La poesia di Saba

«In Saba – ha scritto Giacomo Debenedetti – è rimasto, inalterabile, un fondo di fanciullo e di popolano. La delicatezza e l’incanto di certi suoi impasti par che dipendano proprio da questo: che l’uomo, con la sua serietà morale, ha dato un significato spirituale ed intelligente ai vezzi del fanciullo, pur rispettandone la vivace fragranza primitiva; e che l’intellettuale, con la sua cultura, ha scoperta una grazia fine alle preferenze del popolano»1. È un rapido scorcio della poesia del grande triestino, un modo di definirlo che non può non renderlo diverso, profondamente e consapevolmente diverso dai suoi contemporanei colleghi. Ciò che fa particolare la poesia di Saba è la misura di semplicità e di stupore nello stesso tempo che riesce ad infondere nel verso. Siamo in epoca dannunziana, poeticamente alla ricerca dell’alto volo, minacciata dalla retorica2. Non mancava l’eredità spesso aulica del Carducci («Il poeta è un grande artiere», aveva scritto in «Congedo»), mentre si preparavano le innovazioni futuriste (il Manifesto di Marinetti, per interderci), così lontane da Saba.

In questo contesto, nel 1911, il Nostro scriveva in un suo articolo (Quello che resta da fare ai poeti) che «ai poeti resta da fare la poesia onesta», affermazione tanto più significativa collocandola a soli due anni dal Manifesto futurista (1909), là dove l’onestà manzoniana3 – tale era l’onestà poetica intesa da Saba – aveva ben poco da spartire con quel rifiuto della norma che caratterizzava il futurismo marinettiano. 

Saba aderisce alle cose, come Manzoni, del resto, le gestisce nella sua poesia, le utilizza, le accetta, le fa strumento dell’espressività, poiché aderendo alle cose aderisce alla vita. Di quelle cose ha bisogno, perché diventano indici di vita, segni dell’uomo, elementi della sua presenza. Sono le cose di tutti i giorni: la casa, il lume, il letto4, sono i segni tangibili (e quanta tangibilità occorre a chi non crede!) di questa vita. 

Accettando la vita, com’è, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore, accettando la vita proprio perché tale, si accetta la sua testimonianza, la sua presenza che oltrepassa il tempo, segno del tempo, perché calata in esso, e nello stesso tempo strumento al di fuori del tempo, (perché segno eternamente presente – si pensi alla casa e al letto, strumenti dell’uomo in qualunque tempo sia collocato -, indice insieme di immanenza e di contemporanea trascendenza rispetto al presente. Accettare le «cose», e le cose più umili, diventa un modo per accettare tutti gli aspetti della vita, anche e soprattutto quelli umili. Non a caso ne Il Poeta afferma: «L’ore del giorno e le quattro stagioni / un po’ meno di sole o più di vento, / sono lo svago e l’accompagnamento / sempre diverso per le sue passioni / sempre le stesse; ed il tempo che fa / quando si leva, è il grande avvenimento / del giorno, la sua gioia appena desto». L’uomo, calato nel tempo non può astrarsi da esso, e pertanto coglie le cose, indici e strumenti del tempo, e la natura, oggetto e soggetto del tempo, oggetto perché calata nel tempo, e soggetto perché indice del tempo, delle stagioni. 

Saba non è il solo ad avete utilizzato le «cose». Già i crepuscolari le avevano fatte strumento della loro poetica, attestando l’impossibilità di fare poesia nel mondo borghese, catalizzato dall’interesse per il guadagno. Lo notiamo, tra l’altro, in Gozzano, e precisamente in Ketty («È quotato in Italia il vostro nome? / Da noi procaccia dollari d’inchiostro… / Oro ed alloro!…» (vv. 30/31), che non può non ridere ascoltando «il più bel verso d’un poeta vostro…» (v. 32). Se «carmina non dant panem», se le due cose belle al mondo sono leopardianamente amore e morte (Consalvo), il posto per la poesia necessariamente scompare per rivelarsi nell’ironia gozzaniana inerente le cose. Ha scritto in proposito e molto opportunamente il Guglielmino che, a differenza dei crepuscolari, la poesia di Saba si pone come piena accettazione di quei segni di vita (le cose, gli oggetti, appunto). «Si può obiettare – rilevava, a proposito di quelli che accostavano Saba ai crepuscolari – che con i crepuscolari questa scelta di una realtà dimessa ed usuale era già stata fatta ed in effetti il legame tra questi e il primo Saba fu messo in luce dai suoi primi critici, ma quel che conta è sottolineare la diversa angolazione da cui Saba muove per accostarsi ad una materia magari affine, la diversa luce che vi proietta. Gozzano, ad esempio, col suo distacco ironico, ‘prendeva le distanze’ dalla materia umile e ‘le buone cose’ venivano qualificate, subito dopo. ‘di pessimo gusto’. La scelta di Saba è invece adesione sentimentale, calda simpatia umana»5. 

Ma non è solo un fatto di maggiore o minore partecipazione alle cose. Nei crepuscolari – pensiamo a Corazzini – quella realtà impoetica determinava. a livello poetico, una netta prosaicità del verso, portandolo ad affermare in Desolazione del povero poeta sentimentale: «Perché tu mi dici: poeta? / lo non sono poeta. / lo non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi: io non ho che le lacrime da offrire al Silenzio. / Perché tu mi dici: poeta?» (vv. 1-5). L’impossibilità di assurgere alla poesia scaturiva dalla propria dichiarazione di impossibile poeta. divenuto povero fanciullo malato (quanto è diverso il fanciullo di Pascoli!). desolato esistenzialmente. In questo contesto, a differenza di Saba, il rapporto con le cose, con la realtà del mondo, e la poesia, non più poetica, là dove risparmiava l’ironia, riduceva il verso a prosa. 

Non così avviene in Saba, specie nella sua prima produzione utilizza un tradizionalismo (prima spontaneo e poi sempre più in contrapposizione consapevole al modo dei suoi contemporanei di fare poesia) talvolta aulico (sul quale influisce non poco l’essere nato a Trieste), stilisticamente utilizzato per controbilanciare la qualità «rasoterra» del suo discorso. fortemente pregno di elementi linguisticamente quotidiani. 

A questi fanno da contrappeso gli endecasillabi, gli enjambements, certi arcaismi (pensiamo a quel «sentiva» anziché «sentivo» de La capra) che fanno della sua umiltà linguistica qualcosa di molto prosaico (Saba si arrabbiò quando Montale volle usare per lui questa definizione) e, conseguentemente, qualcosa di molto poco crepuscolare6. 

