Per salvare una pagina di storia e d’arte in Sicilia: la pittura di «regime» di Alfonso Amorelli

A quasi quarant’anni dal lontano novembre del 1969 quando, come egli stesso ebbe a dire nel suo diario Il tempo vola, raggiunse «gli dei, spero quelli veri», sembra che da più parti un rinnovato interesse prema per aggiungere nuovi tasselli al mosaico della biografia artistica di un pittore palermitano forse troppo presto caduto nell’oblio, Alfonso Amorelli (Palermo 1898-1969)1. 

Alla propria pittura, colta ed ingenua al contempo, ma sempre elegante ed armoniosa nel segno, «chiara, gioiosa» nella succosità degli arditi contrasti cromatici, spesso ironica nell’ intenzione, per circa un cinquantennio, dagli anni ’20 allo scorcio degli anni ’70, l’artista chiede di essere «l’unico godimento», il solo spensierato «gioco», capace di aprirgli un varco nel dolore del mondo durante gli anni soffocanti delle due guerre mondiali e dei rispettivi dopoguerra, permettendogli così di continuare a vivere. 

L’iscrizione nel 1913 al Regio Istituto di Belle Arti gli permetterà di fruire dell’insegnamento dei più autorevoli maestri palermitani di inizio secolo, quali Ettore De Maria Bergler ed Ernesto Basile, ma saranno i suoi numerosi viaggi, le otto volte in cui attraversa l’intera Europa in macchina, a consentirgli un’approfondita conoscenza dei movimenti e degli esponenti più significativi dell’arte italiana e mitteleuropea novecentesca, individuabili in filigrana nell’intera sua produzione artistica. 

Dietro i suoi pastiches culturali sono stati rintracciati nomi di noti artisti extraisolani, dai macchiaioli Mancini, Spadini e soprattutto Fattori e Signorini, ai meta fisici De Chirico e Carrà, da Balla a de Pisis, a diversi protagonisti di «Novecento», ma anche di respiro europeo, dai fauves Matisse e Dufy, agli espressionisti Schmidt-Rottluff, Kirchner, Heckel e da Cézanne a Chagall. Ma la grandezza di Amorelli consta nell’operare una distillazione frazionata di queste componenti culturali rielaborandole attraverso l’apparente scioltezza di un tracciato segnico che riesce a sintetizzare mirabilmente l’intimo significato delle cose. 

Quando, intorno alla metà degli anni venti, Amorelli, terminati gli studi all’Accademia, cominciò la sua attività artistica, due erano sostanzialmente le strade che in termini di scelte stilistiche potevano essere intraprese da un giovane smanioso di modernità, l’adesione all’arte futurista o a quella di stampo novecentista. 

Pur partecipando alle mostre organizzate da Pippo Rizzo e dal gruppo dei futuristi siciliani, Amorelli non aderì mai alle formule futuriste accostandosi invece abbastanza precocemente alla sintassi del movimento artistico denominato «Novecento» «con una pittura che, da un lato, sembra voler riprendere nella nettezza geometrica della composizione alcune soluzioni di Casorati e, dall’altro, indulge a una maggiore vivacità cromatica sul modello dell’opera di Carena»2. 

Nel marzo del 1923 veniva, infatti, inaugurata alla «Galleria Pesaro» di Milano una esposizione di sette pittori che, pur provenendo da esperienze artistiche diverse spesso legate alle grandi avanguardie storiche, si ritrovavano nella comune aderenza al generico principio di rappel à l’ordre, attuando cioè in pittura il recupero di temi e modi espressivi della grande tradizione italiana del passato, specie del ‘300 e del primo ‘400. 

Ne nacque un’arte «novecentista», severa e arcaizzante, dalle plastiche forme e 

dai limpidi volumi, dalle luci nette e dai colori compatti, permeata da una sorta di realismo magico, talmente in linea con i dettami della retorica fascista, che, pur proclamando la propria indipendenza, apparve ben presto come arte di regime, arte di Stato. 

L’adesione convinta, anche se a tratti eterodossa, di Amorelli al gruppo, così come quella degli altri novecentisti isolani, durerà pochi anni non superando il limite del decennio, ma negli anni trenta, quando comincerà la sua attività di decoratore parietale per ordine del regime, attingerà motivi e forme proprio dalla poetica di «Novecento». 

Al 1932 risale il primo articolo sulla pittura murale di Mario Sironi, tra i più convinti sostenitori del ritorno alla grande arte italiana e della necessità di creare un’ estetica fascista, cui seguirà nel 1933 la pubblicazione del Manifesto della pittura murale, firmato, oltre che da Sironi, anche da Carlo Carrà e Achille Funi. 

Il regime, rispolverando non a caso una tecnica tradizionale quale 1’affresco, attribuiva alla pittura murale un valore morale e una funzione di propaganda sociale ed educativa, in grado, attraverso figure monumentali e architetture romaneggianti, di condurre le masse al consenso. 

Dopo la decorazione della sede della Triennale di Milano nel 1933, anche in Sicilia si susseguirono esperimenti in tal senso e in quegli anni Amorelli, come Duilio Cambellotti, Arduino Angelucci e altri, fu chiamato ad affrescare spazi pubblici, in particolare 1’Aula Magna del Rettorato (ora Facoltà di Giurisprudenza) e il vestibolo d’ingresso alla palermitana Galleria delle Vittorie dal lato di via Maqueda. 

Mentre l’affresco della sala del Rettorato raffigura un tema della storia passata, l’epopea di Garibaldi a cavallo tra i Mille, i cui gesti enfatizzati come in un melodramma teatrale sono asserviti all’esaltazione delle aspirazioni patriottiche risorgimentali, le pareti della Galleria delle Vittorie celebrano un evento di storia contemporanea, la nascita dell’impero coloniale fascista in Etiopia. 

