CARMELA PICCIONE, Micha van Hoecke, collana d’arte «Prisma», Ila Palma Mazzone Produzioni multimediali, Palermo-Roma-Sao Paulo, 2006.

L’anima nella danza: van Hoecke, tutta una vita per l’arte 

Micha van Hoecke, un artista di origine russa, è uno dei più grandi coreografi viventi. Con la sua compagnia, l’Ensemble, e con il balletto Maria Callas, la voix des choses, ha rappresentato il nostro paese in Cina per l’Anno della Cultura e dell’ Arte italiana, dopo il trionfale successo di San Pietroburgo. 

Personaggio poliedrico, oltre che coreografo è attore, musicista, pittore. Da oltre venti anni vive in Italia, a Castiglioncello, con i suoi danzatori e le sue danzatrici in una sorta di «famiglia allargata», ma soprattutto in una comunione artistica e umana: da Marzia Falcon, col fascino delle sue gambe sinuose, all’infinitamente plasmabile Miki Matsuse, dall’intramontabile Yoko Wakabyaski, all’intensa Catherine Pantigny. Per non parlare della grande Savignano, trasfigurata dalla sua recente collaborazione con Micha, che sembra averla condotta a una seconda giovinezza. Tutti validi artisti che lo hanno seguito da Bruxelles dove lui ha lavorato con Béjart, il quale lo aveva chiamato, ancora giovane, alla guida della sua famosa scuola Mudra. In Micha convivono due mondi: l’Oriente e l’Occidente. Due modi di intendere la vita, di interpretare l’arte, di proporsi al pubblico. Per i suoi sessant’anni, Carmela Piccione, una giornalista romana studiosa di musica e di danza, ha dedicato all’artista Micha van Hoecke un robusto saggio, ricco di notazioni critiche e documenti fotografici, da servire per un capitolo di storia della danza in Italia. 

Una edizione pregiata, che fa onore al mondo dell’editoria. Contiene, tra l’altro, un lungo, appassionato colloquio con il coreografo sull’arte, la danza, la musica, la politica, la religione, la società. Vengono svelati fatti e avvenimenti inediti, i suoi amori, i motivi ispiratori delle sue creazioni, i rapporti con gli altri protagonisti. Il volume offre una serie di testimonianze di eminenti personalità del mondo dell’arte e dello spettacolo, come Jean Babilée, Luis Bagalov, Riccardo Muti e la moglie Cristina Mangiavillani, Maurice Béjart, Roberto De Simone, Carla Fracci, Liliana Cavani, Suso Cecchi D’Amico, Piero Lorca Massime, Vittoria Ottolenghi, Nicola Piovani, Luca Victor Ullate, Marella Ferrera, Catherine Pantigny, François Weyergads e tanti altri. Ne viene fuori un uomo e un artista inflessibile, rigoroso, severo, di straordinaria classe, appeal, ironia. 

La danza accompagna le pagine del libro, ne scandisce i capitoli, le dichiarazioni di intenti, le riflessioni, le confessioni. Un leitmotiv che abbraccia una vita costellata di creazioni, soprattutto di incontri importanti come quelli con Béjart, Riccardo e Cristina Muti. 

Il libro, per citare le parole dell’autrice nella introduzione,«non è solo un omaggio ad un grande artista, è una testimonianza di vita, di meravigliose utopie che si trasformano in realtà inseguendo sempre i propri sogni, nell’ambito di una rinascita e di una rigenerazione continua, che il teatro esplicita, che il cuore e la mente inseguono». 