Saba, si è detto, accettando le cose accettava la vita. Sembrerebbe così facile e poco impegnativo collocarlo in una non ben precisata categoria realistica, che tuttavia ha poco da spartire con il Nostro, perennemente in tensione tra questa oggettività (poco oggettiva, in realtà, come vedremo) realistica e la trasposizione e trasfigurazione di quel realismo non poche volte soltanto apparente. Non vogliamo, si badi bene, con tutto ciò negare certa indissolubile adesione alla realtà, certo descrittivismo significativamente sincero e concreto. certa piena comunione con la natura. Forse, anche per questo, Saba non è (o non è sempre, se si preferisce) identificabile quale realista. Una lettura attenta ed un’analisi precisa del testo non potranno che darci ragione. 

«Tutto lo sviluppo di Saba – ha scritto Binni – verifica nelle sue diverse accentuazioni di canto, di figura persino a volte oleografica, un atteggiamento di aderenza alle cose essenziali che non è solo un guardare, di coscienza non impressionistica del ritmo vitale che dà, nei limiti di potenza fantastica, un diverso tono di serietà a quella che potrebbe sembrare un semplice edonismo di colori, di parole… Quando si nota la modernità di Saba pur nel suo originale rispetto delle forme chiuse tradizionali e nella possibile traducibilità discorsiva della sua musica che paiono imparentarlo con stagioni letterarie più lontane, si deve ricordare che la sua lettura esige in realtà una richiesta non diversa da quella dei nostri contemporanei e che le sue trame di parole. il suo apparente discorso valgono in realtà non narrativamente o decorativamente (…) ma proprio come allusione, come analogia di sensi segreti ed assorti»7. 

È una considerazione che merita di essere spiegata. Scrive il poeta nella poesia Il borgo: «La fede avere / di tutti, dire / parole, fare / cose che poi ciascuno intende, e sono, / come il vino ed il pane, / come i bimbi e le donne, / valori / di tutti».(vv.33-40). Sembrerebbe la prova di un’adesione realistica, attestante, proprio per quella sua .realtà» una piena comunione di vita. In versi precedenti aveva espresso il desiderio «di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni» (vv. 7-11), dandoci così l’impressione di volere ritrarre quel momento di vita autentica che è propriamente la vita di tutti, senza dir altro. Così però non è. Non ci è possibile, per ragioni di spazio, analizzare minuziosamente l’intera lirica «Il borgo». Tuttavia, anche se solo per somme linee, desideriamo porre l’accento su quei particolari (ci serva Il borgo come esempio non potendosi, a maggior ragione, analizzare gli innumerevoli altri casi di questo Saba solo apparentemente realistico) che fanno dell’autore un poeta che trascende il reale, pure gestendolo, in apparenza, solamente per quello che sembra essere. Si tratta in realtà di una rievocazione del desiderio, del «desiderio improvviso d’uscire / di me stesso», di ritornare indietro nel tempo. Saba utilizza il passato remoto («m’avvenne», v. 3) quasi a sottolineare la frattura con quel passato. Era il desiderio provato a vent’anni, irrevocabilmente trascorso, ora, mentre attraversa il borgo (un quartiere periferico sulla collina di Trieste). In quel momento l’autore era malato (vv. 14-15). La malattia non è certo un fatto occasionale (che ci importerebbe di conoscere adesso la malattia di un Saba ventenne?). Essere malato, non in senso fisico, significa non potere comunicare con gli altri. Il poeta infatti desidera la comunicazione proprio perché non è in rapporto con gli altri. Fu un desiderio «vano», attestazione di un’ulteriore scissione tra memoria e realtà, tra speranza e realizzazione, tra desiderio e frustrazione. «Poco fu il desiderio, appena un breve / sospiro. Lo ritrovo / – eco perduta / di giovinezza – per le vie del Borgo / mutate / più che mutato non sia io» (vv. 50-55). 

Dov’è il realismo? Nei desideri? Nella memoria? Nella frustrazione? Nel cambiamento? Nella coscienza? Ovviamente no! Realismo è riproposizione di quanto è immanente, presente, tangibile, oggettivo, effettuale. Il desiderio, la memoria, la coscienza, invece, sono necessariamente soggettivi (non realistici). 

Il poeta è diventato spettatore; non è nella realtà, ma la desidera, attende di rapportarsi con essa, ma, nello stesso tempo, è conscio della propria diversità. Non c’è vita, ma nostalgia della vita (e c’è una bella differenza!). «Ritorneranno, / o a questo / Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni / del fiore. Un altro / rivivrà la mia vita, / che in un travaglio estremo / di giovinezza, / avrà pur egli chiesto, / sperato, / d’immettere la sua dentro la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli appariranno gli uomini di un giorno / d’allora» (vv. 75-87). 

I risultati dell’analisi non si fermano qui. Gli enjambements fanno cadere 

l’attenzione su taluni aspetti: il verbo «avvenne», il «vano/sospiro», «la vita/di tutti», il desiderio «dolce/e vano», il velo che avvolge le «cose/finite», appartenute cioè al tempo… Non sono descrizioni, ma stati d’animo, trascrizioni di una realtà vista per mezzo dell’uomo, e conseguentemente soggettiva e talvolta trasfigurata. La piena adesione con il reale, infatti, deve portare per conseguenza, positiva certezza nelle cose. Queste ultime, invece cambiano, più ancora del poeta, proiettato per mezzo di quelle cose verso il suo ultimo cambiamento: «E morte/m’aspetta» (vv.73-74). 

Si tratta, dunque, a ben vedere, di un più complesso rapporto con il mondo. Da una parte l’accettazione della realtà come accettazione della vita, dall’altra la trasposizione di quegli elementi di vita ad altri elementi del soggetto che non saranno assenti al rapporto psicanalitico: la dualità vita/ morte, per esempio. 