Lo stesso giorno in cui venne inaugurata la Galleria, il 2 ottobre 1935, Mussolini dichiarava guerra all’Etiopia dal balcone di Palazzo Venezia, auspicando così un novello impero sullo stile di quello dell’antica Roma. TI trionfo venne ufficialmente comunicato dal Duce al popolo italiano la sera del 5 maggio 1936, seguito dalla proclamazione dell’ impero d’Etiopia, esattamente il 9 maggio 1936, probabile termine post quem per la datazione degli affreschi di Alfonso Amorelli alla Galleria delle Vittorie. 

Le immagini raffigurate, allo stato attuale talmente in degrado da risultare . pressoché illeggibili, possono essere ricostruite solo con l’ausilio di alcune foto d’epoca, datate appunto 1936 e appartenenti all’archivio storico fotografico di Dante Cappellani, oggi assemblate negli studi di «Stanze di luce», società addetta alla catalogazione, conservazione e restauro di beni fotografici. II collage fotografico fa scorrere come in una sequenza cinematografica tutti i valori e i miti della retorica fascista, l’esaltazione della patria, della famiglia, del lavoro, la celebrazione della guerra e la «riapparizione dell ‘Impero sui colli fatali di Roma». 

Nell’affresco sulla parete sinistra dell’andito troviamo uomini nudi su magnifici destrieri dalla code e criniere fluenti, che ricordano i cavalli di De Chirico, soldati in trionfo con le insegne imperiali, una Vittoria alata con in mano una serto di alloro pronta ad incoronare il vincitore, e, sullo sfondo, monumenti di Roma, dal Vittoriano, divenuto dopo la prima guerra mondiale tomba del Milite Ignoto e, come tale, Altare della Patria, ad una colonna onoraria, ai resti del colonnato di un antico tempio. Seguono operai a torso nudo dalla muscolatura tesa nello sforzo di spingere un carro armato e ancora il paesaggio roccioso e arido dell’ Abissinia con un etiope che ha ai polsi catene spezzate, nell’intento di far risaltare l’occupazione dell’Etiopia come guerra di liberazione. Sul margine sinistro la scritta Vittorio Veneto funge da ideale collegamento tra la famosa battaglia combattuta tra il 24 ottobre ed il 3 novembre del 1918, che segnò la fine della prima guerra mondiale sul fronte italiano con la disfatta dell’esercito austro-ungarico, e la vittoriosa impresa coloniale operata dal fascismo. 

Sull’affresco di destra momenti di lavoro umano nelle officine, nei campi e nei cantieri navali enfatizzano la fatica degli uomini e degli animali nel supremo sforzo della conquista della natura, del progresso e della civiltà, alternandosi a figure femminili portatrici di ceste, immagini di maternità. La donna dal seno scoperto che tiene in grembo due bambini sembra una riproposizione della Madre Terra, la Saturnia Tellus, uno tra i rilievi più belli dell’Ara Pacis Augustae, eretta in Campo Marzio tra il 13° e il 9° secolo a. C. per celebrare le vittorie di Augusto e la pace portata nell’Impero, e che proprio in quegli anni veniva ristabilita dal governo fascista. 

Il linguaggio di «Novecento» si palesa nel «realismo neomichelangiolesco» dei corpi dei lavoratori, arsi dal sole e quasi imprigionati nelle forme titaniche dell’eroe greco «di un realismo nitido e limpido, esaltato da un tessuto cromatico in cui primeggiano ocre e terre di Siena»3, nella sublimazione del quotidiano. Un muralismo dai toni retorici, celebrativo della mitologia nazionalista e di una romanità di cartapesta, in linea con i valori epico-popolari cari alla mitopoiesi fascista, cui Amorelli, pur mostrando una tecnica consumata, non sembra aderire sentimentalmente. 

Agli inizi degli anni Quaranta Alfonso Amorelli riceve un’altra importante commissione da parte del governo fasci sta, il compito cioè di affrescare gli edifici pubblici e di culto di alcuni borghi rurali costruiti in varie zone dell’isola nell’ambito della vasta attività di colonizzazione, il cosiddetto «assalto al latifondo», operata dal regime per il ripopolamento delle campagne siciliane. 

La politica economica della dittatura, volta a far raggiungere al Paese l’indipendenza dalle importazioni straniere e a ridurre i costi, spingeva i costruttori ad avvalersi di materiali e tecniche costruttive locali abolendo il superfluo specie nelle decorazioni. 

Nel 1940, nasce nel Comune di Trapani il borgo «Amerigo Fazio», su progetto dell’architetto Luigi Epifania, con una chiesetta all’interno dedicata, come già prima la Galleria delle Vittorie, alla «Beata Maria Vergine della Vittoria»4. Nel suo studio sulla colonizzazione del latifondo siciliano Maria Accascina, riguardo all’opera decorati va di Amorelli, cita solo gli affreschi dell’edificio di culto proprio di Borgo Fazio fornendoci una preziosa testimonianza del soggetto raffigurato: «Nella chiesa il candore delle pareti è appena variato dai tagli delle arcate e delle linee delle paraste che ascendono agli oculi e ne ricadono come parati. Solo nell’abside, seguendo la tradizione meridionale, interviene, con la sua nota vivida di colore, un affresco del pittore Amorelli rievocante la Vergine col Bimbo che accetta l’offerta del borgo»5. Purtroppo dell’affresco, distrutto dall’incuria degli uomini, così come l’intero borgo, rimane oggi appena visibile un piccolo brano, raffigurante un uomo affiancato da un cane con esili alberelli stilizzati sullo sfondo, e in alto il piede di un angelo inginocchiato e i terminali delle due ali. 