Ed ora alcune testimonianze. «Con la sua creatività e intelligenza, Micha è l’artista che ha infranto confini estetici» (Bacalov). «Micha è stato sempre il mio doppio … Ancora giovanissimo, gli affidai la guida della mia scuola Mudra. Aveva una grande esperienza del palcoscenico e soprattutto amavo quel suo modo così personale di accostarsi alla scena» (Béjart). «La sua è stata una fedeltà al proprio credo in un teatro totale conquistato tramite la preparazione non solo al balletto, ma anche alla recitazione, alla musica, al canto» (Bentivoglio). «Credo che chiunque abbia avuto occasione di incontrare M. si sia messo in viaggio prima di tutto dentro se stesso» (Caccavale). «Con M. ho scoperto che la danza è un’ arte severa» (Caroli). «Il suo modo di accostarsi al teatro è sorprendente e singolare. La sua danza, le sue immagini hanno qualcosa di cinematografico» (Cavani). «Professionista tenace, poeta della danza, mi ha sempre sorpreso con la semplicità delle sue immagini e la sorprendente felice ingenuità » (Damiani). «M. è un artista il cui gesto creativo parte dalla profondità abissale di un uomo visionario, di uno sciamano in trance, capace di trasmetterci gli echi del macrocosmo e del microcosmo, il respiro di una universale pulsazione cardiaca» (De Simone). «Nei suoi spettacoli conduce ad una chiave di lettura fatta di suggestioni, immagini spesso evocative piene di poesia che suscitano emozioni profonde» (Ferilli). «Fra tanti regali che la fortuna mi ha fatto e di cui ringrazio il Cielo, ci sono le occasioni che ho avuto di lavorare col grande Micha» (Piovani). «In ogni sua coreografia non c’è solo movimento, la sua danza non è pura gestualità. È uno dei pochi registi e coreografiche sanno raccontare una favola con l’anima e il candore di un fanciullo» (Lorca Massime). «Un compagno di viaggio straordinario, un fratello nelle intenzioni sulle vie dell’alto artigianato dello spirito, un maestro educatore, un uomo buono che coltiva la vera solitudine, consapevole però delle esigenze di questo mondo perché il mondo ha nell’anima» (Mazzavillani Muti). 

Letizia Ferrazzano

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 59.




Marcello Veneziani, Amor fati – La vita tra caso e destino, Milano, Mondadori, 2010.

Amare il destino

L’ultimo libro di Marcello Veneziani è intitolato Amor fati. L’autore, editorialista del “Giornale”, con al suo attivo diverse opere di filosofia, storia e cultura politica, afferma scherzosamente che si tratta di un saggio da leggere a piccole dosi, perché una lettura tutta d’un fiato potrebbe causare effetti collaterali da sovraddosaggio.

Già a partire dal titolo, il libro invita ad amare il destino, che vuol dire accoglierlo e accettarlo con tutti i suoi limiti e le sue responsabilità.

Invece, «nel senso corrente il destino è pensato come un crudele gendarme che strappa alla vita e inchioda a una sorte». Secondo l’autore, è proprio questa mancata accettazione del destino da parte degli uomini contemporanei che ha tolto il senso alla loro esistenza, svuotandola della sacralità di un piano escatologico e consegnandola alla cieca inconseguenza del caso, che li disconnette irrimediabilmente da passato e futuro, risucchiandoli nel vortice del presente.

«Oggi molti vivono una vita priva di senso, ma gremita di accessori». Da ciò la perdita d’identità e persino uno sradicamento dal proprio humus, che alla lunga induce paradossalmente a cercare rifugio nella superstizione degli oroscopi, dello zodiaco e della scaramanzia, misero residuo dell’ormai perduto spirito religioso.

«In realtà il destino radica l’essere nell’avvenire, dà senso all’accadere, connette l’esistenza a un disegno e a una persistenza. Essere è avere un destino ». Infatti, nell’ottica di un disegno di ampio respiro che ci rende tutti interdipendenti, pur nell’autodeterminazione del libero arbitrio, nulla accade per caso e il più piccolo evento può essere letto come segno di una grande volontà progettuale.

Brigida Fagone

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 59-60.




Il profumo del gelsomino

Faceva un caldo soffocante quella notte in cui uccisi la mia piccola Aldonza. Il profumo del gelsomino era denso e dolciastro. Il silenzio della notte era squarciato dal latrato di un cane.

 Non ricordo se ci fosse la luna nel cielo; ma se ci fosse stata, non avrebbe potuto impedirsi di velare il suo volto per la vergogna e il dolore, mentre la vecchia pianta di gelsomino si contorceva, salendo su per gli spalti del castello a riempire l’aria con l’essenza inebriante dei suoi mille fiori bianchi, così piccoli e così impertinenti.

