FRANCESCO GRISI, La poltrona nel Tevere, romanzo, Rusconi, Milano, 1993.

Uno degli ultimi romanzi di Francesco Grisi, poco prima della sua immatura scomparsa, La poltrona nel Tevere è in pratica la prosecuzione di Maria e il vecchio, pubblicato nel 1991. 

Personaggio eclettico, quasi vulcanico, Grisi ha avuto ed ha molteplici interessi: narratore, critico, saggista, pittore, già docente nei licei e assistente di Giacomo de Benedetti alla cattedra di Letteratura italiana contemporanea, grande viaggiatore; come scrittore si può definire toco (come direbbe Cernetti) in quanto sa dare come pochi luce alla pagina e la sua scrittura si distingue per forza e potenza. 

La poltrona nel Tevere è un’opera di narrativa particolare; presenta cultura seria ed elaborata, ha singolarità di taglio, vigoria immaginativa, fervida ed allucinata fantasia e il supporto primario della memoria. Nel suo Diario Guido Morselli notava che «la memoria è una cosa con la fantasia. Ricordare è credere. E la memoria in noi è continuamente attiva oltre che spontanea. In questo senso la vita nostra si intesse di poesia, cioè di sentimento. Dunque il tessuto è dato da un intreccio di reminiscenza». Nel romanzo primeggiano memoria e fantasia e l’opera è un intreccio di reminiscenze (impasto, dice l’autore). La pagina è illuminata da irradiazioni che provengono dal ricordo che Grisi espone’ con stile inconfondibile e tetragonamente anticonformista. Va detto che il romanzo richiede una lettura attenta e lo stesso autore avverte in prima pagina che ha bisogno della collaborazione del lettore: «La mia vicenda è vera anche se sarà vissuta dal lettore.» 

La stessa vicenda è raccontata in prima persona da un postino, Francesco, laureato in Lettere, che ha scelto quel mestiere vuoi per pigrizia, vuoi per l’aspirazione di tanti italiani a diventare statali. Viene coinvolto da un deputato che saluta col roboante quanto decaduto «Avanti popolo alla riscossa». È indotto a violare il segreto postale, aprire con un marchingegno le lettere che il presidente, uomo di potere, fulcro del romanzo, riceve da brigatisti, dai quali era stato catturato e poi inspiegabilmente rilasciato con grande raccapriccio degli avversari politici. Ora riceve lettere dai brigatisti e il partito del deputato, che teme e odia il presidente, intende controllare la corrispondenza, sicché il postino viene invitato (e corrotto) ad aprire la corrispondenza inviata al presidente, fotocopiare le lettere, consegnarle al suo committente e poi, ricomposte, portarle al destinatario. 

Questo è l’avvio del romanzo. Il 2 di aprile, giorno di San Francesco di Paola, segna l’inizio delle reminiscenze. Il postino ricorda la natìa Calabria, il suo mare di un azzurro intenso e rievoca il miracolo del Santo che traghetta lo stretto di Messina a bordo di un mantello. Di reminiscenze il lettore ne troverà molte e sono talmente bene inserite che non turbano lo scorrere della vicenda anzi l’arricchiscono o la rendono affascinante. 

Tra i personaggi, vibra di lucentezza la terrorista Cristiana, vestale di una lotta che passava per la politica, donna visionaria e passionale che lotta con tenacia pur conscia che la partita è persa. È lei che indirizza missive al presidente, per il quale 

sente molta ammirazione. E le pagine di Cristiana sono tra le più calamitanti del romanzo. Il presidente – facilmente riconoscibile – è il perno della vicenda; rapito, affascina i brigatisti con la sua dialettica e con la forza della ragione, e viene liberato con sorpresa dei vari politici. 

Qui Grisi inserisce un dialogo tra il presidente, che liberato s’avvia verso casa e attende l’autobus, in piazza Venezia, e Mussolini che s’affaccia al fatidico storico balcone. È un dialogo serrato, imprevedibile, che ripercorre parte della nostra storia. Dopo un certo periodo di libertà, il presidente viene rapito nuovamente e finisce con lo scomparire su una poltrona che veleggia sul Tevere. Accanto al postino narratore la madre, vecchia e malata che inventa sogni profetici, attraverso i quali richiama storia recente e passata e non manca di cantare «Casta diva», «Giovinezza», «Volare». Infine, Chiara, dolce compagna del postino. 

Semplice a grandi linee, il romanzo trova il suo epilogo nella scomparsa del presidente, nella cocente sconfitta del brigatisti, nel crollo delle loro utopie e la morte della vecchia madre. Ma alla vicenda Grisi, con una tecnica tanto abile quanto valida, inserisce personaggi del passato, come se fossero tuttora viventi. Con un fare di stampo poundiano, divaga, discetta, medita, richiama personaggi del passato che rivivono, come se fossero protagonisti, con tutti i connotati di bene e di male. Con una tecnica innovativa, fantasia fervida e allucinata, lo scrittore analizza (inserendo sapientemente i dialoghi) temi e problemi che ancora ci fanno giungere il loro riverbero. E l’ analisi è condotta con intenti anagogici e gnomici. 

«Se c’erano i Tedeschi da una parte e gli Alleati dall’altra, è anche vero che c’erano gli Italiani che si uccidevano. È mai possibile che due ideologie in contrasto abbiano fatto dimenticare la fratellanza, la famiglia, l’idea comune di patria?» E ancora: «La guerra santa è l’unica frontiera che unì gli Arabi. Il nemico è anche Israele ma il vero demonio sono gli Americani e i Russi che non hanno religione. Operano per politica o per economia. Svincolati dalla religione, sono i figli del male. Non credono neanche nella libertà. Anzi si servono di questa parola magica per comandare e dividersi il mondo.» Di queste considerazioni – che hanno valido fondamento e mostrano la perspicacia dell’autore – il libro è zeppo, talché si può affermare che il romanzo è a un tempo storia, disputa filosofica, meditazione cristiana, teologia, analisi psicologica, sottilissimo gioco di ironia che Rilke avrebbe definito pura parènesi. 

La scrittura ha unità di tono, qualche varietà di lessico (sono inseriti frasi dialettali, strambotti, storielle), è glabra e il periodare, generalmente breve, è incalzante. A nostro avviso il romanzo è un invito all’unità e alla concordia, presenta una sorta di filosofia dell’amore, e contiene un messaggio di grande valore: la fratellanza umana è riscattabile soltanto da un anelito verso l’Altissimo 

perché la vita è viaggio che si conclude con la morte che unica consente la resurrezione. («La morte è un vivere», scriveva Holderlin.) 

Al di là della splendida indovinata allegoria sul potere, l’opera di Grisi è anche atto di fede nella storia, se la storia è esaminata senza spirito di parte o senza travisamenti, oggi frequenti. Come è scritto nel risvolto di copertina, «sarà il senso dell’immortalità la resurrezione, promessa dal figlio di Dio, ad offrire una possibile risposta alla domanda che il postino ripete a se stesso: “Perché la terra è così bella e atroce?”» 

Salvatore Arcidiacono 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 43-45.




La traduzione nel Medioevo a Palermo e a Toledo 

Riassunto – In questo saggio vengono studiate le condizioni ambientali che nel Duecento resero possibile l’esistenza, nel Mezzogiorno italiano e nella Spagna centrale, di due centri culturali conosciuti rispettivamente come la Magna Curia e la ,Escuela de Traductores de Toledo 

A capo di essi spiccano due sovrani eccezionali e quasi coevi: l’imperatore Federico Il e il re Alfonso X el Sabio. Entrambi, ma soprattutto il re toledano, devono essere considerati come nesso imprescindibile tra la cultura orientale e quella occidentale, poiché fecero tradurre dal greco e dall’arabo molti testi scientifici orientali, che gli eruditi europei non avrebbero forse potuto conoscere. 

Si studiano anche i procedimenti che erano seguiti, sia alla corte siciliana sia nelle diverse tappe dei lavori della corte toledana, dai diversi gruppi di traduttori formati da savi appartenenti a tre etnie storicamente irriconciliabili musulmani, ebrei e cristiani – che realizzavano simultaneamente le traduzioni in latino o in volgare (Angeles Arce*). 

Il secolo XIIl nell’Occidente latino ebbe la fortuna di conoscere due sovrani eccezionali, ambedue promotori di un mondo culturale senza pari nel Medioevo’, eredi e continuatori di un iter anteriormente tracciato, che raggiungeranno il loro auge in una sorta di «Dispotismo illuminato» del Duecento: Federico II di Sicilia e Alfonso X di Castiglia, diretti responsabili rispettivamente della Magna Curia2 e della Escuela de Traductores de Toledo3. Entrambe le sedi, ma soprattutto quella toledana, devono essere considerate come un ponte imprescindibile tra la cultura orientale e quella oçcidentale poiché, grazie alle traduzioni da esse realizzate – dal greco e dall’arabo in latino o in volgare -, molti eruditi europei presero contatto con quei testi fondamentali della filosofia, dell’astronomia, della matematica, dell’alchimia o della medicina che la maggior parte di loro non potevano conoscere, e forse non avrebbero mai conosciuto. Inoltre, esercitando la funzione di ponte culturale con l’Europa medievale, le scuole siciliana e toledana inaugurano i primi movimenti letterari dei loro rispettivi Paesi: la lirica da parte di Federico II e la prosa grazie alla penna di Alfonso X. Questo conferma che lo sviluppo o il consolidamento delle letterature volgari si verificò proprio nei luoghi dove fu maggiore l’interazione fra culture e lingue diverse. 

È molto probabile che questi monarchi, pur appartenendo alla stessa stirpe familiare degli Hohenstaufen – Alfonso era figlio di Beatrice di Svevia, cugina di Federico II e ambedue nipoti di Federico I «Barbarossa» (1152-1190) -, non si siano mai conosciuti: sembra strano, però, che non abbiano neppure avuto notizie l’uno dell’altro, dato che la differenza cronologicamente esistente fra loro era di poco più di vent’anni. Se consideriamo, invece, i numerosi punti di contatto delle loro condizioni ambientali e la somiglianza culturale delle loro corti, è evidente che si possono studiare non solo come semplici coincidenze casuali, ma si devono invece studiare insieme e comparativamente per poter chiarire meglio alcuni aspetti particolari inerenti ad esse aspirante frustrato alla corona imperiale tedesca (1256) dopo la morte di Guglielmo d’Olanda5. 

Sono conosciute le vicende storiche del rapporto plurisecolare tra la Sicilia e la Spagna. Ci basti ricordare solo tre esempi: Tucidide afferma che i Sicani, primi abitanti dell’Isola, procedevano dalle coste orientali della penisola iberica; d’altra parte, è stata messa in evidenza la somiglianza, dal punto di vista linguistico, tra alcuni suoni dell’Italia meridionale con certi elementi dei dialetti iberici orientali, il che potrebbe provare che la colonizzazione romana della Spagna si è potuta portare a termine con abitanti suditalici; ed in terzo luogo, c’è un fatto che mi sembra interessante ricordare: la Spagna e la Sicilia furono le due uniche zone di tutta l’Europa in cui gli Arabi si stabilirono a lungo e da cui irradiarono la loro cultura. 

Dal secolo XII in poi sono vari i centri culturali che primeggiano nel Regno di Castiglia e di Aragona: Tarazona, Siviglia, Murcia, Barcellona, Toledo, Segovia, Saragozza o Huesca, mentre nell’Italia meridionale – dove la corte era itinerante – prevalgono Messina, Palermo, Capua – con un centro di studi di retorica – e Napoli, sede quest’ultima, dal 1224, di un’università di fondazione regia conosciuta come «Studio generale» e istituita – secondo quanto si legge nel decreto di fondazione – «perché chi aveva fame e sete di sapienza trovasse da saziarsi nel regno»6. 

Tuttavia, tra tutte le sedi citate soltanto Toledo e Palermo – considerata questa da Pietro da Eboli quale dotata trilinguis7 – saranno reputate, sotto i loro rispettivi monarchi, come sedi di un enciclopedismo medievale tanto nell’ambito letterario quanto in quello scientifico. 

Ciò nonostante, l’islamizzazione in ambedue le corti era molto diversa. Infatti, il re Alfonso, toledano di nascita e cristiano, non poteva condividere i costumi arabi che avevano cominciato a proliferare nella corte siciliana, soprattutto durante il regno di Ruggiero II, nonno materno di Federico. Questo monarca (1097-1157), educato in ambiente greco, aveva organizzato una corte con eunuchi, con harem, con monete datate secondo l’egira e con invocazioni ad Allah, e dove non mancava nemmeno un’accademia di savi di varia provenienza. In seguito, anche se il nipote sopprimerà alcune di queste abitudini orientali, avrà sempre presente il ricordo giovanile di una Palermo dall’aspetto orientale in cui confluivano influssi normanni insieme a quelli latini, greci, bizantini o musulmani. Inoltre, peculiari circostanze storiche fecero sì che la struttura di queste due corti medievali e l’etnia dei loro rispettivi seguiti fossero piuttosto diverse. 

Questa corte meridionale, crocevia delle lingue medievali, considerata una delle più raffinate e la meno feudale di tutta l’Europa, fece della Sicilia il primo stato moderno del continente, tanto per la sua organizzazione burocratica quanto per le pretese assolutistiche della corona; senza dimenticare che, dal punto di vista letterario, alcuni credono che «fuori di essa si può ben dire, senza timore di peccare contro la storia, che tutta la nostra storia letteraria avrebbe avuto un corso differente (cfr. Folena, p. 273). 

Pur avendo seguito in un primo momento l’esempio della diffusa poesia provenzale, Federico II cominciò a patrocinare, verso il terzo decennio del Duecento, una scuola poetica che presenta la novità di non essere formata da trovatori, bensì da funzionari della Cancelleria. Il monarca, infatti, si circondò di un’elite politica che comprendeva burocrati, nobili, notai e personalità della corte che, per di più, scrivevano poesia in volgare come evasione dai problemi quotidiani. Tutti quanti, tanto i poeti o i giuristi provenienti dalla Penisola – come Pier della Vigna, Giacomino Pugliese, Goffredo da Benevento, Taddeo da Sessa, Percivalle Doria o Tommaso Gaeta -, quanto quelli provenienti dall’Isola come Stefano Protonotaro, Tommaso di Sasso o Iacopo da Lentini, formavano parte di una istituzione conosciuta come Magna Curia, una sorte, in senso lato, di governo o di amministrazione centrale. ‘Questo è proprio ciò che li distinguerà dal resto dei poeti dell’Occitania. Il poeta di questa prima scuola – chiamata da Dante, come è risaputo, «siciliana»8- è un uomo colto che scrive per il piacere della poesia, di una poesia pensata per essere letta individualmente e non per essere recitata con musica; si oppone così a quella dei trovatori professionisti, a volte semplici giullari ansiosi d’onori e inclini all’adulazione9. 

Non è il caso di soffermarci ulteriormente sulle caratteristiche di questa scuola o delle diverse scholae o sezioni che formavano la Magna Curia. Pur riconoscendone le indiscutibili innovazioni metriche e linguistiche nell’ambito letterario, è mia intenzione ora occuparmi dell’altra attività cortigiana, svolta a Palermo, che la ricollega a Toledo: le traduzioni dalle lingue orientali. 

È noto che intorno a Federico II, che sapeva leggere e scrivere, si sviluppò un’esuberante vita intellettuale giacché, secondo il Salimbene, il monarca stesso parlava, o almeno conosceva, parecchie lingue: il tedesco paterno e il francese normanno di sua madre Costanza d’Altavilla10, oltre al latino – conosciuto a scuola e identificato con la grammatica -, 1il greco11, l’arabo12 e un incipiente volgare italiano identificato nel dialetto apulo-siciliano. La conoscenza di queste lingue ampliava l’interesse del monarca e del suo circolo per le scienze e la filosofia, materie sulle quali, in maggior misura, verteranno le traduzioni «siciliane», mentre in area bizantina i traduttori dal greco di origine italiana, come Giacomo Veneto, Burgundione Pisano, Ugo Eteriano o Stefano da Pisa, si occupavano di testi religiosi o teologi. L’imperatore accoglieva nel suo cenacolo di generoso mecenate poeti, filosofi, matematici o giuristi e concedeva loro protezione in cambio di incondizionati servizi politici13. 

Tuttavia, possiamo segnalare qualche differenza nelle preoccupazioni dei due protagonisti: mentre Alfonso X vedeva tutte queste scienze «non come un lusso ma come un bisogno nazionale» che coltivava «a casa con i dotti peninsulari», per l’imperatore italiano – denominato il Sultano di Occidente -, la curiosità scientifica era un elemento del suo prestigio imperiale e della sua possente personalità e gli permetteva di intrattenere una corrispondenza con i savi e, soprattutto, con i sultani o califfi dello Yemen, dell’Egitto, del Marocco e con monarchi come il Saladino14. 

In questo senso, i contatti tra la Sicilia di Federico e l’Oriente sono molto più saldi di quelli della Castiglia di Alfonso. Ma solo in questo senso, perché senza mettere in dubbio, naturalmente, l’interesse dell’imperatore per la cultura, non sembrano del tutto esatte le parole del Folena quando afferma che «l’orizzonte apertissimo della cultura del tempo di Federico II era senza precedenti di uguale vastità nel Medioevo per incontro e contemporaneità di esperienze diverse» (Folena, p. 294). Le sue affermazioni si potrebbero ribattere, almeno, in due punti: in primo luogo perché un altro rinascimento culturale, forse molto più importante, era esistito mezzo secolo prima15 intorno alle figure di Ruggiero II (1105-1154) e Guglielmo I (1154-1166), nonno e zio di Federico; e d’altra parte – e in questo è necessario insistere -, perché molti dei savi e dei traduttori che lavorarono presso Federico avevano lavorato e perfezionato prima i loro studi a Toledo, riconoscendo con questo il primato indiscutibile della città spagnola, almeno nel campo delle traduzioni dall’arabo. 

Le prime versioni insulari vertevano su temi filosofici e scientifici, sulle orme di quelle toledane (cfr. Millas) ma, a differenza di queste, come si è visto, furono opera di collaboratori della Magna Curia che erano dei personaggi legati alla burocrazia di corte. E proprio a questa appartengono i primi traduttori di cui si hanno notizie16 tra i quali Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania e Primo ministro di Guglielmo I, a cui portò come regalo da Tessalonica un manoscritto in arabo della Syntaxis mathematica di Tolomeo, conosciuta come l’Almagestum. Tradusse nel 1156 dal greco in latino il IV libro delle Metereologiche di Aristotele, e anche i dialoghi platonici Menone e Fedone; in collaborazione poi con l’ammiraglio siciliano Eugenio da Palermo, tradusse verso il 1160 – questa volta dall’arabo – il famoso trattato di astronomia tolemaico, di cui esisteva già una versione anonima in ebraico. 

Eugenio da Palermo, grande conoscitore dell’arabo, verso il 1150 fece una versione in latino, ora da solo, dell’Ottica tolemaica ed è grazie al suo sforzo che quest’opera è giunta fino a noi – solo i libri Il e V -, giacché sono andati perduti tanto l’originale greco quanto la versione araba posteriore17. 