Nello stesso torno di anni vennero edificati altri piccoli centri, tra cui Borgo Rizza, progettato da Pietro Gramignani nel comune di Siracusa, e Borgo 

Bonsignore, su disegno di Donato Mendalia ad Agrigento, arricchiti dagli affreschi di Amorelli, come ricorda la nipote del pittore Maria Teresa Amorelli: «Appena arrivata a Palermo trovai Fofò impegnato nella preparazione degli affreschi per alcuni borghi rurali, progettati dall’ archi tetto Luigi Epifania, nell’agrigentino, nel trapanese e nel siracusano (Borgo Bonsignore, Borgo Fazio e Borgo Rizzo) e fui molto felice di posare per qualche bozzetto. Il suo tratto era immediato e la mia posa era di breve durata»6. 

A Borgo Bonsignore le pitture che decoravano la casa del Fascio sono del tutto scomparse, rimane invece l’affresco absidale della chiesa, incautamente restaurato nel 1977 da un certo Alfonso Marino, che rappresenta, come già nel centro rurale trapanese, l’omaggio del Borgo alla Vergine. Nel registro inferiore sono, infatti, uomini in atto di riverenza e donne con ceste di frutti sulle spalle o sul capo che richiamano la portatrice dal seno scoperto della Galleria delle Vittorie, mentre in alto la Vergine con il Bambino sono affiancati da due angeli inginocchiati verosimilmente nella posizione dell’angelo di Borgo Fazio di cui rimane solo un frammento. 

A proposito dell’impegno decorativo di quel periodo, lo stesso Amorelli, parecchi decenni dopo, nel suo diario Il tempo vola scrive: «In Sicilia nascevano i borghi rurali. Ricevetti l’incarico di decorarne alcuni. Chiese, case del fascio. Mancava acqua, strade e la luce; ma non gli affreschi ed il fondatore dell’impero a cavallo», accompagnando il suo pensiero con un interessante disegno stilizzato raffigurante in basso un uomo a cavallo con la spada sguainata e in alto una Madonna col Bambino tra due angeli, ovvero la medesima iconografia utilizzata per affrescare le absidi delle chiese dei borghi Fazio e Bonsignore7. 

Nulla, invece, perdura dell’attività decorativa del pittore a Borgo Rizza, vicino Carlentini, ormai abbandonato e distrutto. Fortunatamente parecchi anni fa un hobbista del luogo, appassionato di fotografia, ha voluto immortalare i pochi resti degli affreschi allora visibili. L’immagine mostra una sorta di collage di iconografie amorelliane, in primo piano un uomo all’aratro con due buoi aggiogati, del tutto identico all’analogo soggetto della Galleria delle Vittorie, una madre col figlio e un altro uomo piegato, forse intento a togliere dei massi per agevolare il dissodamento, mentre sullo sfondo si intravedono un acquedotto romano e contadini al lavoro nei campi. Sono scene di vita reale dove uomini e animali condividono l’esistenza quotidiana in una esaltazione dell’etica del lavoro e della famiglia funzionali all’estetica del regime. 

Da quegli inizi Alfonso Amorelli continuerà l’opera di decoratore parietale per tutto l’arco della sua esistenza sia in case private che in luoghi pubblici, ma di questa attività purtroppo, a causa della demolizione degli edifici palermitani Liberty e decò in alcuni casi e dell’opera di ammodernamento in altri, come l’Extrabar Olimpia, ben poco ci rimane. 

Tra gli affreschi ancora godibili, anche se di alcuni decenni più tardi rispetto ai dipinti fascisti, si conservano quelli eseguiti per alcuni padiglioni della Fiera del Mediterraneo, il pannello dell’Albergo Mediterraneo in via Rosolino Pilo e il fregio recentemente restaurato dell’ippodromo di Palermo. Al realismo lirico degli anni Trenta si sostituisce quasi sempre in queste ultime opere murali, così come in quelle coeve su cavalletto e nei disegni, una vena ironica e decorativa che si sostanzia di una stilizzazione cristallina e di colori brillanti, programmaticamente disimpegnata e avulsa dalle ideologie e dalle diatribe del tempo e di segno del tutto diverso rispetto alla decorazione commissionata dal regime. 

Nella sua autobiografia Il tempo vola scritta negli ultimi anni di vita, tra disegni e brevi riflessioni, Amorelli dedica una pagina alla figura del Duce riproducendolo con una enorme ciste sulla testa calva e annotando: «Mussolini venne ad inaugurare la Quadriennale romana. La grossa ciste sulla testa rapata, mi ridimensionò il mito Benito»8. L’avversione che l’artista, per «istintivo convincimento», professò sempre nei confronti della «verbosità confusionaria» spiega la mancata adesione sentimentale, l’ estraneità nei confronti della retorica fascista, che nulla toglie, comunque, al valore intrinseco storico e artistico della sua pittura di propaganda. 

Appare, dunque, imprescindibile l’immediato restauro degli affreschi della Galleria delle Vittorie che, insieme all’inedita produzione dei borghi rurali, costituiscono un documento di storia e d’arte, testimonianza di un evento fatidico del nostro recente passato nazionale e pagina essenziale per la comprensione della biografia artistica del pittore Amorelli che, purtroppo, il passare del tempo e la distrazione degli uomini rischiano di stracciare per sempre. 

Isabella Barcellona

NOTE 

1 Per una bibliografia esaustiva su Alfonso Amorelli cfr.: Amorelli, a cura di A. M. Schmidt, catalogo della mostra, Palazzo Steri, Palermo, 14 febbraio – 8 marzo 1997; Alfonso Amorelli, a cura di A. Schmidt, Roma, 2002. 
2 S. Troisi, Amorelli, Alfonso, in La pittura in Italia, Il Novecento / I, 1900-1945, tomo secondo, Milano 1992, p. 733. 
3 A. M. Ruta, C’era una volta la Galleria delle Vittorie. Palermo, città senza memoria, in «Palermo», gennaio 1993, pp. 42-43. 
4 La notizia si evince da un manoscritto redatto nel febbraio del 1947 da Salvator Ballo Guercio «Episcopus Mazarien» e attualmente depositato presso l’archivio della Curia Episcopale di Mazara del Vallo. 
5 M. Accascina, La colonizzazione del latifondo siciliano. I borghi di Sicilia, estratto della rivista «Architettura», fasc. maggio 1941 – XIX – Annata XX. 
6 M. T. Amorelli, Lo zio Fofò, in Amorelli ... , p. 29. 
7 A. Amorelli, Il tempo vola, Roma, 1970. 
8 Ibidem  

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 25-30.




