QUANDO FA GIORNO 

Nella notte distesa come un manto 
il fischietto del vigile notturno 
è un sibilo lungo ed uno breve. 
Latra una cagna quasi di paura 
al giorno che rivela le sue astuzie. 
Sdraiata sull’asfalto, con le zampe 
in alto, 
si lecca . .. Si ripete 
il fischio acuto nella notte vuota. 
Silenzio nelle case 
ad avvolgere il sonno della gente 
chiusa tra quattro mura 
a covare segreti di famiglia. 
A un angolo di strada fa le fusa 
la gatta e pare voglia dire cose 
confidenziali. 
La cagna sulla soglia d’un portone 
già veglia sulla notte che dirada. 
Un uomo 
si rifugia nel sogno e il materasso 
ritma frasi d’amore, mentre lente 
rientrano le amiche della notte. 
Sotto la mia frnestra fa due fischi 
il vigile notturno 
e tira oltre misurando il passo. 
Nella mia solitudine raccolta 
ascolto i fischi e penso 
a chi è solo e vive chiuso in sé. 
Sul mio letto distesa, qui, al riparo 
delle lenzuola, vago col pensiero … 
Nel giorno che si apre mi accompagna 
il vigile notturno 
con la gatta e la cagna.

Abou Adel Adani

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 43.




Fame

 Un uomo camminava per la strada, 
i passi incerti. 
Gridava: fame fame 
ho tanta fame. 
Nessuno 
gli dava ascolto. E lui: ho fame, fame. 
Ho fame, fame. 
Poi ci fu qualcuno 
che gli si mise accanto 
e disse: fame 
abbiamo fame. 
E così in due 
continuarono per la stessa strada. 

Adani Abou Adal 

da «L.B .» n. 27, Sào Paulo, 2002

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 42.




 Vittorio Morandini, Cronaca di un’amicizia, Edigraf, Roma, 2005. 

È la storia fedele che muove non da ispirazione unitaria di un patriottismo soltanto a parole e da un’amicizia al limite del sublime, bensì da una fattiva e intensa partecipazione a straordinari eventi tra innumerevoli sofferenze in una guerra che non le risparmia a vincitori e vinti. La morte dell’amatissimo Piero colpito da piombo nemico genera nel protagonista un angoscioso turbamento che lo accompagna tutta la vita, nell’incessante ricordo dei giorni trascorsi con l’amico del cuore, quando, ardimentosi entrambi, profondevano energie per il raggiungi mento dei loro ideali. Nell’estremo tentativo di salvarlo: «Quel corpo Vittorio sollevò con fatica, sotto quel corpo scivolò nel fango e l’acqua motosa entrò nella bocca del vivo e del morto; avvinti i due amici avanzarono lentissimi nella melma fino alla scarpata! Qui Vittorio cedette, la carne esausta, lo spirito affranto. Un pianto lungo, convulso, urlato, chino sopra l’amico che giaceva sulla riva del gran fiume con tutta la propria morte addosso.»

Prodigo di ricordi, ora tristi ora lieti, l’Autore ce li fa conoscere attraverso carrellate di lontane memorie, con descrizioni che esaltano la sua narrazione ricca di rincorsi ideali, di audaci speranze, di affetti profondi ampiamente espressi anche nei fluidi versi di Momenti lirici, oltre che nella limpida prosa delle sue varie vicende. 

Particolare commozione suscita la raccolta dei miseri resti del citato Piero Menichetti sottratti all’inclemente incuria del tempo, dopo essere stati a lungo sul margine del Po, finché ricuperati e tumulati accanto a quelli del padre e della madre. Il tutto in un clima di religiosa compostezza, nel rimpianto struggente dell’adorato commilitone caduto nel fiore degli anni. 

