Ruzar Briffa, un poeta lirico maltese 

Il tormento della vita e della parola 

Nella schiera dei poeti maltesi che hanno svolto la loro attività nella prima metà del Novecento e hanno appena sfogliato la seconda, il nome di Ruzar Briffa (1906-1963) emerge con una sua individualità inconfondibile. Rappresenta soprattutto un filo diretto tra quel presente e un futuro molto diverso. Quel presente è identificabile soprattutto per una gamma di ragioni con le impostazioni più tipiche dell’Ottocento romantico che sotto l’influsso dell’esperienza italiana diede contenuto e forma all’ispirazione dell’isola; quel futuro è caratterizzato da una graduale presa di coscienza alimentata da esigenze di una società trasformata sotto vari profili. 

Non era stata soltanto o maggiormente la volontà di scrivere in lingua maltese, l’idioma antico di origine araba, a condurre questo medico schivo e solitario e sperimentare in forma poetica. La sua vocazione era fondamentalmente quella di dover riflettere sul patire, sulla vita come sofferenza ineluttabile, e non di coltivare, come era di moda, il dialetto che ancora richiedeva l’attenzione scientifica del filologo e il contributo raffinato di validi letterati. 

Il pregio lirico dell’opera di Brilla emana da una coscienza che si trovò in grado di parlare con sé in versi, e poi di mettere questi schizzi personali sulla carta con grande, anche se finalmente superato, tormento. Dal profondo dissidio tra la sofferenza dell’essere e la felicità dello scrivere, anche se il processo della creazione è in ultima analisi una continuazione o addirittura una estensione della prima, nasce il paradosso della lirica del mistero, una parola autentica che vuole presentarsi come alternativa unica e insostituibile al vivere stesso. Il non voler vivere si traduce nel voler scrivere. Dall’infelicità dell’atto umano scaturisce la felicità dell’atto creativo. 

La condizione storica del romanticismo maltese 

Nata come coscienza nazionale in seguito ad una lunga, ininterrotta tradizione di silenzio e di rassegnazione, la letteratura maltese è un fenomeno recente. Mikiel Anton Vassalli (1764-1829), oggi noto come il padre della lingua maltese e conosciuto da tutti come un patriota di stampo romantico, riassume in sé la nuova volontà di affermarsi di una piccola comunità che è arrivata finalmente, quasi nella pienezza dei tempi, alla scoperta del suo essere, alla consapevolezza della sua identità particolare e unica, basata su una lingua, una storia, una religione, una civiltà, tutti elementi che formano un insieme am10nico. L’utilizzazione della lingua maltese diventò presto una presa di coscienza, e non poteva rinchiudersi facilmente nei confini strettissimi di un puro esercizio scientifico. La nascita di una letteratura in dialetto, dunque, significava anche la elaborazione automatica di un ambizioso corpo di principi e di sentimenti contenenti la giustificazione culturale e politica del concetto della nazionalità, e di conseguenza il sostegno su cui posa la pretesa dell’autonomia nazionale. 

Il nazionalismo subentrava letterariamente e finiva col diventare la ragione d’essere delle strutture politiche messe in atto durante l’arco di tempo che va dalla prima metà dell’Ottocento fino all’acquisto dell’indipendenza nel 1964. La poesia e la narrativa dell’Ottocento e del primo Novecento, dunque, costituiscono un deposito eminentemente patriottico, cioè, una rottura “moderna” con il passato indifferente e passivo, ispirato soltanto ai canoni classici dell’imitazione e della attenta, fedelissima continuazione della tradizione e dei suoi sacri modelli. 

Il poeta nazionale di Malta, Dun Karm (1871-1961), scrittore in lingua italiana e dal 1912 maggiormente in lingua maltese, andava scoprendo con decisione e con calma il senso dell’individualità dell’isola. Sperimentando nella lingua incolta, sfruttandone le nascoste potenzialità espressive, Dun Karm andava elaborando una intera, quasi sistematica, sublimazione del concetto romantico della patria, trasformandolo in un culto legato al binomio mazziniano del diritto e del dovere del cittadino libero. L’origine etnica, l’unità popolare evidenziata da una vasta gamma di motivi e di costumi, la funzione storico-culturale, oltre che morale, della fede cristiana lungo i secoli e nel mondo contemporaneo, le qualità distintive del paesaggio e delle forme architettoniche, la ricchezza spontanea e naturale del parlare quotidiano delle masse prive di una propria formazione culturale, il significato democratico delle antiche vicende storiche: sono alcuni dei motivi che trovano nel poeta “politico” la loro trasformazione estetica. 

Accanto al filo oggettivo, estroverso, che mette in piena evidenza l’identità collettiva e che dà ampio rilievo alla tematica dell’individualità nazionale, cresce anche l’ansia di un io turbato con la propria, singolare, solitaria presenza nel cosmo. 

Insieme al senso “felice” dell’isola nazionale si acquista anche il senso “infelice” dell’isola universale. La elaborazione della poetica della cittadinanza civile non fa dimenticare il bisogno di definire e di conoscere nelle sue più remote e struggenti implicazioni la poetica della cittadinanza cosmica. Con la traduzione dei Sepolcri foscoliani (L-Oqbra, 1936), Dun Karm introduce con sicurezza nella poetica maltese i grandi temi del processo della vita e della morte, e gli interrogativi sul problema della sopravvivenza. 

Sono temi che si insinuano già, anche se ancora privi di una forma letteraria di rilievo e lontani dalle complessità di spiriti veramente inquieti e sofferti,nelle liriche di Gian Antonio Vassallo (1817-1868), Richard Taylor (1818-1868), Guzè Muscat Azzopardi (1853-1927), Anton Muscat Fenech (1854-1910) e di Dwardu Cachia (1858-1907. Ma con Dun Karm assumono pure il carattere di modelli letterari, di archetipi tematico-formali, e sono di una importanza decisiva nel quadro dell’ispirazione maltese dei decenni successivi. Spettava ad altri poeti arrivare anche loro alla scoperta del filone soggettivo, introverso, riflessivo del romanticismo ottocentesco e dei residui neo-romantici ancora vivi nel primo Novecento europeo e continuati in varie sfumature fino ad oggi. Dai confini di una stretta concezione nazionale e sociale la poesia maltese si avviava verso gli spazi della tematica universale. 