Quella notte di agosto, io, Antonio Piero Barresi, principe di Militello e signore della terra, consumai il delitto più odioso: mi vendicai dell’innocenza e della purezza. In preda all’ira e alla gelosia, strangolai mia moglie, dopo averla tormentata per ore con domande crudeli e meschine, mentre lei mi guardava sempre fisso negli occhi, negando fieramente ogni colpa.

Spezzai il suo corpo, così fragile e così pervicace come i fiorellini del gelsomino, finché non si afflosciò fra le mie mani, senza opporre più alcuna resistenza. Ma non riuscii a spegnere la luce dei suoi occhi verdi, che mi fissavano ancora dal bel volto senza vita e che continuano a fissarmi tuttora, ovunque io vada.

Se sono sfuggito alla giustizia umana, per via del mio rango, giacché nessuna Corte Criminale ha osato condannarmi, non posso certo sfuggire alla mia coscienza, che è implacabile. Da anni digiuno spesso e mi privo di tutte le comodità. Dormo sul pavimento, ai piedi del letto che ci accolse entrambi, Aldonza e io, ai tempi felici della nostra unione, a contatto con la pietra dura e fredda, come dura e fredda è la pietra che pesa sul suo corpo.

Avevo incontrato Aldonza per la prima volta nel castello di suo padre, Raimondo Santapau, marchese di Licodia. Avevo desiderato possedere i suoi pensieri, prima ancora che il suo corpo. Esile e slanciato, esso non aveva certo la forza di seduzione prepotente delle contadine dalle forme morbide che avevano frequentato il mio letto. I suoi capelli castani erano raccolti in una lunga treccia dai riflessi colore del rame e gli occhi erano di un verde caldo e profondo come l’Oriente, con pagliuzze dorate disseminate in mezzo all’iride e concentrate intorno alla pupilla. Avevano una bellezza ammaliante, luciferina.

I primi mesi dopo il matrimonio furono i più felici. Aldonza era innamorata e l’amore la rendeva bella e florida come una rosa nel suo pieno splendore. Ma c’erano momenti in cui la sorprendevo assente e distaccata, come se i suoi pensieri fossero volati via, chissà dove, inaccessibili al mio possesso. Alle mie domande non sapeva dare una risposta e talvolta aveva una tale difficoltà a tornare in sé che decisi di non farci caso; faceva parte del suo carattere e io l’amavo troppo, per farla soffrire con la mia curiosità. Del resto, la cosa succedeva più di rado, se l’assillavo con domande.

L’inverno molto freddo e una grave carestia colpì il territorio di Militello. A valle la neve imbiancava i tetti delle case che si stringevano come un gregge impaurito intorno alla chiesa di Santa Maria. Le piante di gelsomino dormivano sotto la coltre gelata, mentre i ramoscelli più sottili si arrampicavano disperati verso l’alto, ma ormai ridotti a un ammasso di arbusti secchi da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Antologia che scricchiolavano al solo sfiorarli.

Aldonza mi aveva chiesto il permesso di ospitare i poveri del paese nei locali adiacenti al cortile del castello, per sfamarli e dar loro un riparo dal freddo. Il suo entusiasmo era insolito e imprevisto, più forte della mia riluttanza. E così decisi di dargliela vinta, come si fa a volte con i capricci delle donne, soprattutto quando non costa quasi nulla accontentarle.

Per settimane il cortile fu occupato da una folla di presenze silenziose che si animava soltanto all’ora della distribuzione del cibo, quando la stessa Aldonza compariva in cima allo scalone per sorvegliare che tutto procedesse con ordine. I miei fratelli mi avevano raccontato che in mia assenza Aldonza scendeva in mezzo a quella gentaglia e si soffermava ad accarezzare i bambini. Quando ero presente, lei non osava mai farlo, né feci mai nulla per incoraggiarla.

