Se tragedia è la presa di congedo, la presa d’atto di una scissione dell’io dal mondo, di una lacerazione nell’io e nel mondo, insomma di una conflittualità non risolvibile, labirintica, Padron ne “I cerchi dell’inferno” (*) tematizza l’umana tragedia ben sopportando quel peso dell’etica che è la volontà di impotenza, pur se, nel funzionamento del testo e nelle sue articolazioni di senso, si avverte il titanismo di un intento che può essere riassunto nel motto di Freud: flectere si nequeo superos, acheronta movebo. Ma mentre Freud postula che la coscienza condiziona l’esistenza, Padron si affida alla parola e non per mimare i ritmi della quotidianità, lesi e inutilizzabili ad affrontare la problematica dell’esistere, ma per dire quelli ottativi della progettazione ove, formalizzandoli, abita e palpita la possibilità della bellezza. Senonché la bellezza è veramente l’esodo da questo mondo, discesa agli inferi: da affrontare ed esperire e da cui risalire (anche a costo di tradire gli occhi di Euridice) – e “i suoi occhi erano luce e tenerezza”1 e “con un’ascia fendettero gli occhi della tenerezza”2, ma padrone del canto, se non “dei mondi / e dell’eternità”3.
In equilibrio sull’abisso, Padron sta innamorato della notte e della morte che vuole riscattare con la parola.
La notte che si attraversa in queste pagine non è quella dei romantici, né quella dell’accoglienza: non è né rifugio né riparo, ma luogo ostile, invivibile: una “trappola del tempo”4 ove si perde la coincidenza e la coerenza con se stessi e si resta smarriti e senza identità e l’io non è più certificabile, ma privo di volto e di nome.
Tanto che, con Agostino, Padron potrebbe dire: amor mortis conturbat me: ma il fascino e l’esperienza della morte – punto d’incontro fra creatività e identità -, il lorchiano gusto di morte, altro non sono che lussuria perché diventano un cupio dissolvi per il quale si rovescia la sentenza dell’Ecclesiaste, onde qui auget dolorem, auget et scientiam. Ed allora, attraversare il dolore è appunto discesa agli inferi ma anche disinganno barocco per il quale si esperisce ciò di cui non si vorrebbe fare esperienza. Percorrere ” I cerchi dell’inferno” significa visitare un luogo non abitabile: un luogo, direbbe S. J. Perse, flagrant et nul comme l’ossuarie des saisons, dove il labirinto è letteralmente smarrimento necessario per avanzarvi.
Luogo di inappartenenza, perché, pur occupandolo “tra i vivi, /non mi appartengo più”5: dove, poi, “l’ombra è immutabile”6 e non esiste posto “per l’intimo abbandono”7 e “tutto è deserto. / Ormai è senza uscite questo labirinto”8: laborintus che ribadisce “la solitudine che urla”9. E la scoperta della solitudine ne comporta l’assimilazione al labirinto: nel labirinto della solitudine – dove “la memoria dei giorni / è quasi un nonnulla”10 perché “lettere d’amore e i loro progetti / sono ormai indecifrabili per sempre”11, sono “perdute memorie”12- Padron rimane “immobile, identico al silenzio”13, verifica l’asserzione di O. Paz. per il quale soledad y pecado original se identifican. Da questa constatazione prende avvio l’umana tragedia: ma la catastrofe apre al nuovo, è preludio, perché ogni compimento è cominciamento, attesa dell’e-vento e la scrittura di Padron sceglie come statuto quello di orientare, ogni volta in modo diverso, la parola per recuperare la disperazione o per scommettere su di essa e abolirla non già annullandola o rimuovendola. ma trascendendola, facendone una perifrasi della speranza, della “speranza impossibile”14: dire è esprimersi, uscire da sé, spezzare la solitudine.
L’esaltazione polisemica che succede in questo work in progress fondato sull’ambiguità (nell’accezione e nelle direzioni che Empson imprime a questo termine) e slittamenti di senso, comporta il rischio, non sempre evitabile, di traboccare in un inquinamento semiotico per sovrabbondanza di significati spesso contraddittori e per il quale la metafora, talvolta, si pietrifica in enigma generando l’angoscia delle opzioni possibili.
In altri termini, questa poesia mentre arriva a sfiorare il mistero e a farsi (quasi) mistica, ripropone anche il sempre latente conflitto fra Letteratura e Linguaggio che in altro non consiste se non nel tentativo perenne di conciliare, in esiti d’arte. facilità di lettura e densità di scrittura, di coniugare trasparenza e occultamento, armonia e allusività, incarnazione e astrazione e, cioè, (insostenibile) leggerezza dell’essere e ineludibile pesantezza del vivere: “quell’immenso affanno/di armonizzare la vita con la parola”15.
In questa antitesi platonica di lògos e grafé, nel contesto più generale di correlazioni e inferenze che il testo di Padr6n suscita, la lingua viene funzionalizzata a partecipare contemporaneamente a un massimo di realismo e a un massimo di espressività: onde le rotture del ritmo, il variare delle strutture, l’effrazione continua del tessuto lessicale, gli strappi, le trasgressioni, gli eccessi e gli aggiustamenti e accorgimenti strategici della scrittura, finalizzati a spezzare la prigionia della lingua per aderire alla realtà rappresentata e/o immaginata, evitano brillantemente la deriva entropica e la caduta nell’omogeneo o nel monotono.
