FRANCESCO OLIVIERO, Acqua e coscienza

Vita in movimento: materia e spirito 

Acqua e coscienza è un libro che suscita curiosità, perché è insolito nella tematica o, meglio, nell’abbinamento che fa tra l’acqua, come elemento fondamentale per la vita del mondo, e la coscienza, che è il sentire dell’uomo, la caratteristica che lo fa essere quello che è. Sembra non abbiano niente in comune, eppure un accostamento si può fare, e c’è, in teoria, anche se spesso siamo noi a condizionarlo e a non tenerne conto. Se l’acqua è vita e la coscienza è l’essere individuale in divenire, non c’è dubbio che entrambe sono energie che operano in direzione del Bene; quando, invece, tra loro non c’è corrispondenza vuoi dire che si è smarrita la giusta direzione, e siamo all’opposto, coincidente con il male, fisico o spirituale. È, questa, una motivazione che sicuramente ha spinto Francesco Oliviero alla stesura di questo libro che, come con i lavori precedenti (Benattia e Messaggio di una vita), tende a ridare fiducia all’uomo, allontanandolo dalla paura della malattia, e aprirlo alla vita autentica, a cui dovremmo aspirare. Se, poi, vogliamo trovare ancora altre motivazioni all’assunto che il libro sviluppa, basti citare l’inizio della creazione o il pensiero degli uomini antichissimi. I versetti della Genesi, relativi al primo giorno della creazione: «Sia fatta la luce, e lo spirito di Dio aleggiava nell’acqua » fanno riferimento alla luce e all’acqua, 

entrambe fonti di vita. La luce non è soltanto in Dio, ma in ciascuno di noi che vi ve nel bene, così l’acqua è pregna di Dio, iniziatore e datore della vita, e noi partecipiamo di questa pienezza. Ma bisogna avere l’animo sgombro di ogni miseria, e puro, per poterne godere. Il Poverello d’Assisi, con occhi bambini, è riuscito a coglierla in tutta la sua magnificenza, e con umiltà la cantò nella sua preghiera che è un inno alla vita, oltre che uno dei primissimi della letteratura volgare. 

La filosofia antica dà forza a queste affermazioni con Talete (VII sec. a.C.), che non solo riteneva l’acqua il principio primo, ma che fosse in essa una potenza divina che impregnasse di sé ogni cosa, per cui tutto è vita, forza dirompente, anima che nutre ogni cosa (panpsichismo) ed è «pieno di dèi». L’acqua, elemento portante del mondo fisico, è così correlata a Dio, che è coscienza universale, e all’uomo, coscienza individuale. L’acqua e la coscienza rappresentano vita in movimento, dinamismo che coinvolge il corpo e lo spirito, l’anima, questo vento vitale che tutto avvolge e tutto orienta. Corpo e spirito operano all’unisono, sempre che si voglia. La libertà, contrastata nella vita d’ogni giorno, è la conditio sine qua non di questa simbiosi che esalta l’uomo, lo innalza al cospetto di Dio e lo rende partecipe di Dio stesso. 

Acqua e coscienza è un libro interessante, che offre tanti spunti alla riflessione, ma è soprattutto un libro attuale e valido, il cui contenuto è stato sempre oggetto di dibattito culturale. Infatti, più che mai, dal secolo scorso ad oggi, la scienza, la letteratura, la filosofia, hanno messo al centro dei loro interessi la condizione umana, perché il loro obiettivo è ridare all’uomo la dignità e il rispetto che gli sono propri. 

Oliviero, dal punto di vista medico-scientifico, si muove su questa direzione, puntando sul paziente-uomo che abbisogna di supporti che lo facciano muovere e interagire con la realtà di ogni giorno per riscoprire le potenzialità che sono in lui ed essere felice. E non occorre gran che per esserlo! Già Democrito, l’atomista greco del VI sec. a. C., asseriva che «non è la ricchezza a farci felici, bensì l’anima, che è la dimora della nostra sorte» (fr. 171, Diels-Kranz). 