Prima che finisse l’inverno dovetti lasciarla, per correre in Spagna al fianco di re Giovanni. Quando giunse il momento di separarci, solo i suoi occhi pieni di lacrime tradivano l’angoscia. Il suo corpo rimaneva immobile, senza un gesto, nella penombra di una fredda mattinata invernale. I suoi pensieri mi erano già preclusi. Nell’istante in cui l’abbracciavo, sentivo che per lei era come se già fossi andato via.

Mi allontanavo in groppa al mio cavallo, seguito dagi uomini più fidati, mentre un vento gelido tagliava la faccia ed entrava nelle ossa. Pensavo ad Aldonza e alla tristezza dei suoi occhi. Mi chiedevo come mai una donna intelligente e colta come lei, che spesso mi aveva affrontato in certe discussioni, dandomi prova della loquacità e delle sue conoscenze in vari campi dello scibile, potesse invece, nei momenti in cui erano in gioco le sue emozioni più forti, restare muta e impassibile, incapace di reagire a qualsiasi stimolo, quasi privata improvvisamente dello spirito. Forse era un suo modo speciale per difendersi dalle aggressioni del mondo: opporre sempre una superficie dura e impenetrabile, come la pietra che non conosce il dolore.

Avevo affidato l’amministrazione dei beni al fedele segretario Pietro Caruso. Ci tenevo che vegliasse sui miei fratelli Luigi e Cola, più volte incoscienti e buoni a nulla. Per questa ragione chiesi a Pietro di essere duro con loro e di non soddisfare sempre le loro continue richieste di denaro. Magari avessi potuto immaginare che ciò sarebbe stato causa di tanto odio!

i dalla Spagna in piena estate e mi fermai per pochi giorni a Palermo per risolvere alcune questioni. Fu qui che mi raggiunse un messo che i miei fratelli avevano inviato per portarmi la notizia che Aldonza e Pietro erano diventati amanti e se la spassavano fra feste e ricevimenti.

Non potrei dire con assoluta certezza, se davvero credetti a quell’infamia. Ma essa, per il solo fatto di essere stata pronunziata, mi fece perdere il lume della ragione, e da quel momento diventò impossibile per me discernere la verità dall’inganno. Ecco il motivo dei silenzi e delle stranezze! Ecco spiegato tutto! Adesso mi era tutto chiaro come la luce del sole.

Come furia scatenata lasciai la città e mi lanciai al galoppo in direzione di Militello. Mille pensieri assalivano la mia mente e opprimevano il mio cuore. E se davvero Aldonza mi avesse tradito? Pietro Caruso era un uomo molto galante e di bell’aspetto, talmente da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Antologia abile nella danza, che lo chiamavano “Bieddupedi”. Mi sembrava di vederli, mentre danzavano, e magari ridevano, mentre si abbandonava a gesti e parole che un tempo erano stati solo per me.

A dire il vero, non riuscivo a credere che la mia piccola Aldonza avesse potuto farmi questo. Ma c’era un’idea che mi torturava ed era che, seppure innocente, Aldonza era ugualmente colpevole, per aver fatto sì che una tale infamia andasse per il mondo a macchiare il mio nome.

Giunsi a Militello sul calar della notte, in uno stato di sovreccitazione indicibile. Mi precipitai da Pietro e lo torturai per farlo parlare, ma non riuscii ad ottenere alcuna ammissione di colpa. Lo trascinai sugli spalti del castello e tornai alla carica con le domande, minacciando di buttarlo di sotto.

Non so, forse avrebbe ancora potuto salvarsi, se avesse continuato a negare. Ma all’ultimo momento Pietro non seppe rinunciare a prendersi una rivincita sulla mia caparbietà e insinuò: “Signore, io non ho mai fatto simile peccato, nè mai mi è venuto in mente di farlo, ma, ad ogni modo, se l’avessi fatto, tornerei a farlo”.

Persi il controllo. Il profumo del gelsomino era troppo forte. L’afa era davvero insopportabile. Ero come una furia scatenata, mentre spingevo giù quel disgraziato e in un baleno lo raggiungevo sulla piazza sottostante. Era ancora vivo. Ma non avevo saziato la mia sete di vendetta. Lo legai alla coda del cavallo e lo trascinai per le strade del paese, fino alla casa di sua madre.