V. Esposito, Poesia non-poesia anti-poesia del ‘900 italiano, Foggia, Bastogi Ed.. 1992. pp. 696.

Edito dalla Bastogi è uscito nel mese di marzo del ’92 un grosso tomo antologico comprendente nella prima parte gli interventi critici di Vittoriano Esposito dal 1949 al 1991. Questo lungo periodo attraversa la storia letteraria di quasi tutto il secondo Novecento, assai movimentato in verità, le cui diatribe e polemiche si sono succedute a ritmo serrato, per quanto la forma poetica si sia messa a morte più volte e più volte si sia fatta risorgere più o meno malconcia. Di qui la sperimentazione, l’avanguardia, la parola innamorata, la parola in libertà del non-senso e del frammento e mille altre innovazioni escogitate per allontanarsi il più possibile dalla tradizione accanitamente ripudiata. 

Il fatto è che proprio la nostra storia umana e civile è stata travagliata per cui l’inquietudine ha condannato l’artista -ad una poetica incerta, … in bilico tra gioco e necessità; …oppositiva rispetto alla tradizione, la poesia del ‘900 è perpetuamente ribelle al passato, insoddisfatta del presente, poco o punto fiduciosa del futuro'(pag.152). 

Il periodo più cruciale della poesia è stato quello degli anni attorno al ’68 in cui si è inneggiato alla disgregazione sia dei contenuti che della forma poetica al limite di una realtà volgare e di prosa arida e senza senso attuata addirittura con ritagli di giornali presi a caso. Di proposito si è voluto sperimentare la non-poesia e la anti-poesia per dimostrare a se stessi di poter ricominciare da zero il discorso poetico. Un incipit Vita Nova non è stato possibile, dati i tempi smagati e violenti; alla frantumazione nulla è succeduto di positivo se non il ritorno alle considerazioni umane dell’essere e degli eterni perché della vita. La forma è approdata ad un’impostazione di alta poesia verso il neo-classicismo, dove l’allegoria suscita immagini oltre ogni immediatezza, dove la metafisica a volte si fa religione del sacro percepita in chiave di salvezza dal mondo oggettivato e corrotto. 

Il trascendente nell’arte e nella filosofia va oltre il pensiero, oltre la conoscenza per snodare le regioni dell’ignoto nel mistero dell’esistenza. Il progresso delle scienze in questo senso è agevolato nelle sue ricerche e d’altro canto tutto ciò che è percepibile dall’inconscio è a sua volta espressione di trascendenza. 

L’autore di questa antologia in esame si fa carico delle convinzioni e delle proposte di molti poeti e saggisti contemporanei di chiara fama, che al di là di ogni anacronismo formulato dalla critica militante e dalla critica accademica avvertono l’importanza di una fusione di valore nel senso che il giudizio critico e il giudizio estetico devono confluire verso un appagamento armonico totalizzante, ed è importante scoprire nella lettura di un testo -l’incognita parabola» (B. Marniti). 

Tra critica e poesia si identificano gli stessi principi estetici per potersi sintonizzare nell’arte poetica con uno scambio metafisico che consenta l’integrazione illuminante. Oggi le parole di Salvatore Quasimodo pronunciate nell’immediato dopoguerra risuonano più che mai di grande incitamento: -Rifare l’uomo», aveva detto, -quest’uomo che aspetta il perdono con le mani sporche di sangue!»; altre, ancora più attuali, quelle di Charles Péguy: – Réfaire la Rénaissance» sono grido e bandiera per una svolta necessaria; e Rubén Darìé: -Mentre contate su tutto, una cosa vi manca, Dio». Si riesce così a individuare a fine secolo la richiesta impegnativa di riavvicinamento alla poesia per la poesia: Arthur Rimbaud iniziatore e veggente. 

Il repertorio della poesia regionale passa in rassegna le varie scuole e tendenze che al presen.te denotano connotazioni di tutto rispetto. L’antologia dedica la seconda parte alle molte schede e profili che l’Autore ha scritto per poeti noti e meno noti nell’ambito della critica ufficiale e non. Suddivisi per gruppi e tendenze artistiche Vittoriano Esposito riconosce suo malgrado di aver ottemperato per necessità pratiche all’esclusione di molti nomi per quanto riguarda il Novecento -minore»; poco o nulla conosciuto nulla ha da invidiare a quello ufficiale spesso deludente e povero di imputo Egli stesso si fa paladino di tali ingiustizie ed auspica che ciò dovrebbe almeno insegnare qualcosa nell’ambito dell’editoria intesa a far soldi soltanto con nomi già affermati, ma disattenta a chi il talento ce l’ha per davvero. Comunque i nomi qui considerati sono già moltissimi e tra essi l’Autore si dichiara soddisfatto di far conoscere da queste pagine un congruo numero di poeti che meriterebbero di salire la ribalta della considerazione che meritano. 

L’antologia a questo punto sarebbe ben fornita, ma una terza sezione raggruppa una categoria a parte dove leggiamo i nomi e le schede di donne poetesse. Se la poesia è nel potere del sentimento, dell’immaginazione e della maturità riflessiva indipendentemente dalle differenze sessuali, credo che le donne qui inserite avrebbero avuto piacere trovarsi tra “poeti” e non tra “donne”. Passata l’impennata femminista non si giustifica più questa separatezza di fronte al talento creativo i cui valori sono comuni a tutti. Comunque in questa sezione anche le poetesse sono divise per tendenze artistiche fino a risalire alle più giovani esponenti ancora in fase di sviluppo estetico ma con chiare impostazioni di scavo interiore. 