È un discorso che affascina e che invita alla riflessione, cosa che non c’è al giorno di oggi, nell’epoca della globalizzazione che tutto mercifica; perciò non è facile portare avanti un discorso di tal genere; è difficile persino essere se stessi, si agisce come automi, non si è capaci di decidere, e spesso sono gli altri a farlo per noi. È questa la finalità degli umani? Il libro di Francesco Oliviero, partendo da questi presupposti, vuole spianarci la strada per una vita più autentica, veramente e pienamente vissuta, nel segno dell’amore di sé e degli altri, della libertà da ogni forma di condizionamento, che, se non è manifesta, per lo meno relega e impedisce di essere quelli che dovremmo e finisce col far dimenticare di essere. Ne erano convinti gli esistenzialisti, lo era Heidegger, e lo è Oliviero. Tutti asseriscono che l’uomo ha dimenticato di essere, e se vuole vivere 

da “Spiragli”, 2009, Schede 

nel senso pieno del termine, deve recuperare il suo essere, e tutti indicano una strada. Per questo, ad inizio della «Introduzione » il Nostro scrive: «Questo libro è stato scritto per arrivare alla coscienza delle persone e dare un contributo al senso della vita, facendo riferimento all’elemento più abbondante nel pianeta e in noi stessi, l’acqua, la grande madre, che è generatrice di vita e della nostra origine, sostiene il nostro presente ed è la chiave per comprendere il nostro futuro.» 

Da medico specialista qual è, ci si aspetterebbe che parlasse di espedienti medici per risolvere i problemi legati alla salute, non di quelli che sono in noi in quanto uomini. Ma lui, smettendo il camice medico, parla da uomo ad uomo, elimina la distanza che separa il medico dal paziente, gli si mette dinanzi e innesca un dialogo salutare, se non per il corpo per la stessa anima che, nonostante la sofferenza di cui risente in stato di malattia, si ritrova e trova la forza di continuare a pulsare e infondere vita. 

Il libro, che parla di acqua, dei suoibenefici, e del metodo usato per vitalizzarla, si fa paladino di una parola buona medico-scientifica che ha l’ intento di mettere in osmosi con il mondo che ci circonda e di riportarci al senso della vita. Esso è pervaso da questa filosofia che non annienta, anzi mette chiunque voglia nelle condizioni di risalire la china con consapevolezza e responsabilità, senza altra via di scampo in un futuro a venire o in un passato che non c’è più, bensì nel presente, perché è nel presente che si vive, che bisogna fare le proprie scelte, che bisogna essere. E si è solo quando consapevolmente si elimina ogni forma sclerotica che impedisce di innalzarci e cogliere la parte buona, divina che è in noi. Ha ragione Agostino, ha ragione Plotino, ma si trovano nel giusto tutti i filosofi che hanno messo al centro della loro ricerca l’uomo, perché è l’uomo col suo slancio interiore che, se non Dio, coglie il senso della vita e se lo spiega. È una filosofia che non ha niente di trascendente, anche se poi vi si arriva, perché poggia tutta sull’uomo e dall ‘uomo dipende nel bene o nel male. 

Ugo Carruba 

da “Spiragli”, 2009, Schede 




F. Provenzano, Il Fascio dei Lavoratori di Ravanusa

Caltanissetta, Terzo Millennio Ed., 2001, pagg. 200. 

Il Fascio dei Lavoratori in Sicilia costituisce, pur nella sua breve esistenza (1892-1893), un momento fulgido, irripetibile, della storia isolana e nazionale. I lavoratori siciliani, da sempre abbrutiti e resi schiavi dalle classi agiate, scoprendo l’arma dell ‘ associazionismo, fanno sentire forte la loro presenza e riescono a creare quelle premesse che facevano bene sperare in un riscatto ricco di aspettative. Ma per poco, perché il governo Crispi troncò con la forza delle armi quelle speranze nel 1894, quando pose sotto assedio l’Isola. 