In questo diario di guerra, amore e morte dominano lo scenario di contrapposti ideali: un valido stimolo per allargare la conoscenza dei tanti fatti e misfatti che i deprecabili conflitti comportano con distruzioni devastanti, come quella, ad esempio, di Amburgo, orrenda e inespiabile, e di tante altre volute in forza di un presunto diritto di superiorità e di preminenza, diritto che in ogni tempo, tirate le somme, non ha mai avuto obiettivi riscontri di vera giustizia per vinti e vincitori, né mai è stato foriero di pace duratura tra la stirpe degli uomini. 

Diario pieno anche di esuberante freschezza giovanile, di sincerità, di altruismo: sentimenti gentili eppure non privi di disapprovazione per il mancato riconoscimento di quegli ideali di patria negati ai ragazzi della R.S.I. che avevano operato fino all’ultimo giorno, saldi nella loro fede per la quale «il nemico rispettoso e ammirato concesse loro l’onore delle armi in quei campi di Conselve, quella notte del 29 aprile 1945». 

Mai retorica, mai posizioni di parte, mai vedute distorte nelle pagine di tutto il diario, ma fedele corrispondenza dai resoconti inalterati, all’insegna della più scrupolosa obiettività, la stessa che spinse il Maresciallo Montgomery, visconte di El Alamein e comandante dell’VIII armata inglese, ad affermare: «Penso che l’armistizio del Savoia e di Badoglio sia il più grande tradimento della storia.» Distacco sereno di chi prende le dovute distanze da coloro che, esibendosi col pretesto di fare ad ogni costo cosa gradita ai fuoriclasse del trasformismo e voltagabbana al cambiar dei venti, spesso stravolgono verità storiche dando a divedere lucciole per lanterne, in un intreccio di improvvisati soloni, figli della menzogna, squallidi nel cuore e nella mente ottenebrata dalla torbidezza d’insane passioni. 

Si può dire che, prima di essersi dato cura di trovare uno stile e una forma di distinzione a lui ascrivibile, il Morandini ha preferito esprimere la propria umanità lontano dal fare accademia. Scelta, questa, che può essere sgradita a chi è abituato ad esprimersi con magniloquenza, viceversa gradita presso un pubblico che apprezza l’arte dell’onestà in una narrativa lontana da inflazionistici premi letterari e comunque ricca di appropriate capacità espressive di un’apprezzabile tecnica che ci riporta a un verismo più vicino ai sentimenti del Nostro. 

Habent sua fata libella, avverte Terenziano: i libelli hanno un loro destino, ed anche i libri che tali non sono, aggiungiamo noi, augurando all’autore il successo che merita per avere scritto qualcosa di buono. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 47-48.




 Un dramma di elevata potenza descrittiva 

Romano Cammarata, Dal buio della notte, Armando Editore, Roma, 1983. 

A chi ancora non si fosse soffermato a meditare sul significato della parola supplizio sin nei termini ultimi delle comuni possibilità interpretative e per mancanza di amore verso il prossimo, o per semplice apatia non abbia provato, almeno una sola volta nella vita, effetti benefici dopo essersi compenetrato nel dramma di una qualsiasi creatura, che al martirio della Croce non pari sol perché a tutte le innumerevoli sofferenze fisiche non si è potuto aggiungere il barbaro rito della vera e propria crocifissione, quest’opera sortirebbe nient’altro che un freddo e alquanto distaccato interesse. Viceversa lascerà una traccia indelebile nel cuore e nella mente di tutti coloro che, avendo provato l’intensità del proprio dolore, delle proprie afflizioni esistenziali, giudicheranno meritevole di esaltazione il calvario del protagonista minato da un terribile male, risorto a nuova vita, grazie alla sua tenacia, alla sua resistenza agli assalti della malasorte nella tempesta di timori e pensieri funerei, oppresso dall’assillo di un’ipoteca totale a garanzia di un viaggio senza ritorno, a lungo tempo e puntualmente rimandato ogni volta che il responso delle analisi cliniche ed istologiche lasciavano spiragli ad un esile filo di speranza vitale. 