Per ora, però, ci importa fissare la nostra attenzione su qualche altro esempio, ad attestazione di una chiave di lettura non soltanto realistica. Così Goal oltre che descrizione di una situazione calcistica, diventa anche e soprattutto spettacolo della vita e della morte, della gioia e del dolore. Non c’è gioia senza dolore, così come non può esserci sul campo una squadra vincitrice senza un’altra squadra perdente. Se qualcuno gioisce, qualcun altro piange (nella poesia i due portieri). Anche per queste espressioni come «amara luce» (v. 3) o «pieni di lacrime» (v. 6) trascendono, per la loro tragicità, la semplice scena della partita. Tra gli altri esempi andrà citato Il torrente, simbolo della vita e nello stesso tempo della morte. L’acqua è fuggitiva, passa come i nostri giorni, inesorabilmente, e «sempre è d’intorno a te sabato sera» (v. 19), fine del giorno e fine della settimana. Nella stessa Trieste, tanto apparentemente descrittivistica, si nasconde il poeta, con le sue emozioni. È chiusa da un muricciolo, funzionalmente simile alla siepe leopardiana. Al di là c’è la terra straniera, l’inconosciuto. Al di qua «un’aria strana, un’aria tormentosa» (v. 12), un modo, insomma tutt’altro che oggettivo di descrizione. Persino ne L’incisore, dove il protagonista osserva il vero, appare non 

8. E. Gioanola (a cura di), Poesia italiana del Novecento. Milano, Librex, 1986, pag. 290. Si rimanda allo stesso testo del Gioanola per le interessanti interpretazioni di talune poesie di Sabarealizzata quella comunione con la realtà. «Guarda e adora», senza partecipare, senza calarsi. Ne scaturisce una «difficoltà di vivere e di amare»8. La «calda vita» desiderata nel Borgo resta ancora desiderio perennemente insoddisfatto. «Toccò a noi scrivere – ricordava il Flora – che se l’animale si esprimesse sarebbe dannunziano». Con questa frase il celebre critico intendeva rilevare un aspetto particolare di D’Annunzio. Quest’ultimo non avrebbe «espresso se non il primo grado dell’umano», (cioè quello animale) attestato da una certa ricerca di primitivo, di ferino9. È questa l’animalità di Saba? 

In A mia moglie il poeta triestino paragona la propria donna ad una relativamente ampia serie di animali «che avvicinano a Dio». Qui la donna, in quanto femmina, è colta nella sua animalità, che diventa però diametralmente opposta a quella dannunziana, che esprimeva la propria lussuria e trovava avvicinamento alla tigre ed alla pantera’. Non c’era accenno di maternità, che diventa invece singolare aspetto della femmina-animale in Saba. «Tu sei come una gravida / giovenca: / libera ancora e senza / gravezza, anzi festosa», come «la pavida / coniglia» che «il pelo / …si strappa di dosso, / per aggiungerlo al nido / dove poi partorire», o come ancora «la provvida/formica» o la «lunga/cagna», o la pollastra o la rondine o la pecchia, ancora. Non c’è descrizione «scientifica» in queste immagini che accostano mammiferi ad insetti e ad ovipari. 

Si tratta di animali tra loro diversissimi, ma tutti dolcissimi e comunemente domestici. Sono tutti vicini all’uomo, a tutti capita di vederne: ricordano la casa, il nido, la fedeltà, la naturalissima maternità. Non c’è in loro eccezionalità. Sono «i sereni animali / che avvicinano a Dio», e a loro e a «nessun’altra donna» Saba paragona la moglie. 

Un’ulteriore presenza «animale» si riscontra ne La capra, assunta a simbolo del dolore che è eterno. «Come si puo’ credere al dolore di una capra?» Quando, evidentemente, in quel belato si riconosce la realtà universale del dolore. La capra è sola, legata, bagnata. La sua condizione di prigionia, di isolamento, di solitudine, di disagio, non è soltanto prerogativa umana. Come la moglie si avvicinava agli animali, così qui la capra si avvicina agli uomini. Ed è nuovamente un animale domestico, simbolo seppur sui generis del nido10. 

Anche la figlia Lina, come la moglie, si avvicina alla natura. Non animalescamente, per quanto la semplicità animale non disdegni l’innocenza infantile, così come in Ordine sparso l’animalità dell’artista si fonde nel modo di vedere le cose. «E vedono il terreno oggi i miei occhi / come artista non mai, credo, lo scorse. / Così le bestie lo vedono, forse». Nel Ritratto della mia bambina la figlia è accostata ad elementi naturali, alla schiuma marina «che sull’onde biancheggia, a quella scia / ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde / anche alle nubi, insensibili nubi / che si fanno e disfanno in chiaro cielo: / e ad altre cose leggere e vaganti» (vv. 9-13). 

Non c’è nemmeno qui oggettività realistica. Il Saba che per A mia moglie aveva affermato di aver composto una poesia infantile, non poteva per la figlia diventare improvvisamente effettuale. I suoi occhi erano e restano quelli di un bambino. 

«Per fare, come per comprendere l’arte, una cosa è, prima di ogni altra, necessaria: avere conservata in noi la nostra infanzia; che tutto il processo della vita tende, dall’altra parte a distruggere. Il poeta è un bambino che si meraviglia delle cose che accadono a lui stesso, diventato adulto. Ma fino a che punto adulto?»11. 

Veniamo scoprendo un Saba ben più articolato di quanto sembrasse. La sua adesione alle cose nasconde soltanto un apparente realismo. Trasfigurare quelle cose ed anche se stesso diventa compito del Saba poeta e uomo. Per essere in armonia con la realtà bisogna essere in armonia con se stessi. «Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia». Sono parole di Ungaretti (I fiumi vv. 32-35), ma sono indicatissime anche per Saba. 

Saba è isolato, isolato perché ebreo, dunque diverso e perseguitato. È un isolamento fisico. Ma Saba è anche isolato culturalmente, nascendo a Trieste (se pur questo ·luogo di nascita vorrà essere, per certi versi, anticipatore, come per la psicanalisi freudiana), ed isolato fin dalla nascita, con un padre che non conosce, conteso tra la nutrice e la madre. Saba è isolato perché non riceve amore dagli uomini. Per questo, o meglio ancora, anche per questo, ha bisogno delle cose, degli animali, della natura. 

Isolarsi vuol dire rapportarsi con se stesso. Per vincere l’isolamento occorre rapportarsi con il mondo. Se il mondo non fosse in rapporto con il poeta, cioè se non si presentasse alla sua analisi, non sarebbe possibile la comunicazione. La certezza di quella comunicazione non può scaturire da quei segni del mondo che sono le cose, strumenti oggettivi di vita. Ma dietro l’apparente oggettività si nasconde sempre il poeta. E di questo già si è detto in precedenza. Occorre ora che il poeta scopra se stesso. Nel 1928 Saba intraprende la terapia psicanalitica per mezzo del Dott. Edoardo Weiss (al quale, non a caso, è dedicata la sezione Il piccolo Berlo). Durante la seduta, il Saba adulto doveva riportare alla luce il Saba bambino, il piccolo Berto, quel particolare bambino che era o immaginava di essere stata tanto tempo prima. «Sembrava strano – scriveva il Nostro – che un uomo dell’età e dell’esperienza di Saba, si fosse all’improvviso messo a fare all’amore con se stesso trentenne». Ed anche se la sezione Il piccolo Berto presenta ben poco di psicanalitico (sono semplicemente ricordi d’infanzia, ci dice Saba), tuttavia l’episodio appare significativo e ci conferma quella scissione ricorrente ed inevitabile del proprio io. 