La lirica del tormento esistenziale 

Nell’opera di Brilla la causa poetica diventa del tutto autonoma dalla causa linguistica. Comporre lirica non significava più contribuire alla normalizzazione e al recupero dell’incolto idioma antico. La distinzione tra interesse filologico e accademico nella lingua, e necessità psicologica di espressione poetica in quella lingua diventò netta, anche se Briffa stesso si pronunciò del tutto favorevole all’uso del maltese e al suo completo riconoscimento in sede culturale e sociale. 

Con Brilla si ha la figura del poeta integrale, cioè della personalità che riassume nell’atto poetico tutti i vari, multiformi aspetti dell’essere, professionale, sociale, familiare, civile. 

Essere poeta significa investire l’esistenza di un contenuto e di una forma particolare. L’intuizione lirica e non la poesia della letteratura e della rigidità formale, il senso del mistero e non la consapevolezza delle certezza nazionale, la lingua ricostruita con sofferenza dalle rovine di una sensibilità malinconica e non la normalizzazione decisa della sintassi e del lessico: in queste scelte, intimamente legate tra di loro, appare la figura del poeta come essere quasi privato, racchiuso in sé, piegato su se stesso, separato dalle masse, ispirato soltanto ai sussurri che si fanno sentire nel suo intimo angoscioso, del tutto noncurante della problematica storico-culturale. Lo sfondo di Briffa non è l’età contemporanea ma un eterno mondo di solitudine, privazione e tristezza. Le dimensioni del luogo e del tempo, mai evidenze di dati precisi, sono forme archetipiche entro cui quasi tutte le sue brevi meditazioni trovano una cornice per presentarsi come poesia, cioè come parola, sfida al silenzio continuo: 

Il-ferha ta’ bla tarf li jien poeta 
darba hassejt, 
u bkejt 
bil-qalb mim ija 
x’hin l-oghna holm tal-hajja 
ghannejt. 
(Mill-Gdid Poeta, vv. 1-6) 

(Ho provato una volta la felicità infinita di essere poeta, e piansi con un cuore pieno, mentre cantavo i più ricchi sogni della vita). Di nuovo poeta, vv. 1-6. 

I suoi luoghi sono spazi desolati, lontani dalle città della convivenza, distinti dal mondo dell’attualità; ad esempio, cimiteri, cattedrali dimenticate, castelli, vecchie chiese, spiagge lontane, strade disabitate, tombe, chiese demolite, fontane salutarie, città desolate. I suoi tempi e le sue stagioni sono momenti e periodi facilmente identificabili con la sofferenza, ad esempio, l’inverno, la notte, le ore della tempesta. Il passato con le sue ricordanze amaramente nostalgiche è un presente continuo, una “eternità” storica vissuta entro cui l’esperienza diventa psicologica, e il presente perde la sua attualità per diventare momento ambiguo dominato dalla memoria: 

Qatt ma Kien hemm il-bierah, 
m’hemrnx ghada jew pitghada, 
il-bniedem fassal wahdu 
il-jiem tac-civiltà … 
Imm’A1la halaq qablu 
it-tul t’Eternità. 
(Il-Hadd fìlghaxi ja, vv. 13-18) 

(Non c’era mai ieri, non c’è domani e dopodomani, l’uomo disegnò da solo i giorni della civiltà . . . ma Dio creò prima di lui la lunghezza di una Eternità). La sera della domenica. vv. 13-18. 

L’insistenza su vocaboli che evocano limitatezza, tenerezza, introversione, 

timidezza, piccolezza richiede una precisa interpretazione. Il linguaggio poetico di Briffa costituisce già un concentrarsi su un tipo particolare di lessico: è scelto istintivamente. con criteri psicologici, e non letterariamente, con criteri stilistici. Invece di cercare di ampliare il proprio vocabolario e di trovare le parole meno note, più antiche e pure (cioè di origine semitica, siccome il concetto di purezza, ormai da tempo superato, significava l’eliminazione dei vocaboli di origine latina), il poeta riduce il suo dizionario ad un glossario quasi specializzato, ispirato soltanto alla tematica del tormento esistenziale. Non risale mai alla superficie l’ambizione di chi desidera dare evidenza della vastità e dell’efficacia espressiva della lingua tradizionalmente incolta. Passando dalla langue alla parole Brilla arriva ad una lingua scheletrica, scarna e del tutto priva di ogni elemento decorativo. Non c’è un rifacimento della comune lingua parlata: si tratta di una riduzione estrema, evidenza letteraria di un retrocedere psicologico. Anche la poetica della lingua diventa così un documento di una particolare vicenda interiore. 

Dati i limiti entro cui poteva svolgersi l’attività letteraria, e considerando il grave svantaggio storico imposto sull’antico idioma di origine araba, sempre vissuto in condizione di subalternanza culturale e politica rispetto alla tradizione latina dell’isola, una tale scelta “linguistica” (così appare a prima vista, e così è anche, ma non soltanto, nel quadro della vita culturale maltese del primo Novecento) costituisce una importante novità nella storia della poesia del Paese. Significa l’affemlarsi del contenuto sulla forma, il superamento del preconcetto che attività linguistica equivale a attività creativa. Tirando le somme, dunque, ciò significa che il contenuto (l’atto poetico) non doveva dipendere più dalle condizioni del programma di ricostruzione sintattica e lessicale\ oltre che morfologica, della lingua popolare. Poetare ora significava soltanto scoprire la propria metalingua entro la lingua, restringere ancora, tormentare i nuovi modi, ricrearsi una forma espressiva che in ultima analisi non contribuisce in nessun modo all’avanzamento della lingua in termini di standardizzazione scientifica e colta. 

La forma dello spirito 

Trovandosi privo di una propria formazione letteraria, essendo un medico occupatissimo, Briffa aveva paradossalmente il vantaggio di poter distanziarsi senza polemiche dai formalismi, necessari storicamente nell’ambito della breve storia letteraria della lingua maltese, e richiesti dalla condizione difficile dell’idioma non ancora sufficientemente elaborato in sede estetica, dei suoi contemporanei come Anastasio Cuschieri (18761962). Ninu Cremona (1880-1972). Gorg Zammit (n. 1908), Gorg Pisani (n. 1909). Karmenu Vassallo (n. 1913). Guze Chetcuti (n. 1914) e altri. Messo in questa foto di gruppo, Briffa si isola anche come poeta e non soltanto, caratteristicamente, come persona umana. La sua distanza psicologica si traduce presto in distanza linguistica e formale, quasi per mettere in evidenza il fatto che la prima condizione fosse la causa della seconda, e che tra l’uomo e l’artista non potesse esserci alcun spazio. 