Andrea, questo straordinario sopportatore del dolore e artista della penna, ha saputo ovviare alla fragilità di detto filo con una resistenza che più volte – miracolo? – ha retto persino agli attacchi della ghignosa signora, impaziente ora più ora meno, ma sempre pronta a ghermire la preda nel silenzio delle interminabili notti insonni, tra il timore inconfessato di una imminente dipartita o di una non più possibile procrastinazione, tra una carezza e l’altra di Francesca che con bisbigli di consolazione e di amore si mostrava desiderosa di appropriarsi i dolori dello sventurato sposo come a lenirgli il travaglio dell’incessante tormento. 

In una esposizione lineare e rispettosa del migliore uso della lingua italiana, Romano Cammarata ci ha trasmesso un dramma di elevata potenza descrittiva in tutti i risvolti e rilievi di un’allucinante esperienza. Ed è senza dubbio merito da riconoscergli senza riserve, se pensiamo che altri, al posto suo, avrebbero potuto avere persino timore di descriverla per non rivivere, ai confini dell’umana sopportazione, una lotta tante volte ritenuta impari e tuttavia combattuta dalla ferrea volontà di non demordere, di continuare a vivere pur tra i rantoli della disperazione, di dimostrare, nel modo e nel senso più credibili equalmente certi, che quando si è sorretti da una forza morale l’attesa di sublimi miracoli non è poi sempre vana. In Dal buio della notte è difatti dimostrato che competenza, tecnica e dedizione di valenti luminari della medicina e dell’alta chirurgia fanno ottenere risultati sorprendenti se il paziente reagisce all’idea della capitolazione. L’odissea di Andrea ne è una comprova. 

Privo di un occhio asportatogli, devastato in viso, in ansia nella speranza di guarire e l’avvilente incertezza della buona riuscita, con la metà del palato e una mascella ricostruita, finalmente vittorioso sulla morte in agguato, il degente che oltre che per i suoi mali soffriva per quelli dei compagni che non rivedrà mai più e che ricorderà con sentita commozione, oggi, nell’espletamento delle complesse mansioni attinenti alla sua professione, è un uomo di una serenità olimpica, che infonde fiducia e coraggio con l’eleganza del suo dire, pago d’aver dimostrato che a colui che vuole nulla è impossibile e che, in definitiva, l’amore per le cose e per le persone amate, l’attaccamento alla vita, il rispetto per i propri simili, il disprezzo per gli impietosi che non si rattristano nemmeno in casi disperati, avranno la meglio nel superare qualsiasi ostacolo. Tanto più se sorretti dall’ardente desiderio di non lasciare orfani i propri figli e maggiormente se spronati a resistere dalla santità di una donna, senza l’abnegazione della quale il nostro protagonista non ci avrebbe potuto raccontare il suo dramma perché, probabilmente, già morto. 

Storie del genere saranno accadute già altre volte, pochissime a lieto fine, per la verità, ma la Via Crucis di Andrea può a ragione ritenersi un esempio di ricupero ad un passo dalla fine, di riconquista del proprio equilibrio psicofisico, una dimostrazione di come comportarsi quando più aspra si fa la lotta nel periglioso pelago delle sventure umane. Sì, la riconquista di un bene prezioso strappato alla morte, il superamento di se stesso forgiato dapprima dalla fucina del dolore e dalla tribolazione, indi sospinto a novella vita dalla ritrovata felicità. 

Donato Accodo 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 62-63.




 S. Zarcone, La carne e la noia, Palermo, Ed. Novecento, 1991 

In un contesto moderno di contraddizioni e rivendicazioni in continua conflittualità per diverse regioni di ordine sociale la critica di Salvatore Zarcone sulle opere e la vita di Vitaliano Brancati merita un posto di tutto rispetto perché espressione di una complessa e vivace problematica di una sofferta realtà in un periodo che lo scrittore pachinese ha vissuto con intensa partecipazione e fin nei termini ultimi di una speranzosa quanto vana attesa di ottenere consensi al suo innovativo apporto culturale: integrare la politica con la letteratura, in particolare con l’efficacia di rappresentazioni teatrali. 