Tuttavia, un fatto prova che i lavori realizzati a Palermo non avevano, purtroppo, una grande diffusione nel mondo cristiano medievale: i testi tradotti più di una volta in modo indipendente dimostrano che fra i traduttori siciliani e i toledani – senza dimenticare anche i constantinopolitani – non c’era una fluida comunicazione o informazione. Un esempio tra i tanti: appena una quindicina d’anni dopo la traduzione siciliana dell’Almagestum tolemaico, un importante traduttore dell’Italia settentrionale, 

Gerardo da Cremona, fece una nuova versione del libro alla corte toledana, ignorando, forse, quella realizzata anteriormente in Sicilia dai suoi compatrioti Eugenio da Palermo e l’Aristippo. Anche se l’opera dell’astronomo di Alessandria era stata tradotta in arabo nel secolo IX e più tardi in ebraico da ebrei spagnoli, la versione latina che si diffonderà per tutto l’occidente – fino alla sua definitiva pubblicazione a Venezia nel 1515 e prima dell’edizione principe dell’originale greco fatta a Basilea nel 1538, è dovuta proprio a quest’italiano noto come il Cremonensis18. 

Infatti Gerardo da Cremona (1114-1187), che arrivò alla corte castigliana intorno al 1157 – un secolo prima di Alfonso X el Sabio – con l’unica intenzione di conoscere e divulgare l’Almagestum, prolungò per tre decenni il soggiorno a Toledo lavorando come uno dei tanti studiosi assidui della scuola castigliana19. Dopo aver approfondito lo studio dell’arabo, fu immenso il sapere che scoprì in quei testi arabi, ancora non conosciuti dalla cultura occidentale. Gerardo attinse alla più vasta materia per le sue fedelissime traduzioni in latino, che dotò di una terminologia più precisa e un linguaggio tecnico nuovo nel campo dell’algebra, aritmetica, medicina, astrologia, geomanzia o alchimia. Tradusse circa ottanta trattati20, numero che fa pensare alla possibilità che l’italiano sia stato il direttore di un gruppo specifico di traduttori – socii – tra i quali collaboravano sia ebrei che «mozarabes)), cioè cittadini della Penisola Iberica che rimasero fedeli alla religione cristiana anche se assunsero come propri i caratteri della civiltà araba. 

È inoltre vero che se in Europa nel secolo XII esistevano altre scuole episcopali di prestigio, tutte erano d’accordo nel conferire a Toledo il primato nell’islamizzazione del mondo occidentale. Questa è la causa per la quale molti eruditi europei frequentarono questa ed altre scuole spagnole dove ampliavano i loro studi ed erano in grado di realizzare posteriormente diverse traduzioni. Tra questi studiosi «stranieri» che viaggiano in Spagna si possono ricordare i nome dell’italiano Platone 

 

di Tivoli21 , il fiammingo Rodolfo di Bruges, il tedesco Ermanno di Carinzia – noto a Toledo come Herman el Dalmata o el Aleman e traduttore del Corano e di altri testi dottrinali arabi – o studiosi inglesi come Alfredo Sareshell22, Roberto di Chester – presente anche nella scuola salernitana verso il 1150 -, Daniele di Morley che nell’ultimo quarto del secolo XII si occupa di astrologia, ed il filosofo Adelardo di Bath, al quale viene attribuita – come anche a Fibonacci Pisano – l’introduzione in Europa delle cifre arabe23. 

Un caso peculiare di presenza nelle due sedi mediterranee come traduttore e autore originale è rappresentato dallo scozzese Michele Scoto (1175-1236), una delle personalità più ammirate da Federico24. La sua carriera cominciò a Toledo nel 1217, dove in stretta collaborazione con l’ebreo «Abuteus levita», finì la traduzione – anche se restò inedita al pari del testo arabo – del libro di astronomia di al-Bitruji25. Completò anche le traduzioni di Avicenna – così era noto il medico persiano Ibn Sina – e di Aristotele sugli animali, e fece conoscere in Europa i commenti sulla filosofia aristotelica di autori ispanoarabi come Avempace, Averroè, Abentofail o Maimonide, importanti collaboratori alla corte toledana prima dell’arrivo di Alfonso di Castiglia. Lo scozzese lasciò Toledo in data imprecisata e fra il 1220 e il 1224 arrivò in Italia; dopo aver frequentato i circoli papali in epoca di tregua fra Santa Sede e Impero (1124-1227), si trasferì a Pisa e poi alla corte federiciana portando con sé il sapere acquisito in Spagna. Accettò allora l’incarico di astrologo26 e matematico di camera nella corte di Federico Il dove restò fino alla morte nel 1236. Incontrò in Sicilia altri uomini di cultura non soltanto italiani – come Aldobrandino da Siena, Leonardo Fibonacci da Pisa27 o Percivalle Doria -, ma anche di altre nazionalità come il musulmano Moamyn28 , gli ebrei Giacobbe Anatoli29 e Yehudad ben .Shelomo Koben, il provenzale Aimeric de Peguilhan – trovatore occitano che dedica una canzone da crociata all’Imperatore -, il poeta normannò Enrico di Avranches, che verso il 1236 dedica vari poemi arguti a Federico, e perfino due personaggi legati alla curia pontificia i cui nomi latinizzati evocano la loro origine iberica: il Magister Dominicus30 e Petrus Hispanus, futurò papa Giovanni XXI nel 127631. Queste due ultime figure ci possono servire per introdurci nella Spagna coetanea, sebbene prima è necessario fare una breve precisazione sul metodo di traduzione seguito dagli uomini che lavoravano a Palermo. 

Anche se non si hanno notizie sicure al riguardo, qualcosa si può ricostruire dalle osservazioni critiche di un eminente scienziato inglese, Ruggero Bacone (1220-1292), che distingue fra un «tecnico professionale» e un «commentatore» del testo. Occorre, dice, non soltanto conoscere le lingue ma avere una completa padronanza della materia su cui verte 1’opera tradotta; non condivide, inoltre, la metodologia verbum de verbo cioè, letterale – perché serve solo a mascherare l’ignoranza dei traduttori. Ruggero non esita a criticare il pessimo lavoro «meccanico» di due personalità come Gerardo da Cremona o Michele Scoto, e con le sue critiche anticipa quelle delle teorie umanistiche della traduzione. 

Per sommi capi, la traduzione medievale – che seguiva non una ma diverse metodologie e distingueva la versione ad verbum da quella ad sensum – partiva da un canovaccio parola per parola, a volte orale, a volte scritto a modo di glossa nell’interlinea del testo greco o arabo originale. Non era considerato «traduttore» chi faceva questa prima bozza, ma colui che la trascriveva, potendo accadere persino, che il cosidetto «traduttore» – interpres – non conoscesse addirittura la lingua di partenza. 

Tuttavia Ruggero Bacone, che non era traduttore ma usufruiva delle versioni altrui come lettore e studioso, criticò duramente il letteralismo, anche se lo giustificò in due casi: quando le lingue di partenza e di arrivo erano assai diverse, o per motivi «scientifici», cioè quando la materia era molto complicata e conveniva restare il più possibile vicino all’originale per fare poi una glossa o un commento. 

Fatta la precisazione sulle tecniche seguite dai traduttori a Palermo, cambiamo di sede mediterranea. Abbiamo già ricordato che il favoloso mondo culturale di Toledo non era cominciato nell’epoca di Alfonso X di Castiglia, ma alcuni decenni prima durante il regno di suo padre Ferdinando III, detto il Santo (1199 – 1252), coevo dell’imperatore Federico. Pertanto nel secolo e mezzo durante il quale si porta a termine l’ingente lavoro di traduzione della scuola toledana (1130-1287) si può parlare di tre periodi: epoca raimondiana [1130-1187), epoca di transizione (1187-1252) ed epoca alfonsina (1252-1287)32 . 

Gli avvenimenti storici influirono decisamente sul funzionamento della scuola. Toledo, capitale nel 1035 di un importante «Reino de Taifas», fu recuperata da Alfonso VI nel 1085. I cristiani dimostrarono in questo caso la loro intelligenza e cultura rispettando e facendo tesoro dei numerosi manoscritti che si trovavano nelle biblioteche della città33. In questo modo la cultura araba e quella latino-cristiana si fusero, ma grazie a un elemento agglutinante costituito dagli ebrei, i quali oltre ad essere economicamente importanti, in genere erano anche dotti e colti. In numero maggiore che a Palermo, questi ebrei «spagnoli» che fuggivano dall’intolleranza almohade, collegarono due etnie, storicamente nemiche irreconciliabili, che di sicuro non si sarebbero mai affratellate senza il loro tramite34. 

31 Con il nome Petrus Hispanus (1220-1277) si conosceva questo erudito di Lisbona, autore di un manuale di dialettica intitolato Summulae logicales e commentatore di opere mediche di Ippocrate e di Galeno tra altri. È difficile assicurare i suoi rapporti con la corte federiciana prima della morte dell’imperatore ma, come medico di Gregorio X, non bisogna dimenticare il suo interesse per la medicina nel campo delle scienze della natura e del corpo: il suo nome appare negli studi sul piacere provato nei rapporti sessuali o in un esperimento legato alla magia per guarire l’impotenza maschile. La figura serve anche a provare che i rapporti tra la curia pontificia e la federiciana esistevano ed erano più intensi di quanto si credeva. 

La città castigliana era una sede ideale per questo tipo di lavoro di traduzione: disponeva di abbondanti testi orientali, di eruditi che conoscevano le lingue da tradurre, anche se non sempre dominavano le materie che traducevano, e non mancavano i mecenati protettori della cultura e del sapere ecumenici. Il primo di questi benefattori risale alla prima metà del secolo XII: l’arcivescovo don Raimondo35 che sarà il promotore della cosiddetta Accademia, Collegio o Scuola di Traduttori di Toledo. Il personaggio che diede nome all’epoca raimondiana controllò le numerose versioni dall’arabo al latino dovute alla collaborazione tra Domenico Gundisalvo, arcidiacono di Cuéllar36 e il «Magister Iohannes», – così era noto l’ebreo converso Giovanni Hispanus, vescovo di Segorbe37 -, ambedue coevi del Cremonensis. 

Don Raimondo, inoltre, realizzò a Toledo grandi riforme urbanistiche e prese parte al Consiglio e alla Cancelleria reale, funzioni che lo collegano direttamente con i poeti aulici della Magna Curia siciliana. Purtroppo, anche se importante, la sua dedizione al «Colegio de Traductores» non può essere paragonabile a quella di Alfonso X, la quale caratterizzerà l’ultima tappa della scuola toledana. Non ci sono rimaste notizie sicure sugli interventi più o meno personali dell’arcivescovo nei lavori di traduzione, ma nel 1152, dopo la sua morte, la scuola continuò la sua attività culturale, sebbene il successore don Giovanni – vescovo dal 1151 al 1166 – trasferisse 

le attività di traduzione all’interno della cattedrale [cfr. Hernandez]. 

Al contrario, la figura di Alfonso X sarà sempre presente nei gruppi di traduttori fino a quando il re non si dovette occupare dei problemi di politica interna – dal 260 al 127038 -; si interruppero quasi le attività scientifiche della «Escuela de Traductores» le quali spariranno definitivamente con Sancho IV, pochi anni dopo la morte di Alfonso. 

Nei quasi sette decenni considerati di transizione (1187-1252) fra le due tappe auree della scuola toledana, non sono molte le traduzioni39 né i traduttori importanti ad eccezione di tre nomi: il già nominato Michele Scoto che si trovò nel 1217 a Toledo e verso il 1228 in Sicilia; il medico e canonico Marco da Toledo che tra il 1191 e il 1234 tradusse dall’arabo in latino testi di biologia e medicina e, infine, il tedesco Hermann Dalmata che, oltre a vivere anche lui in ambedue le corti40, fu il precursore a Toledo delle traduzioni in castigliano adoperando un testo ebraico. Ci avviciniamo così all’epoca alfonsina, ultimo e più importante periodo della scuola toledana. 

Pervenuto al trono di Castiglia nel 1252, Alfonso X continuerà la tradizione precedente consolidatasi nel centro di traduzione. Nella sua epoca di infante, per iniziativa propria, aveva già fatto tradurre dall’arabo in castigliano il Lapidario (1250) – trattato su minerali e pietre preziose – e dal sanscrito il Libro de Calila e Dimna (1251 – 1252), famosa collana di favole indiane. Come re dovette far coincidere le preoccupazioni politiche proprie della corona con una maggior cura nei riguardi dei diversi gruppi di traduttori i quali, anche se con tecniche ereditate, pare seguissero un procedimento molto più complesso e perfezionato di quello usato dai traduttori della scuola con sede a Palermo. 

Se non sappiamo di sicuro come si realizzassero in Sicilia le traduzioni, sappiamo, però, come venivano elaborate alla corte toledana41. Era necessario un gruppo di varie persone in cui erano presenti un ulema musulmano, un dragomanno «mudéjap – nome con cui erano conosciuti in Spagna i maomettani rimasti fedeli alla loro religione dopo la «Reconquista» cristiana – e un rabbino ebreo che, a voce alta, traduceva il testo originale greco, arabo o ebraico in volgare castigliano, affinché simultaneamente un chierico e un erudito cristiano lo traducesse in latino. Con il tempo, questo curioso procedimento di «traduzione simultanea» subì qualche trasformazione quando il monarca, che partecipava sempre più attivamente ai lavori del gruppo [cfr. Solalinde], decise che le traduzioni fossero fatte sempre in castigliano e, a volte, in altre lingue volgari europee, come il francese. 

Questo desiderio del re di volgarizzare in castigliano i testi potrebbe essere attribuibile a diversi fattori: da una parte, a una volontà chiaramente didattica, dato che molti dei suoi sudditi ignoravano il latino, mentre il castigliano era conosciuto da tutti nei diversi ceti sociali42; e dall’altra ai consigli o suggerimenti dei collaboratori ebrei, più importanti numericamente, che sentivano il latino come una lingua legata alla liturgia cristiana e, come è logico, preferivano non adoperarla. 

Tuttavia, anche se con gli anni il procedimento venne semplificato e perfezionato, il lavoro di gruppo continuava ad essere imprescindibile: un musulmano o un ebreo, conoscitore dell’arabo o del greco, faceva la prima versione orale e volgarizzata del testo; poi l’erudito cristiano aveva il compito di dare a questa lingua castigliana, piena di scorrettezze, uno stile più o meno letterario o, per lo meno, leggibile. I testi e le miniature che illustrano i codici alfonsini ci mostrano con esattezza come il monarca spagnolo controllasse personalmente i lavori di questo gruppo di specialisti, che veniva completato con un correttore – «emendador -, con un compendiatore – «capitulador – e con un glossatore – «glosador – prima di arrivare in mano al copista che lo avrebbe convertito in lingua scritta}}. 

 

Questa premura del re faceva si che la versione definitiva fosse sempre più perfetta possibile43, prestando un’attenzione speciale alla correzione linguistica, sia che si trattasse di traduzioni quanto di opere originali del monarca. 

A questo punto ci possiamo fare una domanda: chi faceva parte a Toledo di questi gruppi di lavoro? Clara Foz assicura che, tra cristiani ed ebrei, erano appena undici gli studiosi nel secolo XII – cinque spagnoli e sei stranieri – di fronte ai quindici – dieci spagnoli e cinque di altre nazionalità – nel secolo seguente. Sebbene il numero di spagnoli fosse superiore, sembra che fosse loro riservata la funzione di semplici collaboratori degli ebrei, questi ultimi veri responsabili delle traduzioni definitive. Fra i traduttori cristiani si possono dare i nomi di Alvaro da Oviedo, Garci Pérez da Toledo, il Magister Bernardus, e alcuni italiani come Thebaldis da Parma, Giovanni da Messina, Giovanni da Cremona o Bonaventura da Siena, i quali, generalmente, lavoravano su testi previamente già tradotti in volgare. I traduttori ispano-ebrei sono più numerosi e anche più importanti anche se, a volte, i nomi ispanizzati si 

confondono. Il re Alfonso apprezzava in modo speciale Judah ben Mose (Mosca il Minore), Isaac Ibn Cid (Rabiçag), Xosse Alfaqui, Samuel ha-Levi Abulafia e Abraham alHakim, noto come Abraham da Toledo. 

Proprio con questo nome avrà luogo una delle più importanti collaborazioni tra la Spagna e l’Italia nel Medioevo. Infatti, verso la metà del Duecento, il medico ebreo Abraham da Toledo tradusse in castigliano Il libro della Scala di Mahoma dell’autore arabo di Murcia Ibn Arabi (11641240). Alfonso X, considerando l’importanza capitale della diffusione dell’opera araba, ne ordinò simultaneamente una versione latina e un’altra francese. Quest’incarico sarà portato a termine nel 1264 dall’italiano Bonaventura da Siena, il quale, arrivato nel 1260 a Toledo con l’ambasciata guelfa di Brunetto Latini, rimase come notaio e traduttore presso la corte alfonsina. Probabilmente una delle sue versioni, quella latina o quella francese, forse addirittura portata a Firenze dal Latini al suo ritorno dall’ambasceria, poté essere conosciuta da Dante ancor prima di scrivere o di immaginare topograficamente la Commedia. L’ipotesi è quanto meno stimolante per gli studi di letteratura comparata: si tratterebbe, senza dubbio, del più importante contributo della scuola toledana alla letteratura italiana, e alla cultura europea, nell’area di tutto il Medioevo cristiano44. 

A modo di riassunto finale, possiamo indicare le differenze tra i due periodi più importanti della scuola spagnola: il latino, adoperato nella prima epoca raimondiana, era idoneo per testi filosofici o di tematica varia in mano a traduttori più «internazionali», mentre nell’epoca alfonsina il volgare castigliano diventò la lingua più adatta per la prosa della storia, per le leggi o per questioni scientifiche45; raggiunse così, attraverso l’impulso del monarca, la categoria di lingua ufficiale, rango che fino allora aveva avuto soltanto il latino46. 

Toledo divenne, quindi, il punto d’incontro di tre culture diverse, e tre comunità etniche e religiose – storicamente inconciliabili – riuscirono a creare con la loro simbiosi e il loro lavoro in comune, un sapere islamico su base spagnola in un momento in cui cominciava in oriente la decadenza del mondo arabo. E la lingua che avevano in comune questi tre nuclei sociali, così diversi fra loro, era il castigliano accettato da tutti e tre con una grande dose di tolleranza. 

Finora sono state messe in evidenza le disparità tra queste due corti in molti dei campi in esse coltivati. Mi sembra, però conveniente, a modo di conclusione, ricordare anche le grandi somiglianze tra i loro rispettivi artefici, e non soltanto nell’ambito delle traduzioni. Infatti, sia Federico II sia Alfonso X avevano un’enorme devozione per l’astronomia e l’astrologia, interesse che fece sì che la leggenda accusasse entrambi di superstizione che altro non era che la credenza nell’oroscopo -, e perfino di empietà e irreligiosità, accusa ben più grave dovuta forse alla smisurata ansia di sapere che animava l’uno e l’altro, certamente incompresa dai loro contemporanei. 

Dopo quanto si è esposto, potremmo concludere con le parole di un grande medievalista spagnolo, Ram6n Menéndez Pidal, il quale afferma che «las vidas paralelas de los dos soberanos dicen que Palermo y Toledo, Sicilia y Espana, ofrecen en el siglo XlI y comienzos del XlII condiciones de vida espiritual muy semejantes, y relaciones directas capaces de determinar la aparici6n de fenomenos equiparables, fen6menos que es necesario estudiar a la vez, pues mutuamente se esclarecen». 