La sua lingua ridotta, costituendo un compromesso con il silenzio e con il mutismo, è frammentata, sciolta e sconvolta. Il lessico è scarno e “povero” oggettivamente, fedele alla condizione di privazione e di negazione che l’autore intende proiettare. Le forme si creano nel processo dello scrivere, anche se spesso 

utilizzano le stanze precise della tradizione, particolarmente la quartina. Entro la formalità, comunque, cresce il nervosismo personale di chi non trova facilmente lo spazio adatto allo spirito in cerca di comunicazione. 

Il contrasto con l’impressione che viene fuori dall’opera collettiva dei contemporanei ha condotto Dun Karm, troppo avaro di solito a collaudare i suoi colleghi, a conoscere in Briffa un autentico poeta. In fondo si tratta di un anti-letterato valido che ha prodotto alcune delle liriche più belle scritte in maltese nella prima metà del Novecento. 

È una condizione paradossale. Questa bellezza sta soprattutto nell’informalità, che presto dà prova dell’intraducibilità del testo. 

Tradurre Briffa significa veramente tradirlo, renderlo contrario a se stesso, cioè stereotipato, formale e ovvio, quasi banale. 

La spontaneità risiede soprattutto nella naturalezza istintiva, antiaccademica, con cui ha colto dopo lunghi periodi di riflessione (come lui stesso ha dichiarato in una rarissima lettera di chiarifica, e come mostra la sequenza cronologica delle sue opere, spesso separate l’una dalla seguente con ampi spazi di mesi e di anni) la forma pronta ad essere semplicemente registrata su un pezzettino di carta. Cogliendo il momento opportuno. dovuto alla sua psicologia di sconvolto pensatore, disorganico e deciso sentimentalmente, che sente e che non concepisce, Brilla riesce a creare la forma nell’atto stesso di trascriverla. Scrivere significa qui, dunque, tradurre la poesia interiore in poesia esteriore, arrestare il sentire attraverso lo scrivere. 

I suoi momenti tradotti in lirica costituiscono i primi passi della poesia maltese nel mondo della modernità novecentesca. Il contenuto è ancora quello tipico dei partecipanti ottocenleschi all’angst esistenziale. Da Keats a Leopardi, da Shelley a Foscolo, ci sono voci europee di primo piano che trovano eco, remotamente, nei suoi scritti. Sono tutti, comunque, riecheggiamenti di mediazione culturalmente inevitabile, perché il tormento è rivissuto interamente in prima persona. Le sfortune personali, di carattere sentimentale, e l’indole naturale di uno spirito perfidamente malinconico e depresso fin dalla fanciullezza sono essenzialmente i “modelli” veri e propri che hanno tanto influito sul suo animo. È l’uomo che ha formato il poeta, e non la grande tradizione letteraria, anche se questa non può essere assente come esemplificazione di archetipi in cui partecipa la coscienza del singolo in una data condizione personale. 

Le tensioni rivissute a livello privato, dunque, conducono al bisogno di creare pure le proprie modalità espressive. Il diarismo, la psicologia in cui si riassume tutta la poetica di Briffa, spiega l’intero procedimento: i temi della tradizione sono sofferte dall’individuo, e la trascrizione personale riesce a crearsi le forme “private” che placano di più le esigenze dello spirito. 

La prima lirica, Lacryma e rerum (1924), e l’ultima, Ballatella tal Funtana 

(1962), non sono molto diverse. Si prestano facilmente ad un confronto che le definisce come tappe lontane di un unico ininterrotto procedimento stilistico e formale. esprimente una sola preoccupazione. La monotematicità, una delle conclusioni acquisite attraverso un tale confronto, mette ancora in risalto la condizione da cui parte la poesia di Briffa: l’uomo richiede una sua espressione, ed è l’uomo, al di là della storia letteraria del continente e del proprio Paese, che deve ricostruirsi le forme. Il diario è diventato poesia; è una fortuna per la cultura maltese, ma non è che una necessità che il poeta, se avesse potuto, ne avrebbe presto fatto a meno. È infatti con grande difficoltà, e malgrado la sua indifferenza. che la moglie e un intimo amico lo hanno mosso a raccogliere le sue liriche nel 

1960, tre anni prima della morte. Del resto, la biografia storica non è in nessun modo distante dalla biografia poetica. 

La stessa malinconia esistenziale unisce l’azione dell’uomo con la parola del poeta siccome le due dimensioni nascono entro una sola storia che non separa il fisico dallo spirituale, identificando il vivere con il patire. 

Oliver Friggieri 

 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 24-31.




 La visita di Luigi Capuana a Malta

La prima edizione della rivista «Malta letteraria» (*), pubblicata in settembre 1904, aveva già dato spazio a Sorrisino, una novella di Luigi Capuana1. Nel 1910 Antonio Deni, uno dei siciliani che collaboravano alla rivista, pubblicò un ampio resoconto della festa celebrata all’Università di Catania nell’occasione del giubileo letterario dello scrittore2. 

Quasi a consolidare sempre di più questo inevitabile avvicinamento tra le due coscienze letterarie che, superando la visuale astratta del romanticismo, dovevano affrontare la problematica socio-economica, e che accanto alla visione risorgimentale sentivano anche esigenze molto pratiche, il 12 dicembre 1910 Capuana visitò l’isola come ospite dello scrittore giornalista maltese Agostini Levanzin (1872-1955). che così descrisse l’evento: «Lunedì scorso arrivò il famoso romanziere italiano Luigi Capuana, professore di letteratura italiana presso l’Università di Catania. Mi scriveva da lungo tempo esprimendo il grande desiderio di fare una visita alla nostra isola e ora è arrivato. È l’autore di numerosi bei romanzi… Spero che ci conceda una conferenza degna della sue capacità3». 