Stile manierato, accorta ricerca analitica nei trascorsi eventi all’epoca in cui il Brancati scriveva opere condite di varia cultura, sono i pregi salienti dell’autore di La carne e la noia espressi con forza effettiva e determinatezza. Egli riscopre, in chiave di obiettiva valutazione di merito, i principi innovatori della tematica di chi aveva già previsto, assertore della necessità di collaborazione tra cultura e politica, l’efficacia di una reciproca comprensione al fine di dar vita ad una società più giusta, più rispettosa dei diritti altrui, che col suo inarrestabile progresso avanzi di pari passo con le esigenze dell’uomo e spiani la strada a giorni migliori tra i popoli oppressi nei loro squilibri lungamente pervasi da falsi fatui valori, animati da propositi di vendetta, di perverse ideologie, mai cessando di sostenere che gli uomini hanno diritto ad una vita più degna di essere vissuta, libera da strettoie oppressive, più attinente alle loro aspettative di soddisfacimento essenziale, da quello della fame e del lavoro a quello culturale brutalmente represso da un sistema capitalistico, autoritario, subdolo e disumano. 

Contro un sistema così inquinante, che coinvolge i protagonisti del mondo brancatiano Zarcone vi si cala nel fondo dei loro risentimenti senza mai smettere di dare battaglia ispirandosi ai suoi principi secondo i quali la letteratura può convivere con la politica, pur nell’incessante accavallarsi di forze avverse e mistificanti, basando le nostre convinzioni su nuovi metodi di osservazione e deduzioni immuni da deformate angolazioni del pensiero culturale, proprie di quegli esseri che alla logica di una reale obiettività contrappongono assolutismi vecchi e nuovi, ideologici e pratici, nella speranza di un rinnovamento etico religioso dell’uomo conscio della sua dignità in una società più saggia, più ordinata e giusta. 

In polemica contro l’intellettualismo di orientamento hegeliano e contro la filosofia tradizionale staccata dai nostri bisogni e dai problemi esistenziali Zarcone condivide l’impostazione culturale del Brancati, riconoscendogli il suo assunto secondo il quale l’uomo dev’essere in condizione di affrontare la vita con virile consapevolezza e positivo coraggio, in linea col concetto di Heidegger che rivolge la sua attenzione alla ricerca del senso dell’essere il quale ha continue possibilità di aumentare e perfezionare le proprie attitudini di civile progresso in tutti i campi dello scibile, in proficua collaborazione che faccia bene sperare in un futuro libero da discriminazioni. 

Insomma, in un progresso di educazione pedagogico-letteraria tra tutte le nazioni, libere da egoismi e da orgogliose inveterate vanità. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 41-42




 Giovanni Salucci, Mafia dietro la scrivania

Originalità stilistica, chiara esposizione dei fatti con certosina ricognizione dei particolari che animano l’intera vicenda dei luoghi e dei tempi in cui sono accaduti, differenziano quest’opera da altre narrazioni quando mancano di effetti di grande interesse. 

Al di fuori di ogni prospettiva dettata dall’esperienza, l’A. predilige approfondite indagini e riflessioni che si confrontano col presente, insistendo nel denunciare manchevolezze, soprusi e colpe di una burocrazia corrotta e inefficace, alla quale vengono ascritti veri e propri delitti morali nel nome di una giustizia beffarda, infarcita di leggi che offendono la dignità dei cittadini con una confusione di idee, di valutazioni arbitrarie e lesive del buon senso, con tranelli ammantati di lusinghe in un coacervo di legge e di leggine, decreti e decretini vòlti ad eludere la ricerca della verità per motivi di convenienza, non per esigenza di giustizia soggiogata da accomodamenti di “ragion di Stato”, da interessi pubblici per bisogni superiori, ma per nascondere sporchi interessi privati a danno di chi nella Pubblica Amministrazione si sforza di rendersi utile facendo il proprio dovere per guadagnare onestamente il suo pane. 