Francesco Provenzano, con questo suo lavoro, che va letto e diffuso ovunque, e soprattutto nelle scuole e tra i giovani, contribuisce a far luce ad una pagina bella della storia del XIX secolo, ripercorrendo, con l’ acume di storico qual è, quel felice momento di Ravanusa (e di tutta la Sicilia), paese agricolo-minerario dell’entroterra agrigentino, con risorse e problemi identici a tante altre realtà isolane, bisognose tutte di un significativo cambio di rotta per uscire dall’arretratezza e migliorare il tenore di vita degli abitanti. 

Il libro consta di tre parti (“Ravanusa nel 1893”, “I Fasci dei Lavoratori in Sicilia”, “Il Fascio dei lavoratori a Ravanusa e gli avvenimenti del 1893”), tutte corredate di altrettante sezioni, con fotografie e documenti che calano nella realtà del momento il lettore e lo coinvolgono. Chiudono il lavoro una ricca rassegna di contributi risalenti agli anni 1987-1994, e un ritratto che lo scrittore e critico letterario Giuseppe Zagarrìo delinea del padre, dott. Vito, che del fascio di Ravanusa fu un accanito promotore e protagonista. 




F. Leni di Spadafora, Storia dei Siciliani (a cura di S. Vecchio), Caltanissetta, TEV, 1991, pagg. 230.

 

Questa di Leni di Spadafora è un’opera di particolare interesse culturale per la Sicilia e quanti ad essa si avvicinano, e la Tecnicografica Editoriale di Caltanissetta ha fatto bene a riproporre, in linda veste tipografica, curata e arricchita di note da S. Vecchio, abbellita da splendide fotografie a colori e in bianco e nero. 

Indubbiamente è un’opera di divulgazione che, però, vuole mettere in risalto il carattere dei Siciliani e l’enorme patrimonio storico culturale di cui sono depositari. 

<<Il bisogno di verità spinge il Nostro – scrive S. Vecchio – a servirsi di tutto ciò che può riuscire utile a dare un’immagine obiettiva della Sicilia. Per questo non trascura niente del popolo siciliano: l’arte, la letteratura, la cultura in genere, ogni tipo di documento storico o letterario insomma, che possa contribuire alla riuscita del suo intento… 

L’Autore, pur smussando certi particolari, non perde di vista la continuità storica e dà un quadro completo della Sicilia, servendosi di un linguaggio privo di ogni ridondanza ed ampollosità. E, ancora, come se non bastasse, si legge d’un fiato, perché il Nostro vive e sente il fatto storico in prima persona, partecipando le emozioni, le gioie, il dolore che gli eventi rivissuti a tavolino gli procurano>>. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pag. 57.




F. Incandela, Ailanto, Castelvetrano (Tp), Mazzotta Ed., 1996, pagg. 58.

Se la poesia è offrire e offrirsi,quello che in questo libro sorprende è la sincerità con cui Francesca Incandela espone stati d’animo e sentimenti. E non è poco, se consideriamo l’artificiosità che è in tanta poesia d’oggi. 

Più che il tono discorsivo, che spesso perde e scade nel prosastico, ci piace sottolineare l’accento lirico ben riuscito, la cesellatura del verso di alcune che riteniamo siano le liriche più belle di tutta la silloge. Si vedano “Sud”, “Selena”, “Indefinito”, “Non voglio”, “Terra”, dove evidente è la partecipazione , e pregnanti sono le immagini, sia che si riferiscano alle realtà sociali della sua terra o a situazioni intimo-esistenziali. In ogni caso, c’è la misura del verso e la sensibilità del poeta. 

Tra tutte citiamo “Sud”: « Ho intrecciato / fili di grano / nel paesaggio aspro / della mia Sicilia / solo papaveri rossi nella radura… / sgorghi di sangue / in terra ferita.» Sono pochi versi, in cui F. Incandela riesce bene a dire la sofferenza di chi vede deturpata l’immagine della sua terra che, se non ci fosse la bruttura del sangue sparso, sarebbe color oro del grano e rosso di papaveri. 

Un’altra lirica, anch’essa breve, ma bella e luminosa come la fanciulla che ritrae, è “Eleonora” ( « Hai negli occhi / da cerbiatta / le mani impacciate / coi seni ancor acerbi. / Improvvisi i tuoi rossori / sotto l’azzurro / pastello del cielo »). La poetessa la ferma sulla carta con poche, concise parole, per paura che il tempo possa sfiorarne la bellezza. 