Angeles Arce 

NOTA BIBLIOGRAFICA 
•• Segnalo in primo luogo i volumi generali a cui posteriormente farò riferimento con le sigle corrispondenti: 
– Storia d’Italia. Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, diretta da G. Galasso, Torino, UTET, 1983, vol. III. 
– AA.VV., Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, I (1953), II (1954) e IV (1956), citato come BCSFLS. 
– AA.VV., Federico II e le scienze, a cura di P. Tourbert e A Paravicini, Palermo, Sellerio, 1994, citato come FS. 
– ABULAFIA, D., Federico II. Un imperatore medievale (traduzione italiana), Torino, Einaudi, 1993 (specialmente pp. 211-239). 
– AHMAD, A, Storia della Sicilia islamica (traduzione italiana), Catania, Arco, 1977. 
– ANTONELLI, R., «La scuola poetica alla corte di Federico II>> in FS, pp. 309-323. 
– ASIN PALACIOS, M., La Escatologia musulmana en la Divina Comedia. Seguida de Historia y critica de unapolémica, Madrid, Instituto Hispano-arabe de Cultura, 1961. 
– BALLESTEROS BERETTA, A, Alfonso X el Sabio, Barcelona, Salvat, 1963. 
– BORSARI, S., «F. II e l’Oriente bizantino» in Rivista storica italiana, Torino, 63 (1951). 
– BRUGNOLO, F., «La scuola poetica siciliana» in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, Roma, Salerno Ed., l, 1995, pp. 265-337. 
– BRUNI, F., «La cultura alla corte di F. II e la lirica siciliana» in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Bàrberi Squarotti, Torino, UTET Libreria, I, 1990, pp. 211-273. 
– BURNETT, C., «Michele Scoto e la diffusione della cultura scientifica» in FS, pp. 371-394. 
– CASTRO, A., «Alfonso el Sabio y los judios» in La realidad hist6rica de Espafta, México, Pornia, 1954, pp. 451-468. 
– CATALAN, D., «El taller històrico alfonsi. Métodos y problemas en el trabajo compilatorio» in Romania, LXXXIV (1963), pp. 354-375. 
– CAVALLO, G., «Mezzogiorno svevo e cultura greca» in FS, pp. 236-249. 
– CERULLl, E., Il libro della Scala e la questione delle jonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano, 1949. 
– CHIESA, P., «Le traduzioni. in Lo spazio letterario del Medioevo. La ricezione del testo, Roma, Salerno ed., 1995, pp. 165-196. 
– COLAFEMMINA, C., «Un poeta ebreo a Otranto nel XIII secolo: Anatoli» in Atti della quartagiornatajedericiana, Bari, 1980, pp. 127-140. 
– COLLURA, P., La produzione arabo-greca della cancelleria di Federico II, Palermo, 1951. 
– D’AGOSTINO, A., Alfonso X el Sabio, Napoli, Liguori, 1992. 
– D’ALVERNY, M.T., «Translations and Translators» in Renaissance and Renewal in the twe1fth Century, a cura di R. L. Benson e G. Constable, Oxford, Clarendon Press, 1982, pp. 421-462. 
– DE STEFANO, A., La cultura alla corte di Federico II, Palermo, Ciuni, 1938. 
– ELWERT, T., «Federico II e l’importanza storica della poesia lirica italiana» in Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani, Palermo, 1952, p. 397. 
– FOLENA, G., «Cultura e poesia dei Siciliani. in Storia della Letteratura Italiana: Le origini e il Duecento, Milano, Garzanti, 1965, pp. 271-347. 
– Foz, C., «El concepto de Escuela de Traductores de Toledo (ss. XII e XIII)>> in Fidus Interpres, Universidad de Leòn, I, 1987, pp. 24-30. 
– GABRIELLl, F., «Federico II e la cultura musulmana» in Rivista storica italiana. Torino, 64 (1952), pp. 5-18. 
– GALMÉS DE FUENTES, A., In.fluencias sintacticas y estìlisticas del arabe en la prosa medieval castellana, Madrid, Real Academia Espaftola, 1956. 
– GARCiA FAYOS, L., «El Colegio de Traductores de Toledo y Domingo Gundisalvo» in Revista de la Biblioteca, Archivo y Museo del Ayutamiento de Madrid, 19 (1932). 
– GIL. J. S., La Escuela de Traductores de Toledo y sus colaboradores judios, Toledo, Instituto Provincial de Investigaciones y Estudios toledanos, 1985. 
– GONZALEZ OLLÉ, F., «La primacìa linguistica toledana» in Revista de Filologia Espaftola, Madrid, LXVII, NO 1-2 (1987), pp. 123-126. 
– HASKINS, C. H., «Michael Scott ad Frederic II» in lsis, Philadelphia, 4 (1921-1922), pp. 250-275. 
——-, Studies in the History ojMedieval Science, Cambridge (Mass.), 1924. 
——-, Studies in Medieval Culture, Oxford. 1929. 
——-, «Michael Scott in Spain» in Homenqje a Adolfo Bonilla y San Martin, Madrid, II 1930, pp. 129-134. – HERNÀNDEZ, F.J., Los cartularios de Toledo. Madrid, 1980. 
– KANTOROWICZ, E.. Federico II imperatore (traduzione italiana), Milano, Garzanti, 1976. 
– KÒLZER, T., «Magna imperialis curia> in Federico II e il mondo mediterraneo, Palermo, Sellerio, 194, pp. 65-81. 
– LEÒN TELLO, P., Judios de Toledo, Madrid, 1979. 
– MANSELLI, R, «L’imperatore F. II» in Cultura e scuola, Roma, 17 (1966), pp. 71-77.
 ——, «La corte di F. II e M. Scoto» in L’Averroismo in Italia, Roma, 1979, pp. 63-80. 
– MENÉNDEZ PIDAL, G., «Como trabajaron las escuelas alfonsies» in N.R.F.H., México, V (1951), pp. 363-380. 
– MENÉNDEZ PIDAL, R, Espafta, eslab6n enrre la cristiandad y el Islam, Madrid, Espasa Calpe, 1968. 
– MILANO, A., Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, 1963. 
– MILLÀS VALLICROSA J.M., «Elliteralismo de los traductores de la corte de Alfonso X el Sabio» in Al-Andalus, Madrid, C.S.LC., I (1933), pp. 155-187. 
——, Las traducciones orientales en los manuscritos de la Biblioteca catedral de Toledo, Madrid, 1942. 
——, «La corriente de las traducciones cientìficas de origen orientai hasta fines del siglo XII» en Cahiers d’Histoire Mondiale, II (1954-1955), pp. 395-428. 
– MONTES, E., «Federico II de Sicilia y Alfonso X de Castilla» in Revista de Estudios Politicos, Anexo al num. lO, Madrid (1943), pp. 3-31. 
– MORGHEN, R, Gli svevi in Italia, Palermo, Palumbo, 1974. 
– MORPURGO, P., «La scuola di Salerno… » in FS, pp. 410-423. 
– MUNOZ SENDINO, J., La Escala de Mahoma, (Traducci6nfrancesa y latina con notas y extensa intmduccion), Madrid, Ministerio de Asuntos Exteriores, 1949. 
– PAGLIARO, A., «Riflessi di poesia araba in Sicilia» in BCSFLS, II (1954), pp. 29-38. 
– PEPE, G., «Lo stato ghibellino di Federico II>> in Carlo Magno, Federico II, Firenze, Sansoni, 1968. 
– PERÉZ DE GUZMAN, J., «La biblioteca de consulta de Alfonso el Sabio» in Ilustracion Espaftola y Americana, Madrid, I (1905), pp. 131. 
– RIBEZZO, F., «L’elemento normanno nella letteratura e nella lingua della Sicilia e della Puglia» in BCSFLS, I (1953), pp. 107-114. 
– RIVERA RECIO, J.F., «Nuevos datos sobre los traductores Gundisalvo y Juan Hispano» in Al-Andalus, Madrid, C.S.LC., XXXI (1966), pp. 267-280. 
– RIZZO, P., «Elementi francesi nella lingua dei poeti siciliani della Magna Curia> in BCSFLS, I (1953), pp. 115-129, e II (1954), pp. 93-151. 
– ROMANO, D., «Le opere scientifiche di Alfonso X e !’intervento degli ebrei» in Oriente e Occidente nel Medioevo, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1971, pp. 677-711. 
-SIRAT, C., «La filosofia ebraica alla corte di Federico II» in FS, pp. 185-197. 
– SOLALINDE, A. G., «Intervencion de Alfonso X en la redaccion de sus obras» in Revista de Filologia Espaftola, Madrid, II (1915), pp. 283-288. 
– STERN, S., «Un circolo di poeti siciliani ebrei nel secolo XII» in BCSFLS, IV (1956), pp. 39-59. 
– TRAMONTANA, S., «Cristiani e musulmani in Sicilia» in Quaderni Medievali, I (1976), pp. 239-247
* Note
(*) Angeles Arce è docente di Letteratura al Dipartimento di Filologia Italiana dell’Università Complutense di Madrid. Si occupa di letteratura comparata ispano-italiana e di diversi aspetti della cultura settecentesca. 
l Senza dimenticare Costantinopoli, che fu nel secolo XII un importante centro di traduzione a scopo fondamentalmente apologetico o polemico-religioso, in questa sede farò riferimento soltanto ai due centri stabiliti nel Mediterraneo occidentale. 
2 Il termine Magna Curia. o quello di Magna imperialis curia. faceva coincidere, in un ampio spettro, sia il tribunale di corte e tesoreria. sia il palatium o residenza reale dove familiari, funzionari, consiglieri o collaboratori accompagnavano il monarca, e tra questi, anche poeti intellettuali (cfr. Kolzer). 
3 Anche se risulta comoda la denominazione di «escuela. per questa attività di traduzione che si verifica nei secoli XII e XIII. è necessario fare ulteriori chiarimenti giacché il termine può risultare ambiguo e poco preciso per una mentalità attuale (cfr. Foz).
Federico II (1194-1250) – duca di Svevia, Imperatore del Sacro Romano Impero e Re delle Due Sicilie e di Gerusalemme4 -, è di alcuni anni anteriore ad Alfonso X el Sabio (1221-1284), re di Castiglia e Leòn dal 1252 ed 
4 Per la parte storica e biografica cfr. Kantorowicz, Manselli, Pepe e Morghen. 
5 Le pretese al trono imperiale di Alfonso si basavano sui diritti del nonno materno. duca di Svevia. che era stato riconosciuto come imperatore della Germania (cfr. tra altri Ballesteros e. più recente. D’Agostino; malgrado il promettente titolo. è privo d’interesse l’articolo di Montes). 
6 Conviene non dimenticare che lo stesso Federico II fece istituire alla Schola Salernitana la prima cattedra europea di anatomia. in cui si sperimentava su cadaveri umani quando ancora a Bologna era proibita la dissezione. Purtroppo, questa scuola medica. che raggiunse fin dai suoi inizi fama internazionale, si trasformò all’epoca di Federico II in un istituto superiore di importanza più locale (Cfr. Morpurgo). 
7 Conosciuto anche come poeta laudatorio di Enrico VI e Federico Barbarossa, è autore di un trattato medico-biologico, De balneis Puteolanis, sull’efficacia dei bagni termali di Pozzuoli.
8 De vulgari eloquentia, 1. I. cap. 12. L’idea di primazia della scuola fu ripetuta da Petrarca nel Triumphus Cupidinis (IV, 33). 
9 Senza dimenticare gli studi «classici» su questo periodo del Folena, Contini o Monteverdi e la ricca bibliografia di Roncaglia; rimando anche ai lavori di Elwert, Brugnolo e Antonelli. 
10 Per questo tema cfr. Ribezzo e Rizzo. 
11 Cfr. Borsari, Collura o Cavallo. 
12 Cfr. Gabrielli, Pagliara, Tramontana e Ahmad.L’Italia del Duecento era divisa, approssimativamente, in tre ampie zone geografiche e linguistiche. Nel Nord esistevano numerose corti feudali, economicamente ricche, la cui lingua di cultura presentava alcune caratteristiche comuni con il francese o il provenzale. Nell’Italia centrale era presente la Chiesa cattolica e la sua lingua ufficiale si avvicinava alquanto ai caratteri linguistici del neolatino orientale, quando ormai il popolo non usava più il latino. Nel Mezzogiorno c’era poi un’unica corte normanna, solidamente centralista anche se mobile, in cui coesistevano il greco, l’arabo, il latino e, in minor grado, l’ebraico.
13 Un’allusione a ciò si può leggere nel Novellino, XXI. Federico Il è anche il protagonista in altre sette novelle della raccolta: Il, XXII, XXIIl, XXIV, LIX, XC e C. 
14 È probabile che questo sia un discendente del gran Saladino (l137 – 1193), noto nel mondo occidentale per la sua giustizia e benignità, per cui si converti in un personaggio abituale delle letterature romanze anche se visto con delle ottiche diverse. In Italia, per esempio. il Saladino appare legato al tema della tolleranza religiosa e dell’astuzia (Novellino, XXV e LXXlIl, – anche la LI dell’edizione del Borghini del 1572 -; Dante, Convivio IV, XI, 14 e anche Inferno, IV, 129; Boccaccio, Decameron 1,3 e X,9). La Francia lo associa ad un atteggiamento epico-cavalleresco che fa dire ad Americo Castro che il Saladino francese ha più di francese che di Saladino (Hacia Cervantes, Madrid, Taurus, 1960). E finalmente, la Spagna lo associa non al tema religioso, bensì a una condotta morale: nella Gran Conquista de Ultramar – modello di prosa storico-narrativa della fine del Duecento, anche se la prima stampa è del 1503 -; in due novelle – la XXV e la L – di El Conde Lucanor (1335) del nipote di Alfonso X l’infante Don Juan Manuel (1282 1348), e già all’inizio del Quattrocento, nella cronaca intitolata Mar de Historias di Fernan Pérez de Gusman (1376-1460). 
15 Questa tesi è difesa da Abulafia che ribatte in certo modo le teorie classiche di Haskins. 
16 Seguo le informazioni che dà Ramon Menéndez Pidal.
17 Un secolo dopo sembra che un certo Johanes de Dumpno, figlio di Philippus, tradusse dall’arabo in latino i canoni delle tavole planetarie come Muqtabis (1262). il cui manoscritto si conserva nella Biblioteca Nazionale di Madrid (ms. 10023). 
18 Questo fatto sembra doppiamente significativo perché serve anche a dimostrare che quando uno studioso italiano voleva aggiornarsi sulla cultura arabo-bizantina, non partiva per Bisanzio o per l’Egitto – che avevano scambi e rapporti con le repubbliche di Venezia o di Genova – e non andava nemmeno in Sicilia, bensì s’indirizzava verso Toledo, città dalla quale certamente aveva puntuali notizie. 
19 Nei documenti della cattedrale toledana compare come «Girardus dictus magister» tra gli anni 1174 e 1176. 
20 Fra le traduzioni, quella del libro De proprietatibus di Ibn al Jazzar o il De physicis ligaturis di Qusta ibn Luga – che legava la magia alla medicina -, nove trattati medici di Galeno – disponibili per la prima volta in latino -, o importanti opere arabe di medicina come il Canone di Avicenna, il Breviarium di Serapione o la Chirurgia di Albucasis. In collaborazione con Giovanni di Siviglia, Gerardo tradusse un compendio astronomico di alFarghani, che Alfonso terrà in gran considerazione.
21 Traduttore, verso il 1136, delle tavole planetarie di al-Battani, anche se se ne conoscono soltanto i canoni. 
22 Fu il primo commentatore delle Meteorologiche di Aristotele e, considerando che il testo era incompleto, vi aggiunse tre capitoli suoi originali che si pubblicano sempre insieme al testo aristotelico. . 
23 Adelardo tradusse le tavole di al-Khwartzmi, in cui si basa tutta la tradizione planetaria occidentale, ed è autore originale del De avibus tractatus, un vero trattato sulla falconeria che tanto piaceva a Federico. 
24 Su Michael Scotus cfr. Haskins, Manselli, Burnett o Gil. 
25 Famoso astronomo ispanoarabo, noto alla corte cristiana come Alpetragius, la cui opera De Sphaera contribuì alla diffusione del sistema cosmografico aristotelico di fronte al tolemaico (citato da Dante nel Conv., III, 2,5). 
26 La sua fama di astrologo e indovino si estese per tutto il Medioevo giacchè i tre libri del Liber introductorius – non stampato fmo al 1477 a Venezia – sono una specie di enciclopedia del pensiero astrologico dell’epoca federiciana, con importanti contributi anche nel campo dell’alchimia e della magia (Dante include lo Scoto nell’Inferno; XX, vv. 115-117). 
27 Considerato come il primo grande matematico dell’Occidente latino è autore del Liber quadratorum e del Liber abaci, la cui edizione del 1228 è dedicata proprio allo Scoto. Il Fibonacci sembra aver introdotto in Occidente lo zero e la numerazione arabica. 
28 Il suo famoso libro sulla caccia fu tradotto come De scientia venandi dal maestro Teodoro di Antiochia, un cristiano giacobita che successe a Scoto presso l’imperatore. Il testo latino corretto, a quanto sembra, dallo stesso Federico fu saccheggiato dal monarca con altre opere dello stesso argomento del suo De arte venandi cum avibus. 
29 G. Anatoli si trovava a Napoli intorno al 1230 e tradusse in ebraico il compendio astronomico di al-Farghani e l’Almagestum tolemaico (cfr. Colafemmina). Sugli Ebrei e l’Italia, cfr. Sinat, Milano e Sterno 
30 Dominicus o Santo Domingo de Gusman (1170-1221), fondatore dell'”orden de predicadores’ quando l’ordine di San Francesco era ancora in gestazione, rappresenta la lotta “pacifica» contro l’eresia di fronte alla “moda» delle crociate.
32 Questa cronologia viene fissata da José S. Gil., p. 17. 
33 Anche se antico è interessante il saggio di J. Pérez de Guzmàn. Cfr. anche Millàa. 
34 Sugli ebrei presso la corte alfonsina si possono consultare Castro, Romano, Leon Tello e Gil. Nell’ambito italiano si può tener presente lo Stern e Milano. 
35 Si tratta di Raimundo de Salvetat, originario della Guascogna, vescovo di Osma nel 1109 e arcivescovo di Toledo dal 1126 al 1152 (cfr. Gil pp. 19-52). 
36 In un latino letterario il Gundisalvo o Gundissalinus tradusse diverse parti dell’enciclopedia filosofica di Avicenna e «corresse» la traduzione di un’opera scientifica di al-Farabi fatta poco prima da Gerardo da Cremona. La sua versione de Il libro degli allumi e dei sali fornisce il materiale per i posteriori lavori d’alchimia o magia scientifica (cfr. Gil, pp. 3843, e anche Garcia Fayos). 
37 Questo Iohannes Avendehut è uno dei più importanti intellettuali del momento e traduttore in latino, tra il 1130 e 1180, di libri su astrologia, astronomia, filosofia, medicina e matematica (cfr. Gil pp. 30-38 e anche Rivera Recio). 
38 Alfonso X dovette affrontare. tra l’altro, l’avanzata della «Reconquista» per l’Andalusia fino a Cadice. la pacificazione di Murcia – aiutato dal suocero Giacomo I d’Aragona noto come «el Conquistador» -. la questione del Portogallo e anche un altro fatto che ancora una volta lo avvicina a Federico II: il pretendere nel 1257 la corona del Sacro Romano Impero, come nipote per parte materna dell’ultimo imperatore germanico prima del Grande Interregno (1250-1273). Proprio per questo motivo venne a Toledo nel 1260 Brunetto Latini. come ambasciatore dei guelfi fiorentini. 
39 Verso il 1231 sembra sia stato tradotto in latino il trattato astronomico di al-Zarqalluh da Guglielmo l’Inglese e da Yehudah ben Moshé che ebbe rapporti epistolari con filosofi della corte federiciana (cfr. Millas). 
40 Si sa che Hermannus Teutonicus lavorò a Toledo e, tra il 1240 e il 1256, partì per Napoli al servizio di Manfredi fino al 1266, quando ritornò al regno di Castiglia dove fu vescovo di Astorga fino al 1272 (cfr. Gil. pp. 52-56).

