ancora una volta, la natura politica delle prescrizioni riguardanti la vita dell’uomo. 

La guarigione non garantisce dalla morte, ma libera dalla disperazione di essere-per-la-mor-te. [ … ] Guarire è cominciare a diventare capaci di assumere, condividere e sviluppare le concrete possibilità della condizione umana, anticipando la pienezza di umanità alla quale siamo chiamati in Cristo e ciò non solo sul piano personale, ma anche su quello socio-politico28. 

Infatti, l’uomo è guarito nel momento in cui si reintegra armonicamente col cosmo per il quale è stato creato, facendo fruttare a pieno proprio questa condizione esistenziale di «aderenza» alla realtà superiore, sia essa lo Stato o Dio; sottolineando, inoltre, che «nella visione cristiana della vita, la guarigione è emergere di armonia, solidarietà, trascendenza, e processo nel quale fluiscono iniziativa di Dio, risposta dell’uomo, solidarietà umana e inserimento nel mondo»29. 

Ma le somiglianze fra la concezione del peccato e quella della malattia non si fermano alla loro presunta «disfunzionalità» nei confronti della totalità, ma trovano la loro radice anche nelle categorie dell’ereditarietà e della trasmissione, nonché nella possibilità di propagarsi indefinitamente così come la sindrome degenerativa della razza avvertita come pericolo costante dallo Stato. È il motivo che ha portato Paolo di Tarso ad affermare che «come per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel cosmo e a causa del peccato la morte, e così la morte ha attraversato tutti gli uomini, per il fatto che tutti hanno peccato»30. Sappiamo esattamente che su queste due categorie si fondava tutto il pensiero medico-biologico novecentesco che fu responsabile di catalogare ed identificare le «vite indegne di vita». 

La piaga ereditaria del peccato forma e informa la vita prima ancora del suo farsi, tant’è che il bambino nasce peccatore a causa del peccato originale che si trasmette appunto per via ereditaria nell’atto del concepimento, ed è proprio in virtù di ciò che sia la Chiesa che lo Stato focalizzarono l’attenzione sul momento riproduttivo inserendolo nel contesto comunitario e ponendolo fuori dalla sfera privata. 

È a partire dalla biologia politica e dal concetto di salvezza, divenuta «sanità», che si definisce, allora, la «degenerazione/peccato» rivelandone così la sua realtà. È a questo che deve ovviare la comunità col potere terapeutico che gli è stato donato proprio per il suo essere in comunione con Dio – o con la Natura, come nel caso dello Stato moderno. 

Ma vi sono altre azioni per le quali le molteplici e numerose malattie dell’anima vengono sanate in modo eccelso, e quasi ineffabile: e se questa arte medica non fosse stata mandata da Dio ai popoli, non vi sarebbe nessuna speranza di salvezza per l’uomo, che tanto smodatamente avanza nel peccato; anche se considerando più profondamente le origini delle cose, ci si accorgerà che anche l’arte medica rivolta al corpo giunge agli uomini come dono di Dio, a cui dobbiamo attribuire la salvezza di tutte le cose e lo stato in cui si trovano31. 

Tutto questo è possibile attuando uno slittamento semantico da un mondo governato da Dio ad un mondo dove la forza primaria è la Natura, all’interno della quale il ruolo di «testa» (vedi le innumerevoli citazioni riguardo all’uomo come testa della natura in ambito cattolico) è svolto da un’élite che s’identifica con lo Stato che porta, con la morte dei degenerati – che sono tutti quelli che non «obbediscono» al canone biologico desiderato -, alla vita di quell’élite che così può sopravvivere incontaminata (e quindi liberata dalla possibilità della morte come depauperamento fisico, mentale e morale e, di conseguenza, del suo ruolo di guida) e far risplendere la razza che si fa attraverso il suo mantenersi «sana». In altre parole, lo Stato che si muove seguendo le leggi naturali si trova imbrigliato – o sarebbe meglio dire che all’interno di questa logica si trova «protetto» – nel determinismo naturale, che diviene così pianificazione dello sviluppo evolutivo, che non può avere altra direzione che quella di un progresso migliorativo. 