Il piccolo Berto era rinato per mezzo di una cura psicanalitica, ma, così rinato, avrebbe dovuto morire. «In realtà non morì mai del tutto: che se questo fosse accaduto, il luttuoso fatto avrebbe avuto due conseguenze: la prima che Saba sarebbe completamente guarito, la seconda che non avrebbe più scritto poesie: non avrebbe avuto più bisogno di scriverne». La ragione è semplice. Saba canta la vita, che diventa oggetto della sua poesia, nella misura in cui serve a consolare della non partecipazione del poeta all’esistenza. La poesia, cioè, diventa un sostituto integrale della vita, nella sua duplicità di dolore e di gioia12. 

La guarigione di Saba, in questo contesto, avrebbe segnato irrevocabilmente la morte della poesia, che non avrebbe più avuto ragione di compensare la sua assenza dalla vita (poiché, guarendo, sarebbe entrato in contatto con essa). Ed è, tutto ciò, ulteriore conferma della sua personale scissione, espressa nella coincidenza ed opposizione nello stesso tempo del reale. «Figura fondamentale della poesia di Saba è infatti la tendenziale coincidenza fra ‘antico’ e ‘nuovo’ («con occhi nuovi nell’antica sera» dirà in Dopo la tristezza, v. 8), in altre parole il senso del dispiegarsi dell’esperienza individuale come ripetizione di un’esperienza già vissuta individualmente nel proprio passato13. 

La scissione di se stesso, la non partecipazione alla vita (scissione tra oggetto e mondo), la constatazione di una realtà oppositiva all’interno delle cose (il bene e il male, la gioia e il dolore, la vita e la morte, la felicità e il pianto…) si definiscono come elementi strutturali del mondo. La non partecipazione del soggetto con il mondo (segno di un rapporto conflittuale tra io e realtà) trova origine nella propria impossibilità di fondere quei contrasti interiori, originati da una primitiva frattura. 

Scoprire quella frattura (es. il mancato positivo rapporto genitori/figlio, o l’1ndefinibilità del suo rapporto con la madre, intendendo con madre tanto quella geneticamente vera, quanto quella effettiva, cioè la nutrice, entro se stesso, significa definire la frattura tra sé e il mondo, all’interno del rapporto conflittuale, con la poesia. 

Per tutto questo la risoluzione del conflitto interiore segnerebbe la sua morte poetica, testimoniando nello stesso tempo un rapporto non positivistico con la realtà esperienziale. In funzione di quella realtà andranno definendosi le cose o le trasfigurazioni di essa (es. le cose di Meditazione o gli animali di A mia moglie). L’animalità di talune trasfigurazioni andrà poi posta in rapporto con l’habitat. 

La riduzione infatti alla più essenziale esistenzialità, in virtù della quale viene a semplificarsi e ad indentificarsi in una elementare condizione infantile o animale la condizione umana, anche se non necessariamente di tutti gli uomini, comporta l’inserimento di quello stesso animale (o di quegli stessi animali) nel suo (o nel loro) ambiente. E poiché di animali domestici e comuni si tratta, si tratterà anche di un habitat comune e domestico, che diventa quello del poeta, inseparabile dalla sua terra, così come avviene per l’animale. E anche dove l’uomo non assume caratteri animali è l’essenzialità di quell’esistenza umana ad avvicinarsi all’essenzialità animale. Non a caso in Città vecchia afferma: «Qui prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / il dragone che siede 

alla bottega / del friggitore, / la tumultuante giovane impazzita / d’amore, / sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore» (vv. 11-19). Non era dissimile, se pur con sfumature e con motivazioni diverse, la conclusione di A mia moglie, dove gli animali avvicinavano a Dio. 

Date queste premesse, non sarebbe possibile ritrovare in Saba un autore staccato dalle sue cose. «Più d’uno dei poeti successivi imparò da Saba la lezione di osservazione minuta, la resa di un gesto umile, di un ricordo labile e improvviso, di una musica e di un colore sommesso che può risvegliare un momento di vita quando aderisce alla commozione del poeta».14 Per tutto questola parola deve configurarsi nel suo valore comune, deve essere semanticamente la stessa degli uomini, non può e non deve assurgere ad una sfera ermetica ed incomunicabile. Per potersi calare o, meglio, per potere desiderare di calarsi nella realtà, la parola non può essere quella della turris eburnea, ma deve aderire a quella realtà diventando strumento di essa. 

Anche per questo la poesia del Nostro è stata interpretata realisticamente. L’errore era comprensibile, anche se forse per certi aspetti di comodo; più politici che poetici. A scanso di equivoci converrà ricordare i versi di Parole: «dove il cuore dell’uomo si specchiava / – nudo e sorpreso – alle origini; un angolo – cerco nel mondo, l’oasi propizia / a detergere voi con il mio pianto / della menzogna che vi acceca. Insieme / delle memorie spaventose il cumulo / si scioglierebbe come neve al sole». 

L’ermetismo aveva fatto della parola la sua ragion d’essere, scindendola dal suo rapporto semantico con il mondo. Nell’ermetico la parola acquistava valore in quanto tale, scissa dal suo tradizionale valore d’uso (valore comunicativo), proprio della parola comunemente utilizzata. «Per Saba – ricorda G. Pozzi – scegliere la parola è un modo di scendere sul terreno dei contemporanei. E la poesia-manifesto d’apertura (Parole) non nasconde il distacco, l’ipoteca di una estrema diffidenza nei confronti della ‘servitù’ di Ungaretti, dell’estenuato abbandono di Quasimodo alla parola». Ne risulta una chiara dichiarazione di non partecipazione, di diffidenza per il mezzo espressivo15. Non a caso occorre detergere la parola stessa dalla menzogna accecante. La ricerca dell’«oasi propizia» è una precisa indicazione del proprio «prendere le distanze», nella ricerca di un’intima espressione di sincerità: la parola dove il cuore umano poteva, alle origini specchiarsi nudo, nella sua essenzialità. 

Abbiamo così visto delinearsi, nelle sue linee essenziali, il senso della poetica sabiana. Altre caratteristiche potrebbero aggiungersi, non ultime quelle del suo narcisismo, dovuto ad una carenza affettiva, nonché a certa classicità della sua poetica che non deve essergli stata estranea nel suggerirgli il classico titolo di Canzoniere. 