Fu “L’Avvenire” a divulgare la notizia: «Porgiamo un ossequioso e reverente saluto all’illustre letterato, scrittore e poeta Luigi Capuana, professore dello Ateneo catanese, il quale ha onorato la nostra isola di una sua visita che, ci è grato sapere, durerà per vari giorni …Parecchi nostri giovani studiosi si sono recati ad ossequiare il rinomato scrittore al Hotel d’Angleterre dove alloggia. Possa il nostro distinto ospite godere di un soggiorno piacevole tra noi. Ed ora un voto. Non potrebbe egli regalarci una delle sue applaudite conferenze che tanto entusiasmarono in Italia? Lo speriamo4». Due giorni dopo lo stesso giornale diede ampia informazione biografica e letteraria sul romanziere e continuò: «Noi siamo certi che l’illustre letterato italiano è talmente noto al nostro pubblico intelligente da non aver bisogno di presentazione: anzi sappiamo che già parecchie persone, tra le più colte del paese, si onorano a tenergli compagnia durante la sua breve permanenza tra noi5». 

Agostino Levanzin scrisse anche sul giornale “Malta” per meglio pubblicizzare questa visita presso i letterati. Nel suo articolo, oltre ad un profilo biografico, letterario e critico, Levanzin evidenzia la sua amicizia con il siciliano: «Il nostro gradito ospite è una delle più fulgide figure della letteratura italiana contemporanea. Il suo ingegno policromo è di una versatilità meravigliosa: critico de’ più autorevoli, romanziere de’ più ricercati, novelliere per bambini de’ più spontanei e simpatici, drammaturgo de’ più applauditi, conferenziere dalla parola calda ed affascinante, è pure un profondo psicologo ed ha pubblicato lavori interessantissimi sulla scottante questione dello spiritismo… Figli non ha: è astemio,  feroce,  fotografo,  spiritista convinto, modestissimo allo eccesso, amico  sincero, ama i giovani e procura sempre di incoraggiarli, parlatore arguto e piacevole, ed uno di quelli che trattano con squisita gentilezza e cordiale ospitalità con tutti quelli che, fortunati, vengono in contatto con loro. lo non dimenticherò mai la grata accoglienza che mi fece a Catania, quando, sentendo del mio arrivo colà, venne al Hotel per condurmi a casa sua in carrozza dove mi trattò con una espansione e famigliarità eccezionali in un uomo del suo valore… Abbia intanto l’augurio affettuoso di tutti gli ammiratori del genio latino per una lunga e felice permanenza fra noi6». 

Durante il suo soggiorno Capuana visitò il Collegio Flore, uno dei centri educativi più importanti del periodo, «dove si trattenne per oltre due ore, accompagnato in giro pel nuovo e grandioso locale, dal direttore Flores… e si compiacque che’ per opera sua anche Malta possa gareggiare, se non sorpassare in fatto d’Istituto d’Educazione, con le Città più importanti del continente7». 

Il governatore britannico di Malta tenne un pranzo in suo onore. Fu anche intrattenuto a colazione al Casinò Maltese della Valletta durante il quale gli intervenuti chiesero il suo autografo; tra questi c’erano diversi scrittori maltesi, ad esempio Luigi Randon, Arturo Mercieca, Giovanni Roncali ed Enrico Magro. Fu intrattenuto anche dagli studenti e da G. F. Inglott, uno dei collaboratori di “Malta letteraria”. Agostino Levanzin lo invitò a casa sua e lo presentò a vari intellettuali maltesi. «Fu anche accolto dal rettore dell’Università e nei pochi giorni del suo soggiorno non passò neanche un’ora senza essere accompagnato da qualcuno che gli voleva bene8». Il 25 dicembre al Collegio Flores si organizzò una funzione religiosa per la notte di Natale, e alle ore 10,30 Capuana lesse due dei suoi bozzetti per quella festa9, Capuana ritornò in Sicilia a bordo della nave Enna il martedì 27 dicembre 1910.10 Poco dopo la sua partenza due giornali pubblicarono due suoi lavori, la novella Un anniversario11e un lungo studio sul novellista francese Alfonso Daddet12. 

Il breve soggiorno di Capuana a Malta è significativo per la conferenza che lesse il lunedì 26 dicembre «nella gran sala del Collegio Flores innanzi ad una scelta accolta di signore e signori, ammiratori del grande romanziere italiano13». Due giorni prima della conferenza Levanzin scrisse un lungo articolo sul proprio giornale “In-Nahla” dichiarandosi contento dell’onore che lo scrittore aveva fatto all’isola con la sua visita, invitando il pubblico a dargli una meritata accoglienza che metta in luce la capacità  dei maltesi di stimare  le  persone che valgono. Tale 

comportamento è un passo positivo perché smentisce l’accusa di arretratezza spesso rivolta contro i maltesi. Levanzin auspica che Capuana «si ricorderà della nostra cara isola nelle sue valide opere future» e conclude augurandosi che con tale accoglienza «mostriamo di essere capaci di apprezzare i grandi uomini e particolarmente quelli legati alla lingua italiana, che è la lingua della nostra civiltà14». 

La pubblica presenza di un noto scrittore italiano a Malta agli inizi del secolo rischiava di essere interpretata e sfruttata anche politicamente. La questione della lingua, che metteva in dubbio il ruolo concesso tradizionalmente all’italiano nella vita ufficiale e culturale dell’isola e che indicava l’avanzata dell’inglese come alternativa di comunicazione culturale e internazionale, e che chiedeva al maltese, l’idioma incolto di origine semitica, una sua giustificazione culturale e politica, serviva come presa di coscienza a favore della tesi della latinità del paese e come decisa presa di posizione contro la minaccia di una così detta devastante anglicizzazione. 

“Risorgimento” prese subito lo spunto da questa complessa problematica, citando il nome di Capuana come sostenitore della tesi più antica. Asserendo che la sua visita riuscì graditissima, ricordò pure l’amicizia del siciliano con il romanziere maltese Levanzin: «Egli ha sempre, come ci ha detto l’egregio amico signor Levanzin Agostino editore dell’«In-Nahla». cercato di festeggiare ogni maltese letterato che si portò mai a Catania». Affermò anche che Capuana si interessò molto «della malaugurata questione della lingua» che, secondo il giornale, «stupidamente si era sollevata qui da un governo spensierato che… ben la sollevò senza badare alle ripercussioni, all’eco, ai riverberi che avrebbe potuto avere (come infatti ebbe) lontano e nella diplomazia europea». Comunque, continua lo scrittore anonimo, «il grande siciliano ha poi saputo colle sue maniere affabili. e squisitamente gentili, e col suo fare espansivo che rammentava… ‘il gentil sangue latino’, accattivarsi l’amore, la simpatia, l’amicizia di tutti anche di coloro che in politica o nelle sue idee letterarie non ne condividono le opinioni». Il giornale ritiene che, anche se Capuana riuscì a evitare la politica, la sua visita ha dato luogo spesso e forse sempre a manifestazione schietta dell’italianità di Malta15. 

