CHIARA TOZZI, Condividere, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a. Palma, Palermo 2005.

Otto racconti di storie diverse: un campionario di nevrosi comuni 

Racconti di vita e di sentimenti «quotidiani» nell’ultima raccolta di racconti della scrittrice toscana Chiara Tozzi, docente di psicologia a Roma. Il libro ha avuto un brillante esordio a Roma, nella prestigiosa sede dell’Enciclopedia Treccani, tenuto a battesimo da Barbara Palombelli, Filippo La Porta e Franco Tatò. 

Svariati aspetti dell’animo umano, un campionario di allegre e comuni nevrosi che non possiamo non sentire anche nostre, lasciate dall’autrice laconicamente sulla pagina in uno stile scarno ed essenziale. Otto racconti di storie diverse ma accomunate da una continua tensione d’ordine esistenziale e morale che confluisce nella possibilità di condividere, di affrontare insieme le emozioni che dividono e al tempo stesso uniscono. In questi racconti della Tozzi,si scorge un interesse particolare per personaggi sfasati rispetto alla normalità offuscata ma accettata da tutti. Incontriamo, infatti, i personaggi più vari, figure di una umanità defilata e senza pretese che emergono raccontandoci, nei fatti, una possibilità diversa di stare al mondo. L’autrice scrive di donne e di bambini, di amori un po’ proibiti, di piccoli fatti significativi: una ragazza che non ama i colori ripercorre la trama della sua vita in bianco e nero con l’uomo da cui poteva avere un figlio, un musicista che non ama la mondanità si reca a una cena affollata con la speranza di trovarvi la donna amata … Il finale dei racconti talvolta riscatta le cupezze e le conflittualità del nostro tempo e pare ristabilire una possibile lettura positiva dei segni del mondo. A volte ci si imbatte in momenti anche scomodi, in sgradevoli disvelamenti di debolezza, come il fragile legame fra due fratelli messo alla prova dalla spartizione di un’ eredità dopo la morte del padre, in lontane memorie di infanzia, quella di un bambino che ferisce con un paio di forbici la compagna di scuola. Storie, come quest’ultima, vogliono far luce sul mondo dell’ infanzia e dell’ adolescenza e aiutare chi non è più ragazzo a ricordarsi di quell’ età per comprenderla e rispettarla. Un modo più immediato e meno sterile per unire le due età. 

Dai racconti emerge un continuo scavare, che a tratti può sembrare eccessivo, un volere trovare a tutti i costi qualcosa da evidenziare, da segnare col dito, perfino nella più anonima delle esistenze. Ma è questo il bello dei racconti di Chiara Tozzi. L’autrice non va alla ricerca di drammi, di avvenimenti eclatanti. In ogni suo racconto c’è una lente di ingrandimento, un caleidoscopio di umanità. Non ci sono mai le frasi definitive, quelle frasi, cioè che sembrano voler racchiudere tutto il significato dell’esistenza. Nel suo mondo letterario c’è soltanto spazio per incursioni rapide ed efficaci, nella vita per quello che è adesso e qui, nei perché e nei modi di manifestarsi dello spirito vitale dei suoi personaggi, che pur nella loro differenziazione hanno un comune denominatore, quello di essere molto umani. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pag. 52.




CAMILLA SANTORO, Io parlo italiano, collana «Memorie / Testimonianze», I.l.a. Palma, Palermo, 2003.

Una esperienza didattica emozionante nella testimonianza di Camilla Santoro 

«Educare – scriveva Platone – vuole dire resuscitare esistenze morte ed aiutare a nascere esistenze, nasciture, indurre l’altro alt’ auto-educazione per entrare nella realtà piena di se stesso». L’ultimo racconto di Camilla Santoro rappresenta la metafora del genere umano che spazia, nella sua molteplice diversità, alla ricerca della luce, la luce di una cultura che accolga tutti all’insegna dell’appartenenza alla «famiglia umana » quale parte insostituibile del tutto. 

È quasi un romanzo denso di emozioni, che descrive un’esperienza didattica di laboratorio teatrale nel grigiore di un’aula del «profondo Sud», con lo scopo di proporre una riflessione sulle possibilità e modalità di partecipazione di insegnanti e studenti alla gestione della vita nella classe come comunità sociale. Protagonisti gli studenti di un ipotetico gruppo-classe, accomunati da un potenziale di umanità, che se da un lato ne scopre la fragilità, dall’ altro ne potenzia la forza nel valore «solidarietà» ritrovato grazie al credo e al potenziale volitivo della giovane insegnante Adriana, pronta a favorire l’autonomia personale, l’autostima, l’acquisizione del sé e l’appartenenza ad un gruppo con le sue regole e le relative responsabilità. 