Speriamo che Francesca Incandela possa darci altre prove come queste, ed è il nostro augurio, per continuare sicura e trovare la strada giusta da seguire. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pag. 44.




F. Centonze, Al di là della siepe di bosso (Romanzo), Firenze, 1995.

Dalla Prefazione al romanzo dell’amico Antonino De Rosalia pubblichiamo questo breve stralcio che sintetizza la portata umana e letteraria di Ferruccio Centonze: 

-Anche questa volta l’opera del Nostro nasce sotto il segno della pietà umana, ma si tratta di una pietà più sofferta, perché la penosità dei fatti narrati coinvolge l’autore più direttamente […]. La materia, insomma, ha un fondo autobiografico molto spesso, e non nel senso in cui ogni scrittura di poeta è, inevitabilmente, autobiografica, bensì in quello, più proprio di trasfigurazione di esperienze in gran parte realmente “partecipate”. La pietà, allora, non è più rivolta verso taluni soggetti o ambienti esterni, che peraltro l’umana considerazione salva dal rischio del nudo colore realistico, ma appartiene in uguale misura al narrato e al narrante, si tramuta quindi in sincera tristezza e pervade uomini e cose: sunt lacrimae rerum, con quel che segue». 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 31-32.

 




F. Boesch, Boris L. Pastemak (poeta e uomo incompreso), Roma, Edizioni del Giano, 1991, pag 47.

L’agile volumetto (il saggio è stato premiato a Grosseto “Premio Maremma ’90) traccia, in un quadro d’insieme, la figura e l’opera di Pasternak, mettendone in evidenza il pensiero e la poesia. 

L’Autrice, per affinità di sangue e di sentire (suo padre era russo, è amorevolmente attratta dalla personalità dell’uomo e del poeta. E questo affetto trapela dallo scritto, anche se la stessa Boesèh lo confessa nell’Introduzione. 

Il libretto risulta ben fatto (la formazione, l’incontro con i grandi del tempo, il clima in cui cominciò a lavorare P.), e ben delineata è la poesia. Anzi, ciò che la Boesch vuole evidenziare di più, è l’importanza di Pasternak poeta, aspetto meno conosciuto dall’autore del Dottor Zivago, che lo rivela più che mai vicino ai problemi del suo tempo ed è anticipare dello stesso romanzo. 

U. Carruba

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pag. 83.




E. Charles-Roux, Voglia d’Oriente, la giovinezza di Isabelle Eberhardt. Bompiani, Milano, 1990, pagg. 451.

L’autrice di Dimenticare Palermo ritorna in libreria con questo nuovo libro che ricostruisce la breve vita di Isabelle Eberhardt, figlia illegittima della vedova del generale russo de Moerdr e di un precettore. Non potendo rientrare in patria perché illegittima, vivrà una vita irregolare, come irregolari saranno i suoi studi, pur avendo acquisita un’ampia conoscenza tale da parlare e scrivere in molte lingue. 

Isabelle, figlia della libertà, amerà sempre la libertà e la cercherà in Europa e in Oriente, nell’amore e nella sete di conoscenza, nell’avventura di una vita nomade e nelle sue passioni che tutto le fecero provare. 

Il libro è obiettivo e piacevole a leggersi, ricco di una documentazione di scritti editi e non editi dell’Eberhardt. 

Donato Accodo.

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pag.  54




Disegni e grafiche di Emilio Guaschino. 1966-2004 (a cura della Provincia Reg, di Palermo), Palermo, Mazzone ed., 2004, pagg. 178.

 La Provincia Regionale di Palermo, sensibile alla cultura e all’arte, pubblica un voluminoso catalogo di Disegni e grafiche di Emilio Guaschino.1966-2004, e fa cosa gradita al pubblico sempre più largo di estimatori che con interesse segue il percorso umano ed artistico di quest’uomo schivo e riservato. 