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 9-27.

 




Dopo la notte 

di Araujo

Albeggia. È intenso il luccichìo del sole. 

Respirare, vedere 

e nel rimescolìo dei sentimenti 

si risvegliano i dubbi tumultuosi. 

È forse questa l’ora cui si addice 

rimescolare il fondo delle notti 

bianche? 

La nostalgia, se intensa, è dolorosa 

sànguina ed ora 

che la mia età s’è fatta più matura, 

la sensibilità e i desideri 

dell’impossibile 

mi lasciano affogare con un nodo 

di lacrime. 

Forse mi sono immersa in acque fonde 

sin dalle prime luci? 

Rita de Cássia Fernandes Araújo* 

(vers. it. di Renzo Mazzone) 

da Por detrá das gavetas (2008) 

* Rita de Cássia Fernandes Araújo, poetessa brasiliana del Ceará del secondo Novecento, è autrice delle raccolte liriche: Cores (1984), Essêcia (1987), Sementes (1990), Unguentos (1991), Cartas ao Anjo da Guarda (1997), Mulher e terra (2000), Manga Madura (2004), Por detrá das gavetas (2008). 

da “Spiragli”, 2010, n. 1 – Antologia 




Pervigilium Veneris

Scritto presumibilmente tra il II e il III sec. d. C. da un Anonimo siciliano, pubblichiamo il «Pervigilium Veneris» nella versione di Mauro Pisini, gentilmente concessaci. Il poemetto in versi tetrametri trocaici è uno splendido esempio di poesia novella in cui, pur confluendo diversi apporti (Lucrezio, Virgilio, Catullo), l’autore dimostra di possedere una non comune personalità poetica e una nobiltà di sentire difficili da riscontrare in altri poeti di quel periodo. C’è nel poemetto un forte senso della vita e della natura, e il bisogno di partecipare e non essere esclusi da Amore che tutto prende e a cui nessuno può restare indifferente. E questo bisogno è bellamente reso dalla capacità che l’Anonimo poeta ha di creare le immagini e di metterle in risalto attraverso gli abili giochi verbali e lo stesso ritornello che imprimono musicalità e leggerezza a tutto il componimento. 

LA VEGLIA DI VENERE 

È l’inizio di primavera, è già primavera di canto: a primavera è nato il mondo, a primavera concordano gli amori, a primavera si accoppiano gli uccelli e il bosco scioglie la sua chioma grazie alle piogge che lo fecondano. Domani, colei che tesse gli amori intreccerà, tra le ombre degli alberi, verdi capanne con ramoscelli di mirto; domani, Dione, assisa in trono, pronuncerà le sue leggi. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 
In quel tempo, il mare, con il sangue caduto dal cielo, creò da un pugno di spuma, tra le schiere azzurre degli dei e dei cavalli a due zampe, Dione nata dalle acque marine. 
Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

È lei che veste la stagione più luminosa di gemme scintillanti e preme perché diventino nodi turgidi, i bocci aperti al soffio del Favonio, è lei che sparge acque vive di lucida rugiada, lasciate cadere dall’aria della notte. Quelle lacrime brillano e tremano per il peso che le spinge a terra: ogni goccia, con la sua perla, tende in basso, ma trattiene la caduta. Ecco, la porpora dei fiori ha svelato il suo pudore: quell’umore che le stelle disperdono nelle notti serene, all’ alba, ha scoperto i seni virginei da sotto il peplo, umido di brina. È lei che ha ordinato alle rose, ancora vergini, di andare, al mattino, incontro al loro sposo, lei creata dal sangue di Cipride e dai baci di Amore, dalle gemme, dalle fiamme, dalle porpore del sole, non si vergognerà, domani, di sciogliere il suo rossore, nascosto sotto la veste di fuoco, sposa in virtù di un’unica promessa. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

La dea, in persona, ha comandato alle Ninfe di andare nel bosco di mirto, il fanciullo accompagna le vergini, tuttavia, non si può credere che Amore resti in ozio, se avrà portato con sé le frecce. Comunque, andate, o Ninfe, Amore ha deposto le armi, ora, non può colpire. Ha l’ordine di andare inerme, ha l’ordine di andare nudo, per non recare danno né con l’arco né con le frecce e neppure con il fuoco. Però attente, o Ninfe, perché Cupido è bello: Amore è tutto in armi, proprio quando è nudo. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

«Venere, con uguale rispetto, manda a te noi vergini. Di una sola cosa ti preghiamo: concedi, o vergine Delia, che il bosco sacro non sia macchiato dal sangue delle fiere uccise. Lei stessa vorrebbe chiederti questo, se potesse piegare il tuo pudore, e vorrebbe che tu venissi, se ciò fosse permesso a una vergine. Allora, per tre notti di festa, vedresti danzare nelle tue valli, tra corone di fiori e capanne di mirti, i loro cori uniti ai capi di un unico gregge. Non mancherà né Cerere né Bacco né il dio dei poeti. La notte non deve essere sprecata, ma vissuta come una lunga veglia di canti: nel bosco regni Dione, tu, Delia, ritìrati.» 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

La dea ha dato ordine di innalzare un palco con i fiori di Ibla: da lì, detterà le sue leggi, intorno siederanno le Grazie. Tu, Ibla, mostra tutti i fiori e ciò che la primavera ha donato, tu, Ibla, indossa il tuo abito di gemme, tanto grande, quanto la pianura dell’Etna. Saranno qui le vergini dei campi, le vergini dei monti e quelle che abitano i boschi, le sacre radure, le sorgenti. A tutte la madre del fanciullo alato ha ordinato di prendere il proprio posto e diffidare di Amore, ora che è nudo. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 
«… Conceda le ombre più verdi ai fiori appena nati … » 

Domani, sarà il giorno in cui Etere celebrò per primo le sue nozze e, affinché Giove potesse creare i raccolti con le piogge di primavera, l’acqua della vita penetrò il seno della nobile sposa, perché, unita al suo corpo potente, nutrisse ogni seme. Così, con il respiro che tutto penetra e con la forza che nasconde in sé, ella governa, poiché è madre, il sangue e il cuore delle cose tanto da infondere la sua potenza in ogni luogo, attraverso i canali per cui passano i semi. Questo ordinò, perché il mondo conoscesse la via della vita. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

È Venere che ha portato i discendenti dei Troiani tra i Latini, è Venere che ha dato in sposa al figlio la vergine di Laurento e, ora, dà a Marte la vergine pudica sottratta all’ ara. È Venere che ha propiziato le nozze tra Romulei e Sabini, da cui generò Ramni e Quiriti e, per la prole dei posteri di Romolo, Cesare, padre e nipote. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Il piacere feconda la campagna, la campagna sente Venere: Amore stesso, figlio di Dione, si dice sia nato in campagna. Mentre la terra lo dava alla luce, lei lo strinse al seno e lo fece crescere tra i baci delicati dei fiori. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Ecco, sotto le ginestre, i tori già adagiano il fianco, tutti sono protetti dai loro patti d’amore. Ecco capri e pecore insieme, ecco gli uccelli canori, cui la dea ha imposto di non tacere. Anche i cigni loquaci mormorano negli stagni, con canto rauco, cui fa eco, all’ombra di un pioppo, la fanciulla di Tereo, tanto che i sentimenti d’amore sembrano essere cantati da un suono dolce, melodioso e diresti che perfino sua sorella non si debba lamentare del marito barbaro. Quella canta, noi restiamo in silenzio. Quando verrà la mia primavera? Quando farò come la rondine e potrò smettere di tacere? A causa del silenzio ho perso la mia Musa e Febo non mi guarda più. Così, anche Amicla, poiché taceva, fu uccisa dal silenzio. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Mauro Pisini

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 27-29.




Pace e pacifismo nell’età augustea 

La storia dell’ antica Roma, già a partire dalle sue origini, fu una storia di avvenimenti bellici. 

La guerra costituì la cifra identificativa della società romana, lo status belli, pressocchè permanente, costringeva continuamente ogni cittadino valido ad indossare le armi per la conservazione di Roma. Il legame indissolubile tra il civis romanus e lo Stato faceva quindi del campo di battaglia il momento per eccellenza in cui dimostrare la propria virtus. La storia degli antichi romani fu intessuta di episodi di coraggio militare e di devozione verso la patria: Orazio Codite, Muzio Scevola, Attilio Regolo solo per citarne alcuni, tutti attestanti il fatto che per l’antico romano fosse “dulce et decorum pro patria mori1”. Le prime guerre combattute dai romani furono di difesa, esse furono causate dalla pressione esterna e dal desiderio dei romani di conservare la propria identità, poi si aggiunsero le mire espansionistiche ed imperialiste: dalla data della mitica fondazione (753 a. C.) alla fine del II secolo a. C. Roma, di guerra in guerra, di vittoria in vittoria, diventò la “caput mundi”. Ma già nell’ultimo scorcio del II secolo a.C. la situazione si modificò: a contatto con le mollezze dell ‘Oriente e con il “Bello” dei greci, i romani cominciarono ad amare il benessere, il lusso ed a sentire la guerra come qualcosa di estraneo. Ad acuire questa situazione fu, nel corso del I secolo a.C. l’aggiungersi di guerre civili a quelle esterne, le guerre fratricide spinsero infatti la maggior parte dei romani a deprecare la guerra e ad anelare la pace. Nell’ incipit del De rerum natura Lucrezio chiede a Venere di fungere da intermediaria fra il mondo umano ed il dio della guerra, Marte, perchè soltanto la “genetrix Aeneadum” avrebbe potuto procurare ai romani una pace serena. Ma fu soprattutto nell’ultimo scorcio di repubblica che gli intellettuali, interpretando il comune malcontento, sottolinearono il loro distacco dallo Stato e vagheggiarono paradisi di pace. Virgilio, nell’ ecloga I, trasferisce nel microcosmo bucolico il dramma delle guerre civili, l’impius miles e il barbarus entrano in possesso delle altrui terre ben coltivate: “ecco fino a qual punto la discordia civile ha spinto i miseri cittadini2” . Analogamente Orazio, nell’ epodo VII, definisce i cittadini “sce1esti”, perchè ancora una volta corrono ad indossare le armi e sposano la causa della guerra fratricida. Dall’impossibilità di realizzare una serena pax nell’Urbs, emerge un diffuso desiderio di fuga, di necessità di rinnovamento e di una palingenesi. Nell’epodo delle “isole fortunate”, Orazio invita la pars melior dei cittadini ad una fuga dal reale, ad una sorta di esilio volontario collettivo nelle isole dei beati. Il messaggio di Orazio è cupamente pessimista (altera iam teritur bellis civili bus aetas3), il repubblicano deluso non vede alcuno spiraglio di speranza attorno a sé e fa una proposta disperata: fuggire via dalla patria per raggiungere le terre incontaminate dove è perenne l’età dell’oro. Più ottimista è Virgilio nella quarta egloga in cui si profetizza la nascita di un puer messianico che avrebbe riportato in Italia la pace e l’età dell’oro. Questo utopico ritorno dell’età dell’oro, (iam redeunt Saturnia regna), motivo topico nella letteratura di quei tempi, e la profetica annunciazione della venuta di 

1 – Orazio, Carmina, libro III, 2, v. 13. 

2 – Virgilio, Ecloga I, vv. 71-72. 

3 – Orazio, Epodo XVI, v. 1

un nuovo “magnus ordo saeclorum4” riflette la speranza di pace (poi disattesa) riposta nell’ accordo di Brindisi e la fiducia nella possibilità di riscatto da una situazione di corruzione e di guerra. 

Tale fiducia si trasformò in un dato di fatto dopo la vittoria aziaca. Il princeps Ottaviano Augusto si propose ai cittadini come il restauratore di antichi valori etico-religiosi e come colui che aveva saputo mettere fine al “furor” delle guerre civili ed aveva realizzato la “pax parta victoriis”. Lo stesso Augusto nelle Res gestae, si vantò di avere chiuso per ben tre volte il tempio di Giano Quirino che “prima che io nascessi dalla fondazione di Roma, rimase chiuso due volte in tutto5”. La pax augustea divenne uno slogan politico di cui si fecero interpreti in maniera particolare, gli intellettuali del circolo mecenaziano. Augusto, infatti, ben consapevole dell’importanza delle lettere al fine di orientare la mentalità e di creare intorno a sé consenso, cercò in ogni modo di garantire una produzione letteraria in sintonia con l’ideologia dominante. C’è da dire che questo non gli costò grandi sforzi, visto che il suo programma di restaurazione morale e di generale pacificazione era molto gradito ai romani, desiderosi solo di uscire dall’epoca delle guerre civili. Quella di Virgilio o di Orazio non fu però piaggeria, ma reale e sentita condivisione di un programma. Nell’ Eneide virgiliana la pax augustea è intesa come punto di arrivo di un doloroso6, ma necessario, periodo di guerra, termine fatale voluto dal destino, secondo la solenne formulazione di Anchise nel libro VI dell’ Eneide:”regere imperio populos….. pacique imponere morem7″. Nel libro I dell’ Eneide è Giove in persona a profetizzare la missione di Roma e la venuta di uno “Iulius” grazie al quale cesseranno le guerre:”posate allor le guerre, il fiero tempo s’addolcirà: la Fè candida e Vesta, Quirino col fratel Remo daranno leggi, saran con ferrei serrami chiuse le dure porte della Guerra; dentro il Furor bieco, assiso sopra l’armi crudeli e avvinto a tergo da cento bronzei ceppi, orribilmente fremerà con la bocca sanguinosa8″. Efficace ed icastica è questa immagine del Furor, personificazione della guerra, incatenato e rabbioso su cui vince la Pax voluta dal princeps Augusto. Nella rassegna degli eroi del libro VI, Virgilio paragona Augusto a Saturno, la lunga pace e la grande prosperità del principato augusteo appaiono agli occhi del poeta la realizzazione di quell’età dell’oro di cui si vagheggiava il ritorno nell’ecloga IV. Augusto è quindi il rifondatore dell’aurea aetas, in questa immagine leggendaria si cela tutta l’ammirazione di Virgilio per il principe: “Questo è l’uomo che ti senti promettere, l’Augusto Cesare, figlio del Divo, che fonderà di nuovo il secol d’oro nel Lazio per i campi regnati un tempo da Saturno9” . La celebrazione dell’ impero augusteo 

ricorre ancora nella chiusa del libro VIII. La descrizione dello scudo di Enea del libro suddetto diventa una lezione di storia romana e completa l’esaltazione dell’impero di Augusto che proprio negli episodi e nei personaggi esemplari dell’antichità cerca le sue radici. Al centro del mitico scudo c’è la rappresentazione della battaglia di Azio, l’evento che segna l’ascesa definitiva del grande Augusto, chiudendo il capitolo sanguinoso della storia di Roma e dando inizio ad un lungo periodo di pace. 

4 – Virgilio, Ecloga IV, v. 5. 

5 – Res gestae Augusti, 13. 

6 – Cfr. L. Canali, L’essenza dei romani, Virgilio. 

7 – Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 851-852. 

8 – Virgilio, Eneide, libro I, vv. 291-296. 

9 – Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 791-794. 

Anche nella produzione letteraria “impegnata” di Orazio, ricorrono i motivi 

dell ‘esaltazione della pax e dei miti dell’età augustea. 

La rivendicazione, in più circostanze, della , da parte del poeta venosino, non lascia dubbi che le sue espressioni di stima per il princeps che ricorrono nelle odi ci vili e nel Carmen speculare nascano da una sincera ammirazione per l’ uomo, a cui va ascritto a merito il ristabilimento della pace e lo sforzo di rendere migliore la società romana. Esemplificativa, a tal proposito, è l’ode XV del libro, IV testo in cui sono presenti tutti i temi che furono al centro dell ‘ ideologia del principato: la maestà dell’ impero, il ritorno alle virtù degli antichi, la rifondazione morale, la pace interna ed esterna: “tua, Caesar, aetas …. vacuum duellis Ianum Quirini clausit10”. Il poeta ormai è libero dall ‘angoscia e dalle apprensioni per la res publica e come l’ara pacis augustae che si stava proprio allora erigendo, anche questo carme è un “monumento” riconoscente alla pace. Anche se in alcuni passi Orazio cede alle convenzioni ed alle “menzogne11” del regime, non si può negare che il poeta esprima sentitamente la certezza che la pace instaurata da Augusto sarà garanzia di potenza e gloria imperitura per Roma. Il tema ricorre ancora nel Carmen speculare che, più che come inno religioso, va letto in chiave politica, come adesione totale al programma politico di Augusto ed alla pax da lui ristabilita. L’auspicio virgiliano del ritorno dell ‘età dell ‘oro per Orazio si è adesso concretizzato, l’età augustea ha portato “Fede e Pace e Onore, il Pudor prisco e la Virtù negletta12”. Augusto viene dipinto come colui che ha ristabilito la pace interna e che difende Roma dai nemici esterni: “già per mare e per terra teme il Medo la sua man e le latine scuri; già Sciti ed Indi pur testé ribelli, chiedono leggi”. Agli occhi del poeta venosino, indubbiamente, l’effetto più positivo che l’avvento del princeps aveva recato a Roma, dopo tanti anni di guerre civili, era la pace. Essa era per Orazio il presupposto necessario perché il mondo fatto di sereni campi e cristallini ruscelli potesse sussistere. Il tema dell’ aspirazione alla pax, pur se con toni e finalità diverse, ritorna anche nella produzione elegiaca di età augustea. L’elegiaco Tibullo, poco favorevole ad Augusto, esprime una sentita deprecazione delle guerre e degli impegni militari, la guerra gli appare come una sventura terribile e senza rimedio: “quis fuit horrendos primus qui protulit enses?13”. Il poeta vagheggia nei suoi versi una vita modesta e serena (me mea paupertas vita traducat inerti), vita di cui la violenza della guerra è la negazione. Quello espresso da Tibullo è un pacifismo agreste, egli celebra la Candida Pax dei campi, l’unica a consentire la serenità della vita e la realizzazione del sogno d’amore. Pur non essendo allineato alla politica augustea, Tibullo esprime opportunamente le istanze di pace e di serenità proprie di quel periodo, alle quali va aggiunto un influsso ineludibile della tradizione epicurea. La stessa vocazione alla pace ricorre nei versi dell’elegiaco Properzio, interamente occupato nella propria vita sentimentale, che lo porta al ripudio di ogni impegno militare. In entrambi gli elegiaci si riscontra l’attacco nei confronti della guerra considerata come mezzo per arricchirsi: “divitis hoc vitium est auri14”, afferma Tibullo, e analogamente per Properzio è l’invisum aurum la molla che spinge i milites ad 

10 – Orazio, Carmina, libro IV, 15, vv. 8-9. 

