La poesia attraverso le persone

Il mondo della poesia di oggi è un insieme di eventi particolari e di effetti “farfalla” che poco hanno a che vedere con quello determinato della chiusura e della perfezione dell’universalità classica sia nella sua forma antica che moderna. Gli eventi che la costituiscono infatti sono un complesso di processi chiusi e aperti, e soprattutto locali, dove le contraddizioni che ne attraversano il tessuto la individuano come esplosione e ramificazione imprevedibile di declinazioni e coniugazioni sintagmatiche che dicono e contra-dicono. 

Un simile tessuto. si potrebbe dire, assume una logica stocastica e polivalente che ingloba come caso limite quella bivalente della significazione non contraddittoria e del senso lineare e sequenziale del verso tradizionale. Esso valorizza sia il vecchio che il nuovo della sintassi e delle trasgressioni “farfalla” che non sempre sono riconducibili a scarti rappresentabili. L’obliquità, infatti, della diagonale creativa. come punto plurale di diramazione della costruzione e della con-figurazione radioattiva del verso e della poesia, ha una dicibilità predicativa non sempre decidibile ed esauribile nella presenza del solo visibile in atto. 

La poesia così si fa verso perché si individua come attraversamento di “maschere” o persone che transitano da una sponda ad un’altra della riva, che simultaneamente è interno ed esterno perché bordo aleatorio di uno spazio. quello della pagina o della videopagina, che simula la fluenza del tempo. 

La poesia stessa così è sempre un sinolo indeterminato e determinato. un albero che gemma fiori non riconoscibili e noti. un tutto che non coincide con le sue parti, un insieme equipotente ai suoi sottoinsiemi e nello stesso tempo non equipotente. un ologramma dinamico di aperte “maschere” virtuali. 

L’insieme-testo della poesia. come direbbe l’antinomia del mentitore o quella autoriflessiva di Bertrand Russe!. è un insieme né chiuso né lineare; è “generico” quanto specifico e affermativo. La sua logica. infatti. è quella plurale del nostro tempo. che non fa più scandalo se non per il fatto che si sta consolidando con ritardo rispetto a quella imperante e riduttivistica della tradizione classica o dei testi della non contraddizione. 

Ora. in quanto equipotente alle sue parti, un simile testo contiene se stesso come parte. ma in quanto parte di una potenzialità in-finita non può più contenersi come insieme equipotente perché è continuo trascendimento, meta-phérein. – continuo movimento oltre/altro. medesimo/difTerente nell’apertura delle contraddizioni e delle nuove configurazioni. Le contraddizioni logico-linguistico-semantiche e le diverse configurazioni di senso sono però le contraddizioni e le emergenze creativo- materiali non contraddittorie della contingenza delle cose cui la poesia si riferisce e dice nell’inarrestabile processo della simulazione e dissimulazione che Ferdinando Pessoa ha definito del “fingitore”. 

Le parti, infatti, che qui sono la lingua e i linguaggi, i suoni, la luce, l’immaginario-razionale e il razionale-immaginario, il fattuale e lo sperimentale (in una parola il re-ale(a) – dire il caso-) nel loro mettersi in verso, percorrono un tragitto simulato che rassomiglia più ai fiordi e alle coste accidentate che a un moto rettilineo e uniforme. Esso è infatti rettilineo e curvilineo. fluente e fluttuante, fatto di cadute e di angoli, di declinazioni e coniugazioni, di catastrofi e biforcazioni, di necessità e di alee che richiamano il moto delle nubi o le traiettorie di un corpuscolo browniano. È il tragitto, in altre parole, della contingenza di tutte le variabili e perciò stesso intreccio e tessuto di relazioni dell’ordine caotico, che, poi, trova il suo assetto nel contesto del testo a partire dal tessitore della coscienza del soggetto poetante. 

Qui la coscienza però è sempre cum-scio (taglio e decisione) per delle relazioni che hanno il medium non nell’«è» statico del verbo essere della tradizione occidentale, bensì nel kann (la relazione dinamica dell’«è» del verbo essere della cultura araba che del dire fa anche un contra-dire). E se la coscienza è decisione nel taglio. il problema della poesia attraverso le persone diventa allora il problema della temporalità-tempera poetica che fa emergere le mille “maschere” che hanno fatto la storia e tante storie narrativo-poetiche. 

È il tempo del poeta come tempo tagliato, mescolato, temperato o dei corpi miscelati, come potrebbe dire il filosofo francese Michel Serres, il tempo della con-tingenza che il poeta è portato a isomorfizzare simulandolo. È solamente la simulazione, infatti, che, fingendone la complessità concreta, consente al poeta di dire e sentire – pensare -, cantare il tempo-essere-realtà con le sue persone-maschere. Rimanendo all’interno del processo temporale o tirandosene fuori, dicotomizzando e/o plurivocizzando il rapporto tra un dentro e un fuori, il poeta, allora, «versa», filmandola, la molteplicità nodale della contingenza stessa. Il risultato però è sempre un determinato mondo chiuso e aperto allo stesso tempo e un esito paradossale. Un paradosso che sconvolge le persone e le coscienze non meno dei paradossi che attraversano e fondano tutte le altre forme di sapere. 