È interesse prendere atto del lavoro dei giovani nell’attuale malessere della società che li disorienta con falsi profeti e falsi valori. Tuttavia il rapporto dei giovani con la poesia è migliore di quello che si crede: sentono imperioso il desiderio di colmare il vuoto dell’esistenza affidando alla forma poetica la ricerca della propria identità perduta; l’impegno è di cimentarsi per una chiara coscienza umana per affermare dei valori che non riscontrano nel deserto morale che li circonda. Le prove non mancano, e molti di essi mirano proprio con uno sforzo di volontà a scalzare la crisi in atto. 

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 58-60.




Riflessioni sull’opera poetica di Artur Rimbaud 

La poesia moderna e tutte le poetiche in generale, pure appoggiandosi all’idealismo kantiano, attuano una ricerca all’interno della ragione umana. 

Gli studi dello strutturalismo e della linguistica moderna con la teoria della semantica e della semiologia, ma anche della filosofia e della psicologia, sollevano la poesia al rango delle scienze umane più alte e sofisticate nonché stimolanti. 

La poesia che punta sul significato del significato, secondo l’insegnamento del De Saussure, deriva dalla poetica di Mallarmée di Rimbaud, quel pazzo scatenato e ostinato a cogliere con una critica radicale le relazioni tra parola e mondo, l’uomo e il suo destino, la parola essenziale e significativa per le sue speranze avveniristiche, sempre minacciate. Ecco che il linguaggio che non riesce a sciogliere la contingente umana, e non ne vuole far parte, si interiorizza, si fa difficile per esplicitare ciò che è altro dal mondo esterno e diventa rivelazione, creazione. Il je suis un autre di Rimbaud sta alla base di questa ricerca per un ritorno alla sorgente ontologica, anteriore all’uomo stesso, anteriore al battesimo, quando il terrore dell’inferno non era preda della malizia umana. Tra la parola e il mondo corrono abissi di infrastrutture inquinanti per cui la parola ritrova il suo alveo d’amore primordiale con le analogie da decifrare nel profondo inconscio, per attingere il linguaggio in una forma comprensibile con quel tanto di chiarezza ascetica. 

La società brutale e superficiale ha ridotto la nostra identità ad una finzione, la poesia non può aderire ad essa, anzi deve essere rivelazione di questa finzione nel senso di ri-levare, togliere i veli della maja con intuizione spesso profetica sul tagliente filo del silenzio del mitico vate. 

Se la Parola – era in principio – può anche condurci alla fine con le conseguenze facilmente intuibili: una civiltà dalla parola svalutata e menzognera è dopo la parola, ha perduto il Verbo; la verità della parola non è più qui. «Io sono un altro», dice Rimbaud perché vuole dare forma e sostanza alla propria raison d’être. 

La poesia non è commento, è l’essenza dell’essere che viene ad essere; riesce a prolungare la sua eco all’infinito; solo le poesie deboli, incapaci di penetrare il mistero dell’uomo, non si espandono e muoiono nel loro significato già scontato. Non si tratta di rivelare dati occulti o stregoneschi (come dice chi non sa captare il linguaggio dell’inconscio), ma riuscire a trarre da sé la melodia che viene ad abitare il poeta, la parola adatta a significarla, ri-velazione di una presenza reale. Per Platone il rapsodo è un posseduto dal dio, il daimon che entra nell’artista dominandolo, oltrepassando i confini della sua persona. Il mistero della creazione poetica e artistica è in questa ricezione vitale, sempre sofferenza dal momento ispirativo alle infime ragioni della morte! Sfida e lotta con la Creazione è quella di Giacobbe con Dio; come la sfida della poesia è data dalla sinfonia interiore, così l’arte di Michelangelo ha potuto riversarsi nella Cappella Sistina. «Dio, l’altro artigiano», disse Picasso; in effetti, se il modernismo non sperimenta più Dio come competitore, non può che lottare con l’ombra di se stesso: donchisciotti alla sbarra di un mulino senza vento. 

La lotta di Rimbaud con Dio è stata eroica, dallo scoramento più profondo alla grandiosa intuizione cosmica; scrive: «Perché Cristo non mi aiuta dando alla mia anima nobiltà e libertà» e piange sulla corruttibilità del mondo che ha perduto il Vangelo, e dice: «aspetto Dio con ingordigia». 

L’espressione lirica di Rimbaud nasce sfida come linguaggio privilegiato sulle orme di Mallarmée di Baudelaire che, saltando sdegnosamente il materialismo contingente e opportunista e l’arrivismo economico intesero chiudersi in una torre d’avorio per purificare il linguaggio dalle devastanti infiltrazioni e rifugiarsi in un ideale assoluto nella réerie o imagination, detta “fantasia” da Croce per l’impossibilità di poter cambiare il mondo reale; tentativo operato da Rimbaud fin tanto che la sua giovanile esperienza gli ha suggerito, dopodiché è prevalso l’orrore e il conseguente – cattivo sangue – l’ha portato ad immergersi in quell’orrore. 

Rimbaud era maturato in fretta, dai sedici ai ventitrè anni la sua produzione poetica, poi il crollo delle sue speranze e l’abbandono definitivo dalla scena letteraria. Era maturato in fretta con la frequentazione intensa di lirici latini e greci, francesi, inglesi. La poesia per Rimbaud non deve seguire, ma precedere l’azione, secondo l’indicazione dell’antico vate, per modificare il progresso dalle sue strutture, e farsi carico del dolore degli uomini miti. Purtroppo, il poeta sperimenta solo indifferenza e delusione; il Bateau ivre, dopo avere scoperto oceani immensi, arcobaleni fioriti, affonda in una pozzanghera di fango. In questo il poeta ritrova il dolore del bimbo alle prese con la sua barchetta di carta che affonda miseramente, come lui stesso fragile e insicuro, con la nostalgia dell’infanzia, la sua etàdell’oro intravista e persa. 