11 – Cfr. Mocchino in Odi ed Epodi, Milano, 1942. 

12 – Orazio, Carmen saeculare, vv. 53-56. 

13 – Tibullo, Elegie, libro I, 10, v. 1. 

14 – Tibullo, Elegie, libro I, 10, v. 7.

imbracciare le armi. Properzio spoglia delle motivazioni ideali la spinta alla guerra, svelandone la vera matrice: l’avaritia. Egli si sente invece vocato all’amore, alla pace, il suo ideale di vita lo porta a deprecare qualsiasi forma di bellicismo: “pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes: stant mihi cum domina proelia dura mea15”. Pur facendo parte dell’ entourage augusteo il poeta non canta i valori che la propaganda ufficiale voleva vedere esaltati, perchè gli manca una coscienza civile. Ma, come in tutti gli altri intellettuali di quell’ epoca, ricorre anche nella sua produzione letteraria il motivo della pax. 

Un motivo topico che, con caratteristiche e toni di versi, costituì senz’ altro la palese espressione di una pressante e comunemente diffusa istanza. 

Anna Maria Angileri 

15 – Properzio, Elegie, libro III, 5, vv. 1-2.




Tomasi di Lampedusa: lezioni inglesi 

«Fra il novembre 1953 e la primavera del 1955 Lampedusa percorse a piccolissime tappe tutto lo svolgimento storico della letteratura 

inglese, cominciando proprio dai poemi anglosassoni e giungendo a Eliot e a Fry. Non so come procedesse per assicurarsi delle date e di altre nozioni spicciole, né quanti libri riprendesse in mano per rinfrescare la propria memoria; certo si aiutava con qualche manuale, forse sfogliava o rileggeva qualche testo. Ma nelle pagine che scriveva c’era ben poco di manualistico: tutto era sostenuto da una miracolosa memoria di quasi mezzo secolo di letture, e ravvivato dall’intelligenza.1» 

Così racconta Francesco Orlando, allora giovane intellettuale palermitano alla ristretta corte letteraria del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 

Gli appunti delle lezioni di letteratura inglese e poi francese, rivolte quasi esclusivamente allo stesso Orlando e a Gioacchino Lanza, suo futuro figlio adottivo, costituiscono una parte fondamentale della biografia letteraria di Tomasi di Lampedusa: quelle sue personalissime conversazioni rivelano passioni, approcci, giudizi che certo fanno luce sulla complessità dell’uomo e dello scrittore. 

Ancora Orlando, nel suo vibrante Ricordo di Lampedusa scritto nel 1963, a cinque anni dalla morte di Tomasi, si sofferma sulla funzione consolatoria che la letteratura doveva avere per quel gentiluomo riservato e incline alla malinconia: «la letteratura era stata ed era la grande occupazione di questo nobile che non so quali traversie patrimoniali avevano avulso tanto da ogni mondanità quanto da ogni funzione pratica, e che era ridotto a vivere isolato senz’altro lusso che le ingenti spese per libri, soprattutto per le adorate e sempre maneggiate Pléades francesi.2» 

E i libri, esseri viventi nella grande casa di via Butera, dove ebbero luogo le lezioni di letteratura, si animarono di nuova vita, e il principe scrisse fitte pagine di appunti e parlò di centinaia di opere letterarie e di autori, impegnandosi in un faticoso e colossale esercizio di metodo e di memoria per l’incanto di quei giovani allievi privilegiati che ne avrebbero fatto tesoro per la vita. Per prime furono le lezioni inglesi. 

Lampedusa aveva una speciale predilezione per la letteratura e la cultura inglesi. Moltissimi i suoi soggiorni in Inghilterra già dalla metà degli anni ’20, in coincidenza con il periodo in cui suo zio Pietro Tomasi marchese di Torretta fu ambasciatore a Londra. E soprattutto a Londra, città amata, egli poteva passeggiare ritrovandovi le pagine di Johnson e di Dickens; in questa metropoli reale e letteraria, a testimonianza del cugino Lucio Piccolo, si sentiva veramente libero e a suo agio, il fisico ormai appesantito persino più agile mentre saliva al volo su un autobus londinese3. 

Il corso di Letteratura inglese fu diviso in cinque parti. Quasi tutta la prima parte fu occupata da Shakespeare e vennero commentati i sonetti e le opere teatrali, e via via, seguendo una coerente progressione cronologica si giunse agli scrittori del XX secolo, Joyce, Woolf, Greene; le lezioni su T. S. Eliot, che Lampedusa considerava “il più grande poeta contemporaneo”, furono le uniche a cui venisse ammesso, una sola volta, un pubblichetto che rasentava le dieci persone4. Erano 15-20 fogli manoscritti per lezione che l’autore dichiarava di provvedere a distruggere dopo ogni incontro, e ritrovati raccolti in vari blocchi alla morte dello scrittore, per essere pubblicati dopo traverse vicende soltanto nel 19915. 

Quello di Lampedusa era un modo di procedere che, come osserverà più tardi Orlando6, si accostava al metodo biografico di Sainte-Beuve, e dunque alla grande scoperta ottocentesca, dal romanticismo al positivismo, che la letteratura dovesse sganciarsi da canoni classici eterni, per essere indagata nelle relazioni tra opere, società e autore, inteso quest’ultimo nell’aspetto più privato di persona. Prospettiva che venne puntualmente rovesciata dalla rivendicazione novecentesca dell’autonomia della letteratura, la premessa cioè che un testo non sia mai riducibile ad una determinata realtà fattuale o autoriale, ma che venga percepito come opera d’arte a sé. 

Tomasi di Lampedusa apparteneva ad una categoria di intellettuali solitari e indipendenti, e perseverò contro corrente nel suo biografismo ottocentesco alla Sainte-Beuve che in Italia lo univa idealmente all’autorevole voce di un suo coetaneo, l’anglista Mario Praz. 

La letteratura diventava così per il futuro autore del Gattopardo una sorta di “diaristica cifrata7”, un mondo riconosciuto come proprio, poiché egli possedeva un «senso impareggiabilmente euforico e quasi tonico della letteratura8», fonte perenne di curiosità gioia e divertimento, e pure di lacrime che nascono dalla bellezza, come ebbe a dire a proposito della lettura di Lycidas di Milton. 

La straordinaria familiarità di Tomasi con gli scrittori inglesi rafforzava in lui la percezione di una corrispondenza spirituale che doveva poi affacciarsi alle pagine del Gattopardo, nell’aristocratico distacco di don Fabrizio Salina: una solida visione del mondo permeata di sottile ironia e pronta a sfociare in un tragico disincanto. Come l’inclinazione a rivolgere un amaro sorriso di scherno verso le vittime che spesso accompagna la figura perdente dell’underdog (uno dei temi fondamentali della letteratura inglese) che compare da Shakespeare a Swift a Dickens e in quasi tutti i grandi autori inglesi. 

Un’altra ragione rendeva Lampedusa vicino e in sintonia con il carattere britannico e polemico verso i difetti italiani e siciliani, una ragione che Orlando ha ritenuto nascere da una attitudine politica segretamente classista: 

«Va da sé che la sua ammirazione per il progresso sociale inglese dalla fine del Settecento in poi era quella, sincera, di ogni europeo colto; e si manifestava in modo aperto nelle lezioni (credo specialmente in quelle su Dickens). Ma Lampedusa non poteva non riflettere anche che quella forma di progresso era la sola attraverso la quale potesse conservare prosperità prestigio e soprattutto vitalità la classe sociale che era la sua; e perciò era da deprecare più amaramente la mortale sciatteria della medesima classe sulle terre ed ai tempi dei Borboni, con le conseguenze storiche che ricadevano sulla sua persona.9» 

Nelle lezioni inglesi si apre un vero e proprio dialogo intimo tra le pagine degli autori e la personalità eccentrica di Lampedusa, così che la digressione, una sorta di filosofica confessione, o l’aneddoto biografico diventavano parte dello stile soggettivo del principe. «La prima volta che si legge l’Amleto in inglese è una data10», o la riflessione che se una bomba distruggesse Palermo, la città morirebbe per sempre, senza che la sua esistenza sia testimoniata da un solo decente scrittore; ma Londra sopravviverebbe, immortalata da Dickens, poiché«in qualsiasi brutto alloggio, in qualsiasi recondita viuzza i suoi bizzarri personaggi dovessero recarsi, Dickens vi si era recato. Fortunata città che, insieme a Parigi, ha acquistato il premio supremo: quello di essere scrutata da un genio in ogni suo angoletto.11» 

È qui impossibile persino cercare di riassumere tratti più significativi del lungo percorso di Tomasi all’interno della storia letteraria inglese senza banalizzarne scelte e passaggi. Ma si può almeno riflettere su una categoria artistica che il principe-maestro giudicava di ordine superiore: gli scrittori creatori di mondi, i cosmourghi; tra loro alcuni giganti del canone occidentale: 

«Omero, Shakespeare, Cervantes, la Austen, Fielding, Ariosto, Balzac, Manzoni, Tolstoj, Proust […] I creatori di mondi debbono aver compiuto un’opera vasta, popolosa, omogenea nella varietà avente la facoltà di continuare a vivere indipendentemente dal creatore, rischiarata da una luce tutta sua, arricchita di paesaggi peculiari.12» 

E tra gli inglesi non è difficile immaginare (“ripensateci, chiudete gli occhi”) i paesaggi dei mondi della Austen o di Fielding. Shakespeare sfugge un’appartenenza che sarebbe troppo riduttiva, poiché non un paesaggio caratterizza la sua opera ma molti mondi. E un posto d’onore viene riservato da Tomasi anche a Dickens. 

«Dickens è uno dei più insigni creatori di mondi. E il suo mondo è uno dei più singolari: di esso conosciamo ogni campo, ogni strada, ogni volto. Eppure dobbiamo ogni volta dire a noi stessi che non abbiamo mai alcunché di simile: forse li rivedremo se saremo buoni e andremo in Paradiso. Il regno di Dickens è il realismo magico.13» 

Di Dickens (come del teatro di Shakespeare) Lampedusa ammirava l’arte sublime di fondere humour (insieme alla rifrazione deformante della caricatura) e eeriness, ovvero il senso fantastico del favolistico o del soprannaturale. Così i Pickwick Papers sono un vero capolavoro dickensiano, certamente il più amato dal poliedrico affabulatore delle lezioni inglesi, un’opera che viene considerata unica, un “blocco a parte” nella produzione dello scrittore vittoriano, un modello assoluto («Non esiste in nessuna altra letteratura un libro come Pickwick14»). 

Nei Pickwick Papers Lampedusa vede portata alla perfezione la curiosa e difficile arte del “realismo dis-realizzato”. I Pickwick Papers sono «un racconto di fate senza soprannaturale, un racconto che ha come Genio un vecchio piccolo ometto occhialuto e bonario15». 

È il mondo umano, universale, sorridente e arguto che passa attraverso i viaggi in carrozza per l’Inghilterra di Mr. Pickwick e dei suoi amici Winckle, Tupmann, Snodgrass e Sam Weller, che in particolare Lampedusa ama perché riunisce in sé l’umanità e lo spirito dei più grandi personaggi shakespeariani. E di Shakespeare questo personaggio di Dickens sembra ricordare il Falstaff dell’Enrico IV che memorabilmente viene definito nelle pagine della Letteratura inglese «gemma di Dio sa quanti carati, uno dei tre o quattro massimi personaggi shakespeariani. Adorabile mascalzone, uomo dallo spirito sempre invitto e sempre leggiadro, creazione impareggiabile del più alto humour, ognuno di noi darebbe dieci anni di vita per il privilegio di incontrarti un’ora.16» 

Come sottolinea Gioacchino Lanza Tomasi, un’analisi profonda della personalità letteraria di Lampedusa dovrà riconoscere alcuni modelli più di altri, e certamente «è Dickens più di Stendhal il vero biglietto d’accesso per chi voglia comprendere la singolarità del fenomeno Lampedusa.17» 

Nell’opera letteraria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa affioreranno i tratti della prima maniera dickensiana, quel procedere leggero per accostamenti e bozzetti, il disegno d’insieme che lascia spazio alla caratterizzazione dei personaggi secondari; ma si potrebbe pensare alla scelta del punto di vista di osservatore insieme esterno ed interno della sua Sicilia, isola che aveva sempre cercato nostalgicamente e ironicamente respinto nel corso delle lunghe frequentazioni letterarie di vari decenni. 

Inevitabilmente la lettura delle pagine della Letteratura inglese (come anche della Letteratura francese) conduce il lettore di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a sotterranei paralleli con la scrittura non solo del Gattopardo ma anche dei Racconti, e per chiudere questi brevi appunti vorrei ricordare il bellissimo racconto “La Sirena” (Lighea) nel quale l’affascinante e mitica creatura marina sembra essersi appropriata della magia soprannaturale della canzone di Ariel nella Tempesta di Shakespeare: 

«Sono immortale perché tutte le morti confluiscono in me da quella del merluzzo di dianzi a quella di Zeus, e in me radunate ridiventano vita non più individuale e determinata ma pànica e quindi libera. (… Mi narrava della sua esistenza sotto il mare, dei Tritoni barbuti, delle glauche spelonche, ma mi diceva che anche queste erano fatue apparenze e che la verità era ben più in fondo, nel cieco muto palazzo di acque informi, eterne, senza bagliori, senza sussurri. Una volta mi disse che sarebbe stata assente a lungo, sino alla sera del giorno seguente. “Debbo andare lontano, là dove so che troverò un dono per te.” Ritornò infatti con uno stupendo ramo di corallo purpureo incrostato di conchiglie e muffe marine.18» 

Maria Paola Altese

Note 

1 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pp. 23-24. 
2 F. Orlando, cit., p.15. 
3 D. Gilmour, L’ltimo Gattopardo (1988), Feltrinelli, Milano, 2003, p. 64. 
4 Cfr. F. Orlando, cit. p. 24. 
5 Cfr. G. Lanza Tomasi, premessa a Letteratura inglese, in G. Tomasi di Lampedusa, Opere, Milano, 2004. 
6 Cfr. F. Orlando, Da distanze diverse, Torino, 1996, p. 84-85. 
7 Ivi, cit., p. 85. 
8 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, cit., p. 17 
9 Ivi, cit. p. 35. 
10 Ivi, cit., pag. 25. 
11 G. Tomasi di Lampedusa, in Opere, Letteratura inglese, Mondadori, 2004, p. 1118. 
12 Ivi, cit., pag. 1112. 
13 Ivi, cit., pag. 1113. 
14 Ivi, cit., pag. 1116. 
15 Ivi, cit., pag. 1116. 
16 Ivi, cit., pag. 724. 
17 Ivi, G. Lanza Tomasi, cit. p. 654 
18 G. Tomasi di Lampedusa, “La Sirena” in Opere, cit., pp. 517-518. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 37-40.




This rough magie I here abjure

L’arte di Prospero 

Il celebre monologo del V atto di The Tempest contiene la rinuncia di Prospero alla sua arte magica. Prospero ha appena perdonato i suoi nemici, smarriti nell’incanto dell’ isola che sembra averne assorbito il passato e filtrato la coscienza colpevole; scioglie l’incantesimo, e affida ad Ariel il compito di liberarli. 

Rimasto solo sulla scena, Prospero pronuncia il monologo che si apre con un’invocazione agli evanescenti spiriti della natura che lo hanno servito, e, verso dopo verso, risuonano suggestivi echi dal discorso di Medea nel settimo libro delle Metamorfosi. 

Prospero: «Ye elves of hills, brooks, standing lakes, and g roves, ( … ) / you demi-puppets that / By moonshine do the green, sour ringlets make, / Where of the ewe not bites; and you whose pastime / ls to make midnight mushrumps, that rejoice / To hear the solemn curfew, by whose aid / ( Weak masters though ye be) l have bedimmed / The noontide sun, called forth the mutinous winds, / And twixt the green sea and the azured vault / Set roaring war; to the dread rattling thunder / Have l givenfire (. .. ) / graves at my command / Have waked their sleepers, oped, and let’ em forth / By my so potent art.» (V. 1. 34-50)1. 

In Ovidio, Medea ripete la sua invocazione magica nella notte misteriosa: 

«Nox, ait arcanis fidissima, quaeque di Maria Paola Altese diurnis / aurea cum luna succeditis ignibus astra (. .. ). / Telius, polientibus instruis herbis, / auraeque et venti montesque amnesque lacusque / dique omnes nemorum dique omnes noctis, adeste! Quorum ope, cum volui, ripis mirantibus amnes / in fontes rediere suos, concussaque sisto, / stantia concutio cantu freta, nubila pello / nubilaque induco, ventos abigoque vocoque, (. . .) / et silvas moveo, iubeoque tremescere montes / et mugire solum manesque exire supulchris.» (VII, 196-206)2. 

Ma se Medea si prepara a compiere un potente sortilegio di magia nera (ridarà la gioventù al vecchio Esone), Prospero conclude rinnegando la «barbara» magia e i suoi strumenti. 

Prospero: «this rough magic / l here abjure (. .. ) / /’ li break my staff, / Bury it certain fathoms in the earth, / and deeper than did ever plummet sound / l’li drown my book». (V. 1. 50-57)3. 

Prospero ha scelto di riconciliarsi con coloro che lo hanno tradito (Antonio, fratello «sleale», e Alonso, re di Napoli, dotato di un fratello altrettanto malvagio) e con il mondo degli uomini. Egli salperà dall’isola e tornerà ad essere il legittimo duca di Milano. 

La tempesta magica che ha causato il naufragio della nave dei suoi nemici e gli incantesimi creati con l’aiuto di Ariel sono ormai alle sue spalle. L’arte di Prospero ha svelato il gioco costruito sullo scambio di realtà e illusione, inganno e verità, e ora viene respinta per raccogliere il pentimento dei cattivi e sostituita dal desiderio di una armonia finale, suggellata dalle prossime nozze di Miranda e Ferdinando, non a caso figli rispettivamente di Prospero e Alonso. È il lieto fine prospettato dal romance, che però non risolve la complessità del personaggio di Prospero e soprattutto l’ambiguo senso tragico della sua dedizione alle arti magiche, compreso il forte richiamo letterario alla Medea delle Metamorfosi. E non solo. Come ha sottolineato Harold Bloom nella sua lettura di questa ultima favola della maturità di Shakespeare, nella tessitura narrativa di The Tempest e nel personaggio di Prospero sembra permanere un mistero. E pone la domanda: «Perché il testo allude con tanta sottigliezza alla storia di Faust per poi trasformare la leggenda fino a renderla irriconoscibile?4» 

La presenza di un confronto sotterraneo tra i due personaggi è certo molto suggestiva, a prescindere dalla conclusione dello stesso Bloom, che sembra propendere per una implicita riduzione del personaggio di Marlowe a modello ironicamente fallimentare nei confronti del ruolo quasi-divino ricoperto da Prospero. Il ruolo di Prospero oscilla infatti tra l’ambizione punita del Faust marlowiano, che emerge nel lungo racconto-prologo del primo atto, e uno sviluppo anti- tragico del personaggio. 

Come Faust, avido studioso di arti occulte, Prospero non è però un eroe tragico compiuto5. Egli partecipa della tragedia di Faust come di quella di Lear, e condivide con Lear la colpa di essersi allontanato dalle responsabilità dello Stato. 