«La poesia di Saba è un dato quasi ‘animale’, la forma stessa del desiderio: in questo senso Trieste, e la balia, e la sua donna, e i fanciulli, e i sereni animali, e tutte le buone cose di questo mondo sono metafore della poesia, non suoi contenuti, essendo proprio il canto lirico il valore supremo, di cui tutti i valori nominati sono annuncio. Né si tratta, ovviamente, di chiusura nell’estetico, ché la poesia di Saba, in tutta la sua superbia, non ammette alcun lenocinio del ‘bello’: il poetico è valore supremo in quanto corrisponde alla sublime fioritura della disperazione»16. Un poeta, insomma, sempre lirico, anche quando sembra troppo realistico, e spesso, come si è visto, meno realistico di quanto sembri. 

1. G. Debenedetti, Saggi critici, Milano, Mondadori, 1952, pag. 163. 

2. G. Spagnoletti, Saba, Ungaretti, Montale, Torino, E.RI.. 1973, pagg. 13, 20. 

3. C. Bo, La nuova poesia: Saba, in Storia della letteratura italiana, Garzanti, 1969, Vol. IX, pagg. 336-337. 

4. U. Saba, Meditazione («Poco invero tu stimi, uomo, le cose. / Il tuo lume, il tuo letto, la tua casa / sembrano poco a te, sembrano cose / da nulla, poi che tu nascevi e già / era il fuoco, la coltre era e la cuna / per dormire, per addormirti il canto. / …Che millenni di strazi, uomo, per una / delle piccole cose che tu prendi, / usi e non guardi; .. ./ ma che gemma non c’è che per te valga / quanto valso sarebbe un di quel poco») vv. 11-16, 22-24, 29-30.

5.S. Guglielmino, Guida al Novecento, Milano, Mondadori, 1978, pag. 226/227. 

6. P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, pagg. 188-189.

7. W. Binni. Critici e poeti dal ‘500 al ‘900, Firenze, La Nuova Italia, 1951, pagg. 224-225., 

9. F. Flora, Storia della letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1967, Vol. V, pagg. 629-630. 

10. G. Spagnoletti, cit. , pag. 20.

11. C. Muscetta, Introduzione a Antologia del «Canzoniere», Torino, Einaudi, 1987, pag. XXXIV. 

12. U. Saba, Storia e cronistoria del «Canzoniere», In C. Muscetta, cit., pagg. 295-296; E. Gioanola, Storia letteraria del Novecento in Italia, Torino. S.E.I., pag. 183.

13. P.V. Mengaldo. cit. pag. 190. 

14. G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1970, pag. 58.

15. Ibid, pagg. 63-64. 

16. E. Gioanola, Storia della letteratura italiana, Milano, Librex, 1987, pag. 570.

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 19-30.




L’intrattenimento del gioco 

L’intrattenimento del gioco 
 
È fresco di stampa il libro Game show, logica e mercato del ricercatore siciliano Walter Ingrassia, che analizza i giochi televisivi, partendo dall’ipotesi che essi «- così come le altre forme d’intrattenimento – siano retti da una logica frattale per cui l’articolazione generale del prodotto si ripete in maniera identica e a diversi livelli di profondità all’interno di ciascuno dei sintagmi che la compongono». 

Pubblicato da Scripta Web di Napoli nel 2009, il libro è frutto di una ricerca che si rivela doppiamente utile, perché fornisce agli addetti ai lavori un quadro di esplorazione dettagliato e ai fruitori, invece, partecipa tutto ciò che sta dietro ai game show, comprese le leggi di mercato che tutto condizionano. È articolato in tre parti ed è corredato da un’ “Appendice”, relativa alla programmazione dei game show, con un quadro di dati della televisione italiana che interessano tutto il decennio 1998-2008. 

Il game show, nella prima sezione, è presentato nelle sue componenti e nelle sue classificazioni. È analizzato, ed è un aspetto portante del lavoro che l’Autore ha svolto, il “saper giocare”, alla cui base è il «tipo di abilità e le competenze che ciascun concorrente deve necessariamente mettere in atto per determinare la situazione ludica», ed è tenuta in considerazione la voce “competenza”, pervenendo, attraverso Eco e Greimas, e tenendo presenti Chomsky, von Neumann e Morgestern, al rapporto esistente tra la competenza, o le competenze, e la performanza. «La manipolazione del destinante – scrive l’Autore – consiste in una performanza cognitiva che modifica la competenza del soggetto operatore. Questi, dopo aver aderito ai valori proposti dal destinante ed aver virtualizzato il proprio programma narrativo, comincia a considerare l’ipotesi di compiere l’azione e per questo motivo si dota di un saper fare e di un poter fare necessari per agire». L’obiettivo è creare un tessuto narrativo che, da un lato, deve garantire la buona riuscita del gioco, dall’altro, soddisfare lo scopo che è quello di coinvolgere un maggior numero possibile di telespettatori. 

La seconda sezione affronta il format del gioco, su cui Ingrassia, partendo dalla valenza di significato che la voce acquista, si sofferma per dare un quadro d’insieme dei mutamenti fatti dagli anni Ottanta in poi, quando la fascia dei consumatori, e con essa anche quella oraria, si era allargata ad un pubblico più vasto. Il format diventa, così uno schema, più che un programma, o un contenitore entro cui trova spazio il contenuto, suscettibile di variazioni e adattabile, secondo le esigenze culturali dei vari Paesi, anche tenendo conto delle leggi di mercato che ora hanno a che fare con la globalizzazione. Più che mai, gli autori di format devono tener conto sempre della soglia di audizione, che deve essere alta, perché è con la pubblicità che le aziende televisive fanno grossi affari. In sostanza, pur investendo poco, interessa loro arrivare ad un pubblico abbastanza vasto per garantirsi un considerevole guadagno. 

La logica del game show è l’argomento della terza sezione. L’Autore prende il via da Aristotele, secondo cui una creazione poetica è un fare che si traduce sempre in un’imitazione, nel senso di ri-creazione di un qualcosa, e sostiene che «ogni testo, sia esso una puntata di un game show o di una fiction, si organizzerà intorno all’intreccio delle azioni dei concorrenti personaggi i cui caratteri, pensieri ed interiorità si costruiscono a partire dal loro ruolo narrativo all’interno del racconto ed hanno senso solo in rapporto ad esso». 

Le regole che costituiscono la logica del game show ruotano tutte sull’azione; è una logica rigida, all’interno della quale si muovono le varie sequenze che portano alla realizzazione del gioco, il quale, a sua volta, ubbidisce alle esigenze di intrattenimento degli spettatori. 