A quella vista, la vecchia rimase impietrita dal dolore. Non potevo tollerare l’atteggiamento fiero e le imposi di cantare e suonare con il tamburello davanti al corpo straziato del figlio.

Poi, fu la volta di Aldonza. Ritornato al castello, ordinai che me la conducessero davanti e cominciai a tempestarla di domande crudeli e incalzanti che non sortivano altro effetto, se non quello di farla irrigidire, fiera e dignitosa com’era. Afferrai il suo collo esile e strinsi con rabbia, fino a sentire il respiro smorzarsi in un rantolo leggero.

Calda era quella notte in cui uccisi la mja Aldonza, e denso e dolciastro il profumo del gelsomino. Si sentiva solo il latrato di un cane.

Non so quanto tempo la strinsi ancora e non so se ci fosse la luna alta nel cielo. Quando tornai in me e mi resi conto che era morta, chiamai le guardie e ordinai di appenderla con una corda alla cisterna del baglio.

Fu l’ultima volta che la vidi, la piccola Aldonza! Rimase appesa per tutta la notte, finché qualcuno la tirò giù e la depose in una fossa accanto alla chiesa di Santa Maria. Ma il suo spirito torna spesso a trovarmi per rimanere a guardarmi muto e silenzioso.

Allora il profumo del gelsomino invase l’aria con i suoi effluvi nauseanti, e da lontano si udì un canto triste. Una voce sommessa che ripete all’infinito le parole con cui una vecchia madre, ballando sul cadavere del figlio, mi ha maledetto per sempre: Autu signuri ccu ssa biunna testa mi fai cantari ccu la dogghia in cori a ogni santu veni la so festa e a tia, signuri, viniri ti voli Brigida Fagone.

Brigida Fagone

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 51-53.




Una rilettura in chiave poetica di uno sport a due ruote

Una rilettura in chiave poetica di uno sport a due ruote 

I soliloqui del passista. Breve storia del ciclismo in versi di Antonino Cangemi è una raccolta di poesie corredata di brevi note biografiche dedicate ai grandi campioni dello sport su due ruote. L’autore, a cui non manca una buona dose di autoironia, invoca in apertura l’intervento della musa, come un cantastorie dell’antichità classica, affinché lo assista nell’impresa che si accinge a compiere: «Cantami o diva / lo stridore dei tubolari / sull’asfalto / la leggenda popolare / di storie vecchie e nuove». 

Cangemi affida alla sublimazione letteraria uno sport che inaspettatamente si rivela permeabile a una profonda rilettura in chiave poetica e leggendaria. E questo in virtù soprattutto della particolare natura della disciplina che, nata povera e lontana dai fasti degli sport più alla moda, conserva tuttora un fascino impagabile derivante non solo dalla fatica smisurata che mette a nudo l’umanità dei suoi novelli eroi, ma anche dal contatto con lo scenario naturale che le fa da sfondo, di cui essa mette in risalto la bellezza suggestiva, spesso ancora selvaggia e incontaminata. 

Le note biografiche accompagnano di pari passo i ritratti poetici, completando e illuminando con rara arguzia situazioni e caratteri. Ampio spazio è dedicato alla figura di Coppi, alla sua rivalità con Bartali e all’amore travagliato con la «dama bianca», di cui furono piene le cronache rosa degli anni Cinquanta. Coppi incarnò il mito del ciclismo. Proprio nella poesia a lui intitolata, il personaggio reale sembra volutamente eclissarsi per cedere il passo al mito, felicemente reso dall’Autore nell’immagine dell’uomo che «si lasciava guardare negli occhi / nessuno osava a quel punto parlare / gli occhi che videro – gli ultimi occhi – / su quei tornanti Coppi arrivare». Gioco sottile di specchi che insinua atmosfere surreali di dialoghi muti fra anime. 