È facile sospettare che Capuana fosse consapevole del rischio che correva se si fosse pronunciato pubblicamente in qualche modo su temi altrimenti neutrali come la storia e l’identità di Malta e il rapporto culturale tra l’isola e l’Italia. Arturo Mercieca, poeta e politico, ricorda che durante una adunanza tenuta al Casinò Maltese, una organizzazione che sosteneva l’italianità dell’isola, a Capuana «venne richiesto di presiedere e pronunciare il brindisi d’onore… eravamo ansiosi di ascoltare un forbito discorso del Capuana. Ci toccò però rimanere a bocca asciutta quando egli levatosi a rispondere disse: ‘Signori, io sono uno scrittore, non un oratore; dunque, grazie, grazie, grazie’16». 

 

La conferenza, pubblicata interamente su “L’Avvenire”17, prende le mosse da alcuni dei principi più noti del pensiero letterario dell’epoca ed è tutt’una con le idee caratteristiche dello scrittore. Capuana parla del contegno con cui la Scienza si comporta verso l’Arte e viceversa. Di fronte alle scoperte che hanno rivelato forze fisiche mai prima sospettate, si capisce perché la creazione d’arte è stimata cosa primitiva e infantile. L’Arte non poteva dunque rimanere estranea allo svolgimento con cui veniva radicalmente rinnovato il sapere umano. Siccome nell’Arte non agisce la facoltà superiore dell’intelligenza ma l’immaginazione, gli artisti sono stati costretti a domandarsi fino a che punto l’Arte possa assimilarsi le dottrine scientifiche. Non volevano vedersi tagliati fuori dalla società, sentirsi accusare di agire in un mondo fittizio. 

Così Capuana riassume l’accusa rivolta dalla Scienza contro gli artisti: «Se volete che l’Arte sia qualcosa di vitale e che eserciti una funzione efficace nell’organismo della società, scendete dalle nuvole… Siate apostoli, profeti o poeti… ogni vostra pagina sia un’eco dei vostri dolori, delle vostre aspirazioni, delle vostre lotte… Gridate, urlate con noi, piangete, esaltatevi con noi… Noi non troviamo quasi nessun riflesso, nessun accenno di tutto questo nei vostri lavori d’arte e perciò buttiamo via il volume». Gli artisti avrebbero potuto rispondere che avevano sempre aderito a questi propositi, ma entro i confini della letteratura stessa c’era già la coscienza del rinnovamento. Capuana si sofferma su quella che definisce «la forma d’arte più specialmente moderna, il romanzo», che fino a Balzac era «una specie di fiaba per adulti» in cui «la fantasia… regnava da sovrana assoluta». Con Balzac penetrava nel romanzo l’idea dell’osservazione immediata del luogo e dell’ambiente e nessun angolo della vita rimaneva escluso dalla rappresentazione narrativa. 

Purtroppo Zola passò il confine con cui l’Arte rischia di non riuscire opera d’arte. È giusto trasportare il metodo positivo nello studio del soggetto e inserire nella forma una severità scientifica. Ma pretendere che l’opera d’arte potesse assumere valore scientifico, cioè .far servire la concezione artistica al preconcetto d’una teorica scientifica», è un’assurdità. Capuana ritiene che concetti scientifici, filosofici, religiosi, mistici, estetici hanno inquinato l’opera d’arte, e insiste sul tema centrale del suo discorso: «il carattere precipuo dell’opera d’arte consiste unicamente nella forma che ogni concetto vi prende». Prosegue polemizzando contro l’abuso di “dare al concetto una eccessiva preponderanza sulla forma», e arriva alla sua conclusione più determinante: «compito dell’Arte è creare, fare … concorrenza allo stato civile, mettendo al mondo creature superiori alle creature ordinarie pel fatto che sono creature immortali». Il loro valore sostanziale non consiste nel concetto ma nella forma, e la loro dimensione didattica è incidentale. Capuana cita due esempi estremi che mettono in risalto la perdita dell’equilibrio richiesto dall’atto creativo; l’Arte non deve essere strumento di mistica e sociale propaganda come vuole Tolstoi, e neanche una produttrice di bellezza come vuole D’Annunzio. Queste posizioni sottomettono la forma al contenuto, la letteratura al concetto. «La risposta più ovvia sarebbe l’Arte sia l’Arte e nient’altro che l’Arte… ha un’essenza sua propria, un organismo spirituale da non essere confuso con altri organismi spirituali». Capuana conclude il suo discorso auspicando che l’Arte riprenda la coscienza del suo precipuo valore consistente esclusivamente nella forma, riconoscendo che la sua funzione è veramente diversa da quella della Scienza, della morale e della religione. Il suo invito finale è rivolto agli scrittori maltesi: «che, tra i giovani studiosi qui cortesemente convenuti si trovi già un perfettissimo degenerato cioè un genio capace di produrre tale opera d’Arte da onorare fino alla fine dei secoli questa nobilissima isola alla quale esprimo davanti a voi il mio affettuoso e rispettoso saluto». 