L’esperienza di Adriana fornisce, nel suo semplice percorso, validi spunti di riflessione. Attraverso la rappresentazione teatrale della pirandelliana «Giara», che ha il potere di avvicinare i giovani al piacere della lettura e alla personale rielaborazione del sapere, propone ai suoi studenti di riappropriarsi dell’ orgoglio della identità nazionale, che viene evidenziato da ognuno, anche da Filippo, portatore di handicap, nel tentativo di usare correttamente la lingua italiana. Ne consegue l’abbattimento dei separatismi che hanno spesso afflitto i ragazzi dal Nord al Sud e, in un momento ormai plurietnico, il riappropriarsi della lingua comune rafforza la loro identità. 

L’esperienza di laboratorio teatrale e l’accuratezza nella scelta dei ruoli da interpretare rappresenta, per gli studenti, una delle rare occasioni per esprimere liberamente il proprio io, «un io che spesso non ha la capacità di rivendicare il suo semplice diritto all’ esistenza, ad uno spazio vitale che lo vedesse indiscusso attore della sua vita»; come nel caso di Filippo che, sia pure con una minima particina, riesce a sentirsi, finalmente, integrato nel gruppo-classe e a trovare espressione di sé nell’uso della varietà dei colori. L’aula diventa, così, una sorgente di identità, il luogo della civile convivenza e del reciproco arricchimento, in cui «l’io esisto» trova riscontro e nutrimento nel mondo relazionale del gruppo-classe. Uno spaccato della società che abbraccia un mondo variegato e multirazziale e che fa intravedere, grazie alla ritrovata umanità, la speranza nel domani. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 57-58.




BIAGIO SCRIMIZZI, ViZiai supra ‘na nuvula, Ila Palma, Palermo, 2007. Prefazione di Pino Giacopelli.

La capacità espressiva del dialetto e la poesia di Biagio Scrimizzi 

Biagio Scrimizzi, programmista-regista alla Rai, autore di testi radiofonici e televisivi, ma soprattutto poeta innamorato della parola e affascinato dal ritmo, ci conferma con questa silloge la capacità del dialetto di raccontare ed esprimere, in modo autentico e persuasivo, mondi geografici e interiori. Ci si chiede allora: ma di che cosa parlano queste poesie? L’uso del dialetto potrebbe, infatti, fare pensare a descrizioni ed evocazioni di luoghi, storie, sentimenti radicati nella Sicilia di Scrimizzi. Invece no. O meglio, sì ma in misura assai contenuta. I temi su cui sono prevalentemente incentrate queste poesie sono la natura, gli affetti e i ricordi, la personale visione del mondo del poeta. A una prima lettura ci si rende conto che il poeta va diritto al cuore dei sentimenti universali di ogni tempo; va oltre i confini del luogo natio senza prescinderne, senza abbandonare il viatico materno, primigenio, la salda piattaforma da cui scrutare e leggere il mondo, esprimendolo e infine comunicandolo. Un mondo ampio, perciò, e un dialetto che ci conduce nella lingua transazionale della poesia. Lo sguardo al cielo, all’orizzonte (i versi di questa silloge sono ali di vento, nuvole) potremmo anche dire, e i piedi ben piantati in terra: la stessa che lo ha originato e nutrito. 

Qua e là, poi, oltre a un susseguirsi di immagini e colori di suoni, scenari naturali colti nella loro dinamicità, nel poeta si fa largo quel filo allusivo a lui così congeniale, con cui riesce a stabilire un vincolo affettivo di comunicazione con gli altri. Ne sono spia testi come funci l’autunnu, Unni li to paroli, Aprili chi mori, La cannata tu sì, dove con una concentrazione straordinaria, la condizione umana ci viene offerta con una intensità poetica e figurativa raggelante e sublime al tempo stesso. 

La scrittura di Scrimizzi è sobria ed essenziale, vi s’intuisce un lungo lavoro di selezione e sottrazione; la sobrietà dei versi sembra rispecchiare quella del poeta, il suo forte senso etico, qua e là affiora, parimenti a una serietà di fondo che nasce, probabilmente, più da un sentimento tragico della vita che da un senso ilare o gioioso. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 61-62.




ANNA MAIDA ADRAGNA, Spremute di limone. I racconti di Vallebianca, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a Palma, Palermo – Sao Paulo.

«Si cunta e si raccunta» e il lettore diventa personaggio del racconto 

«Si cunta e si raccunta …» è il refrain di un nuovo libro della scrittrice palermitana Anna Maida Adragna, che ha già al suo attivo, come poetessa, ben dieci pubblicazioni. 