Comunque, però, il poeta isomorfizzi e simuli il tempo nelle sue varie articolazioni intermittenti, i paradossi e le contraddizioni rimangono. Essi sono la non linearità zigzagata della sua tensione e della sua calma tempesta, mentre la poesia ne è il verso, i versi del suo vertere nelle cadute d’angolo e nelle relative diramazioni che dialettizzano il campo semantico della realtà-finzioni verso verità ulteriori. I corpi miscelati del “taglio” – il tempo come tempera – diventano così le persone relative dell’io romantico, del tu dell’ode, dell’egli dell’eroico, degli esseri immaginari, dell’identità trascendente (Dio, sacro) o immanente (la coscienza), della narrazione e dell’ironia più o meno dissacrante, ecc., di determinati universi in permanente ricomposizione. 

L’artefacere, il poiein qui non può più quindi aspirare all’universalità del proprio prodotto poetico. Le diramazioni e le biforcazioni sono locali e relative alla strutturazione del dire le circostanze con più o meno accentuata comunicazione immaginativo-razionale e aderenza ai testi delle maschere del caos o delle virtualità mescolate dello spazio-tempo storico e dei “modelli” culturali che si impiegano per tra-durli nella poesia dei versi. Il genere chiede piuttosto la specie e il singolo come testo specifico e contingenza concreta e non l’astratta universalità. 

Il dire del poeta, inoltre, ha una praxis che, appunto, in quanto legata alla parola del dire, alla lexis, è una attività tanto ambigua quanto imprevedibile. Essa tende infatti piuttosto a differenziare che non a uniformare la singolarità 

dell’emergenza verbale e segnica dei poeti. Il fatto dipende dalla stessa lexis che è azione e relazione fra soggettività che si individuano solo nella molteplicità plurale di persone, che essendo differenti possono cercare le analogie solo nell’ospitalità delle strutture comuni delle sintassi linguistiche e grammaticali tradizionali. 

Nel foro interiore- esteriore della coscienza del poeta, la poesia si presenta così come verso che è dis-corso di un per-corso di fessure che versano le cadute dalle quali provengono le derive poetate, le emergenze stocastiche delle solarità lunari o dell’ironia luminosa e leggera o dura, tagliente e/o sconvolgente, per dire anche altre forme del poetare nella nascita di un’altra e nuova razionalità plurale. 

E, forse, oggi, la nuova razionalità è quella di ripensare i mondi e i saperi nei limiti della con-tingenza. Questa, infatti, mentre fissa gli ordini e i ritmi delle cose, ricorda che gli stessi sono dis-ordini e “resi” nel rhein che si fa direzione e gusto sano del gioco del “verso” delle forze. Qui, allora, le “persone” della poesia dovranno cogliere le tensioni del flusso e fissarne le deiezioni nelle con-figurazioni che si fanno dis-forme, per riaffermare il piacere della vita e farla risposare con il suo stesso poiein plurale. È nella traccia-treccia dell’intermittenza creativa delle parole e dei sintagmi delle figure, che via via assumeranno l’aspetto del verso atomico, molecolare, ritmico, aritmico, continuo e discontinuo come ronda corpuscolare dei campi quantizzati, che le “persone” della poesia dovranno allora ripensare la tra-dizione come tra-duzione di un multiversum che, continuamente, di volta in volta, si è solo posto in un determinato universo: quello degli “eroi” di ieri o di oggi. 

Antonino Contiliano

• Le relazioni di A. Contiliano e di R. Tschumi (nella foto), La poesia attraverso le persone e Sur la traduction poétique rifatte per “Spiragli”, sono state presentate dagli autori al V Symposium degli “Incontri poetici internazionali” che ogni due anni si tengono a Yverdon-les-Bains-Neuchatel, nella Suisse Romande.

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 25-28.




 L’io in-composto di Angela Scandaliato 

Algoritmi del Cuore, Palermo, ed. Il Vertice, 1987. 

Più che una coscienza inquieta, la poesia di Algoritmi del Cuore di Angela Scandaliato, con premessa di Gaspare Giudici e una post-fazione di Pino Amatiello, ci dà lo spessore di una coscienza «in-composta»,lacerata dal vuoto del fondamento delle «certezze consolanti» dove, profugo della ragione, l’io della poetessa cerca o si trova nei luoghi del labirinto, della memoria e del mito come un ritrovarsi retro, quasi un ritorno all’antico ma per interrogarlo. 

L’hybris si consuma attraverso una serie terminologica d’attacco pressante e senza indulgenza: brandelli (termine ricorrente anche nella prima raccolta della Scandaliato, Intermittenze mediterranee: quasi preannuncio), rifiuti, rottami, straniero, spettri, ecc., e una costruzione del verso libero dall’interpunzione e segnato dalla parola emblematica: Eros, Caos, Cosmos, Medusa, Grazia, Gioco, Sisifo, ecc., quasi a concretizzare, esistenziare, nel grafema e nella grammatica sintattica e semantica, questa situazione di angosciata interrogazione. Una interrogazione che erra nell’ambivalenza semantica della crisi: crisi come perdita di identità e crisi come scelta di un nuovo iter. 