Une saison en enfer, sua penultima opera, trae dalla prosa evangelica di Betsaide la sua drammaticità Gesù il divino Maestro, non può restare a lungo in questo luogo di perdizione, di dannati, bisogna uscirne, è pericoloso, tutto diventa cattivo; liberarsi del mondo diventa per Rimbaud liberarsi della Croce per sentirsi libero. Ma quale libertà Quella degli infelici, tanto vale vivere tra gli infelici, i semplici, lui angelo decaduto, fuori di ogni convenzione. Disprezzo e carità diventano il suo credo, il suo biglietto valido per accedere ad un posto in cima alla scala angelica di valori, quelli dello Spirito. Rimbaud è molto convinto di ciò il resto è un fuggire continuo, per finire tra i figli di Cam per ritrovare solo in Africa la propria natura primitiva. 

Restaurando la propria infanzia, egli identifica una esperienza primordiale, vero negro in rivolta, libero dalla civiltà corrotta e dal linguaggio immondo di mostruosi sfruttamenti, industriali e commerciali, dove la farsa continua del vivere sarebbe pianto amaro. Non gli è più possibile sottomettervisi ancora, dice, se è chiaro che questa civiltà sarà seguita dallo sterminio del pianeta. Veggenza? Stregoneria poetica? Purtroppo non ebbe la meglio sulla stregoneria politica che doveva coinvolgere con i suoi tentacoli tutto il mondo occidentale; non potè assistere a quest’altro sfacelo, la sua chiave esoterica indebolita dal male, anziché aprirsi a possibilità polemiche, si rinchiuse definitivamente in un sepolcro di rinuncia. Implora il coraggio di amare la morte! 

Nel 1980 uscì il libro di Giovanni Testori Conversazione con la morte in cui l’Autore si pone dei quesiti in parallelo a Une saison en enfer di Rimbaud, poeta che finora è stato interpretato in una chiave sbagliata. Testori, per altro quasi dimenticato perché scomodo con le sue teorie spiritualistiche, dice di Rimbaud: «è l’ultimo grande poeta profeta che abbia parlato all’uomo. E non è un caso che egli, proprio nell’ultimo capitolo del suo poema abbia ritrovato le parole della Bibbia e che le abbia messe in corsivo come sigillo al suo grido di rivolta e di dolore». 

Degli amori menzogneri di cui finalmente può ridere, Rimbaud lancia un grido di gioia perché dice, finalmente potrà possedere la verità in un’anima e in un corpo. Ora questo grido bisogna intenderlo nell’unica chiave che gli dà senso: la chiave religiosa. Rimbaud aveva già capito tutto in anticipo e, per questo, Testori lo chiama profeta. È stato Dio che lo ha illuminato, riferisce Testori, ed è fuori di dubbio che anche le Illuminations rimbaudiane abbiano avuto lo stesso mittente. Dopo aver toccato il fondo si intravede per lui l’antica sfida che qualcuno seppe leggere nei Fiori del male di Baudelaire: tirarsi un colpo di rivoltella, o fare un giusto ritorno ai valori umani. 

È questa la condanna e la svolta richiesta dall’anonimato della vita di questo ultimo scorcio del XX secolo, 

dove l’alienazione illude di risolvere ogni problema in permissività e violenza. Anche della Ragione e dell’Intelligenza abbiamo finito col servircene più male che bene, approdando purtroppo aridamente alla «illuminata demenza della Ragione», afferma sempre Testori. 

Tremiamo. Il “Viaggio in Paradiso”, descritto in Conversazione con la morte, gareggia con la Saison en enfer: i fiori del male scompaiono nel “popolo di nebbia” testoriano. Solo il Mostro, lei, la Ragione, ansima, rugge, compie stragi e ne compirà più avanti, «infinite nascite orrende / infiniti orridi genocidi / per poter salire là/ dove siede l’ombra del Perduto, / il suo vuoto: / la meta della Bestia è il suo trono». L’Apocalisse si profila all’uomo del XX secolo cosìcome il Battista avvertìnel deserto: «Se voi vincerete la Bestia, il vuoto si riempirà». 

Da questo disagio, il male potrà dissolversi e lo Spirito trionfare, tornare al primitivo splendore innocente nel grembo materno. Come Rimbaud, dice Testori della morte: «Non bisogna averne paura, se voi provaste a chiamarla prima sottovoce, quindi portando la bocca sulle sue orecchie, più sottovoce ancora; se voi le sussurraste Madre, anzi Mamma, così Mamma! Che musica dolce, ondulante, quasi una nevicata sommessa ed infinita, quasi una lontanissima piva dei Natali che abbiamo distrutto, ucciso, sepolto… È un esercizio d’amore, l’unico che arrivato dove sono posso insegnarvi. Quella emme che mormora e bela, quella su cui ci si può distendere sempre, in ogni ora, dopo ogni gesto, perfino dopo un delitto; poi, due mormorii che la seguono, uno dentro l’altro, uno sull’altro come il gesto che ci cullava bambini e non avevamo ancora capito, ancora eravamo illusi di non aver capito che quelle mani ci stringevano per consegnarci a una resa». 

Ancora ci fremono dentro le parole profetiche di Testori quando, con quella genialità che gli è propria e che dopo Rimbaud non s’era piùavuto modo di ritrovare, confessava: «L’uomo non può essere tutto imprigionato dentro la materia del suo corpo mortale. Il corpo è il supporto che regge l’anima; quando si cerca di soffocarla il corpo o meglio la Ragione non ha più pace, si ammala ed escogita nefandezze; ma se prima o poi l’anima rompe la pressa che la serra tenderà a rivelare il suo mistero eterno, quindi a profetizzare sulla nostra cecità». 

Cos’è che angosciosamente preme in noi se non uno spasmodico desiderio di verità Gli scettici chiusi nella loro mentalità frontale senza una forte volontà di uscirne, mai potranno addivenire alle bellezze dischiuse ed infinite dell’anima soave. La disperazione delle Illuminazioni, profusa da Rimbaud, traccia l’inquietudine dei giovani moderni. 