In una realtà di segni già interpretati o esausti, Padron inserisce l’implacabile ossimoro della sua autenticità, della sua originalità: la sua esigenza di una diversa ragione del mondo che non sia “solo il pianto, il pianto”16 per onorare l’appuntamento a un luogo dove il tempo si inverta per farsi forma e ritmo – là dove convergono tutte le sirene. Tempo, tuttavia, questo di Padron, che si manifesta come “la lussazione del tempo”17, vale a dire come struttura intem1edia fra quello oggettivo in cui l’Autore è “con mistero e senza ira, / condannato ad esistere, ad essere parte”18: il tempo di Kronos che divora i suoi figli, tempo di distruzione, di strazio e di insufficienza; e quello soggettivo, il vissuto della malinconia e del lutto di aver perso irrecuperabilmente il senso dell’eternità, “nella totale assenza della vita, / … trasformato/nell’eternità morta”19.
Anche per questo aspetto, Padron riconduce la poesia alla sua organizzata condizione di temporalità organizzata che, cioè, da potenziale si fa attuale in quanto, alludendo a ciò che manca, a ciò che è assente, ne evoca l’essenza e l’attualizza, elide la contraddizione fra vuoto e vastità (nel senso in cui l’intese Rilke) identificandoli e, con ciò, risolve il silenzio nel testo che instaura, traduce il silenzio in parola, forma spuria e scarto del silenzio.
Perciò i gesti si placano in “una immobilità inestinguibile”20 e si placa il grido che attraversa tutte queste pagine: si placano, componendosi in una catarsi, in una poesia che è recupero del silenzio, “retorica del silenzio”, come dice Genette: eccesso che la parola consegna alla dissipazione.
Parola che, animando la struttura dei testi, indugia a organizzare epifanie e magie, secondo una personalissima erotografia che non si limita a veicolare significati facendo parlare d’amore la scrittura, ma che producendolo, l’amore, persegue l’evento del segno. Ed è nella semiofania che, pur ubbidendo rigorosamente allo strutturarsi delle condizioni tecnico-espressive che consentono la materialità dello scrivere, la fisicità del prodotto, il testo di Padron suscita imprevisto, crea e innesca attesa, ostende e inventa onde esso e le sue letture non sono mai identici ma di valenza mimetica e di spessore simbolico cosi marcati che, rispecchiandosi reciprocamente, infinitamente riverberano, moltiplicandosi perché “voragine e gelo hanno gli specchi”21 e riflettono nunc et semper – in modo istantaneo e permanente – “la nostra perdita sfrenata”22, sono “abisso del mio inferno”23.
In questa ottica, la scrittura, fra tensioni e tentazioni, diventa ricerca di un dire che coincida con l’essere, onde la parola, inseguendosi, si fa sull’abisso – vertigine di un equilibrio fra il grido e reco che lo prolunga, secondo un paradigma dell’inconclusione: tragicamente, si conferma l’impotenza pratica del poeta che, come Edipo, non può, non potrà mai, trasformare il cammino in regno.
La parola, attesta questo libro di Padron, deve tendere a sbocciare in luce, rischiando che essa sia oscura: nil obscurius luce, perché sempre in bilico fra attesa e oblio, fra il dire e il tempo, fra essere e tempo; e il rapporto con la morte – che stabilisce – diventa il suo statuto definitivo: dice – con L. Chestov – le rivelazioni della morte.Perciò a me pare che col titolo “l cerchi dell’inferno”, J. J. Padron non si limiti a sintetizzare, alludendovi, il contenuto del testo senza, peraltro, esaurirlo, sicché l’oggetto ne risulta citato, ma voglia costituire una epigrafe di commento e di compimento: dunque. riassumere i testi riproponendoli in un paradigma dell’attesa, dell’e-vento, promessa di un nuovo inizio, in una conclusione inesauribile dalla quale tutto ricomincia. Perché è là, dalla chiusura del cerchio che tutto ha eternamente, inizio, per ripetersi: e il ripetuto è simbolo di ciò che diventa, della parola (in principio erat verbum) che sempre in se stessa muta: qui – richiamando Paul Valéry – te remords l’étincelante queue/ dans un tumulte au silence pareil.
Giuseppe Addamo
*. Le note si riferiscono all’edizione italiana edita dalla Libera Università Mediterranea, Trapani, 1990.
l. La donna della terra – pag. 37
2. Tra noi crescono – pag. 52
3. Il sogno del sesso – pag. 39
4. La trappola del tempo – pag. 50
5. Non so per quanto tempo – pag. 60
6. Fetore – pag. 21
7. Forse il fango stesso – pag. 46
8. Fetore – pag. 21
9. La città della morte – pag. 32
10. Consiglio per il viandante – pag. 64
11. Dove, dove andare – pag. 57
12. La trappola del tempo – pag. 50
13. L’invasione degli atomi – pag. 19
14. Il grande iride – pag. 34
15. Un’immobilità inestinguibile – pag. 27
16. Il pianto – pag. 70
17. L’invasione degli atomi – pag. 20
18. Quel frondoso peso – pag. 23
19. Forse il fango stesso – pag. 46
20. Un’immobilità inestinguibile – pag. 27
21. Voragine e gelo hanno gli specchi – pag. 68
22. E se Dio si stancasse di noi – pag. 31
23. Voragine e gelo hanno gli specchi – pag. 68
Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 17-21