La parola singola, che, nella composizione, si pone come verso d’attrazione particolare, e il mito, in Angela Scandaliato, spesso assumono uno statuto figurale, simbolico, che si fa carico, con tutta l’incidenza dell’allusività polisemica, di filtrare prismaticamente la realtà del presente, non escluso un pizzico d’ironia nei suoi esiti politico-culturali ed etici: «Le tue pause hanno il sapore/dell’acqua gasata tante bollicine/frizzanti sull’aridità che la zanzara/aggredisce ronzando sul biscotto/del vin santo spezzando eleatici sguardi d’esistenze intermittenti/E la morte di Dio e quella di Nietzsche/e l’ultimo canto di Saffo è il/nostro canto quotidiano» (ivi, p. 60). 

«Il tragico sommato/del tempo» di Angela Scandaliato, i cui addendi sono anche il linguaggio della nostra epoca tecnologica, se ha un procedimento «risolutivo», un algoritmo, è quello del cuore, di questo navigare nel mare (dove centro e periferia si dilatano infinitamentre come un labirinto che si slarga e cresce su se stesso) che ha il proprio «calcolo» – una posizione precisa, netta e chiara – nei confronti di quell’«ordine» e di quella verità intollerante per cui Garcia Lorca morde «canti del sale». 

Pascal, forse con Algoritmi del Cuore non divide più l’ésprit della ragione e l’ésprit del cuore. La loro con-fusione è in cammino? 

Antonino Contiliano 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 43-44.




 L’etica dell’evento e della contingenza 

Elisabetta Donini, La nube e il limite. Torino, Rosenberg & Sellier ed., 1990, 

“Evocata da una donna. la sostanza invisibile della nube di Cernobyl si materializza nel concreto del vissuto quotidiano. svuotando di senso ogni poesia ed incantesimo. Nelle riflessioni di un uomo. le tracce metaforiche dei cieli della conoscenza segnalano come attorno a ciascun soggetto si condensino dei nuclei di sapere che in tanto sono significativi, in quanto sono limitati.” (ivi. p. 7). 

Certo è che se la nube è quella di Cernobyl o di Seveso o Bhopal o di S. Hussein, lo scud – nuvola leggera spostata dal vento (i missili iracheni che avrebbero dovuto portare le testate chimiche della “madre di tutte le battaglie” nella guerra del Golfo) -, contro cui venivano usati i patriot americani insieme alle “bombe intelligenti”, allora è piuttosto possibile che l’immaginario della nube si perda nel disincanto e nella paura, dal momento che la tecnica ne ha fatto un veicolo di morte, di malattia del corpo umano e di entropia della qualità della vita. 

Tuttavia, pur con letture diverse, la prima di Cristiana Wolf (“evocata da una donna”), e la seconda di William Thompson (“nelle riflessioni di un uomo”), la nube, nel testo della Donini costituisce. a nostro parere. metafora di saperi e pratiche diversi. 

Essa, infatti, con la sua capacità autorganizzativa in forme sempre differenziate e sostanzialmente imprevedibili, segna una cultura della relatività, dell’evento e della contingenza. Del resto la sua storia come simbolo, sia nella storia del pensiero occidentale che orientale, è tracciata come perenne metamorfosi o fonte creatrice di forme-mondi sempre diversi e in perenne movimento senza “legge” e azione comunque intesa a rimuovere il “limite” delle cose. 

Per il cinese taoista c’è un ordine intrinseco e spontaneo della natura – wu wuei (non-azione, appunto o azione spontanea) -, per cui i suoi processi sono continui e regolari anche al di fuori (anzi) di una legge e di una azione dettate esternamente da Dio o dall’uomo. Diversamente invece accade nella cultura occidentale del passaggio dell’universo finito a quello infinito (ivi, A. Koyré). 

Seguendo Joseh Needham (ivi, p. 213), oltre che le origini del pensiero filosofico greco e la configurazione moderna dello sviluppo della scienza, la Donini, infatti, fa vedere, in maniera suggestiva ma anche argomentativamente serrata e congetturalmente fondata, come il concetto di legge e di azione abbiano caratterizzato il mondo occidentale e lo abbiano anche connotato tragicamente con i tratti della violenza, del dominio gerarchico e di potenza. Un dominio e una violenza rivolti sia contro la natura, che gli uomini e le donne, dei maschi contro le femmine e la natura, specie, allorquando nell’età moderna, passando da una concezione organicistica della realtà a quella del determismo meccanicista del sapere aude dell’uomo Jaber, si è affermato il mito dell’uomo -dio (o “dell’uomo maschio bianco borghese, come l’ha chiamato la stessa autrice) con tutte le implicanze di ordine etico e politico che ciò ha determinato sia sul piano dei rapporti tra le persone che tra gli stati. 

L’uomo-maschio-borghese occidentale ha trasferito l’idea di legge e quella di azione creatrice, produttrice e riproduttrice, dall’ordine sociale a quello cosmico come norma e atto imposti dall’esterno: Dio-Padre o uomo (o rovesciando i termini) ha voluto modellare il mondo umano a immagine e somiglianza delle leggi e dell’ordine presupposti nella/della natura. Le leggi svelate dalla ricerca scientifica sono manipolabili con i ritrovati della tecnica in maniera oggettiva, impersonale e con procedure universalmente valide. Nell’uno e nell’altro caso si è sempre fatto appello ad una necessità indiscutibile e inappellabile. Essa è stata quella della cultura della verità assoluta. Assoluta, necessaria e universale perché sottratta alla concretezza della contingenza e dell’evento e ridotta agli schemi astratti della simulazione logica del laboratorio, fino ad arrivare alla dematerializzazione e derealizzazione della guerra del Golfo, battezzata “tempesta nel deserto” dal piano americano di aggressione al nemico iracheno. Qui gli obiettivi militari e civili sono diventati schermo per wargames: simulazione informatica e scacchiera da “guerre stellari”. Le cose e le persone sono diventate impersonali inquadrature di punti e coordinate spazio-temporali sullo schermo dei computers calcolanti la quantità e la qualità della distruzione e della morte. 