Oliver Friggeri

(*) Abbreviazioni dei titoli dei giornali e di riviste maltesi: 
A – “L’Avvenire”; M. – “Malta”; M.L. – “Malta letteraria”; N. – “In Nahala”; R. – “Risorgimento”. 
(1) Cfr. M.L. I, 5, sett. 1904, pp. 139-144. 
(2) Cfr. A. Deni, Per il giubileo letterario di Luigi Capuana, M.L., VII, 71-72, marzo-aprile 1910, pp. 74-77. 
(3) A. Levanzin, Frak, N, III, 12C, 17/12/1910, p. 954.
(4) A.• I. 155. 13/12/1910. p. 3. 
(5) A., I, 157. 15/12/1910. p. 2.
(6). A. Levanzin. Luigi Capuana. M., XXVIII, 8136, 17/12/1910. p. 2. L’autore maltese racconta lo stesso episodio a Catania anche in N.• III, 121, 24/12/1910. p. 963.
(7) A., I, 158, 16/12/1910, p. 2. 
(8) N., III, 121, 24/12/1910, p. 963; A., I, 162, 21/12/1910, p. 2. 
(9) A., I, 164, 23/12/1910, p. 2. 
(10) N., III, 122, 31/12/1910, p. 971. 
(11) Cfr. M., XXVIII, 8145,28/12/1910, p. 2. 
(12) Cfr. R XXXV, 7921, 29/12/1910, p. ~; XXXVI, 7922, 2/1/1911, p.l.; XXXVI, 7924, 9/1/1911, p. 3; XXXVI, 7925,12/1/1911, p. 3; XXXVI, 7926,16/1/1911, p. 3; XXXVI, 7927, 19/1/1911, p. 3. XXXVI, 7928, 23/1/1911, p. 3; “Risorgimento” aveva già concesso ampio spazio alla visita di Capuana, dando un sommario delle sue attività letterarie e mostrando la propria stima nei suoi confronti (cfr. R XXXV, 7918, 19/12/1910, p. 3).
(13) A., I, 167, 27/12/1910, p. 2; cfr. anche M., XXVIII, 8140, 22/12/1910, p. 2.
(14) N., III, 121, 24/12/1910, p. 963. 
(15) Spectator, Il prof. commend. Capuana a Malta., R, XXXV, 7921, 29/12/1910, pp. 1-2.
(16) A. Mercieca, Le mie vicende, Malta, Tipografia San Giuseppe 1946, p. 92.
(17) Cfr. Arte e scienza – Conferenza dci prof. Luigi Capuana letta ieri nel Collegio Flores, A, I, 167, 27/12/1910, pp. 1-2.

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 29-29




 GIORNI E NOTTI 

La luce e il buio 
intrecciano canzoni all ‘ infinito 
in queste nostre vite. 
È melodia la rosa che si apre 
è melodia il fiore che appassisce. 
Hanno un ritmo gli uccelli 
che si librano in volo nell’immenso 
lontano … 
Un andare di passi quasi umano 
si percepisce 
leggero come quello d’un bambino 
lungo il cammino 
del sole sino all’ora della luna. 
C’è la tempesta 
che sconvolge per aria foglie morte 
ma aiuta a rinverdire nuovi rami. 
C’è un forte aroma delle nostre vite: 
amore, 
è l’amore che esala il suo profumo 
sotto i raggi del sole che riluce 
sin che si appaga. 

Eugenia Freire

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 36.




VINCENZO MESSINA, Con rispetto spar- lando, Ila Palma, Palermo, 2006.

 Un libro sconsigliato dall’autore, che si consiglia come diversivo 

Con rispetto sparlando è un esilarante spaccato di vita quotidiana, e lo stile del libro è già rivelato dalle due righe che arricchiscono la copertina: «Questo testo contiene espressioni dialettali scurrili e sgrammaticate. Se ne sconsiglia la lettura a chi è avvezzo a tuccarisilla c’a cammisa; frasi che sicuramente non introducono ad un’ opera arci filosofica e tediosa. L’ autore racconta con tresemplici episodi, tutti e tre ambientati in Sicilia, alcune caratteristiche che facilmente si possono riscontrare nella vita quotidiana. 

Il primo racconto si svolge a Palermo e il protagonista è lo stesso autore che decide volontariamente di imbarcarsi nel lungo e complicato percorso per ottenere la famosa placchetta «H»; non perché ne abbia realmente bisogno ma perché misteriosamente utile e potente. In chiave comica e satirica l’autore tratta il tema tristemente attuale del «tocca e fuggi » per ottenere ciò che si vuole pur non avendone diritto, e della estrema facilità di chi, pur non avendone diritto, riesce ad ottenere la misteriosa «H». 

Il secondo brano è ambientato a Pantelleria. Protagonisti un gruppo di musicisti palermitani che si imbarcano, nel senso letterale del termine, per l’isola per una notte … pantesca. Un transfer tristemente comico a causa di una serie di inconvenienti che attanagliano i musicisti siciliani. Anche qui, a mio parere, si mette in luce la tendenza, diffusa un po’ ovunque, di provare a fregare l’altro; soprattutto quando l’ altro non è della zona. 

Il terzo ed ultimo brano è un episodio tragi-comico che intreccia due realtà della vita maschile: la difficile convivenza tra il sesso maschile e quello femminile e la prostata. Particolarmente piacevole la conversazione tra il protagonista ed il medico, in cui le uscite in dialetto dell’ autore colorano ed aumentano la comicità della situazione. 

Consiglierei il testo ai siciliani ma non solo, grazie anche al «glossario» finale che spiega i coloriti ed appropriati termini dialettali utilizzati. 

Con rispetto sparlando è un libro che si legge d’un fiato, che diverte senza cadere nel banale e che, nello stesso tempo, fa riflettere su piccoli-grandi spunti che emergono dalla lettura. 

Elisa Fontana 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 64-65.




SALVO LOMBARDO, La clandestina dell’Aldilà, Editrice Sicilander, Partinico, 2007.

Un nuovo romanzo, complesso da raccontare, ma coinvolgente da leggere. La sua storia è un pretesto per parlare dell’uomo, della sua vita distratta e sempre di fretta, della sua anima confusa dal frastuono della vita moderna. 

La protagonista del romanzo non è una persona in carne ed ossa, come il lettore si aspetterebbe, ma un Soffio Vitale, Habel in ebraico, che impersona il desiderio dell’uomo di dare un senso alla propria vita, di trovare il significato ultimo della propria esistenza. 

Il libro inizia con la risalita di Habel nell’Eden; espediente che permette all’autore di introdurre il lettore in questo mondo immaginario e di intrattenerlo sulla creazione del mondo, e sul disegno divino. Nella seconda parte Habel viene promossa ad Aghné, non più quindi semplice Soffio Vitale ma Anima completa, e le viene assegnata una missione sulla terra. In seguito a un imprevisto, l’Anima si trova a viaggiare, spinta dalla sua curiosità insaziabile, da clandestina sull’Arca delle Anime. Tutta questa parte è incentrata sul viaggio di Aghné, sui mondi che visita e le anime che conosce. Infine l’Anima, si incarna in una bambina e riesce a portare a termine in modo esemplare la sua missione terrena, l’Amore. La protagonista, prima come Soffio Vitale e poi come Anima, non smette mai di interrogarsi sul perché della vita. Infatti, sia i singolari personaggi incontrati che le esperienze vissute sono espedienti che le permettono di crescere, e giungere all’illuminazione. 