Game show, logica e mercato è un libro che suscita interesse, perché apre ai meccanismi che regolano questi giochi, presenti anche in ore preserali, e spiega cosa c’è dietro a tutta la loro proliferazione e come, alla fine, tutto si gioca sul fruitore. I nuovi mezzi tecnici, di cui si serve la comunicazione di massa per trasmettere i suoi messaggi, producono queste merci che, al pari delle altre, sono pronte per essere comprate e consumate. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 56-57.




V. Segalen, Gauguin nel suo ultimo scenario, Bollati-Boringhieri, Torino, 1990, pagg. 139.

Quando Segalen, medico, arriva alle isole Marchesi, il grande pittore era già morto. Da qui ha inizio il libro, da questo incontro che non c’è stato, per crearselo nella fantasia con brevi scritti, annotazioni e dialoghi, nei luoghi che videro Gauguin negli ultimi tempi della sua vita. 

Questi luoghi offrono all’autore lo spunto per portare avanti un dialogo, sempre conciso, da visionario (.Pensieri pagani», .La marcia del fuoco»), quasi smorzato, che contribuirà molto al consolidarsi della prosa novecentesca. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pag. 55




Un sogno d’amore

A. Cremona, Sogno d’Aldonza, Siracusa, Edizioni dell’Ariete, 1989, pagg. 77, L. 10.000. 

Non è facile imbattersi in un libro così agile come questo Sogno d’Aldonza di A. Cremona, agrigentino, alla sua prima esperienza di «teatro in musica», ma con un solido retroterra culturale e artistico. Basta solo ricordare la sua militanza nel campo della poesia (Occhi antichi, 1957, L’odore della poesia, 1980, per citare alcuni dei titoli più importanti) per renderci conto come questo lavoro sia «teatro di poesia» o, meglio, teatro dettato dall’animo sensibilissimo di un poeta di tutto rispetto. 

Partendo da un fatto realmente accaduto in Val di Noto,nella Sicilia orientale, Cremona ci dà una prova di scavo psicologico e di grande umanità, perché alla base della vicenda pone il sogno d’amore di Aldonza Santapau, bella nobildonna innamorata del marito, Antonio Piero Barresi, barone di Militello in Val di Catania. 

L’azione, con struttura circolare, si svolge in due tempi. Oltre ai protagonisti, come personaggi, troviamo un Mimo, alcune Voci e delle Donne. Nel primo tempo, come se la tragedia si fosse consumata, la condanna e poi la commutazione della pena di Barresi, mentre Aldonza, inizialmente incoraggiata dalle donne, si prepara ad un duetto che, se a prima vista può sembrare un canto d’amore, ha in sé oscuri presagi. 

Aldonza «Mi parli, nel vento, la tua voce. La brezza sparge ossute spine, lungo il sipario degli ontàni… 

Barresi In ciclo rocca – dove uomini-nibbi si scavano nidi – infrange il sole, nuvole, nel vento» (pag. 41). 

Ma ai sogni di Aldonza, tutti rivolti al marito, s’intrecciano altri sogni, si sciolgono e s’intrecciano per giungere all’epilogo. L’idillio dei due è minato dalla malvagità propria degli uomini che non finiscono di tramare oscuri complotti. Nel secondo tempo, dopo un crescendo sempre più marcato, l’entrata in scena e l’annuncio del Segreto, poi la furia punitrice di Barresi, accecato da una folle gelosia che lo rode. A predominare e ad imporsi non è Antonio Barresi, ma Pietro Caruso, il Segreto, che rivela una forte personalità, tanto coraggio e un amore sofferto, nascosto sino allora nel profondo del suo intimo. 

«Segreto – (con i polsi legati) Qualunque cosa vi dica, il mio destino è fatto; l’avete composto voi, con la vostra ira. Così, voi – che potete tutto – vi trovate in mio potere. Credete di avere scolpito meglio il mio destino – la mia fine – con la vostra ira; ma proprio la vostra ira – contemporaneamente, insieme – vi devia il destino: l’affida a me, alla risposta che mi chiedete, e siete voi stesso a chiederla. A determinarla, in modo che vi ferisca; che a sua volta, vi uccida. Più misero di me vi vedo, potentissimo signore. La verità (scandisce) che non vi ho offeso. Ma – a questo punto – se lo avessi fatto, come – voi – volete credere, con acuminata ostinatezza: qui vi dico, tra le fustigazioni brucianti – e la ruota che taglia l’anima – e le vostre tenaglie, tremende, in punto di morte vi dico – se l’avessi fatto – l’unica cosa sensata sarebbe tornare a farlo» (pag. 71). 

Sergio Campailla, nell’Introduzione, ha bene identificato nel Segreto Cremona stesso che non può non dire la sua a difesa di questa giovane, attratto, appunto, dai sentimenti profondi che ancora la legano, nonostante tutto, al marito. 

Questo di Cremona è un amore nell’amore, un sentimento forzatamente 

represso per paura di offendere lei, Aldonza Santapau, nella bellezza e nel suo sentire. 

Teatro di poesia, si è detto. Ed è, questa, un’opera di alta poesia, profondamente vissuta e sofferta, meditata in ogni parola, in ogni scansione, nel ritmo sapientemente dosato e orchestrato con rara efficacia e tanta abilità. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 44-45.




Scuola e riforma (a cura di L. Nicastro), voll. 3, Caltanissetta, Terzo Millennio Ed., 2004. 

Per la collana “Scuola del Terzo Millennio” è stata pubblicata una trilogia (Scuola dell’infanzia e Riforma; Scuola primaria e riforma; Scuola secondaria di I grado e Riforma) che vuole essere strumento valido di conoscenza nel momento particolare segnato dall’ entrata in vigore della riforma. 

I tre volumi, oltre a presentare la specifica normativa della scuola dell’infanzia, della primaria e della secondaria di I grado, sono corredati di un commento che ne agevola molto la comprensione e chiarisce aspetti che tuttora sono oggetto di contestazione (la figura del Tutor, ad es.) da parte di chi nella scuola, e in sintonia con la riforma, deve operare. 

È una pubblicazione indispensabile per gli operatori scolastici, i docenti, le amministrazioni e quanti vogliono documentarsi sul cambiamento in atto nella scuola per conoscerla e per seguire, ognuno nel ruolo che riveste, il processo educativo e formativo degli alunni. 

Ugo Carruba




SALVATORE ZARCONE, LA COSCIENZA MALATA (GIUSEPPE ANTONIO BORGESE), PALERMO, ANNALI DELLA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA DDELL’UNIVERSITÀ, 1985, PAGG. 221.