Spremute di limoni, questo il titolo della raccolta di racconti che presentano con sapiente ironia uno spaccato di vita vissuta a Vallebianca, borgata immaginaria di una città mediterranea, caratterizzata da una intensiva produzione di agrumeti, in un arco di tempo che risale fino ai primi del novecento. Sono trentacinque racconti straripanti di sicilianità. 

Basta aprire a caso una pagina di questo volume ed ecco diffondersi un gradevole profumo di limone, protagonista sempre implicito, spremuto con mani abili e affabili, che riproduce metaforicamente, essendo tra gli agrumi quello che produce contemporaneamente frutti e fiori in tutte le stagioni, un percorso all’indietro che si rinnova nello scorrere del tempo e della memoria. C’è il ritorno ai gesti semplici che fanno grande la vita, filosofia genuina alla base della felicità a cui ambisce ogni creatura umana. 

Basta pensare alla serenità di Saro e Giovanna, i due coniugi che in modo più o meno diretto sono i veri protagonisti dell’intera raccolta, presentati come i due autentici supervecchi contenti e felici anche della loro età avanzata, perché «vuoi dire che non siamo morti giovani». Le loro vicende si intrecciano, in un carosello di situazioni sempre efficacemente delineate in chiave satirica, a quelle di personaggi senza dubbio originali, come ad esempio lo stravagante Tano, debole di mente, guarito grazie alla misteriosa sparizione di un orologio. 

Il racconto per Anna Maida Adragna ha una forza liberatrice e purificatoria, e trova la sua più perfetta espressione in una prosa poetica leggera ed elegante, dove tutto non è quello che sembra e dove l’epilogo si trova solo alla fine del viaggio. È la «storiella» che si raccontava un tempo, seduti a tavola, provando meraviglia, ansia, sensazioni : «Le risate allora costavano poco e condivano riccamente lo scorrere del quotidiano.» Echi lontani di memoria, frammenti di un vissuto personale che generosamente l’ autrice ci regala, conducendoci nei salotti di un’altra epoca, dove odori e sapori si fondono in una perfetta sintesi, dove tenui colori di vita ne compongono un quadro dolcemente pieno di emozione. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 55.




ANNA BELLINA ALESSANDRO, Diario impertinente, collana di narrativa «Meridiana», Ila Palma, Palermo, 2007. 

 Questo Diario impertinente è la quarta prova letteraria di Anna Bellina Alessandro, già autrice delle sillogi liriche Anna e Anna (a due voci, con la Maida Adragna), Ho toccato la corda pazza dell‘amore, e di una raccolta di poesie in dialetto siciliano, Caminu di la vita. È un diario scritto in punta di penna, in uno stile lineare, semplice e al tempo stesso raffinato, intimo ma anche razionale, che incuriosisce, intriga, fa riflettere e apre al dialogo. 

Fin dalle prime pagine, colpisce lo sforzo di ricordare, di non voler dimenticare nulla: felicità, attese, gioventù,sorrisi, emozioni, morte e pianto; e ancora, come sostiene l’autrice, abbracci e qualche schiaffo che la vita le ha dato. Tutto custodito come in uno scrigno prezioso segretamente chiuso che ora l’autrice apre al lettore per condividere «i cari anni della sua infanzia; anni insostituibili, impareggiabili: sono i giganti immobili del suo pensiero, il rifugio, il relax, il pozzo incantato da cui attingere acqua limpida, mani fresche da poggiare sulla fronte che scotta». 

C’è, in questo Diario, l’autrice bambina, vagabonda del pensiero, che guarda il mondo con gli occhi curiosi e attenti, con la disinvoltura frutto di una felice ingenuità, con l’anima lieta e gioiosa delle cose semplici e belle, con il coraggio di affrontare situazioni di ogni tipo. C’è la donna che inizia a capire che la vita è tutta un senso, il senso di viverla in tutti i suoi passaggi, il senso dato dall’amore che lei definisce «il contagio sano di un sentimento, che ha un’immunità ben delineata». Quell’amore puro e semplice fatto di calorose e piacevoli lettere ora sostituite dagli sms sterili e freddi, privi d’attesa, orfani di personalità. C’è ancora la moglie che si scopre a volte impotente e sconvolta, la mamma che si sente indifesa da un mondo ora pieno di indifferenza, ma non smarrita perché comunque la «vita rimane così bella e con amore la voglio possedere follemente, pur sapendo che da ogni finestra non si può vedere tutto un panorama. Mi accontento di ciò che possono guardare i miei occhi sempre bruciati di amore per il bello». C’è anche la nonna preoccupata per i giovani che rifiutano sia la realtà che i sogni e ancora più tristemente la speranza. 