Il lettore, durante questo viaggio, rimane incantato non solo dalla descrizione degli scenari e dei colori, ma soprattutto dalla semplicità e spontaneità con cui vengono trattate tematiche forti e impegnati ve, come l’arroganza, l’amore e la pace. Il linguaggio usato da Salvo Lombardo è semplice, ed emotivamente intrigante tanto da invitarti a leggere d’un fiato l’intero romanzo; ma soprattutto è da notare la fanciullesca ed incantata descrizione dell’ambiente onirico circostante che, attraverso l’emozione e la suggestione dell’ Anima-protagonista, meraviglia anche il lettore. Questo finisce per riflettere ed interrogarsi sulla vita e sui suoi valori. 

L’odissea di quest’ Anima è un misto di fantasia e realtà, sensazioni immaginarie ed altre realmente esperite nei numerosi viaggi di documentazione che, Salvo Lombardo ha compiuto, a supporto della della credibilità del racconto. 

Lisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 62.




SALVATORE GIULIANO, Corrado Ursi, l’Uomo dell’Amen e dell’Alleluja, collana «Memorie / Testimonianze», Ila Palma, Palermo, 2007.

 Una nuova figura esemplare dell’apostolato cattolico in Italia 

Salvatore Giuliano è riuscito a fotografare la figura del cardinale Ursi e la sua eroica azione pastorale, l’uomo che è stato promotore di una novità assoluta per il suo tempo: infatti, seguendo l’esempio di papa Giovanni XXIII e Paolo VI, convocò, nel 30° Sinodo, non solo i religiosi ma anche rappresentanti del mondo laico, risvegliando l’interesse della comunità cristiana tutta. 

Per la documentazione del testo, Salvatore Giuliano ha utilizzato come fonti gli scritti lasciati dal cardinale alla diocesi, oltre i molteplici articoli, i lavori accademici e le testimonianze orali. Ovviamente, come lo stesso autore afferma, Corrado Ursi non ha mai avuto l’intenzione di creare un manuale di teologia, quindi gli scritti sono sempre da intercalare con le sue azioni pratiche. 

Dopo una motivata prefazione del cardinale Crescenzio Sepe, successore di Ursi nella cattedra di S. Aspreno, il testo si divide in due parti. Nella prima si delinea il profilo umano e spirituale del cardinale, con la descrizione dei passaggi principali: la formazione, il ministero di rettore, l’episcopato e l’esperienza del Concilio Vaticano II. La seconda parte è dedicata all’ illustrazione dei tre pilastri del programma pastorale dell’arcivescovo di Napoli. Si può quindi suddividere in tre sezioni. La prima dedicata alla Cristologia pasquale, che si concretizza nell’eucaristia. La seconda relativa all’Ecclesiologia pastorale, centrata sul vivere intensamente il momento «della tenda», ossia la comunione eucaristica, per poi diventare Chiesa <<della strada», impegnata nell’aiuto missionario. La terza incentrata sulla Teologia ecumenica, con cui il cardinale Ursi riuscì a creare un clima di fiducia tra le confessioni cristiane di Napoli. Per lui la fede in Cristo è fede nella Chiesa, in quanto la comunità dei credenti è soggetto di fede. 

Don Giuliano usa, nel suo testo, un linguaggio lineare, che permette al lettore di crearsi un’immagine completa del cardinale Ursi, con la vita esemplare e il corredo delle sue rilevanti attività sociali, che ne santificano la figura. 

Lisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 59.




LUIGI PIAZZA, Identità e turismo. Città di costa lineari italiane, collana «Progetto e Architettura», Ila Palma, Palermo 2008.

 Trasmutazioni dell’identità territoriale e architettura 

Il libro tratta il difficile rapporto tra il fenomeno del turismo di massa ed il mutare dell’Identità locale dei luoghi che esso attraversa, con una particolare attenzione ai sistemi urbani lineari costieri italiani inseriti in un contesto più ampio del fenomeno di antropizzazione delle coste del bacino del Mediterraneo. 

Con una metodologia comparativa e con il ricorso al confronto continuo di dati omogenei, si è analizzato il complesso dei fenomeni di interazione tra insediamenti turistici e territorio ed identità locale, sviluppando in maniera più approfondita l’analisi, come caso studio, di una realtà urbana, quale quella di Cefalù, che ha subito profonde modificazioni urbanistiche, territoriali e sociali, nel suo contatto con i flussi turistici internazionali. 

La tesi, che rimane in subordine e che aleggia in secondo piano, è che il depauperamento dell’aspetto paesaggistico e le modificazioni del territorio della fascia costiera non sono connessi direttamente con l’insediamento urbano, purché questo sia preordinato in un piano che, tenendo conto degli aspetti ambientali, geo-morfologici del luogo, sia teso a realizzare un rapporto simbiotico tra natura e artificio. 

Il ruolo del progetto di architettura in un contesto di fenomeni e di scale così ampio è questione non secondaria, che rimane sullo sfondo e che si è cercato di sviluppare attraverso l’esame di alcuni progetti di intervento sul costruito, finalizzati a ridare una qualità al territorio degradato, e di nuove installazioni turistiche a ridosso della fascia costiera in un dialogo con l’elemento territoriale e paesaggistico pre-estitente teso a rafforzare le caratteristiche identitarie del luogo. 

La conclusione cui il testo perviene, che è anche la tesi che si voleva dimostrare, è che l’Architettura, quando non scade e si dequalifica in mera edilizia, non è mai antitetica alla qualità del paesaggio, anzi è lo strumento attraverso cui evidenziarne le peculiarità. 

Lisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 56-57.




LUIGI PIAZZA, Identità e turismo. Città di costa lineari italiane, collana «Progetto e Architettura», Ila Palma, Palermo 2008.

Interazione tra insediamenti turistici ed esigenze ambientali 

Il libro tratta il difficile rapporto tra il fenomeno del turismo di massa e il mutare locale dei luoghi che esso attraversa, con una particolare attenzione ai sistemi urbani lineari costieri italiani inseriti in un contesto più ampio del fenomeno di antropizzazione delle coste del bacino del Mediterraneo. Con una metodologia di tipo comparativo e con il ricorso al confronto continuo di dati omogenei, si è analizzato il complesso dei fenomeni di interazione tra insediamenti turistici e territorio e identità locale, sviluppando in maniera più approfondita l’analisi, come caso di studio, di una realtà urbana, quale quella di Cefalù, che ha subito profonde modificazioni, urbanistiche, territoriali e sociali, nel suo contatto con i flussi turistici internazionali. 