Una scienza, una cultura al servizio del potere e del dominio a tutti i costi, capace di rimuovere qualsiasi “limite”. Un sapere e una pratica dell’aggressione gratuita e folle, senza rispetto per le interdipendenze e la coordinazione sistemica che vige nel multiuniverso. 

Dalla cultura violenta della gerarchia e del dominio della verità assoluta, il libro della Donini pone l’emergenza di una cultura al “femminismo”: la cultura della relazione, della correlazione, delle interdipendenze legate alla coscienza del “limite”, che, come dice la sapienza cinese del Tao, non sempre va forzato. Il limite così si connota come una dimensione trasversale che: 1) nella conoscenza impone una relazione di interdipendenza dinamica soggetto/oggetto, soggetti/soggetti, soggetti/mondi, 2) in etica attenziona la responsabilità dell’interconnessione tra l’affermazione di sé, il riconoscimento dell’altro e della natura, 3) nei rapporti tra le persone e il mondo sottolinea la reciproca compatibilità delle parti del sistema, anziché il dominio di una sulle altre. 

Il testo è una denuncia continua e serrata della logica del dominio sia della scienza e della potenza che del modello capitalistico e neocapitalistico, aggressivo e manipolatorio, che alla scienza si rivolge per trovare giustificazioni al proprio modo d’essere. Dalla stessa l’uomo-maschio ha tirato fuori una concezione e una visione della verità che, sessualmente penetrando la materia e la donna, le subordina alla generazione passiva di sempre nuove creature. Persino la “fissione” del nucleo di uranio penetrato dal neutrone ripercorre questa strada: dalla divisione dell’atomo, come dalla divisione cellulare in biologia, si genera, viene alla luce, nasce il “Little boy” (ragazzino) e il “Fat man” (uomo grasso): le prime bombe atomiche che distrussero Hiroshima e Nagasaki. 

Non dissimili dalla logica del dominio è quella del “dono”: anche questo è un venire dall’esterno, specie se ci si rifà alla tematica della bioetica che guarda alla vita come a un dono, che, appunto per la sua origine, è un qualcosa che viene dal di fuori del proprio corpo, sebbene se ne vorrebbe salvaguardare l’integrità dagli interventi della riproduzione artificiale e dell’ingegneria genetica. Sulla questione del “mettere e venire al mondo”, poi, utilizzando certe riflessioni decostruzioniste del tipo di J. Derrida, l’autrice svela la pretesa innocenza e neutralità di termini come “procreare, generare, riprodurre”, che si riferiscono alla natalità. Procreare rinvia a un agire per conto di Dio. Generare rinvia al genus, alla stirpe, alla proprietà, alla trasmissione del patrimonio ereditario. Riprodurre rinvia a un modello meccanico di ripetizione di copie.

Queste sarebbero identiche a strutture date e statiche. Il modello è quello della “trascendenza”, di una separatezza della verità che, con protagonismo maschilista aggressivo e illimitato, crede di trasformare le cose con evidenza e certezza evolutiva incontrovertibile. 

Il modello “femminista” che la Donini gli contrappone, invece, è quello dell’immanenza, della co-evoluzione contestuale e plurale. Questo ha la mobilità e la consapevolezza della parzialità dei punti di vista, la contingenza e la provvisorietà degli eventi-fenomeni inter-agenti all’interno dei sistemi chiusi e aperti. U~ modello che’, cogliendo un pensiero di Lidia Menapace, si pone all’interno di un’etica della contingenza e dell’evento: “La parola ‘evento’ mi sembra carica della possibilità di comporre o almeno confrontare attivo e passivo, decisione e attesa, opzione e risposta. E in questo senso mi sembra una categoria di un pensiero politico che non oscilli più di continuo tra programmazione ed emergenza, tipico di chi non è in grado di realizzare davvero la portata solo eventuale delle proprie previsioni, né gli strumenti della flessibilità necessaria per capirne le logiche, le interruzioni, gli svolgimenti. Analogamente credo che sia importante costruire un’etica dell’evento, che ti consenta di prendere la decisione quando la devi prendere, con il senso del suo limite e rnormabilità” (ivi, p. 238). 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 49-52.




Il non della poesia di J .J. Padron * 

Un non attraversa tutta l’inter-rog(o)-azione poetica di Justo Jorge Padron de I Cerchi dell’inferno. È il non del «sono» che non si possiede più come amore, religio, luce, ma come fumo, ombra e buio. Il suo discorrere si scioglie tramite l’impiego di una parola-concetto che si raffigura e si oltre-figura nell’icastica ipotiposi di quasi tutto il bestiario che la tradizione poetica ci ha trasmesso e dello scenario visionario che la logica «architettonica» della poesia è capace di mettere in opera. 