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 33-36.




Omaggio a Jacques Maritain 

Formulare un omaggio ad un filosofo dal pensiero ricco e vitale come Jacques Maritain ci sembra doveroso per approfondire la sua opera più serenamente che nel passato. 

Un anno dopo la sua morte avvenuta nel 1972, si aprì ad Ancona un convegno di studi organizzato dall’Istituto Internazionale francese “Jacques Maritain” che fece convergere su di lui !’interesse degli studiosi italiani in un clima di rinnovato fervore. Da allora si sono succeduti altri convegni e seminari a Brescia, a Milano, a Venezia, ecc. Si sono così moltiplicati saggi e monografie che testimoniano l’esigenza di porre tutta l’opera maritainiana a nuova verifica per cogliere nella più giusta dimensione le note peculiari del suo pensiero definito tomista. 

Questa definizione aveva dato adito alla critica di relegare il pensiero di Maritain come sorpassato conseIVatore, ma alla luce dei nuovi studi si è chiarito come invece fosse sì di derivazione tomista, ma con una carica esistenziale e innovatrice di grande attualità. In tutti i periodi della sua vita questa carica vitale è stata la caratteristica ben precisa del suo pensiero, anche se talvolta ha cambiato punto di osservazione, come è naturale che avvenga in uno spirito eccezionale aperto alla capacità di analisi e di sintesi, riuscendo a cogliere i diversi aspetti esistenziali dell’uomo e del suo destino. 

È stato prevalentemente contemplativo e, quindi, temperamento di artista, ha saputo immergere la sua conoscenza nei più svariati campi delle aspirazioni del nostro tempo con lo stesso amore della verità e della cultura in quan~o la sua voce diffusa dalle sue molteplici opere ha indagato sia nel campo politico, sia nel campo pedagogico che nel campo artistico con valenze poliedriche universali. Tutto questo in un modo livellato, dove l’uomo schiacciato dall’aridità di una tecnica senz’anima ha perso la sua disponibilità ad inserirsi in una “civiltà dell’amicizia”, secondo una sua felice espressione. Tutto il suo lavoro è improntato a profondo amore per l’uomo moderno alla ricerca incessante dell’essere nella sua, completa eccezione, che dalla conoscenza razionale alla conoscenza artistica possa risalire la via della quiete interiore per un approccio, con Dio. 

Tralasciando i dati strettamente biografici, ci soffermeremo a considerare il suo prezioso insegnamento. D’accordo con Mounier e Péguy, affermava che l’amore basato sul “donarsi” ha perduto questa verità, tanto che anche l’intelligenza ha finito per diventare una proprietà massificata e ciò a causa di molte disgrazie umane. È necessario quindi rifare “la rinascenza”, ossia gettare le premesse per un nuovo rinascimento spirituale dell’umanità. L’opera più nota di Jacques Maritain ‘Umanesimo Integrale’ è impostata sul concetto del ritorno dell’uomo all’uomo, dell’uomo che sente di appartenere intimamente al mondo dello spirito con atteggiamento critico e costruttivo per edificare, non per distruggere, con l’adesione non costruttiva al mondo del lavoro e dell’arte, senza di che si incappa inesorabilmente nella follia. Tanto è vero che i fautori del nichilismo puro hanno tutti terminato la loro vita o col suicidio o con la demenza totale. 

In ‘Umanesimo Integrale’ calca la mano e l’accento sul fatto che l’uomo, nella sua limitante condizione umana, deve essere sì aperto al dialogo col mondo, ma nello stesso tempo ha bisogno della grazia divina per superare le sue contraddizioni e ritrovarsi coerente con la norma morale di una società civile. Così la storia è animata da un movimento orizzontale che porta l’umanità ad una sempre più completa realizzazione mediante il lavoro e la cultura, e da un movimento verticale per cui il singolo trascende la società per immergersi nella contemplazione della verità e della bellezza. Questa, in fondo, è la concezione di S. Paolo cui Maritain si ispira e che svilupperà poi con la filosofia di S. Tommaso. È il concetto di personalismo: Maritain è infatti il prosecutore non scolastico della filosofia tomista per il carattere di esistenzialità del suo pensiero. L’esistenzialità dell’essere non può trovare appagamento se non nella misura in cui supera la sua condizione storica, mentre la saggezza gli offre il salto della qualità sulla quantità. La mancanza della qualità determina le crisi delle società. 

Sono questi i temi fondamentali che Maritain ha svolto durante il ritiro di Tolosa, che hanno indotto molti studiosi a rivedere le loro posizioni polemiche e la loro conseguente scoperta sui rapporti tra la vita attiva e la vita contemplativa. Tra l’azione politica e l’azione religiosa correlata c’è tutto Maritain. 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 55-56




Le donne della poesia

Il curatore di questa Antologia, Domenico Cara, studioso d’Arte e di Letteratura, raccoglie il lavoro poetico di poco più di un centinaia di poetesse, una centuria di scrittrici in qualche modo etereogenea, ma in cammino verso un’elaborazione di pensiero che dal greto di un’esistenza perversa a volte urla la sua sete di trascendenza e di sogno. Pur nella diversità degli argomenti e delle occasioni, dirò meglio, del proprio spazio-tempo, alla fine tutto si coagula in una richiesta d’amore, dove l’armonia d’amore è la fiaccola tesa più che mai al cuore femminile. Anche se l’amore si aggira ancora circospetto nei residui e teme la rima con il cuore in una sorte di virilità violentata, è già nel segno di un superamento riparatore, sul bilancio soppesato delle pulsioni oltre il femminile. 

Il pensiero inevitabile per servire l’idillio, nonché il fatiscente per sperimentare la capacità di rinnovare i registri e le manifestazioni di stile della scrittura, si fa canto, cauto e riflessivo al massimo. 