Prospero: «The government I cast upon my brother, / And to my state grew stranger, being transported / And rapt in secret studies» (I. ii. 75-77)6. 

Ma la colpa di Prospero nasce come per Faust dall’amore per lo studio, dalla sua dedizione ad un’arte occulta che contiene il pericolo del diabolico7. «Arte», sottolinea Melchiori8, è una parola-chiave di The Tempest, forse la più importante, in rapporto dialettico con quella «natura» che domina il tessuto verbale del Lear . 

Per «arte» (solo la parola art/arts ricorre trenta volte in The Tempest) si intendeva l’arte magica, anche se il termine veniva esteso a tutte le attività intellettuali volte al superamento della condizione naturale dell’uomo. E Prospero descrive se stesso come uomo di impareggiabile valore nelle arti liberali: «1or the liberal arts / Without a parallel» (I. ii. 73-74). 

È difficile stabilire quali fossero nel Rinascimento i confini tra il ruolo del filosofo, dello scienziato o del mago. Una questione assai complessa che lo storico Garin esamina a partire dall’affermazione di un nuovo tipo di intellettuale inquieto, «non vincolato ad ortodossie di sorta, uno sperimentatore di ogni campo della realtà come Leon Battista Alberti o Leonardo da Vinci, anelante a verità arcane e rivelazioni misteriose come Ficino, mago come Cornelio Agrippa, banditore di pace universale come Erasmo, medico dei corpi nell’armonia con le forze della natura come Paracelso, testimone di verità come Giordano Bruno»9. 

Certamente, il clima culturale dell’Inghilterra di Elisabetta e poi del regno di Giacomo I combinava l’interesse continentale e umanistico per i classici con le istanze puritane della Riforma, che ponevano in primo piano la questione della salvezza e delle Scritture. Gli ideali umanistici della generazione di Shakespeare passano attraverso libri quali Schoolmaster (1570) di Roger Ascham o la traduzione delle Vite di Plutarco ad opera di Thomas North (1579), e si aprono al neoplatonismo che giunge in Inghilterra soprattutto attraverso i modelli italiani (Il Cortegiano di Castiglione venne tradotto in inglese nel 1561). 

Gli esiti del neoplatonismo, rilanciato in Europa sul finire del Quattrocento da Marsilio Ficino, sono molteplici e riguardano il filosofo come l’uomo di scienza, fino a toccare i territori della magia e dell’occulto, in un comune disegno di indagine universale sui rapporti tra le cose, ed in primo luogo tra uomo e natura. 

L’«Arte» di Prospero, suggerisce Kermode, ha in questo senso una doppia funzione: da un lato è capacità soprannaturale di governare gli elementi della natura, conquistata attraverso uno studio virtuoso e consapevole, dall’altro, è riflesso di un simbolico mondo platonico dominato dall’intelletto e opposto al mondo materiale dei sensi e degli istinti che sull ‘ isola è rappresentato da Caliban10. 

Prospero può trasformare le umane passioni e gli appetiti dei sensi convertendoli ad una più nobile ragione (la trasformazione è anche il concetto fondamentale di tutto il processo alchemico, e attraversa The Tempest, suggerita dal sea-change della canzone di Ariel). Ed emerge infine una tensione verso una visione ‘ordinata’ della storia, nella quale la legittimità della successione dinastica è garantita dalle nozze di Miranda e Ferdinando. 

La magia bianca di Prospero, opposta alla magia nera di Sycorax, e tuttavia così potente da vincere gli incantesimi della strega che prima di lui aveva dominato l’isola, è stata respinta. In qualità di mago Prospero ha forse superato gli ambigui confini tra un’arte benevola e la stregoneria, e il conflitto simbolico tra la memoria di Sycorax (adombrato anche nel richiamo letterario alla Medea ovidiana) e il proprio potere sembra in ultimo confluire in una privata e tutta umana battaglia tra bene e male11. Così, in una delle battute più enigmatiche del dramma, egli riconosce come appartenente a sé quella creatura mostruosa nata dalla strega, e rivolgendosi a Caliban dice: «this thing of darkness 1/ Acknowledge mine» (V. I. 275-276)12.  La «barbara» magia deve cedere il posto alla storia e ad una morale imperniata sul perdono, il cui valore cristiano appare però più funzionale ad un recupero laico dell’ordine civile; ed è possibile scorgere una implicita aderenza a quella condanna della magia contenuta nel trattato di Giacomo I, Basilicon Doron, e variamente presente nel dibattito religioso e nella cultura del tempo, come nella commedia satirica di Ben Jonson intitolata The Alchemist (1610) e rappresentata dalla stessa compagnia di Shakespeare un anno prima di The Tempest. 

Il racconto shakespeariano sfocia nella ricomposizione delle armonie precedentemente spezzate: il motivo filosofico della discordia concors annunciato dalla forma del romance. Se non fosse per quello spirito tragico che continua ad affiorare in Prospero, nel pensiero per il proprio futuro di solitudine e di morte, in quella Milano dove: «Every third thought shall be my grave» (V. I. 312)13. Fino all’Epilogo, che, come ha osservato Kott14, sembra un inquietante ritorno al punto di partenza, una grande fuga lirica dagli accenti strazianti. 

Prospero: «Now I want / Spirits to enforce, art to enchant; / And my ending is despair, / Unless I be relieved by prayer, / Which pierces so, that it assaults / Mercy itself, andfrees allfaults» (Epilogue, 13-18)15. 

Gonzalo, vecchio e onesto cortigiano, è stato testimone privilegiato dell’inafferrabile mistero della condizione umana, e ha rivelato la spaventosa nudità quasi alchemica di quel percorso di conoscenza dentro l’isola che coinvolge tutti, personaggi e spettatori. 

Gonzalo: «Al! torment, trouble, wonder, and amazement /Inhabits here. Some heavenly power guide us / out of this fearful country! (V.I. 104-106). «Al! of us (found) ourselves / When no man was his own». (V.I. 212-213)16. 

Nell’arco di un tempo compreso tra le tre e le sei, in un significativo rispetto delle unità aristoteliche, Prospero ha celebrato, per l’ultima volta prima di lasciare l’isola, la meravigliosa e terribile magia del mondo che diventa teatro, e che, scrive Agostino Lombardo17, rimane il senso più profondo di The Tempest. 

Maria Paola Altese

NOTE 

1 W. Shakespeare, La Tempesta, trad il. di S. Quasimodo, Mondadori, 1991, p. 149-150. «O voi, elfi dei colli, dei ruscelli, e dei laghi tranquilli e delle selve; ( … ) / o voi piccoli gnomi che a lume di lunafate cerchi d’erba aspra che la pecora / non bruca, che per gioco fate nascere / i funghi di mezzanotte e con gioia / udite il grave coprifuoco; voi, / mie deboli potenze: / col vostro aiuto ho oscurato il sole / a mezzogiorno, suscitato i venti / impetuosi ho sollevato il verde / mare in furia contro la volta azzurra, / dato fuoco al tremendo / e strepitoso tuono, (. .. ) / con la mia arte potente, / al mio comando, le tombe svegliarono / i morti, si aprirono a liberarli». 
2 Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, 1994, p. 257-259. «Notte, fedelissima custode dei misteri; astri d’oro, che con la luna succedete ai bagliori del giorno; ( … ) Terra, che fornisci ai maghi erbe potenti, e voi brezze e venti e monti e fiumi e laghi, déi tutti delle foreste, déi tutti della notte, assistetemi! Grazie a voi, quando voglio i fiumi tornano fra le rive stupite alle sorgenti, rendo immoto il mare agitato, immoto lo agito per incantesimo, nuvole scaccio e nuvole raduno, mando via i venti oppure li chiamo, (. .. ) sradico e smuovo le querce, le selve, ordino ai monti di tremare, al suolo di muggire, alle ombre di uscire dai sepolcri». 
3 «Rinnego, ora, la barbara magia (. .. ) / spezzerò la mia verga / e la metterò giù molte tese / sotto terra, e là, dentro il mare, dove / non giunge lo scandaglio, affonderò il mio libro», cit. 
4 Harold Bloom, Shakespeare, The Invention of the Human, (1998), Milano, 2003, p. 491. 
5 Molti critici hanno sottolineato la complessità interpretati va del disegno di The Tempest che si fonda sull’unione di tre diversi tipi di strutture drammaturgiche: tragica, pastorale, romanzesca. Cfr. Alessandro Serpieri (a cura di) , La Tempesta, introduzione, Marsilio, 2001. 
6 «Affidai il governo a mio fratello. In breve tempo, / rapito dagli studi di magia, / divenni indifferente al mio alto grado». trad. il. cil. 
7 Il «rapt in secret studies» di Prospero sembra evocare l’esclamazione di Faust «Tis magic, magic that hath ravished me» (Marlowe, 110), conferendogli una connotazione negativa che contiene il pericolo del diabolico. Cfr. Vaughan and Vaughan (editors) The Tempest, introduction, The Arden Shakespeare, 1999, p. 64. 
8 Giorgio Melchiori, introduzione a La Tempesta, in Teatro completo di William Shakespeare, Milano, 1981, pag. 786. 
9 Eugenio Garin, (a cura di), Luomo del Rinascimento, Bari, Laterza, 1995, p. 170. 
10 Frank Kermode (editor), The Tempest, introduction, The Arden Shakespeare, 1954, pag. XLVIII. 
11 Cfr. Stephen Orgel (editor), W. Shakespeare, The Tempest, introduction, Oxford, 1994. 
12 «Riconosco come mio / questo essere delle tenebre». trad. il. cit. 
13 «Ogni tre pensieri, uno sarà / per la mia tomba». trad. il. cit. 
14 Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo (1961), Milano, 2006, pag. 167-170. 
15 «Ora non ho più spiriti al comando, / non ho potere più per incantesimi, / e la mia fine sarà disperata / se non m’aiuta almeno una preghiera / che giunga in cuore
alla Misericordia,
/ liberando ogni mio peccato». trad. it. cit. 
16 «Tormento, angoscia, meraviglia e terrore / abitano qui: una potenza celeste / ci guidi fuori da questo luogo spaventoso». «Noi abbiamo / ritrovato noi stessi,
quando nessuno era più se stesso». trad. il. cit. 
17 Cfr. Agostino Lombardo, La Grande Conchiglia, Bulzoni, 2002. 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 25-28.




Shakespeare e i romantici 

Wilhelm Meister, protagonista dell’omonimo romanzo di formazione di Goethe, legge Shakespeare e ne rimane folgorato. Nella prima parte de Gli anni d’apprendistato di Wilhelm Meister1, il distacco da una famiglia borghese di solidi mercanti e l’incontro con una compagnia di attori sarà determinante per il giovane Wilhelm (forse già profetica versione tedesca di William) e per la sua evoluzione spirituale, segnata profondamente dalla scoperta della possente e umana verità che muove il mondo di Shakespeare, e soprattutto dalla lettura, illuminante, dell’Amleto. 

I romantici furono gli ammirati costruttori di un’interpretazione psicologica e problematica del personaggio di Amleto: un intellettuale imprigionato nei labirinti del pensiero, dentro oscuri interrogativi mai soddisfatti sull’uomo e sul suo destino. «It is we who are Hamlet»2. Con questa frase Hazlitt sottolineò la presenza di un teatro della mente, una corrispondenza rivelatoria, universale, tra lettore (o spettatore) e personaggio. 

Amleto, scriverà Coleridge, è un punto di partenza nella strada della speculazione filosofica; è l’opera di Shakespeare che più di ogni altra riflette il genio del suo creatore3. 

Nel dibattito tra classici e romantici, a sostegno delle idee ‘moderne’ sulla poesia e sull’arte, Shakespeare diventa un simbolo del nuovo spirito, e accanto a lui compaiono i nomi di Omero, Dante, Milton. 

Il nazionalismo storico ottocentesco contribuì certamente a consolidare la coscienza di una pluralità di letterature differenziate, e in questo modo venne dato impulso ad una maggiore circolazione di opere straniere, di traduzioni, di scambi. Uno dei risultati più significativi fu il diffondersi delle idee intrise di un rinnovato senso di spiritualismo provenienti dalla Germania, che da più parti sottolineavano l’universalità della facoltà poetica e il primato dell’immaginazione. 

Così, l’opera di Shakespeare, nel corso del Settecento avversata da illustri detrattori come Voltaire, che, ribaltando una posizione inizialmente favorevole, la giudicò rozza e priva di gusto4 rappresentò, nell’Ottocento romantico, un esempio di quella ricerca del sublime che in Inghilterra aveva preso le mosse dal trattato di Burke5. Il sublime veniva codificato come una nuova categoria estetica che trascendeva i canoni classici del bello formale, per affermare una visione grandiosa, irregolare, spesso oscura o terrifica, ma capace di suscitare una profonda risonanza emotiva. L’atmosfera di cupa attesa e di sospensione all’inizio del primo atto dell’Amleto, seguita dall’apparizione dello spettro, è letta da Coleridge in questi terrnini: «It does indeed convey to the mind more than the eye can see»6. Un approccio all’arte che diventa psicologico e che in poesia come in pittura apre la via ad una visione non mediata della natura, e a quello che sarà il soggettivismo romantico7. 

L’irregolare poeta del teatro elisabettiano offriva un modello drammatico che non poteva essere uniformato agli ideali classici e neo-classici di poesia epica, lirica e tragica, riconducibili maggiormente a Virgilio, Petrarca e Racine. Ma fu proprio nella mescolanza di stili e di generi (tragico, comico, patetico) e nel rifiuto pressocché totale delle unità aristoteliche, che Shakespeare ebbe un ruolo importante nella trasformazione del sistema letterario europeo in senso moderno. 

È celebre la battuta di Polonio nel secondo atto dell’Amleto, dove in un arguto gioco linguistico vengono proiettate le innumerevoli combinazioni dell’invenzione drammatica: 

The best actors in the world, either for tragedy, 
comedy, history, pastoral, pastoral-comical, 
historical-pastoral, tragical-historical, tragical- 
comical-historical-pastoral, scene individable or 
poem unlimited. Seneca cannot be too heavy nor 
Plautus too light. For the law ofwrit and the liberty, 
these are the only men8. 

Un effetto qui chiaramente parodico, ma che esprime una tensione intrisa di scetticismo verso una realtà inafferrabile e in continua trasformazione, che tanto assomiglia all’anelito perenne del poeta romantico, non di rado declinato nelle forme dell’ ironia. 

Il «modello shakespeariano» passò anche grazie alle monumentali traduzioni che già sul finire del Settecento circolavano in Europa; basti citare Le Tourneur in Francia, o Schlegel e Tieck in Germania, e l’immaginario romantico si nutrì del mondo multiforme e dei personaggi creati da Shakespeare. 

La passione per il bardo ebbe tuttavia un suo contraltare ideologico che svela un orientamento anti-francese: le lezioni di A. W. Schlegel così come alcune conferenze shakespeariane di Coleridge vengono concepite all’ombra dell’espansionismo napoleonico. A. W. Schlegel tiene le sue lezioni nel 1808 in una Vienna occupata dai francesi, e la stessa Madame de Stael, sostenitrice del nuovo vento letterario proveniente dalla Germania, e ammiratrice di Shakespeare, sarà esiliata da Napoleone per ben due volte, nel 1803 e nel 1806. 

Contro le tendenze egemoniche e paneuropee della Francia e della cultura neo-classica, i cui precetti si erano diffusi in Europa soprattutto attraverso l’opera di Boileau9, Shakespeare rappresentava una individualità poetica che, secondo Herder10, nasceva piuttosto da una tradizione nazionale e nordica, da una lingua e da un teatro nazionali. E al tempo stesso i filosofi romantici sottolinearono il valore universale del genio shakespeariano: A. W. Schlegel definì Shakespeare su «Athenaum» come «il vero e proprio centro, il nocciolo della fantasia romantica»11. 

Coleridge è stato un importante mediatore tra Germania e Inghilterra, e la sua teoria del genio appare improntata sul pensiero di Kant come di Schelling e Schlegel. Il genio per prima cosa doveva essere oggettivo ed esprimere l’universalità e la verità della natura umana nella lingua stessa della natura, conferendo così alla poesia unità di sentimento. 

E contemporaneamente, in Shakespeare, il genio coincide con la capacità poetica di creare e trasformare: l’atto creativo è esso stesso fusione in una unità12. Coleridge interpreta la scrittura drammatica di Shakespeare all’interno di una visione organicistica che contiene una sintesi di matrice idealista tra due principi opposti: il dramma è «una syngenesia (una specie di fiore), ciascuno ha invero una propria vita ed è un individuum, ma è nello stesso tempo un organo dell’insieme»l3. 

La questione della verità come aderenza alla natura rimbalza alla critica romantica inglese dalla autorevole voce di Johnson, che nella prefazione alla sua edizione di Shakespeare del 1765 lodava il drammaturgo quale sommo poeta della natura, assolvendolo così dalla mancata osservanza dei precetti classici. Una ammirazione oscurata tuttavia da alcune ombre. 

Come annoterà Hazlitt14 più di un cinquantennio dopo, Johnson giudicava la natura nella sua regolarità, secondo un’idea di ordine proveniente dal senso comune, così che il poeta doveva essere pittore della natura; ma è una natura che, secondo Hazlitt, appare in ultimo come morta. Le tinte fosche o i bagliori improvvisi non potevano interessare l’intellettuale-simbolo dell’età augustea, attento al disegno generale piuttosto che all’originalità del particolare. 

Nei personaggi shakespeariani, soprattutto nei grandi eroi tragici, Amleto, Otello, Macbeth, Lear, convivono passioni contrastanti, e l’universalità della natura umana si riflette, e persino si compie all’interno di un destino individuale. 

Da Stendha115 a Manzoni emerge l’idea della verosimiglianza nella rappresentazione della storia e dei personaggi. In Shakespeare passioni e azioni si combinano secondo frequenze dai toni più diversi, e l’effetto è un senso di realtà. 

Nella Lettre manzoniana16 a Chauvet, l’Otello viene preso ad esempio del nuovo sistema tragico, in opposizione alla Zaira di Voltaire. 

Il tema d’ella gelosia, corrispondente nelle due tragedie, trova nella creazione dei personaggi di Shakespeare una forza genuina, che per Manzoni viene dalla verosimiglianza nella resa dei sentimenti, in relazione ad un percorso unitario in cui anche gli oggetti (il ruolo centrale del fazzoletto) posseggono un proprio, naturale valore drammatico. Il fazzoletto è un potente strumento che risuona cupo nella mostruosa trama di Iago: 

Her honour is an essence that’s not seen; 
They have it very oft that have it noto 
But for the handkerchief. .. 17 (IV, l) 

E Iago apparirà alla critica romantica come «il male senza ragione», nella famosa espressione di Coleridge18, il male che travolge gli uomini e i loro destini, «il male per il male»19, scriverà Croce nel primo Novecento. 

La fascinazione per il male, per gli abissi oscuri della mente, incubi o sogni, sarà un tratto riconoscibile di tutta la cultura romantica e oltre, che attinge all’immaginario shakespeariano producendo incroci e passaggi tra le arti: musica, pittura, letteratura. Dalle composizioni di un giovane Berlioz che dedica una sinfonia drammatica all’amore di Romeo e Giulietta, al melodramma ottocentesco, ritroviamo titoli e opere ispirate direttamente al teatro di Shakespeare; e se l’Otello più celebre rimane oggi quello di Verdi, Rossini lo aveva musicato nel 1816 e fu al tempo un’opera molto amata. 