È il non della negazione-dissoluzione che emerge prepotente e si fa pres-ente nella potenza del suo negativo con la stessa forza con cui il negativo stesso era stato respinto e ricacciato nel profondo della subcoscienza. Lo richiedeva la costruzione della coscienza, lo spazio di una «identità luminosa», perché l’uomo stesso potesse sfuggire alla vertigine nichilistica dell’abisso del suo non-essere. Qui, infatti, tutto sarebbe stato intollerabile e terrificante equivalenza. 

Simboli e allegorie sono gli strumenti espressivi e comunicativi logico-emotivi di un referente – dell’un di un uomo culturalmente determinato – che, nel durante dell’inter-rog(o)azione o azione-durante-l’interrogazione poetica di Padron, ha lasciato l’un della sua natura storico-temporale e problematica-mente in-determinato per farsi reificata astrazione onto-logica, sintetizzarsi e ipostatizzarsi erlebnis universale e metafisica. 

Una astrazione così ipostatizzata che riduce l’in-determinatezza événementielle 

dell’un alla determinatezza immutabile del metafisico lo (l’uomo), assorbendo la molteplicità degli uomini nella unità di una identità eterna e morta, in un assoluto che è «desolazione», «…totale assenza della vita». 

Io «Sono l’uomo!/Io sono tutti gli uomini», dice, infatti, epigrammaticamente, ad apertura della propria opera, il poeta e, successivamente, «…SONO L’UOMO! /Io sono tutti gli uomini», «L’immagine futura della terra/è lo specchio di questo inferno». L’operazione di astrazione è portata avanti con un insistente e rilevante processo di metaforizzazione e di straniamento al fine di focalizzare massivamente la tematica e di con-centrare, catturare l’attenzione del lettore sull’ethos e il logos che lo percorrono in maniera, direi, disambiguata, dove il codice a volte rimane inalterato e i rapporti logici del giudizio sono affidati al connettivo logico del non trasgressivo: «e l’acqua non tornò più ad essere acqua». 

Questo è un processo che Padron segue con un impiego piuttosto martellante delle armi della retorica poetica – personificazioni, esclamazioni, inversioni, anafore, diafore, metonimie, la similitudine e l’analogia del come metaforizzante – e con l’uso di una punteggiatura che spesso fa coincidere l’unità semantica del verso con quella metrica del verso chiuso (sebbene non trascuri l’uso del moderno enjambement) in un procedere sintattico dove coesistono legami ipotattici e paratattici. 

Non è ignota al nostro poeta neanche la capacità di rivitalizzare, in un contesto consono e abilmente costruito, la vecchia metafora del re Mida (che trasformava in oro, per punizione, tutto quello che toccava): «Come Mida del fumo, tutto sto tramutando/in tenebre. Non esistono né il mare né le pianure,/né uccelli, né risa e neppure lacrime. /… /… Ormai sono un fumo nero/come la storia che si dimentica, un fumo nero/come le palpebre serrate delle pietre». Poco spazio, a volte, sembra venga lasciato a quelle che oggi vorrebbero e potrebbero essere le esigenze di una semantica estetica dell’opera aperta alla U. Eco o di una estetica della «ricezione» alla Jauss, se la poesia di Padron non avesse quella aseità polisemica che è caratteristica peculiare della poesia moderna. 

La cattura dell’attenzione, per una sicura comunicazione informativa dell’ethos, appare dominante, e tutto il lavoro della systasis poetica, con la sua pittogrammatica inquietudine boschiana, appare volto a sottolineare senza equivoci il mutato rapporto percettivo dell’autore con l’uomo e il mondo. Questo nuovo rapporto percettivo però non si esaurisce solamente in una dilatata sensibilità estetica, perché, contemporaneamente, viene coinvolto il mutamento dei comportamenti e dell’apparato ideologico nel senso più lato. 

Non si possono non notare infatti gli effetti di radicalizzazione logico-estetica- 

ideologica di certi giudizi copulativi e congiuntivi che (oltre il bit informativo della binaria logica classica) fanno risaltare il «climax» dei sostantivi, dell’aggettivazione e delle forme verbali, con evidente intenzionalità di nuove referenzialità informativo-culturali proprie della logica intensionale, che è anche in-tensionalità poetica e tensione del poeta stesso. Una tensione che consente al poeta di innescare, nel contesto di tutta l’opera e all’interno di ciascun testo, un simultaneo processo di vitale ambiguità semantica (per gli assurdi e le polisemie che lo pongono nell’essere della scrittura) insieme a quell’altro del disambiguamento di cui si parlava prima, sì che ne risulta una vivace dialettica che dinamizza tutto il discorrere poetico dell’opera. 

Per connotare la sensibilità e la tematica di Padron sono stati esclusi Dante e Sartre e sono stati chiamati in causa Goya e Bosch: forse è il «nada nada» del «fantasma» di Goya che traduce meglio il terrore e lo stupore del vuoto e del nulla che Padron scopre «vivo» nell’immanenza dell’essenza antropologica dell’atomo-individuo che non la voracità sartriana dell’altro o l’inferno della teologia cristiana di Dante. Forse il diabolico immaginario e surreale barocco di un Bosch meglio si presta per visualizzare le luci-fere smagliature di una écriture poetica che dia-bolizza il tessuto di una presunta epoca d’oro dispiegata della luce e della ragione, quale avrebbe voluto essere quella moderna della scienza o quella trasparente del «villaggio» totale di McLuhan, se non ci fosse l’ipoteca del «1984» di Orwell. 