Da un campo minato si muovono le disuguaglianze rivelatrici di una meta di avvicinamento comune in quanto il dire poetico punta sempre su una verità annunciata nell’intimo di ogni creatura. Questa Antologia giunge dopo l’emblematico periodo femminista – e cerca di captare oltre il femminile – il nuovo senso dell’epoca decorticata di valore per redimere il silenzio dal rumore, le compronùssioni aspre dal quotidiano, oltre l’urto con il mondo rifiutato, con la passione dichiarata per l’estasi silenziosa. 

Il sogno è di inseguire l’inquietudine come “l’arte alla luce della coscienza ritrovata: – tu l’afilato,/l’audacia, l’eterno” (A. Santoliquido). Ecco, diciamolo pure chiaro e forte, oltre la nebbia degli indifferenti la donna poeta ha fatto tesoro della propria storia occulta nel processo restaurativo della sua creatività. Nell’equilibrio della ricerca c’è la donna amazzone di Maria Grazia Lenisa che mette in guardia la fanciulla dalle penne d’oro e turchine: “La donna è senza terra, dovrà / andare oltre davvero il potere delle nuvole, oltre la tela… ” (pag. 139). “Preparammo forse il nuovo tempo, l’uscita /tra i corvi con molte fionde, con gridi, colori / e l’appuntita intelligenza”. Nella catarsi docile di Helle Busacca: “La fiumana / di ombre indistinte e incolori su cui si spiana il silenzio” e di Liana De Luca: “La morte della morte nella morte / la morte per unica sorte” (p. 50), si innesta la riflessione dell’uomo e la sua effimera fragilità. 

Maura Del Serra così conclude una poesia: “… ebbi per madre la piaga di tutti/e per figlio illegittimo il veggente dolore” (pag. 46). 

Concludiamo anche noi con due versi della già citata Anna Santoliquido: “ho solo frammenti di mia madre/ vivrò per ricomporli …” 

Tutte alla ricerca dell’oltre della pura contingenza fisica per assurgere al mondo dell’assoluto dove le vibrazioni dell’essere si accordano all’armonia dell’universo, con le nostre piccole schegge luminose vaganti e pulsanti in quell’altrove per ricongiungersi nella defluente unità del tutto. 

Se ciò era da mettere in evidenza secondo le intenzioni del curatore, è qui testimoniato con somma trasparenza dai molti nomi illustri o appena esordienti: allora accettiamo come – oltre il femminile o l’oltre il maschile – nulla è più confutabile nello scambio complementare di trasalimenti sia pure “con la fatica di scaldare il gelo in ogni dove ristagni l’ombra”. 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 77-78.




 Grida la rosperìa 

Grida la rosperìa

la sua critica scettica: 

non c’è più poesia 

ma c’è l’arte poetica  

Manuel Bandeira, Os sapos, 1918 

(Trad. di Renzo Mazzone) 

(da Mosaico de Manuel Bandeira. Poemas de Carlos Dmmmond de Andrade, a cura di l(jlio Castaiion Guimaràes, Ediçòes Alumbramento – Instituto Nacional do Livro, Rio de laneiro, 1986)




Haikai

Sanzio Azevedo




Traccia

Un poema 

libero da grammatica e da suoni 

delle parole 

libero 

da tracce. 

Un poema fratello 

d’altri poemi 

che spengano la sete 

ai corsi d’acqua 

e rilucano come pietre al sole. 

Un poema 

che sia senza il sapore 

della mia bocca e sia 

libero 

da segnali di denti sopra il dorso. 

Poema nato 

agli angoli di strade, lungo i muri 

come povere parole 

con parole appassite 

però 

libero tanto 

che da se stesso tragga 

la decisione 

d’essere 

scritto o no. 

IMPEGNO 

Tocca ora al corpo 

morire 

giorno per giorno 

andare 

e disabituarmi 

del volto 

che io 

chiamavo mio. 

INTENTO 

Ho tanto usato 

questo corpo 

tanto. 

È giusto ch’io lo lasci 

e lo metta a giacere. Perché sia 

dimenticato. 

SAZIETÀ BIOGRAFICA 

Ho forse camminato senza piedi 

e volato senz’ ali. 

Sono un sogno svanito. 

Scrivo lettere ai fiumi di frequente 

mentre coltelli 

puntano al mio cuore. 

Che posso dire 

(se smettono gli uccelli di cantare) 

e come amare 

(se amano gli amanti il suicidio)? 

Gli assassini conoscono il mio nome. 

INGANNO 

In fin dei conti 

costruiamo edifici 

case giardini dove 

sono sbocciate rose 

tremule. In fin dei conti siamo sempre 

sottomessi agli impegni d’ogni giorno 

alle stagioni 

dell’anno 

ed alla rotazione della terra. 

La nostra patria pensavamo fosse 

questa. 

da Risco, Nankin Editorial, Sao Paulo, 1998




Nostalgia

Chi abita la mia casa 
mi presta il corpo e sale 
sottili bianche scale. 
Spade 
mi graffiano ed io sanguino. 
Di stanza in stanza 
io palpo culle vuote. 
Giorni ciechi mi spingono 
lungo le notti 
verso altri giorni … 
Ma chi abita in me, questa mia casa? 

Eunice Arruda 

 Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




Dolore

Sto male, sono dolorante, afflitta 
al sereno notturno. 
Attaccano un acuto le cicale. 
Dormo dentro di me profondamente. 
E va la sera 
là fuori, avanza lenta 
come un vecchio carretto cigolante. 
Più niente importa. 
Chi piange se sto male? 
Se io sono ferita, 
chi si dissangua? 
Sono stata sbattuta contro un muro. 
Mi avevano protetto 
le braccia e la mia ombra, 
ma ora 
il sale non si scioglie sulla pietra 
e mi addormento 
come un bambino scosso dai singhiozzi 
o forse 
come uno scarabeo rivoltato 
sul marciapiede. Invano 
il dolore mi assolve da ogni colpa. 

Eunice Arruda

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.