Per concludere, possiamo ora affermare che i dispositivi eugenetici di funzionamento degli Stati moderni (ricordiamo in particolare quello nazista) la normativizzazione assoluta della vita e la doppia chiusura del corpo32, altro non sono che gli stessi presupposti su cui poggia la teologia cattolica riguardo all’uomo come composto inscindibile di anima e corpo, con l’unica differenza sostanziale posta in essere dal terzo dispositivo’ quello cioè della soppressione anticipata della nascita, che è l’esatto rovesciamento in negativo del principio cattolico della difesa aprioristica della vita. Di una vita fatta coincidere con la nascita, ma anticipata al momento del concepimento a partire dal 1902, proprio in risposta all’introduzione di tecniche, quali l’aborto terapeutico o la possibilità del parto prematuro, che sottraevano l’ambito della nascita alla sfera della vita consacrata a Dio per consegnarla nelle mani della medicina33. 

Ponendo come discrimine all’appartenenza al corpo sociale l’aderenza a modelli, fisici e comportamentali, stabiliti a priori da coloro ai quali è stato assegnato il ruolo di guida della società al fine di garantire la funzionalità del sistema, diviene un passaggio carico di effetti sulla vita del singolo quello della «cura», che in ambito cattolico pare condensarsi attorno alla cura e alla salvezza dell’anima, mentre in ambito statale si concentra più sulla cura dei corpi, ma che, mutatis mutandis, si indirizza in ambedue i casi ad una presa in carico da parte del potere della vita, privata della sua variabilità. Questo dispositivo, ad un’analisi più attenta, svela la sua natura politica di meccanismo di funzionalità e autoconservazione del sistema, senza il quale non solo non c’è salvezza, ma cadrebbero anche i presupposti di una vita comunitaria: «La salvezza per essere integrale e plenaria deve concernere tutto l’uomo considerato come unità di corpo-anima e ciò sia come individuo, sia come gruppo e società»34. 