La scrittura poetica di Padron, infatti, sottolineando lo spessore della disgregazione e del vuoto che occupano gli interstizi dello spazio-tempo conquistato dall’uomo, ce ne rende in gigantografie l’oscuro e le incertezze violenti – «il mondo è il terrore, e l’incertezza» – con scene sempre più spettacolari. I rumori di fondo e di primo piano non debbono attutire la vigilanza della coscienza e nascondere quel non del «sono» che è contemporaneamente una domanda di vita e di morte, di costruzione e di distruzione, di luce e scuro da quell’essere-possibilità materiale e infinitamente aperto che è «fondamento» dell’esser-ci. 

Ora questa tragica strutturale consapevolezza non costituisce, a parer nostro, solo il pre-testo dell’inter-rog(o)-azione poetica o dell’azione-durante- l’interrogazione di Padron, essa è anche il luogo della resistenza che, secondo noi, per analogia, rapporta in termini nuovi il poeta spagnolo alla generazione d’oro del ’27. Artur Lundkvist, infatti, nel prologo, dice che Padron «ha coronato le ambizioni della giovane generazione dei poeti spagnoli, un prolungamento modificato dell’epoca d’oro lirica della generazione anteriore alla guerra civile». La resistenza di questo «Mida del fumo» è quella della lotta all’«appestato» o a quel «nemico» che è l’uomo stesso come nemico di se stesso. Una lotta contro quella forza distruttiva che Padron, servendosi della poesia e del suo lirico «impegno», porta avanti con decisione, come ieri hanno fatto i poeti del ’27 nei confronti delle dissoluzioni portate avanti dalle forze del fascismo franchista ed europeo e contro la peculiare disgregazione del soggetto e dell’oggetto, della/e verità della nuova epoca di massa, un’epoca che demonizza il novum e sacralizza la ripetizione. 

Per quanto oggi sembra andare avanti la dimensione «favolistica» e deresponsabilizzata della fictio e dell’artificio di un universo fatto a immagine e somiglianza dell’immagine permanentemente metamorfosizzata, dove è diventato sempre più difficile, per non dire impossibile, individuare cause e responsabilità, Padron tuttavia riesce a farlo: vede «faccia a faccia» il nemico, lo prende e lo condanna nel suo stesso «inferno». 

Non diversamente dai poeti del ’27, l’«impegno» di Padron, per esercizio poetico, si connota e snoda poeticamente e, secondo noi, liricamente raggiunge punte di elevata resa in due componimenti (che riteniamo fra i più belli della raccolta): «Il sogno del ritorno all’infanzia» e «La donna della terra», del quale riportiamo qualche frammento: 

Il suo corpo era il profumo 

che inebriava l’ombra e la notte. 

Il suo collo era di marmo tiepido e ondoso fuoco, 

un arco nel silenzio totale della bellezza. 

Ma tropicali erano i suoi seni 

Due frutti che incendiavano il mattino 

con l’aroma della loro polpa aperta 

sparpagliata al sole. 

Con il lamento e il vento del lauro 

la cintola rotante. 

Bucchero del fiore. 

Il riposo arancio. Mezzogiorno. 

Antonino Contiliano 

*Questo saggio di A. Contiliano, che pubblichiamo in anteprima, costituirà l’introduzione di Los Cìrculos del Infierno di J.J. Padron, tradotto in italiano da F. Chinaglia, e sarà pubblicato a cura della Libera Università di Trapani. 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 23-26.




I. Principe, Papaveri di serra, Firenze, “Atahualpa”, Quaderni di Collettivo R, 1994, pagg. 144.

Scegli tu quella che vuoi:/la poesia è il mio vuoto, /e ama ciò che non è amatole dice ciò che non è dettole vibra con noi. Per sempre.. È un invito alla complicità del lettore perché insieme all’autore corra e percorra gli stessi itinerari del poeta, le stesse zone d’ombra e di luce che velano e s-velano, allontanano e dis-allontanano le verità forti e deboli, dolci e amare personali e storiche. 

Il taglio che incide sullo scenario poetico eventi, fatti, riflessioni, è quello di un attento e leggero cursore ironico, per cui il taglio è ferita, dolore, amarezza ma anche sospeso intreccio di permanenti interrogazioni e/o richiami politici: .Dal tuo punto di vista/il sole non tramonta mai:/e dal nostro?/… / Attento Compagno,fè la luna che c’inganna.•; «I sensi vietati sono in realtà/l’unica cosa libera/che abbiamo.; .Prendi il tuo numero/ e aspetta:/.. ./I1 tuo turno/ sarà allora/libertà concessa; / strettamente vigilata•. 

Il poeta Principe è alla sua prima esperienza ma i filati e tessuti versi dei suoi testi conoscono bene l’uso degli utensili poetici: .Perché dire chi sei/se sono certo che sei? . 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag.63.




Gaetano Longo, Diario di un pagano, MCMXCVII Campanotto Editore, Paisan di Prato (UD) 1997, pp. 90.

Presentato con testi divisi in tre ambienti – VISIONI DI VIAGGIO, DIARIO DI UN PAGANO, INTERVALLI MACEDONI -, il poeta triestino, Gaetano Longo, per i tipi di Campanotto, pubblica il suo nuovo libro di poesie Diario di un pagano. 