L’autrice ci porta ad acute riflessioni sui valori attuali; un mondo sfasciato, fatto di invidia e distruzione, indifferenza e ignoranza, che l’autrice definisce una cella la cui chiave si è perduta. Quale allora la chiave per aprirla? Bisogna, dice la Bellina, recuperare la coscienza, perché è proprio la carenza di questo dono che ci ha traditi, annullandoci. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 60-61.




A.N.F.E., Lettera a un detenuto, «Documenti di lavoro / 1», a cura di Uliano Greca, I.l.a Palma, Palermo, 2007.

Alunni delle elementari di Enna a colloquio coi carcerati 

Questo volume raccoglie le lettere degli alunni delle IV e V classi delle scuole elementari di Enna scritte in occasione del concorso «Lettera a un detenuto», una fra le tante iniziative varate dallo Sportello multifunzionale operante, nel 2006, all’interno delle Case circondariali di Enna, Nicosia e Piazza Armerina, con lo scopo di fornire un servizio di informazione e orientamento al lavoro per i detenuti. Gli alunni, in occasione delle feste natalizie, hanno avuto 1’opportunità di rivolgere un pensiero spontaneo a quanti si trovano dietro le sbarre, diventando loro «amici di penna». Certo chi sta dentro non è un santo, altrimenti si troverebbe altrove, ma per la gente è difficile capire che i detenuti sono persone nonostante abbiano subito condanne, anche lunghe, da scontare. 

Potere essere in contatto con altre persone esterne è sicuramente un modo per uscire dal muro dei soliti ragionamenti. Perché, se dall’ esterno è difficile capire cosa accade in cella, da dentro è altrettanto complicato avere una visione di ciò e di chi sta fuori. Un muro simbolico che si aggiunge a quelli fisici e rende ancora più complicato il reinserimento di chi, avendo finito di scontare la pena, cerca di reinserirsi nella società. Problema che le istituzioni non hanno ancora seriamente affrontato. 

Le lettere sono state giudicate da una commissione di esperti e le migliori sono state premiate, ma nel volume sono riportate tutte le lettere, perché tutte sono meritevoli di essere ricordate; tutte lanciano un messaggio di solidarietà e disponibilità al perdono e rilanciano un messaggio fondamentale. Insomma, alla luce di un’ esistenza che non deve essere vista solo nell’ottica della produttività, è necessario coscientizzare, è essenziale, oggi più che mai, che gli studenti, sin dalla tenera età, posseggano una cultura «umanitaria». Le iniziative svolte nel campo scolastico devono essere incoraggiate; servono a sensibilizzare le nuove generazioni alla solidarietà, alla civile convivenza e al reciproco arricchimento, concretizzando il principio della solidarietà umana, della «responsabilità sociale». 

Angela Maria Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 58-59.




INVENZIONE DELLA NOTTE 

Io da questo silenzio, io dal buio 
costruisco la notte, 
la mia notte privata ed esclusiva. 
Inventare le stelle a me non serve, 
esse nascono e brillano per sé. 
A mezzanotte una luna triste 
all’orizzonte mostra la sua faccia 
d’argento, ed io 
sento un brivido in me. 
Una lacrima scende dai miei occhi. 

Horta Anderson Braga

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




 Incomunicazione / 2 

È mia compagna questa lampadina 
anche se fredda 
e fa luce per me con ironia, 
mi rischiara ma è falsa: mi rivela 
poveri arredi 
che ri vestono e adornano il mio nulla. 
Colora l’apparenza delle cose 
appena, mentre cerco di scoprire 
invano 
il mistero che ho presentito altrove. 

Anderson Braga Horta 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




 HAICAI 

Tremò la notte 
e cadde di repente 
dalla mano sinistra del divino. 
Cercare è realizzarsi. 
Trovare il senso delle cose è chiudere 
ad una ad una tutte le finestre. 

Anderson Braga Horta 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




ERANO COME CREATURE UMANE

Erano certe formiche grosse d’un colore rosso-scuro. Infestavano la mia scrivania. Temetti che potessero recare 
seri danni alle mie carte e ai libri. Per giunta, avevano temibili aculei. Corsi ai rimedi spargendo veleno nei punti strategici. 
Una sera le trovai ammucchiate in un circolo piccolo ma compatto, in mezzo al tavolo. 
Erano come ragazzini attorno a un giocattolo. 
Confabulavano? Discutevano la situazione? Erano come creature umane. 
E il veleno, il veleno infallibile che avevo sparso ben bene in tutta la stanza? … Ero disperato. Oggi, al ricordo di quel che combinai, non so perché, penso a Pearl
Harbour. 
Le attaccai. Le pestai. La feci finita con quella razza. Esaurii tutte le imprecazioni. Ma erano come ragazzini attorno a un giocattolo. 

(da «Livro na rua», n. 2, Thesaurus, Brasilia)
Horta Anderson Braga 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 53.