Dall’incubo al sogno, la pittura di Fussli ha saputo modulare i temi di un’arte che tende al sublime; e compaiono visioni magiche e oniriche popolate di elfi e fate tratte dal Sogno di una notte di mezz’estate, oppure lo squarcio infernale che illumina i volti scarni, contorti in una smorfia deforme, delle streghe di Macbeth. O ancora, sarà l’ennesima lettura della storia di re Lear ad offrire a Keats una meditazione poetica su quello che definisce «the bitter sweet of this Shakespearian Fruit»20. 

E infine anche il romanticismo francese tributerà il suo omaggio senza riserve al genio shakespeariano. Nella prefazione al Cromwell, datata 1827 e considerata manifesto del movimento, Victor Rugo scriverà: «Shakespeare è il teatro». Un teatro in cui grottesco e sublime, tragedia e commedia risuonano nel medesimo afflato. Un teatro che eternamente muove l’umanità, e nel quale ancora si rispecchia il nostro presente. 

Maria Paola Altese 

NOTE 

1 W. Goethe, Wilhelm Meisters Lehrjahre, 1796. La redazione del Meister attraverserà un lungo arco di tempo e l’ultima edizione sarà pubblicata nel 1829. 
2 «Amleto siamo noi.» W. Hazlitt, Characters oj Shakespeare’s Plays, «Hamlet», London, 1817. 
3 S. T. Coleridge, Lectures on Shakespeare, 1813. Sulle interpretazioni romantiche di Shakespeare si veda J. Bate (a cura di), The Romantics on Shakespeare, 1992. 
4 Voltaire, Leures écrites de Londres sur les Anglois, Paris, 1734. 
5 E. Burke, A Philosophical Enquiry imo the Origin oj our ldeas oj the Sublime and the Beautiful, 1757. 
6 «Essa trasferisce alla mente più di ciò che gli occhi sono in grado di percepire.» S. T. Coleridge, Lectures on Shakespeare in J. Bate cil. p. 311 . 
7 Si veda in proposito S. Perosa, Transitabilità, Palermo, 2005. 
8 «I migliori del mondo per tragedia, commedia, storia, pastorale, pastorale comica, pastorale storica, tragedia storica, pastorale tragicomicostorica, scene a
composizione e poema a filastrocca. Seneca non può essere troppo grave né Plauto leggero per questa gente. Per lavori scritti o capricci inventati sono i soli.» (Il, ii). Amleto, trad. il. di E. Montale, in Teatro completo di William Shakespeare a cura di G. Me1chiori, Milano, 1994. 
9 N. Boileau, L’Art Poétique, 1674. 
10 J. G. Herder, «Shakespeare» in Von deutscher Art und Kunst, 1773. 
11 Si veda in proposito A. O. Lovejoy, Essays in the History oj Ideas (1948), trad. il. L’albero della conoscenza, Bologna, 1982, p. 129. 
12 Sui debiti verso i filosofi tedeschi nel pensiero critico di Coleridge si veda R. Wellek, Storia della critica moderna, «L’età romantica», cap.V1, Bologna, 1990. 
13 R. Wellek, cit. p. 186-187. 
14 W. Hazlitt, cit. 
15 H. B. Stendhal, Racine et Shakespeare, 1823. 
16 A. Manzoni, Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, 1819, pubbl. 1823. 
17 «Il suo onore è un’essenza che non si vede / Spesso ce l’hanno quelli che non l’hanno / Ma in quanto al fazzoletto…» (IV, I) W. Shakespeare, Otello, trad. it. a cura di A.
Lombardo, Milano, 1996. 
18 S. T. Coleridge, Coleridge’s Shakespeare Criticism, edited by T. M. Raysor, 1930. 
19 B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, 1920. 
20 «La dolcezza amara di questo frutto shakespeariano.» J. Keats, On Sitting down to read King Lear once again, in Poems, 1817. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 21-24.




 Il peccato dello straniero riflessi mitici nell’Othello di Shakespeare 

di Maria Paola Altese 

C’è in Otello la fascinazione dell’esotico e una suggestiva dissonanza nella costruzione drammatica del personaggio. Egli è infatti il «Moro di Venezia», un guerriero nobile e valoroso ed anche, unico tra i potenti generali al servizio della Repubblica, uomo dalla pelle nera con evidenti connotazioni di wildemess. Uno straniero dunque, che in una terra non nativa viene accolto e legittimato in funzione delle sue doti militari. 

Per il suo personaggio, protagonista dell’omonima tragedia scritta intorno al 1603, Shakespeare trasse ispirazione da fonti riconosciute nella tradizione novellistica italiana1, ma la diversità etnica di Otello trascende l’uso di un modello letterario, seppure significativo e si innesta su un terreno vastissimo di implicazioni culturali che ne giustificano le innumerevoli letture sia sul piano meramente critico che dell’interpretazione scenica. 

La questione qui esaminata è legata all’esito tragico del personaggio di Otello che nello sviluppo della vicenda mantiene la sua condizione di alterità, anzi, questa viene esaltata drammaticamente in un progressivo auto-isolamento all’interno di pensieri ossessivi e malati2. 

Così, il piano di lago ai danni del Moro agisce doppiamente come una perversa macchinazione che punisce l’ orgogliosa diffidenza dello straniero. 

(But he, as loving his own pride and purposes, I, l) e al contempo svela l’ingenuità di chi rimane alla superficie di una cultura non pienamente assimilata (l’insistenza di Otello nell’appellare Iago honest). 

Non a caso, contro l’interpretazione romantica ed eroica di Otello che soccombe di fronte al «male senza ragione» (a motiveless malignity, scriveva Coleridge) rappresentato da Iago, la linea interpretativa inaugurata da T.S . Eliot e seguita da Leavis3 ha avuto il merito storico di mettere in evidenza un tratto di egotismo e di ottusa autocelebrazione di un eroe che nell’ultimo monologo sembra ridotto a stereotipo tragico. 

La fondamentale dicotomia tra una visione prevalentemente idealistica e una visione anti-romantica, riemerge variamente nell’articolato percorso della critica che di volta in volta ha sottolineato (sebbene attraverso sempre nuove prospettive e mode letterarie) aspetti legati all’attitudine visionaria e trascendente della mente di Otello come di lago4, oppure, dall’altro lato, ha evidenziato contingenze ideologiche quali il tema del potere esteso anche alla sfera della sessualità5, e che si riflette nelle interazioni tra i personaggi e nella struttura drammatica. 

Ma ritornando all’impianto tragico della vicenda, soffermiamoci sulla questione della colpa. Perché non è soltanto Iago, tra i più perfetti villains shakespeariani, come ha osservato Harold Bloom6, una anticipazione del satana miltoniano, ad avere la colpa di tessere la caduta dell’eroe, ma è Otello stesso che sin dall’inizio appare segnato da un oscuro peccato originale. 

Questo va oltre il torto ai danni di lago quando Otello gli preferisce Cassio come suo luogotenente, il «peccato» di Otello è quello di uno stranger che ha varcato una frontiera culturale sulla base di una eroica reputazione pubblica: egli è comunque un Moro che si unisce con una bianca e giovane nobildonna veneziana. E la fuga d’amore dei due, nottetempo verso nozze segrete, non basta a cancellare negli altri oscene fantasie di accoppiamento. 

Durante il primo atto lago e Roderigo informano il padre di Desdemona: 

Even now, now, very now, an old 
black ram / Is tupping your white ewe. 
A rise, arise! / Awake the snorting citizens 
with the bell, / Or else the devii will 
make a grandsire ofyou7, (I, I) 

Le fantasie suggerite da lago a Brabanzio si evolvono culminando in un’immagine da bestiario medievale («vostra figlia e il Moro stanno facendo la bestia a due groppe»). 

Prima ancora della nobile e valorosa immagine di Otello, Shakespeare ci consegna, attraverso le parole di Iago, un personaggio il cui colore della pelle si estende a connotazioni peccaminose e bestiali. 

Otello non è certo un «Moor» sanguinario, il «super-villain» Aroon dipinto in Titus Andronicus, ma segretamente, in un’ottica che oppone pubblico e privato, pesa in lui una doppia natura, il soldato valoroso e il Moro lascivo, una doppia immagine che richiama la medesima doppiezza di lago. 

E il tema del doppio coinvolge anche il personaggio di Desdemona che Otello comincerà ad immaginare come prostituta, richiamando così la figura di Bianca nel suo legame con Cassio. 

Was this fair paper, this most goodly book, / Made to write «whore» upon? What committed! / Committed! O thou public commoner!8. (IV, II) 

Eppure nel primo atto Otello aveva difeso davanti al Doge la sincerità del suo amore per Desdemona, ricordando come lei si era innamorata mentre ascoltava il racconto delle sue imprese eroiche in terre lontane. 

She lov’d me for the dangers I had pass’d, / And I lov’d her that she did pity them. / This only is the witchcraft I have us’d9. (I, III) 

È dunque Desdemona che per prima s’innamora di Otello e dal suo desiderio verso uno straniero di colore che nelle parole di Brabanzio è «contro ogni legge della natura» ha origine la sua condanna ad un destino tragico, che viene adombrata nel risentimento paterno: 

Look to her, Moor, if thou hast eyes to see: / She has deceiv’d her father, and may thee10. (I, III) 

Possiamo ipotizzare, nella tessitura della vicenda di Otello e Desdemona, l’utilizzo da parte di Shakespeare di un sotterraneo riferimento mitologico che condurrebbe all’immagine mostruosa del Minotauro e al mito di Arianna, ad esso collegato. 

Shakespeare, che in Otello non menziona mai direttamente elementi legati ai due miti, aveva utilizzato l’immagine del Minotauro nell’Enrico VI (1591), dove il conte di Suffolk si guarda dall’avventurarsi nel labirinto degli intrighi perché lì «si nascondono Minotauri e perfidi tradimenti». L’allusione, che però non viene ulteriormente sviluppata, è probabilmente sia ad una categoria generale di mostri (associati all’idea del tradimento) che al figlio di Pasifae e del toro. E certamente anche all’interno di una autorevole tradizione medievale da Dante a Boccaccio, a Chaucer, compariva variamente questo tema. 

Il Minotauro è un mostro metà toro e metà uomo la cui mostruosità risulta dal modo in cui è stato generato. Ed è la sua preistoria ad essere ancora più significativa della sua storia, che lo vede confinato nel labirinto, fino a che Teseo non lo uccida. Frutto del desiderio illecito della regina Pasifae per il toro che Poseidone reca in dono a Minosse, il Minotauro è il simbolo osceno di una natura bestiale e libidinosa. Nell’attrazione per Otello, Desdemona si proietta in una parabola mitica che apre uno spazio verso un segreto desiderio femminile al di là di un legittimo confine etico e culturale, che già nella scelta di un’ambientazione italiana e soprattutto veneziana11, sembra spostato in avanti: Iago: I know our country disposition well; / In Venice they do let heaven see the pranks / They dare not show their husbands12 (III, III), ma che in ultimo sarà punito. 

E Otello, il «Moro libidinoso» in preda ad una «mostruosa» gelosia e vittima di una altrettanto «mostruosa» cospirazione ad opera di lago, teme il doppio volto di Desdemona, l’idea di una insopportabile sessualità femminile il cui simbolo più eloquente sarà il fazzoletto che la sposa «lascia cadere distrattamente». 

Shakespeare potrebbe essersi rivolto anche al mito di Arianna che aiuta l’amato Teseo ad uscire dal labirinto dopo che il giovane ateniese uccide il Minotauro. 

Nel Rinascimento il mito di Arianna viene celebrato nella duplice immagine di Arianna abbandonata da Teseo e in quella di Arianna sposa di Bacco13. 

Nel caso di una possibile ripresa della figura di Arianna nella Desdemona shakespeariana, il tema utilizzato riguarderebbe l’eroina abbandonata (su di un’isola come recita il mito). Dunque nella canzone del Salice cantata da Desdemona risuonerebbe lo stesso lamento di Arianna vittima dell’abbandono di Teseo. E in effetti Shakespeare introduce un passaggio che afferma un’origine femminile e lontana di quella canzone, nelle parole di Desdemona: 

My mother had a maid call’d Barbara; / She was in love, and he she lo ve ‘d prov’ d mad / And did forsake; she had a song of «willow»; / An old thing ‘twas, but it express’d her fortune, / And she died singing it14 (IV, III) 

In Desdemona convivono due immagini opposte: Pasifae che trasgredisce «contro ogni legge di natura», ed Arianna che piange per il suo abbandono, vittima di un ordine tutto maschile del mondo. E quale, all’ interno di questo schema, il ruolo di lago, se non quello dell’artefice, costruttore satanico (che poi è il rovescio di divino) di una architettura della mente in cui si mescolano realtà e illusione? C’è in lui un’impronta del mitico inventore del labirinto, e la sua malvagità si trascende infine in un’urgenza estetica: 

Virtue! Afig! ‘tis in ourselves that we are thus, or / Thus. Our bodies are our gardens, to the which our / Wills are gardeners15 (I, III) 

Secondo una visione rinascimentale, il labirinto viene collegato ad una esperienza soggettiva intricata ed oscura (l’immagine del labirinto associata al 

tema della foresta compare ad esempio nel XXII canto dell’Orlando Furioso). In Shakespeare il topos del labirinto compare in A Midsummer Night’s Dream (1595). Qui il bosco. teatro dei sortilegi e delle schermaglie magiche tra Oberon e Titania, diventa un luogo abitato dagli spiriti, «haunted grove»; ed è un mondo alla rovescia: il corso delle stagioni sospeso e gli uomini che dimenticano di danzare e di attraversare i labirinti: («And the quaint mazes in the wanton green / for lack of tread are undistinguishable»16 II, I). 

L’espressione «to tread a maze» riprende l’idea di un uso rituale del labirinto, non solo effetto di un sortilegio, ma anche simbolo del mondo nella sua esistenza ingannevole, metafora stessa del gioco teatrale che svela la continua tensione tra realtà ed apparenza. 

I am not what I am (I, I). 

Realtà e finzione, redenzione e colpa, come bianco e nero, in Otello diventano simboli interscambiabili, archetipi culturali dalle inesauribili possibilità interpretative; e così il «nero» di Otello si riflette progressivamente negli altri personaggi, come è stato evidenziato in una suggestiva rilettura teatrale di Carmelo Bene17, in cui 1’effetto più significativo è proprio lo scambio cromatico tra l’eroe e il villain: un Otello sbiancato e uno lago clamorosamente nero. 

Il peccato dello straniero ritorna attraverso modulazioni diverse, un complesso «teatro dell’invidia», come ha scritto Girard18, il cui motore è infine un mitico desiderio dell’altro da sé. 

Maria Paola Altese

NOTE 

1. «L’unica fonte delle grandi linee dell’intreccio di Othello è la settima novella della terza decade degli Hecatommithi di Gian Battista Giraldi Cinthio (1565), novella della quale non esisteva alcuna traduzione inglese, ma soltanto una francese nel Premier Volume des Cent Excellent Novelles di Gabriel Chappuys (1584)». Alcuni particolari derivano probabilmente da altre fonti: da una novella del Bandello e perfino dall’Orlando Furioso (tradotto in inglese nel 1591). G. Melchiori (a cura di), Teatro completo di William Shakespeare, vol. IV, Le Tragedie, Milano, 1995. 
2. In proposito si veda uno studio fondamentale di A. Serpieri, Otello: ,’eros negato: psicoanalisi di una proiezione distruttiva, Milano, 1976. 
3. T.S. Eliot, Selected Essays, London, 1932; ER. Leavis. Diabolic Intellect and The Noble Hero, 1952. 
4. «Il dramma tragico non deve essere per forza metafisico, ma lago, che dice di non essere altro che critico, non è altro che metafisico. La sua grandiosa vanteria: «Io non sono quello che sembro» ricorda volutamente il «Per grazia di Dio,io sono quel che sono» di San Paolo.» H. Bloom, Shakespeare: l’invenzione dell’uomo (1998), Milano, 2001. 
5. Riflessioni in questo senso si trovano nel libro di Valerie Traub: Desire and Anxiety: Circulation of Sexuality in Shakespearian Drama, London, 1992. 
6. H. Bloom, cit. 
7. Ora, ora, proprio ora / un vecchio montone nero sta montando / la vostra candida pecorella. Su, su, svegliate / con la campana a martello tutti i cittadini. / prima che il diavolo vi faccia nonno (trad. it. di Salvatore Quasimodo, in Teatro completo di William Shakespeare, vol. IV, cit.). 
8. Questa bella carta, questo magnifico libro d’amore / fu fatto per scriverei su la parola «puttana»? / Quale peccato hai commesso? E me lo domandi? Tu, donnaccia pubblica! 
9. Essa si era innamorata di me / al racconto di tutti i miei pericoli, / e io l’amavo per la pietà che mi aveva dimostrato. / E questa è tutta quanta la mia magia! 
10. Non perderla mai d’occhio, Moro, se hai occhi per vedere. / Come ha ingannato suo padre, potrebbe ingannare anche te. 
11. Un’ampia rassegna critica sulle ambientazioni italiane nel teatro di Shakespeare si trova in M. Marrapodi, A. J. Hoenselaars, M. Cappuzzo, L. Falzon (a cura di), Shakespeare’s Italy. Functions of ItaLian location in Renaissance Drama, Manchester, 1993. 
12. Conosco troppo bene i costumi del nostro paese: a Venezia le donne / fanno vedere soltanto al cielo / i peccati che nascondono ai loro mariti. 
13. Cfr. A.G. Word, The questfor Theseus, London, 1970. 
14. Mia madre aveva una cameriera che si chiamava Barbara. / Questa Barbara era innamorata, ma l’uomo che essa amava, / un giorno, commise la follia di abbandonarla. / Barbara cantava spesso “La canzone del salice», / una vecchia canzone, ma che esprimeva bene / un destino simile al suo. E morì cantandola. 
15. Virtù un fico secco! Dipende soltanto da noi / essere in un modo piuttosto che in un altro. Il nostro / corpo è un giardino e il suo giardiniere è la nostra volontà. 
16. E gli ingegnosi labirinti nel verde lussureggiante, / da tempo non usati, più non si distinguono. 
17. Otello (da Shakespeare), secondo Carmelo Bene, è stato rappresentato in due versioni teatrali nel 1979 e nel 1985. 
18. René Girard, Shakespeare, il Teatro dell’invidia (1990), Milano, 1998.

 

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 26-29.