Questo saggio critico contribuisce notevolmente a far meglio conoscere la figura e l’opera di Giuseppe Antonio Borgese, che tanto rilievo ebbe nel suo tempo. Ma non solo. Zarcone gli riconosce il merito di avere enormemente contribuito a svecchiare la cultura italiana, aprendola all’Europa e al mondo. 

Salvatore Zarcone si rivela un abile indagatore, riuscendo a cogliere nel segno lo scrittore, il suo spessore e l’incidenza che tuttora ha nella cultura e nella letteratura dei nostri giorni. 

Per fare questo, il critico passa in rassegna la grande mole di scritti di Borgese (e su Borgese), e vi si sofferma per costruire tutto il mosaico di idee che furono del Polizzano, a partire dalle prime opere, fino alle Poesie, ai romanzi e ai drammi. Unico filo conduttore: la “costruzione” dell’Uomo. 

Il libro, La coscienza malata (Giuseppe Antonio Borgese), suddiviso in tre parti (1.- Borgese e la “crisi” primonovecentesca; II- Tra sradicamento e sperimentazione: le “Poesie”; III.L’Ottocento “edificante”), ripercorre le tappe del viaggio umano e artistico di Borgese, tappe ricostruite con competenza ed acume critico che, vuoi o no, rimandano il lettore a leggere ed apprezzare l’opera di questo siciliano che seppe imporsi con la sua presenza variegata e aperta alla modernità. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pag. 61.




La Sicilia rurale nell’inchiesta agraria di Abele Damiani

Salvatore Ierardi, con la sua sensibilità di storico attento e puntiglioso, ci dà un quadro della Sicilia rurale di fine Ottocento molto distaccato e obiettivo, anche se ha da fare i conti con carte spesso unidirezionali e faziose. 

Le inchieste, che fino a quel tempo erano state fatte, cercavano di attutire e giustificare i disagi della massa contadina e mineraria, nel nome del benessere collettivo, per cui poco importava se a farne le spese erano i più umili e i deseredati. 

Su questa linea d’onda era anche l’inchiesta Damiani che, per difendere la classe padronale di appartenenza, non dà peso alla triste condizione di miseria della povera gente e non tiene in alcun conto la schiavitù a cui erano soggetti carusi e donne. 

A niente, per lui come per il governo di allora, erano valse le denunce di Sonnino, Franchetti e Cavalieri, ed altri, autorevoli e lungimiranti, che avevano messo il dito sulla piaga e accusato di indifferenza e immobilismo la classe dirigente. 

Ierardi, servendosi dell’inchiesta Damiani, mette in risalto questo, sottolineando che i mali potevano e possono, allora come ora, essere evitati o, perlomeno, attutiti, per mezzo di una politica più attenta, non rivolta all’interesse dei pochi, e desiderosa d’un benessere allargato, che restituisca a tutti fiducia e dignità proprie di uomini liberi. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pag. 61.




Realtà e Fantasia

Conoscevamo Mario Tornello come pittore e poeta, ma, a considerare questo nuovo libro, la sua versatilità di artista va ben oltre. Il signor Piazza ed altri racconti ci dà la prova tangibile di uno scrittore che è sulla via giusta da seguire per ottenere risultati ancora migliori. Certo, in mezzo alla babele in cui ci troviamo in fatto di produzione libraria (e non solo in questa), dobbiamo dire che Tornello ci ha regalato un libro di buona fattura, e sarebbe riuscito meglio nel suo intento se avesse evitato alcuni ritorni di vocabolo che, a lungo andare, stonano e rompano l’armonia della pagina. 

Il signor Piazza è il racconto più corposo che dà il titolo al libro. È una patetica figura di uomo che, però, nasconde una forte personalità. Artigiano nato, creatore di statue religiose in un momento di crisi dell’attività che fino ad allora si erano tramandata da padre a figlio, Piazza abbandona tutto e tutti e va, da clandestino, Oltremare in cerca di fortuna. Non vuole altro che uscire dallo stato di solitudine, dare una svolta alla vita che niente sembra prospettargli e vincere la malinconia delle giornate asfittiche e sempre uguali. 

Il lettore si renderà bene conto che non è la ricchezza la molla che spinge .il professore., come viene chiamato dalla gente il protagonista, bensì la mancanza di un affetto sicuro, di un amore che gli spazzi via la solitudine che si porta dentro. Teresa, ex meretrice sua compagna, niente dice all’uomo che scompare senza alcun commiato. E quando, malgrado i soldi e la posizione che s’era fatta, gli verrà meno Elisabeth, la donna per cui era sembrato rinascere, il signor Piazza non saprà più reagire; .si senti improvvisamente estraneo in quella terra, come calatovi da una mano misteriosa. Ebbe più grave il complesso del clandestino e percepì la sua estraneità in quel luogo. (pag. 37). 

Apparentemente il protagonista subisce, ma – dicevamo – c’è in lui una personalità complessa, anche se spesso repressa, pronta, però, a venir fuori e ad imporsi, esplodendo ogni qualvolta vede calpestata la sua dignità: reagirà, volendo punire quell’America che gli si è mostrata ingrata, e ucciderà don Salvatore Aquino per vendicare, più che ogni altra offesa, l’oltraggio all’onore. Questo omicidio, vero che lo riscatterà agli occhi della gente, ma lo farà chiudere col mondo. quel mondo a cui aveva tante volte teso le mani, a costo di abbandonare il quartiere dove era nato, la .Vuccirìa». e i volti amici. e volutamente finirà i suoi giorni da barbone, ai margini della città che sempre aveva portato dentro di sé, specie durante il soggiorno americano. È il suo, un gesto di rigetto, un ribellarsi al destino che risolutamente si era accanito contro di lui. 

Bella è la descrizione iniziale e indicativi sono i tratti descrittivi che fanno da sottofondo alla figura tormentata di quest’uomo. 

Gli altri racconti (La trappola, Salvatore, carissimo cane, Il paese dell’anima, Kusna, il nano) sviluppano temi che ad una prima impressione potrebbero sembrare a se stanti, ma che poi, riflettendoci bene, tutti sono riconducibili all’uomo, visto nelle varie sfaccettature e con i suoi problemi. 

Sempre curata è l’affabulazione. E Tornello non si perde in lungaggini, anzi, gli bastano poche battute per presentarci una situazione o uno stato d·animo. Le frasi sono come piccole pennellate, sicure e incisive. Il pittore dà una mano allo scrittore. e la prosa è piacevole. con punte squisitamente letterarie. 