Claudia Gaeta

NOTE 

1 «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti» (C. Schmitt, Le categorie del ‘politico‘, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 61). 
2 Z. Alsezeghy, Confessione dei peccati, in G. Bargaglio – S. Dianich (a cura di), Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), p. 176. 
3 J G. Landra, Difendiamo nella maternità le qualità della razza, in «Difesa della razza”, II, n. 4 (20 dicembre 1938), pp. 6-8. 
4 Sottolineiamo per inciso che la salvezza è un archetipo culturale, in altre parole è un’idea in-nata che viene trasmessa all’individuo in virtù della sua appartenenza ad una collettività. È in questo senso che vogliamo indagare l’archetipo della salvezza nelle sue due più grandi rappresentazioni storiche, il cattolicesimo e i totalitarismi novecenteschi, o meglio, lo Stato moderno. 
5 Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1967, p. 201. 
6 D. Mongillo, Esistenza cristiana, in Dizionario di teologia, cit., p.438. L’autore afferma più avanti anche che: «L’uomo chiamato alla salvezza è quello stesso che vive nella storia e pertanto non può né esimersi dal convivere con gli altri, né pensare che tutte le vie di impegno siano autentica liberazione» (ivi). 
7 Paolo di Tarso, Lettera agli Efesini, 4:24; cfr. anche Colossesi 3: l0. 
8 «Il bello sussistente (cioè Dio) si chiama bellezza, a causa di questa bellezza ch’esso comunica a tutte le cose, ciascuna secondo la sua misura» (Pseudo-Dionigi Areopagita, “I nomi divini”, 4, 7.10 in Dizionario di teologia, cit., p. 105.) 
9 Pseudo-Dionigi Areopagita, “I nomi divini”, 4, 7.10 in Dizionario di teologia, cit., p. 106. 
10 Ivi. Notiamo qui per inciso che questa identificazione fra bontà e bellezza è l’equazione che sta alla base degli studi di Lombroso. 
11 Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinzi, 6, 13-20. 
12 Leone Magno, “Sermoni”, 81 in Dizionario di teologia, cit., p. 226. 
13 Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 11. 7. 
14 F. Galton, Inquiries into Human Faculty, Mc Millian & co., London, 1892, p. 17. 
15 Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 11. 12. 
16 Id., 12.13. 
17 Clemente Alessandrino, Stròmata, 7, 2, in AA.VV., La teologia dei Padri. Dio-Creazione-Uomo-Peccato, Città Nuova, Roma, 1981, p. 118. 
18 Z. Alsezeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., p. 176. 
19 «Spesso, invece, le malattie sono punizioni dei peccati, mandateci per convertirci» (Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, 5, in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 277.) Ma anche: «Dio poi suscita la malattia in coloro per i quali è più utile avere le membra impedite piuttosto che agili e pronte nel muoversi verso il peccato» (Basilio il Grande, Omelia «Dio non è l’autore del male», 2-3,5 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 342.) 
20 Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, l in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 276. 
21 «In quanto realtà umana, il peccato è da intendersi come realtà morale: è un atto morale negativo dell’uomo; in quanto da una parte il valore morale, la legge e la norma sono perfezioni inerenti alla dignità della persona umana, anzi sono la stessa dignità della persona umana definita in sé e nelle sue componenti, e dall’ altra l’agire umano è la libera attuazione di questa dignità in modo corrispondente o non corrispondente ad essa, il peccato inteso moralmente si riduce ad essere la non-corrispondenza tra la dignità umana (valore, legge, norma) e la sua libera attuazione, ad essere cioè una disarmonia della compagine umana, una diminuzione dell’uomo nella sua dignità, che ne diviene il criterio, l’origine, il contenuto negativo, e messa in atto precisamente della peculiarità caratteristica, che è il costitutivo supremo di quella dignità personale come valore, legge e norma, e che è appunto la libertà umana: il peccato è allora la contrapposizione che è immanente alla libertà umana costituente la dignità della persona umana, e che dispone, cioè pone liberamente, della sua dignità in senso contrario ad essa» (A. Molinaro, “Peccato”, in in Dizionario di teologia, cit., p. 2031). 
22 D. Chapman, Lo stereotipo del criminale, Einaudi, Torino, 1971 , pp. XI-XII. 
23 Ibidem , p. XII. 
24 «La chiesa […] come comunità vivificata dallo Spirito santo. Il peccato è un distaccarsi interno di questa comunità» (Z. Alszeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., p. 179). 
25 Luca, 11 ,23 . 
26 Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, 4 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 277. 
27 Z. Alszeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., pp. 179-80. 
28 D. Mongillo, “Esistenza cristiana”, in Dizionario di teologia, cit., p. 431 . 
29 Idem , p. 433. 
30 Paolo, Lettera ai Romani, 5, 12. 
31 Agostino, I costumi della Chiesa cattolica, 1,55.56 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 267 . 
32 Cfr. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004, p. XVI. 
33 Cfr. E. Betta, Le forme del decidere: norme cattoliche per l’ostetricia abortiva, in A. Menzione (a cura di), Specchio della popolazione. La percezione dei falli e problemi demografici nel passato, Forum, Udine, 2003, pp. 105-119. 
34 C. Vagaggini, “Storia della salvezza”, in Dizionario di teologia, cit., p. 1574.

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 3-10.




Danza rituale

Viene qualcuno e ti veste
di foglie come un dio solare
estate matta ti dà da bere
finché si avvelena
il tuo sangue chiaro e raro
poi ti fa ballare
davanti alle stelle
e non hai un nome e non credi più
in chi e come e dove
la mia parola, in un sabato venduto
a tutti i mercati della vita,
accetta di uccidere gli amori
e i sogni a metà
dimenticato nella morte dello scritto
all’ombra vecchia del paradiso.

Dan Fruntelata

(Poeti romeni d’oggi, Palermo, Ila Palma, 1989)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 56.