Come nel precedente libro, Atmosfera di tatuaggio, Longo tematizza il quotidie personale e storico con sapiente leggerezza poetica e tagliente vena ironica per farne oggetto di riflessione critica e offrirlo in pasto all’intelligenza viva e malinconica per una realtà che sempre più spesso offende gli stessi limiti nazionali ed etici del vivere. 

L’intertestualità più ampia Trieste, Parigi, Zagreb, Ulisse e Omero, Genesi, Skopje, il lago di Ohrid, l’ubriacane, l’orgasmo, il mago, ecc. – diventano il pre-testo più agile e provocatorio per passare a setaccio se stessi e le ideologie di copertura della falsa coscienza. 

«C’è odore di pace & noial nella notte profonda e rossa I bagnata e sudataI vuota di clacson e parole I … I Dov’è il diavolo e l’acqua santa?» 

«Me ne vado con passo vellutatol in giro per la città scuraI I Con un po’ d’impegno ucciderò la nottel Con qualche trucco arriverò a domaniI e con un po’ di fortuna inventerò l’alba. E gli ortodossi posero monasteri e cattedrali I perché tutti avessero luoghi di riposo e di rifugiai E i musulmani posero le montagne e le moschee I … I E i cattolici posero ancora un dio con chiese/ … I». 

L’uso ironico dell’intertestualità e il senso di una forte malinconia per una realtà che contraddice le promesse che aveva avanzato prima di nascere fanno del racconto poematico di Gaetano Longa un testo poetico che coniuga perfettamente il gioco della poesia e quello del giudizio etico-politico dello spettatore che non è né “il poeta cieco” né l’attore “disinteressato” sebbene coscienza critica ed estraniante. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pagg.62-63.




 G. Bella, Congiure celesti, Catania, Prova d’Autore, 1991, pagg. 225. 

Presentando i dieci racconti che formano Congiure celesti di Giuseppe Bella, S. Lanuzza dice dell’affinità dell’autore d’esordio con i padri fondatori della letteratura del “realismo magico”: Gogol, Landolfi e Bulgakov. Forse si potrebbe anche dire che gioca l’immaginario kafkiano delle metamorfosi, se è vero che il corpo delle ombre, degli indizi, delle ipotesi. delle intuizioni, delle interpretazioni ‘congetturali’ del de-lirio dei vari personaggi prendono forma e configurazione secondo i termini di una “congiura celeste” che fonde sogno e realtà, enigmi e paradigmi, conscio e inconscio, razionale e irrazionale e attraversa sia i soggetti che la loro soggettività. Questo cum-iurare celeste, quindi strutturalmente e metafisicamente dato, poi, sine nomine e polimorfo, quanto permanentemente soglia, si versa come in un ‘bricco’ -i vari protagonisti-, che così si vedono e si dicono come un ça parle lacaniano. 

G. Bella, insomma, conosce l’arte e il mestiere di scrivere letteratura. In realtà, già fin dal titolo -Congiure celesti-, che categorizza i vari racconti, il sintagma stesso è una spia più che indicativa. Un macrosistema complesso che interagisce con chiusure e aperture permanenti con altri sottosistemi -i vari racconti-, altrettanto complessi ma autonomi, dove l’inventio, la dispositio e l’elocutio di volta in volta tracciano un itinerario seducente quanto logico, ineccepibile e unico ma sempre differenziato sul piano dell’intreccio narrativo e del tempo che miscela attività reale e onirica, eventi e congetture. E se facessimo incontrare i personaggi di Bella e le loro vicende con il poeta-fingitore di Pessoa e il poeta viandante di Machado? 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag. 62.




E. Schembari, Le macchie sul muro. Pisa, Tacchi ed., 1993, pagg. 111 

“La mia vita? …m’affacciai alla finestra, ho guardato il giardino e già ero grande. Poi ho guardato il pino alto… e già avevo i capelli bianchi. Poi mi sono girata a guardare le case del paese ed ero una vecchia… E mi sono coricata in questo letto, ad attendere la morte. È accaduto tutto quasi nello stesso momento. Cosa ho visto, nella vita? Niente!. .. Si vive per morire… Anch’io, un giorno, non avrei visto più nessuno, non avrei sentito, né detto parole e non mi sarebbe importato di nulla: né della luna, né della verità, né dei fantasmi, né dei bottoni perduti, né dei miei genitori, né delle macchie sul muro e nemmeno della nonna e della sua morte». Sono solo alcune delle pennellate del racconto di Schembari, di un racconto che si snoda con eleganza stilistica e vivacità di immagini, stampate con leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità di implicazioni. 

L’estetica delle Lezioni americane di Italo Calvino sembra che qui trovi pieno e personale campo di sperimentazione; nel racconto di E. Schembari, la realtà, la vita, il tempo è una trama, una rete complessa dove l’immaginario scrive e deforma le cose per diritto di diversità e libertà. 

Il pensiero della morte e del niente che sembrano dominare la narrazione, che si svolge con equilibrio tra passione e distacco narrativo, non hanno niente di cupo e pessimistico; sono soltanto le macchie sul muro. Ieri si sarebbe detto e scritto sui muri e sulla carta: “vogliamo l’immaginazione al potere”. 