Cangemi non dimentica nessuno, neanche i gregari e i cronisti del Giro. E neppure la pioniera del ciclismo femminile, Alfonsina Strada, «paladina remota / di nobile causa / un giorno proclami / s’alzeranno nel cielo / uguali diritti / tra uomini e donne / stessi poteri / a chi porta le gonne». Eroica, perché vinse 36 corse contro ciclisti di sesso maschile e nel ’24, già in pieno fascismo, le fu consentito di partecipare al suo unico Giro d’Italia, figurando fra i 30 su 90 partecipanti che riuscirono a completarlo. 

Gli anni Sessanta vedono il trionfo di un altro eroe leggendario del ciclismo italiano, Felice Gimondi: «vanitoso e fiero / come una donna / sul viale di Sanremo / mentre la folla / che tanto l’ amava / lo inondava di fiori». Poi, nel decennio successivo, il fenomeno del doping giunge a gettare ombre inquietanti sul binomio ciclismo-poesia, contaminandolo e affliggendolo fino ai giorni nostri con i suoi risvolti tutt’altro che sublimi ed eroici. 

Riuscirà il ciclismo a vincere il confronto con le tentazioni sempre più invadenti di una gloria effimera e di basso profilo? È questa la domanda che si pone il poeta, lasciando però spazio, nell’ultima lirica (quella dedicata a Damiano Cunego) alla luce della speranza: «chiediamo di più / la vittoria senza inganno / siringhe o pastiglie / il volto pulito / sporco di sudore / d’eterno ragazzo». 

Brigida Fagone 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 58-59.




 NON ESSERE 

Perché amare è annullarsi, 
come il seme nel seno della terra. 
Predicatore ignoto dal suo pulpito 
Essere e no . .. 
Forse brilla davvero di sue luci 
la fredda pietra 
che chiamiamo brillante? E forse è vera 
l’immagine che in uno specchio d’acque 
traspare? È una finzione … 
In che consiste? 
L’unica cosa che puoi dire certa 
è dunque l’illusione. 
Così l’amore. 
Amore è un’invenzione. Non esiste 
in natura. Perché natura è vita, 
slancio vitale, lotta, non-amore 
e suo destino 
certo è la morte, come per natura. 
Poiché l’amore è eterno, amore è Dio, 
il dio ch’è in noi 
ma noi lo rinneghiamo: e la sua sorte 
è il legno della croce. Una corona 
di spine 
spetta a chi annuncia il regno dell’amore, 
che non si addice all ‘ uomo. 
Non gli si addice l’unica certezza. 
Ed ecco l’illusione. 
Così l’uomo era fatto per l’amore 
Ca immagine di Dio) 
e fu costretto a vivere, a lottare 
contro il creato e le sue creature 
e la parola d’ordine fu uccidere 
per non essere uccisi, 
è vincere per non essere vinti: 
la lotta per la vita. Amore dunque 
è la rinuncia o la rassegnazione: 
la scelta del martirio. E non è umano! 
Così la pace … 
Non è umana la pace, non è umano 
l’ amore: 
la luce del brillante nella luce, 
l’immagine riflessa 
in uno specchio d’acque, l’illusione .. . 

Vivian Emmer

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 32.




 DOVE NON PASSA L’UOMO 

Per una poesia malinconica di Ungaretti 

Dove non passa [‘uomo, la natura … 

ride, ride anche il sole … 

cantano in coro i Verdi … 

Essi non sanno 

che l’uomo non distrugge: 

sta aiutando 

madre-natura, 

il cui fine è la vita, 

e ne compensa 

il destino di morte generando 

altre vite (è sua legge), 

non l’individuo solo, ma la specie 

(la pianta o l’animale come l’uomo, 

tutti u-gu-a-li). 

I Verdi non lo sanno 

che io e i miei fratelli 

siamo riusciti ad arrivare a Dio 

creatore. 

Così 

non credo all’erba lieta del poeta 

dove non passa l’uomo ... 

Lì dove l’uomo non ha messo piede 

il sole 

ha riarso la terra e gli uragani 

l’hanno sommersa. 