Guaschino è un pittore che conosciamo da tempo e ciò che caratterizza la sua arte (a parte il buon utilizzo dei mezzi e delle tecniche, di cui è maestro) è l’impegno a favore dei meno fortunati e delle classi umili, che rivendicano il diritto di esistere e, perciò, l’ attenzione dello Stato, perché possa garantire loro un tenore di vita migliore. E per questo che egli merita la stima di quanti (a cura di U. Carruba) s’avvicinano all’arte e, in particolare dei Siciliani che riscoprono in essa le loro radici profonde, alitanti di terra e di sudore. 

Nel segno grafico di Guaschino riemerge, attraverso figure e volti a noi familiari, un mondo rurale ormai lontano, appesantito dal duro lavoro, pregno di un’umanità silente, ma stanco di aspettare ancora un riscatto. Perciò, dice bene Salvatore Vecchio quando scrive in un articolo ri portato i n catalogo che « l’arte di Guaschino va al di là del fatto pittorico. La pittura è solo un pretesto per esternare sentimenti a lungo repressi, e diviene denuncia dei mali che travagliano il mondo e non solo la Sicilia o l’Italia». 

Il nostro augurio è che il catalogo venga diffuso e fatto conoscere, specialmente tra i giovani, per la sua valenza didattica, oltre che artistica, il cui merito è quello di avvicinare ancor più alla Sicilia e di farla amare. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 56-57.




D. Pacino, I colonnelli verdi  pref. di S. Timpanaro, Pellicani, 1990, pagg. 240. 

Partendo da un esame dei mutamenti che da qualche anno si stanno verificando (crollo economico e politico del socialismo reale dei Paesi dell’Est, le posizioni degli ecologisti e la realtà attuale), l’Autore di Imbroglio ecologico, in questo suo nuovo lavoro, non si dimostra affatto convinto che le cose possano tornare alla normalità, perché oggi come oggi il mondo è regolato dalle leggi della tecnologia. Gli ecologisti stessi lottano contro i mulini a vento, perché non affrontano alla base il problema ecologico. 

Un’unica via di salvezza, per Pacino, potrebbe essere un .ecocomunismo» capace di condurre alla consapevolezza l’uomo che mai come ora ha perso la sua vera identità

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pag. 56.




D. Nardoni, I Gladiatori Romani E.I.L.E.S, Roma, 1989.

Altro lavoro, frutto di meticoloso studio e di ricerca, questo di D. Nardoni, che arricchisce ancora di più la C.D.R. della E.I.L.E.S.. 

Il Professor Nardoni, con questo libro corredato di splendide fotografie, ci fa seguire da vicino i giochi gladiatori dalle origini sino alla loro estinzione sotto Onorio Imperatore. 

Partendo da un Anteloquio, l’A. analizza le varie fasi e gli aspetti del circo, pervenendo a risultati veramente sorprendenti. Il “gesto” per cui -si decideva della vita e della morte dei gladiatori che per la vita e per la libertà, per la palma e per il premio si affrontavano nell’arena», il motivo per cui i gladiatori lottassero con il piede sinistro scalzo e la sciarpa al collo, la moltitudine di gente che roteava attorno al circo, essendo esso richiamo indispensabile per il popolo di Roma, i gladiatori stessi che erano uomini oltre che lottatori, sono alcuni degli argomenti del libro, che contiene notizie utilissime per la conoscenza della romanità. 

IL modo di porgere, a parte la competenza tecnica e specialistica dell’A, è lineare, discorsivo, accessibile. Ma il pregio del libro – secondo noi – sta nella partecipazione con cui Nardoni segue l’evolversi di questi giochi, seppure con un evidente pizzico di nostalgia,perché il tempo travolge non solo ciò che di effimero 

c’è nell’uomo, ma esso stesso e, per colpa sua, quei valori che lo hanno sostenuto nella sua esistenza terrena. -La “famiglia” nasce su precisi valori, sugli stessi valori nasce e si regge la “società” formata dalle “famiglie”, gli stessi valori reggono lo “stato”. La graduale perdita dei valori distrugge la “famiglia”, rovina la 

“società”, sfascia lo “stato”». 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pag. 56.