I/L protagonista/i – la nonna e il nipote “matti” – del racconto, al di là del puro e semplice intento pedagogico-politico, in fondo, non sono altro che la negazione e il rifiuto di quanti, cose, persone, eventi, si impegnano a voler fare morire e nientificare la tua diversità e la tua libertà d’essere e di vivere. 

Tra i fili della propria rete, il racconto possiede anche colorazioni espressive che hanno recuperato e valorizzato la funzione significativa di diversi stilemi del linguaggio e dell’ambiente siciliano. arricchendo, così, il raccontare stesso di una memoria culturale che non deve essere annullata in tempi di omologazione tecnologica. 

La morte e il niente di Macchie sul muro è il nihilismo dei liberi. di chi non ha nessun possesso da perdere, di chi, come diceva un certo autore di Al di là del bene e del male, sa che i fatti sono stupidi come i vitelli, e di chi, come Schembari, scrive che la morte, forse, è un fiume e/o un sole. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 45-46.




E. Bonventre, Leone assiro, ed. Tracce, Pescara, 1993, pagg. 36

Rileggere le poesie di E. Bonventre alla luce del quadro interpretativo offerto da P. Valery per guardare la complessità – l’imprevedibilità essenziale -, questa è l’intuizione che mi è rimasta dopo la lettura. 

I titoli delle poesie fanno da cornice certa e referenza culturale classica inequivocabile per seguire lo stile del verso che, tra il modello epigrammatico e quello aforismatico, snoda il dis-corso delle emergenze poetiche. La figurazione e 

riconfigurazione possibile e continua dell’immaginario-reale, che vitalizza le poesie, si esistenzia però nell’incertezza dei paradossi autoriflessivi – (<< ••• / La Storia non consiste! / Ciò che pensa il grande Fratello / è sempre più Storia della Storia di prima») – o prende voce nella seduzione errante con cui, personificati metaforicamente gli elementi e fattane trasgressione semantica, il poeta, vago ed evocativo, sogna di una zeriba che raccoglie la voce del vento della “libertà Mandela” o di una chimera: «Un’altalena il mare / unico amico il mare / perché ti ricordo?». 

Intreccio di classico e di contemporaneo, la poesia di Bonventre è certamente traccia e testimonianza di come il linguaggio poetico, accanto agli altri linguaggi della società tecnologica, conservi intatta la propria vitalità e una propria ricerca ineliminabile per dire la pluralità delle cose. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pag. 48.




Domenico Cara, Bajlcàl, Milano, Editrice grafiche abidue, p. 1324

 Non posso evitare di dire che ho letto Bajlcàl, l’ultimo libro di poesie di Domenico Cara, che fra l’altro è una penna che non scrive solo poesia e di poesia, in compagnia delle indicazioni di percorso che lo stesso autore ha dato con una sua nota a fine testo e di quelle dell’introduzione di Mario Lunetta, che, a sua volta, cita, la figura del “poetaforista” di Stefano Lanuzza. 

Bajlcàl è una raccolta di poesie che si suddivide in quattro parti: Arpa omofona, Charme assoluto (monoloquio sull’altrove), Flotiglia dell’orsa e Camera delle similitudini. 

Non azzardo nessuna cucitura tra questi quattro sottoinsiemi e l’insieme della raccolta. 

Dico solo che parole-luoghi come “interrogazioni, tempo, ironia, metafisica, logos, contingenza, caduta, altrove, lineamenti di realtà, aliquota del quotidiano, piazza, trascendenza, il punto dell’effimero, caso, caos, aleatorio, ecc. , erano quelle/i che mi prendevano con più insistenza e che più di ogni altra rete di connessione si ponevano come centro di gravitazione orbitale nel tentativo di un mio rapporto più ravvicinato col detto e il non detto della poesia di Cara. 

Non saprei spiegare perfettamente perché, ma sicuramente cercavo un filo, una trama, delle tracce, dei frammenti, anche aforismatici, a me familiari e da utilizzare come tali per “colloquiare”, si fa per dire, con il testo del poeta nel suo flusso di “accumulo barocco”, interrotto dalla necessaria discontinuità della scrittura e della scrittura poetica in particolare che si concretizza nella polimorfia del verso. 

Mi sono venuti in aiuto due versi di Maurice Blanchot – “Parlava, andando di parola in parola / per consumare la sua presenza” – che Cara ha utilizzato a fronte come segno d’incipit per la poesia Le trascendenze, l’attesa, l’oblio (p. 101). 

Domenico Cara, infatti, consumando le presenze sotterranee del «lago> , di Bajakàl nella consistenza della scrittura che si erode nella coesistenza oscillante tra profondità e limpidezza di pensiero e di sintassi, pone la sua poesia in un rapporto permanente di interrogazione col tempo. Un tempo che sosta divenendo in un ininterrotto seguirsi, senza principio e senza fine, di presenza e di assenza, dove la consumazione è una cancellazione senza la conservazione della memoria: il gioco dell’acqua del mare, ma anche del «lago>, quando il vento innesca il moto delle onde. 

“. . . la parole indicibile” così dice e non dice, e le “. . .cicali invisibili” consumando la loro invisibilità nella corporeità del canto cancellano il loro suono nei segni che vengono tradotti in scrittura, in un “ritorno” che Nietzsche chiama “eterno”. 

La citazione è un altro “luogo” dove Cara e Blanchot mi hanno portato, ma non chiedetemene una ragione logocentrica. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 82-83.