La tesi, che rimane in subordine e che aleggia in secondo piano, è che il depauperamento dell’ aspetto paesaggistico e le modificazioni del territorio della fascia costiera non sono necessariamente direttamente connesse con l’insediamento urbano, purché questo sia progettato e preordinato in un piano che, tenendo conto degli aspetti ambivalenti, paesaggistici, geo-morfologici, sia teso a realizzare un rapporto simbiotico tra natura ed artificio. 

Il posto e il ruolo del progetto di architettura in un contesto di fenomeni e di scale così ampio è questione non secondaria, che rimane sullo sfondo e che si è cercato di sviluppare attraverso l’esame di alcuni progetti di intervento sul costruito, finalizzati a ridare una qualità al territorio degradato, e di nuove installazioni turistiche a ridosso della fascia costiera in un dialogo con l’elemento territoriale e paesaggistico preesistente teso a rafforzare le caratteristiche identitarie del luogo. 

La conclusione cui il testo perviene è che l’architettura, quando non scade e si dequalifica in mera edilizia, non è mai antitetica alla qualità del paesaggio, anzi è lo strumento attraverso cui evidenziarne ed amplificarne le peculiarità. 

Elisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 57.




LUCIO ZINNA, Il mondo narrativo di Lu- ciano Domanti, collana «Profili », Ila Palma, Palermo, 2008.

Profilo di uno scrittore siciliano che ci ha dato pagine esemplari 

Il libro di Lucio Zinna, così come lascia intuire lo stesso titolo, è interamente dedicato allo scrittore, nato a Castronovo, in Sicilia, dove ha trascorso parte dell’adolescenza con i nonni, che hanno svolto un ruolo importante nella formazione dell’autore, così come la sua terra natale. 

Il libro si divide in due parti. Nella prima si introduce Luciano Domanti, le sue opere ed il suo genio artistico; nella seconda si raccolgono diversi brani di critica sui suoi racconti. Entrambe le sezioni sono estremamente interessanti. Permettono infatti, rispettivamente, di avere un panorama completo sul mondo dello scrittore e inoltre, diremmo, di toccare con mano singolarmente i suoi libri, facendo quasi un salto all’interno delle varie storie tramite i testi della critica. 

Si parla così de Gli occhi di poi, silloge di racconti che descrive la sua esperienza da giornalista, anzi addetto stampa della Presidenza della Regione Siciliana, che permette al lettore di immergersi in una vita di incontri tra pubblico e privato, conditi con il sale raffinato di una fantasia sbrigliata che sa rendere personaggi significativi persone a volte scialbe. 

Prima c’era stato Il cerimoniale, un manuale anzi una guida veramente preziosa, sulle norme che regolano le relazioni tra enti ed organi pubblici. Il libro non è esclusivamente un’elencazione di regole ma è arricchito e reso coinvolgente da descrizioni di ricevimenti, colazioni e pranzi ufficiali. 

Continuiamo con Che mafia quella mafia, in cui protagonista è la comunità di Castronovo coi suoi personaggi che rivelano l’animo di una popolazione e l’estro dell’ autore. Da notare come, anche se il titolo lo lascia pensare, il tema non sia la mafia della cronaca nera, tanto che la parola in sé è pronunciata raramente all’interno di tutta l’opera. 

Seguirà, più tardi, come l’autore stesso dirà, nel sottotitolo, «dietro le quinte del Palazzo», l’umoroso e, perché no?, alquanto umoristico Buongiorno Presidente, che narra episodi, edificanti o meno, dei primi governanti siciliani della Regione autonoma. 

Finiamo, giusto per citare i principali libri, con La luna di Serradifalco, che tratta di una storia reale ambientata in un luogo altrettanto reale. Lo scritto riconduce al tema dell’emigrazione interna, dal Sud al Nord d’Italia, precisamente a Prato, la zona forse più laboriosa della Toscana e così ci troviamo di fronte al solito stereòtipo che il siciliano buono si trascina a causa di quello malvagio: la solita equazione sicilianomafioso. 

L’estro e la genialità di Luciano Donanti ha fatto sì che venga collocato insieme ai grandi della letteratura siciliana come Verga, Sciascia e Deledda. Nelle sue opere non mancano le allusioni, se pur indirette, a questi autori. Ne La luna di Serradifalco domina il detto Cu nesci arrinesci ossia «chi esce riesce», vendicando il fallimento di ‘Ntoni di Padron ‘Ntoni dei Malavoglia; si fa riferimento ad una presunta presenza mafiosa, poi effettivamente assente, che supera Sciascia; si richiama Ciulà di Pirandello e così via. 

Luciano Donanti, aggiungerei meritatamente, ha vinto il Premio «Campofranco» ed ha ottenuto una targa al merito letterario dall’ Assessorato Cultura della Provincia di Palermo. 

Elisa Fontana 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 62-63.




GIUSEPPE BARBACCIA, La comunità cosmopolitica, Studi e ricerche di Scienze politiche, Ila Palma – Athena, Palermo, 2007.

 La comunità cosmopolitica di Giuseppe Barbaccia è un originale testo filosofico-politico. Iniziando con un approfondito excursus sulle tendenze cosmopolitiche, a partire dal VI secolo a.C., l’autore finisce per delineare un quadro completo delle caratteristiche e delle necessità di una comunità cosmopolitica; passando per Cicerone, Leibniz, Kant, Habermas e la nascita dell’O.N.U., solo per citare alcuni passaggi, l’autore arriva ai nostri giorni, in cui ad una integrazione (sociale, culturale ed economica) cosmopolitica deve corrispondere un’altrettanto adatta struttura, basata sulla democrazia e con appositi poteri e strutture operative. 

Fondamentale per lo scopo è l’O.N.U. che, però, secondo Barbaccia, deve superare le sovranità statali per giungere ad essere unitaria ed universale. 

Il tema è complesso e non fruibile da tutti, ma l’autore lo tratta in modo chiaro e lineare, tale da renderlo adatto a tutti i lettori interessati a questo attuale e fondamentale argomento, che ci riserviamo di trattare ampiamente. 

Lisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 57.