“Il paesaggio va imbiancandosi; la neve caduta durante la notte ha disteso i suoi bianchi lenzuoli ed il silenzio antico è stracciato da un’auto rabbiosa che sale in direzione di un villaggio dove è attesa” (pag. 56). 

È un passo della Trappola che a tendere, stavolta, è la natura, volendo punire certi uomini per la loro malvagità. La fuga in montagna, dopo una rapina e un conflitto a fuoco da cui uscirà fuori un morto, si rivelerà inutile a causa della neve e di una bufera che costringeranno i due banditi a trovare rifugio dove rimarranno intrappolati e stretti da una morsa di freddo e di ghiaccio. 

In Salvatore, carissimo cane c’è, invece, tutta la generosità e la fedeltà dell’animale, non sempre ripagate, come in questo caso, dall’uomo che al momento opportuno fa di tutto per liberarsene. Il cane è il vero personàggio del racconto, Salvatore. per aver salvato il figlio del vecchio zio Filippo, ed ora, incurante del male subito, gli riporta la giacca che aveva dimenticato. 

Kusna, il nano ripropone l’antica sempre nuova aspirazione dell’uomo a volare. Kusna, quasi per un dono di natura che, a sua volta, lo aveva fatto nano e brutto, vola sfiorando le nuvole e il mare, godendo l’ebbrezza dello stare in alto, al di sopra pure della malvagità degli uomini, i quali mai si erano interessati a lui se non in quella occasione, rosi dall’invidia e desiderosi di emularlo. Ma la bontà è negli animi sensibili. 

“Kusna compì una larga virata verso la costa, ormai illuminato nella mente dall’amore immenso per i suoi bimbi cui si legava ogni giorno di più. Non avrebbe potuto rinunciarvi, sarebbe stato come spezzare l’unico filo …” (pag. 114). 

Questi racconti – dicevamo – sono tutti legati tra loro dal filo sottile che porta alla nostra misera umanità. Ed è quanto di più vero e di più nobile l’Autore ci possa dire, quasi a conforto e ad indicarci che, in fondo, sta a noi condurre il mondo verso una vita migliore, e che ci vuol poco per rendere felice chi sta peggio di noi. Tornello dice questo più col cuore che con le parole, perché non ha tanta fiducia negli uomini. Piuttosto preferisce rivolgere la sua attenzione alle piccole creature indifese, o guardare indietro nel tempo e ritrovarsi bambino. Come nel Paese dell’anima, dove con soffusa nostalgia va alla ricerca delle proprie origini che, poi, sono le nostre. 

È per questo che il libro non solo è interessante, ma è utile, perché scava, come gli acquazzoni, sui nostri io frastornati dalle tante sollecitazioni quotidiane, e ridimensiona, facendoci scoprire una sensibilità che sembra appartenga ormai ad altri tempi. 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 73-75.




P. Russo, Siculospirina (45 compresse di purissimo siciliano), Palermo, Flaccovio, 2010.

 Lingua, altro che dialetto!

Libri come questo dovrebbero essercene tanti, persino incentivati e voluti dalla Regione Sicilia che dovrebbe tutelare il siciliano come lingua del popolo e, ancora, attivarsi perché sia insegnato alle giovani generazioni e usato, ricorrendo ad ogni mezzo, anche legislativo, pur di raggiungere questo l’obiettivo. Ma la Sicilia non ha trovato l’uomo che faccia attuare lo Statuto e continua ad avere un’autonomia che non ha niente a che vedere con quella auspicata dai padri propugnatori!

Ritornando al libro, Russo esamina alcuni vocaboli (Accùra, canzìati, mòviti, ammuccàri, spirtìri, ecc.) e fa notare l’equivoco di cui sono carichi o il significato pregnante che difficilmente troviamo in un’altra lingua. Il tutto tra il serio e il faceto, con una scrittura che coinvolge e spinge alla lettura. Parafrasando il sottotitolo, il libro è composto di 45 vocaboli, presi in esame così come si prendono le compresse che sono sempre prescritte in dosi, senza l’assillo di ingoiarle col pericolo di procurarsi il male.

Il “medico” Pippo Russo prescrive una lettura che aiuta ad assaporare la ricchezza, la complessità ma anche la bellezza e, quindi, la dolcezza di questo linguaggio che, prendendo come l’ape da fiori che si sono radicati (tanti quante le culture e le dominazioni) nel corso dei millenni in terra di Sicilia, dice più di quanto non si parli.

L’ultima delle otto sezioni del libro è dedicata alle osservazioni-riflessioni che noi, tenendo conto dell’incipit di questa scheda, inviamo ai deputati regionali e ai detentori del potere perché possano intervenire a tutela del patrimonio linguistico-culturale che è traccia delle nostre migliori tradizioni e invidiabile vestigia dell’antichità.

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 63.




P. Marrone, Mafia (Guida bibliografica), Trapani, Cartigraf, 1993, pagg. 101.

 Il prof. Paolo Marrone, attento osservatore delle realtà sociali, con questo libro ha voluto mettere a disposizione degli studiosi del fenomeno “mafia” uno strumento indispensabile che, se offre una panoramica di quanto si è scritto sul tema fino al 1993, aiuta nella ricerca, avendo selezionato ben 1750 pubblicazioni, suddivise in: Repertori bibliografici, Inchieste e Atti parlamentari, Opere generali sulla Sicilia, Questione meridionale, Articoli di riviste e periodici, Saggi e opuscoli, Narrativa, poesia, teatro e varia. 

L’Autore nell’introduzione tiene a sottolineare che l’opera non ha altro interesse se non di essere di ausilio a quanti si accingono a studiare l’argomento, qualsiasi sia l’aspetto che si vuole approfondire. Qui sta, secondo noi, l’importanza del libro che, in modo agile e sistematico, offre .un bilancio il più completo possibile dei risultati cui oggi sono pervenuti la pubblicistica e la storiografia sulla mafia, anche attraverso l’indicazione di opere che non sembra abbiano legami diretti con l’argomento in questione, ma la cui conoscenza può indubbiamente facilitare un approccio sempre più critico ed organico nei confronti del fenomeno della criminalità mafiosa-. 

Maggiore merito acquista l’opera se si considera nata nell’ambito dell’istituzione scolastica, nel nostro caso, del Liceo Scientifico “P. Ruggieri” di Marsala, sensibile alle istanze della vita sociale e culturale della collettività. È un esempio di come la scuola può ancora essere al servizio della società, offrendo dei risultati che, al di là delle parole, testimoniano una operosità altamente formativa e qualificante. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 61-62.