Epifanie isolane Bufalino, il giovane artista e Joyce

Un divario temporale di quasi mezzo secolo, e molte altre cose, come la distanza tra l’Irlanda e la Sicilia, separano Joyce da Bufalino. Una profonda linea di demarcazione che, ricorrendo a troppo facili periodizzazioni letterarie, divide il moderno, anzi il modernismo, dal post-moderno. Ma come già aveva sottolineato T.S. Eliot nel suo saggio-manifesto modernista del 1919, Tradition and The Individual Talent, il possesso del senso storico (che “è senso dell’atemporale come del temporale, e dell’atemporale come del temporale insieme1”) conduce l’artista verso un dialogo necessario con la tradizione, poiché – scrive Eliot – “nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che si dà su di lui è il giudizio di lui in rapporto ai poeti o agli artisti del passato2”. Di questa idea dell’esistenza oggettiva e globale della letteratura, celebrata da Eliot nel concetto di “poesia come unità vivente di tutta la poesia che sia mai stata scritta3”, Bufalino ha sempre dimostrato consapevolezza. Così, nell’introduzione al suo Dizionario dei personaggi di romanzo pubblicato nel 1982, egli riflette su una questione interpretativa, e riconosce uno statuto universale del personaggio letterario, “eroe culturale” che può trovare un senso ultimo nel rapporto con il lettore. Il personaggio è infatti “multiplo e solitario, sempre altro e sempre uguale, corposo come una roccia e perversamente sottile”4: secondo l’autore del Dizionario, la letteratura tutta con gli abitanti invisibili che la popolano, è “la nostra patria più vera”, e coerentemente intitola la sua introduzione all’opera, “Passione del personaggio”5. Questo inventario di 138 personaggi, da Don Chisciotte fino all’Innominabile di Samuel Beckett, viene descritto dallo scrittore come la proiezione fantasmagorica di un “solo grande romanzo-arlecchino, un film-monstre dall’ineguagliabile cast”6, e compare pure il giovane protagonista del Portrait (1916) di Joyce, Stephen Dedalus, mentre su una spiaggia della costa di Dublino sperimenta l’epifania della propria vocazione artistica.

La complessa orchestrazione della scrittura di Bufalino accoglie suggestioni e memorie provenienti da una vita di letture vastissime mai interrotte, e di studi letterari ( che saranno segnati dalla guerra e dalla malattia), un mondo nel quale i confini tra lettura e scrittura appaiono labili, e dove la letteratura e la vita possono sovrapporsi. Similmente, nell’affollata galleria della memoria, un personaggio da romanzo rimanda ad altri personaggi da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi da romanzo, e il mondo fittizio, come scrive Pavel, diventa riflesso di un mondo ontologicamente riconosciuto e dunque possibile7. L’universo narrativo di Gesualdo Bufalino ruota attorno ad uno spazio fondamentale, immaginario e reale insieme: l’isola. La Sicilia. Una marginalità geografica che fa da sfondo al percorso di formazione dello scrittore, che non rinuncia nei suoi romanzi alla tentazione di sperimentarsi nell’io narrante, drammaticamente e ironicamente trasformato in “personaggio”. Sia Diceria dell’Untore, che Bufalino pubblica sessantenne nel 1981, quando, maturo professore di liceo diviene improvvisamente ‘caso letterario’, che Argo il cieco, pubblicato nel 1984, si concentrano sopra un nucleo autobiografico fondato sull’appartenenza isolana dell’autore, uno spirito ineffabile e aristocratico che Bufalino definisce “isolitudine”, e che rende i siciliani “isole dentro l’isola”8. L’isola assume una valenza simbolica, all’interno della quale stratificazioni mitiche e letterarie si collegano ad un piano storico e soprattutto memoriale. Il desiderio di una Sicilia incantata è la premessa fondamentale dalla quale nasce “il sogno della memoria”, filo conduttore di Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, romanzo postjoyciano “dell’artista da giovane”, il cui titolo è già un manifesto di poetica, dove l’idea di una memoria caleidoscopica dai “cento occhi”, come quella del mostro mitologico evocato dalle Metamorfosi, si coniuga con la percezione di una costitutiva evanescenza onirica dell’atto del ricordare9.

L’immagine di un paese siciliano nell’estate del cinquantuno (“un paese in figura di melagrana spaccata, vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all’altro”) apre il racconto di un tempo lontano che può cominciare grazie alla rievocazione di uno spazio costruito in un evidente sistema di opposizioni: alto/basso, terra/ mare, campagna/città; simbolicamente diviso in due, metà reale e metà fiabesco, e che esiste ‘fotografato’ solo in quel sogno memoriale, perché, come scrive l’autore nell’epigrafe introduttiva al primo capitolo, questo è un paese “che non c’è più”: “L’autore, per rallegrarsi la mente ripensa antiche letizie e pene d’amor perdute in un paese che non c’è più”.

Si configura quello che Coletti definisce “uno spazio del desiderio regressivo” 10, una nostalgia di paesaggi che sono inscindibili dall’acuto (proustiano più che ungarettiano) sentimento del tempo. La memoria ha per Bufalino un doppio significato, da un lato nostalgica rievocazione del passato, dall’altro volontaria e terapeutica finzione, che sembra suggerire un implicito riferimento al grande mito della modernità romanzesca rappresentato da Don Chisciotte, dal suo modello di riflessione metalinguistica e degradazione parodica, che rende la realtà una costruzione culturale.11

«L’arte arto, che ne pensi? Un arto artificiale, s’intende, e non solo per rendere più ghiotto lo scioglilingua ma perché questo a me veramente serve: un surrogato di vita durante il giorno e un surrogato di sonno, quando non posso prendere sonno la sera.» (cap. III bis, p. 263)

In Argo il cieco il dialogo con la memoria si svolge in un aperto gioco di specchi tra autore e personaggio, un costante frammezzarsi nella storia da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi di capitoli “bis”, che rappresentano una controvoce metanarrativa, la voce dell’autore attuale che a distanza temporale e spaziale dalla vicenda narrata ( trent’anni dopo, in una “matrimoniale senza bagno” di un albergo romano) riflette sulla propria scrittura e su se stesso, svelando al lettore le impalcature dell’edificio letterario costruito sulle parole: culturale11.

«Parole, si. E me n’ero costruito un glossario, quasi i ruoli d’un esercito: depravate, timide, tracotanti, dolorose; tutte ugualmente disciplinate fino alla nausea» (cap. XXVII bis, p. 395).

Una sorta di self-conscious novel, che nella definizione del critico Stonehill è la forma più rappresentativa della narrativa postmoderna: una narrazione focalizzata sull’artificio letterario, sul suo status di fiction.12 Nello spazio metanarrativo occupato dall’autore riconosciamo un ‘dopo’, un passaggio in direzione temporale e dunque storica. Non c’è immobilismo letterario in Argo il cieco, che fu accolto dalla critica13 con qualche riserva rispetto al primo romanzo, e venne infatti accusato di scarsa originalità; ma al contrario, qui Bufalino sperimenta la definitiva insostenibilità di un modello narrativo stabile, ancorato alla realtà di un racconto autobiografico.

Lo spazio della memoria è sogno, finzione e dunque letteratura. Ricreando l’esperienza, l’artista conquista dolorosamente la parola (le “mostruose fantasticherie” che invadevano la mente di Stephen Dedalus14) e la restituisce attraverso la scrittura, pagando il suo debito, che riscatta da un lato e fa rivivere la ‘colpa’ dell’arte dall’altro.

«Questo miracolo di creare con un po’ di suoni e segni una bolla d’inesistenze ciarliere, come non finisce di apparirmi un’azione losca, una colpa» (Argo il Cieco, cap. VI bis, p. 295).

Il giovane poeta, protagonista di Argo il cieco, oggetto dello sguardo disincantato del suo anziano doppio, si trova alle prese con un amore non corrisposto e con memorabili epifanie isolane, che nella scrittura colta e infarcita di preziosismi evocano il barocco architettonico dei palazzi e delle chiese del profondo sud di Sicilia (di Modica e dintorni) facendo risuonare, come ha osservato Sciascia, “accordi da rondò”15.

Lo svolgersi della storia appare come una “dilatazione dell’io”16, un percorso che svela una realtà molteplice, fondata sulla trasformazione: “Questo è ora, guardatelo, il ragazzo di cento pagine fa” (XVII bis, p. 398).

Il giovane artista del tempo che fu è un personaggio che allo sguardo retrospettivo dell’autore appare un “giovane zufolo”, una dolceamara parodia siciliana dello Stephen Dedalus joyciano, che occupa la pagina 393 del Dizionario dei personaggi di romanzo.

La letteratura si ripiega su se stessa, e tra le molte citazioni occulte e rimandi intertestuali, il titolo del capitolo VI bis (“Ritratto dell’artista come giovane zufolo”) è un intenzionale ritorno al Portrait di Joyce, la volontà (e la necessità) dello scrittore di stabilire un dialogo con il passato, con quel modello fondamentale di Ritratto d’artista novecentesco, sperimentando però, nello stesso tempo, la sua irreversibile inattualità che si esprime in una tragicomica parodia17. E così in apertura del capitolo VI bis, l’autore si presenta “com’era allora”:

«Ero uno zufolo capace di due note sole allora. Facile da suonare, ma bisognava impararmi. Erano due, le note, una d’afflizione, da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi uì uì uì, come quando bastonano un cane; l’altra di letizia trallalà trallallera, che veniva da una violenza di fame per ogni fumante rosso ragù della vita.» (cap. VI bis p. 293).

La vita è per Bufalino una costante oscillazione tra tanatofilia e tanatofobia, un dualismo che si fonda sulla predilezione retorica per l’ossimoro, contenuto nello stesso titolo Argo il cieco, e legato soprattutto a temi esistenziali, che secondo Enzo Papa18 farebbe di Bufalino un ultimo epigono della grande stagione del decadentismo europeo. E se nel Ritratto di Joyce l’estetismo dannunziano fin de siecle ha per molti aspetti influenzato una concezione estetica che ferma il tempo nella folgorazione di un’epifania, in Argo il cieco l’incorruttibile bellezza di un attimo (la stasi joyciana derivata dalla filosofia tomistica19) diventa un illusorio desiderio di vita minacciato dall’attesa della morte.

«L’inganno cioè che il sole s’impietri dov’è, e la luna; che nel nostro sangue nessuna cellula invecchi di un attimo in questo attimo stesso che sembra passare e non passa, sembra non passare ed è già passato». (cap. VIII, p. 306).

L’epifania della ragazza sulla spiaggia chiude il quarto capitolo del Portrait di Joyce (è il passaggio riportato da Bufalino nel suo Dizionario) e rivelerà a Stephen Dedalus, che poco prima in un colloquio con il direttore del collegio gesuita era stato invitato ad entrare nell’ordine, la strada definitiva e profana dell’arte. Questo momento rappresenta la piena realizzazione letteraria del concetto di epifania, definito nel capitolo XXV di Stephen Hero (1905), incompiuto romanzo d’artista, la cui redazione venne interrotta da Joyce per poi confluire nel nuovo progetto di A Portrait of the Artist as a Young Man: “Per epifania intendeva Stephen un’improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso o in un gesto o in un giro di pensieri degni di essere ricordati”20.

L’immagine della ragazza ferma sulla riva di un mare smeraldino è costruita secondo un sensuale estetismo che crea un parallelismo simbolico tra la fanciulla (“angelo della gioventù e della bellezza mortale”) e un piumato uccello marino:

«Una ragazza gli stava davanti in mezzo alla corrente: sola e immobile, guardando verso il mare. Pareva una creatura trasformata per incanto nell’aspetto di un bizzarro e bell’uccello marino. Le sue lunghe gambe nude e sottili erano delicate come quelle di un airone e intatte, tranne dove una traccia smeraldina di alga era restata come un segno sulla carne. Le cosce, più piene e sfumate come l’avorio, erano nude fin quasi alla anche, dove gli orli bianchi dei calzoncini erano come un piumaggio di soffice pelurie candida21 ». (cap. IV).

Nel XIII capitolo di Argo il cieco, durante una passeggiata nella cava antica di Ispica con l’amata Maria Venera, il giovane protagonista replica il sensuale lirismo dell’epifania joyciana, ma da candido ed etereo uccello marino la ragazza viene trasformata in una più prosaica e scura allodola canterina:

«Era vestita di nero, come sempre. Il solito abitino liso, una mussola da rigattiere. Ma come le stava bene, la faceva sembrare un uccello. Con le gambe sottili e snelle ed un aire naturale di volo. Una cicogna, una gru. Se non un’allodola, per come cantava». (p. 347).

La degradazione ad un livello di quotidiano realismo dell’epifania joyciana non è soltanto un gioco parodico, ma la necropoli, luogo di confine tra la da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi vita e la morte (proprio come la riva del mare rifletteva in Joyce un confine tra essere e apparire ) diventa un simbolo della tragica condizione del vivere, che inevitabilmente (e persino allegramente) procede verso la morte:

“Noi ci spingemmo avanti, catecumeni di un felice e verde Al di là. Senza i rumori di catene, i lamenti, i flosci voli di pipistrelli che accompagnano i viaggi sotterra d’ogni Enea o Vas d’elezione.” (XII, p. 345)

Come ha evidenziato Margaret Doody22 esaminando i tropi del romanzo a partire dall’età classica, ambientazioni di paludi o spiagge, la presenza del mare o di tombe, caverne o labirinti, rappresentano spazi liminali (dal latino limen, soglia), luoghi cioè che per loro costituzione comunicano un’idea di confine, di indeterminatezza tra uno stato ed un altro. Il luogo della sepoltura richiama un concetto di Morte in Vita, una realtà dominata da un’idea di decomposizione, dove anche l’identità si sbriciola. E il personaggio è condannato alla lacerazione, come il protagonista di Argo il cieco, imprigionato nel sogno memoriale dell’autore (“scrivere è stato per me solamente un simulacro del vivere”; XVII bis ) che solo il lettore può condividere nella malinconica scoperta dell’infelicità.

Ed infine l’isola è protagonista, al pari degli stessi personaggi, delle storie d’artista di Joyce e di Bufalino. Stephen Dedalus ha compiuto un viaggio simbolico-rituale dentro il ‘labirinto’23 della sua isola irlandese, e la stessa formazione dell’artista può leggersi come iniziazione cultica attraverso riferimenti al mito di Dedalo, la cui storia rimanda proprio alla presenza di un’isola (Creta e anche la Sicilia). La percezione labirintica dello spazio suggerisce l’idea di un passaggio sotterraneo, o di un luogo segreto, in cui il meraviglioso si fonde con il mostruoso, come quello abitato dal Minotauro.

Un cordone simbolico lega l’artista all’isola in una perenne oscillazione di colpa e desiderio, che nel Portrait culminerà nella scelta di Stephen dell’esilio nel mondo, nella necessità di abbandonare l’isola, per poi però ricrearla nella letteratura: la profetica immagine di “nubi screziate sul mare” che sembrano “nomadi in marcia” verso occidente24. E infine, l’isola Giulia o Ferdinandea, sprofondata nel mare per poi un giorno riemergere, compare nel romanzo di Bufalino, e rappresenta l’isola come luogo della natura magico e inquietante, teatro del disorientamento spazio-temporale; un non-luogo mitico che appartiene alla memoria collettiva e che rimane sospeso tra assenza e presenza, morte e vita, sogno e storia.

«Allora cominciai a dirle dell’isola Giulia ovvero Ferdinandea emersa da queste acque fra Sciacca e Pantelleria un secolo addietro e passa. Di sabbia fine, nera e pesante, con un ponticello nel mezzo e un laghetto d’acqua bollente nella pianura. Il mare la circondava, un mare color celeste ma untuoso come d’olio. E l’isola visse qualche tempo, poi il mare se la riprese. Un giorno riemergerà ». (cap. X, p. 237).

Note

1 T. S. Eliot, Tradition and the Individual Talent (1919), trad. it. Tradizione e talento individuale in T. S. Eliot, Opere 1904-1939, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 2001, p. 394 e segg.
2 Ibidem.
3 Ibidem.
4 Gesualdo Bufalino, “Passione del Personaggio”, introduzione al Dizionario dei personaggi di romanzo da Don Chisciotte all’Innominabile, (1982), Milano, Rizzoli, 2000, p. 15.
5 Bufalino aveva in mente gli studi di G. Genette, Figure III, Torino, Einaudi, 1976; G. Lukàcs, Problemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976; M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977; M. Robert, L’antico e il nuovo, Milano, Rizzoli, 1969; J. Rousset, Forme e significato, Torino, Einaudi, 1976. Tutti compaiono in nota all’introduzione cit.
6 G. Bufalino, Introduzione al Dizionario dei personaggi di romanzo, cit. p. 2.
7 Cfr. Thomas Pavel, Mondi di Invenzione (1986) trad. it. a cura di Andrea Carosso, Einaudi, Torino, 1992.
8 Cfr. Gesualdo Bufalino, Giuseppe Leone, L’isola nuda, Bompiani, Milano, 1998.
9 Gesualdo Bufalino, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, Sellerio, Palermo, 1984, ora in Gesualdo Bufalino, Opere 1981-1988, a cura di Maria Corti e Francesca Caputo, Bompiani, 1992. Le pagine indicate si riferiscono a questa edizione.
10 Vittorio Coletti, “Spazio e tempo nel romanzo italiano contemporaneo” in Le configurazioni dello spazio nel romanzo, Bulzoni, Roma p. 205.
11 Cfr. Alfonso Berardinelli, “L’incontro con la realtà”, in Il Romanzo a cura di F. Moretti, vol. II, “Le Forme”, Einaudi, Torino, 2002.
12 Brian Stonehill, The Self-Conscious Novel. Artifice in Fiction from Joyce to Pynchon, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1988, p. 3: “the self-conscious novel is an extended prose narrative that draws attention to its status as a fiction”.
13 “ci troviamo davanti a non molto di diverso per le situazioni e i materiali, da tanta arcaica letteratura neorealistica” L. Mondo, “Argo, vecchio e cieco alla ricerca degli anni felici”, in “Tuttolibri”, 23 febbraio 1985.
14 “His recent monstruous reveries came thronging into his memory.” J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, cap. II, edited by S. Deane, Penguin, 2000, p. 95. 15 Leonardo Sciascia ha definito Argo il cieco un “racconto rondò” nell’articolo “La memoria è musica”, L’Espresso, 23 dicembre 1984.
16 Cfr. Angelo Guglielmi, “La dilatazione dell’io”, in “Nuove Effemeridi” n. 18/1992/II.
17 Sui “Ritratti d’Artista” di Joyce e Bufalino e sulla presenza di uno spazio narrativo simbolico Cfr. Maria Paola Altese, Portrait della memoria. Lo spazio come simbolo, Ila Palma, Palermo, 2005.
18 Enzo Papa, “Gesualdo Bufalino” in “Belfagor”, Firenze 52, 5, 1997.
19 Maurice Beebe, “Joyce and Aquinas: the Theory of Aesthetics”, in James Joyce: the Dubliners and A Portrait of the Artist as a Young Man, Morris Beja (editor), Macmillan, 1973.
20 Trad. it. di Cesare Pavese in Joyce. Racconti e romanzi, Mondadori, 1974.
21 James Joyce, Dedalus: Ritratto dell’Artista da giovane, trad. it. di Cesare Pavese, Mondadori, Milano,1974. Versione inglese cit. p.185. “A girl stood before him in midstream, alone and still, gazing out to sea. She seemed like one whom magic had changed into the likeness of a strange and beautiful seabird. Her long slender bare legs were delicate as a crane’s and pure save where an emerald trail of seaweed had fashioned itself as a sign upon the flesh. Her thighs, fuller and softhued as ivory, were bared almost to the hips where the white fringes of drawers were like featherings of soft white down.”
22 Margaret Doody, The True Story of the Novel, trad. it. La vera storia del romanzo, Sellerio, Palermo, 2009.
23 Diane Fortuna, “The Art of the Labyrinth” in Critical Essays on James Joyce’s A Portrait of the Artist as a Young Man, Brady-Carens editors, Macmillan, 1998.
24 “Disheartened, he raised his eyes towards the slowdrifting clouds, dappled and seaborne. They were voyaging across the deserts of the sky, a host of nomads on the march, voyaging high Ireland, westward bound.” 

 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 5-10.