Invece, il più caìno 

degli uomini non ha mai calpestato 

i prati, se ce n’è, dei cimiteri … 

Da sola, la natura sopravvive 

a stento 

o dà in escandescenze 

o si desola. 

Forse per questo fu creato l’uomo: 

è la mano dell’uomo che lavora 

ad arte e crea vita, come vuole 

Iddio. 

Vivian Emmer 

(Trad. di Renzo Mazzone)




 DELLA NATURA… 

Fèrmati ad auscultare le segrete 
vibrazioni dei muri 
edificati 
che nel chiuso silenzio della notte 
crescono senza gridi 
o gesti tragici 
ma lentamente avanzano nei vuoti 
e rimuovono il fiore circospetto 
degli alberi e dei prati. 
Ora osserva quel tanto di ricchezza 
che ci rimane ai margini del mondo, 
osserva questo cielo 
di piombo 
che smuove la natura 
e la rifiuta, 
porgi l’orecchio ai muri risoluti 
che s’ergono diritti nella loro 
urgente precisione, 
guarda semplicemente all ‘ esistenza 
e troverai tracciato ogni cammino. 
Disfatti troverai tutti i rifugi 
e diluite tutte le certezze, 
per la paura non avrai parole 
né il verbo che vagheggia la bellezza 
e tuttavia la fredda concretezza 
vuoI essere assoluta ingegneria 
che l’insaziata umanità si inventa 
per perforare i tetti del pianeta. 
Come fossero tante baionette 
le costruzioni acuminate e uguali 
non saziano l’ascesi 
in sé crudele, 
immensità di pietre successive … 
La conclusione 
dei cicli predatori 
verrà allora insieme alle prescritte 
pagine di ispirate profezie 
perché sul nulla resterà a vagare 
il mondo. 

Denize Emmer 

da «Literatura Brasileira» n. 7

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 36.




 IL PROFESSORE 

Disserta il professore 
su un difficile punto del programma, 
e un alunno dorme 
stanco delle stanchezze della vita. 
Lo scuote il professore? 
Lo va a rimproverare? 
Anzi, abbassa la voce 
temendo di svegliarlo. 
Carlos Drummond de Andrade 

(Trad. di Renzo Mazzone) 

(da Mosaico de Manuel Bandeira. Poemas de Carlos Dmmmond de Andrade, a cura di l(jlio Castaiion Guimaràes, Ediçòes Alumbramento – Instituto Nacional do Livro, Rio de laneiro, 1986)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 49.




 CON MACHADO DE ASSIS 

Sul tram per Cosme-Velho il ragazzino 
e lo stregone 
parlano di Cam6es 
e l’isola incantata degli Amori. 
La poesia è un lusso 
che si veste, con gusto, di rumori 
confusi. 

Carlos Drummond de Andrade 

(Trad. di Renzo Mazzone) 

(da Mosaico de Manuel Bandeira. Poemas de Carlos Dmmmond de Andrade, a cura di l(jlio Castaiion Guimaràes, Ediçòes Alumbramento – Instituto Nacional do Livro, Rio de laneiro, 1986)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 49.




Antologia

 ANTOLOGIA 

Per fortuna c’è l’alcool nella vita, 
chi s’ubbriaca e chi va per la coca. 
Io 
bevo solo allegria … 
Dissimulata è la mia tenerezza 
dai miei denti sporgenti. 
lo ho tutti i motivi meno uno 
d’essere triste. 
E sono stanco di lirismo puro. 
E forse è bene perdere la testa 
per una donna brutta … 
Pura o macchiata d’infima bassezza 
voglio per me la stella del mattino. 
Sempre i corpi s’intendono 
non l’anime. 
Benedetta la morte ch’è la fine 
d’ogni miracolo! 

Carlos Drummond de Andrade 

(Trad. di Renzo Mazzone) 

(da Mosaico de Manuel Bandeira. Poemas de Carlos Dmmmond de Andrade, a cura di l(jlio Castaiion Guimaràes, Ediçòes Alumbramento – Instituto Nacional do Livro, Rio de laneiro, 1986)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 49.