Opera ponderosa, sintetica, di piena attualità, nella quale il Salucci non gradisce problemi impostati in maniera semplicistica, che non approdano a nulla, convinto che per sanare i mali della burocrazia occorre riformarla alla radice, liberarla dalle pericolose insidie che l’affliggono, se si vuole rinnovare lo Stato. 

Il perverso strapotere burocratico che da secoli immiserisce gran parte dell’umanità con strumenti legislativi oppressivi del suo mastodontico apparato di leviatana memoria ormai deve cedere il passo alle esigenze delle generazioni future. I tempi per aprire a nuovi orizzonti e per instaurare per tutti un sistema di vita, che non offenda la dignità dei propri simili, sono già maturi. 

È impensabile, nemmeno lontanamente, ritenere che la giustizia possa essere esercitata dal capriccio di singoli uomini, alla leggera, essendosi così bene diversificato da escludere qualsiasi legge che non si confaccia, come dovrebbe, a quella della Natura. 

Con argomentazioni di varie discipline acquisite in singoli campi specifici, in questo severo atto di accusa il ruolo funzionale del romanzo-saggio, altrove detto anche a tesi, viene valorizzato, alla maniera del Montesquieu in Lettere persiane, del Voltaire in Candido, con tono esaltante la finzione letteraria, la stessa ricorrente nelle Operette morali di Giacomo Leopardi, attraverso l’indagine conoscitiva della condizione umana e lo sviluppo dell’immaginazione condita di sentore autobiografico con valore civile e nazionale, ricca di peculiarità intellettuali e sempre con aderenza alla realtà espositiva dei fatti, in uno scavo psicologico di arte introspettiva nel rapporto tra chi scrive e il suo universo immaginario. 

Nel teatro delle vicende evidenziate in tutte le loro sfaccettature si susseguono colpi di scena che lasciano il segno di consumati misfatti morali, di intolleranze e stravolgi menti del vero a parte di alcuni uomini di legge moderni, spesso insensibili alle altrui necessità e al richiamo di ogni retto operare. Motivi, questi, che hanno spinto l’autore a lanciare, a tutto campo, la sua filippica contro il dilagare di scandali, angherie, mancanza di trasparenza in commercio, mazzette, corruzione, prevaricazioni e tutta una serqua di azioni disoneste a non finire. 

L’ambiente è sempre il solito, quello burocratico fatto di pratiche, di norme polverose, di rapporti stantii quasi sempre formali e falsi, freddi. Il tutto in un 

verismo che utilizza molto lo stile, oltre agli stati d’animo dei personaggi con i quali rileva la reale atmosfera di un ufficio pubblico in cui si dissacrano i miti del buon senso e della ragione. Da qui gli insegnamenti che possono ricavarsi dal libro: l’esigenza che il pubblico dipendente consideri il suo lavoro soltanto come pubblico servizio, come dedizione assoluta vòlta alla soluzione dei problemi e al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini e la necessità che egli reagisca ai soprusi con estrema fermezza, come quella che l’autore definisce ribellione pacifica per una società fondata sul rispetto reciproco. Ribellione a che non vi sia alcuno a credere di potersi mettere al disopra degli altri, anteponendo il proprio utile e la conservazione della propria felicità e della propria vita a quella di tutto il resto dell’ umanità. E ribellione anche contro noi stessi, se necessaria, ogniqualvolta pensassimo di ritenerci al centro di tutto e di tutti per essere d’incomodo ai nostri simili con le armi del tradimento e della disonestà. Per contro, se riuscissimo a convincerci di ciò che è proprio della sana burocrazia amministrata con leggi di comune interesse, potremmo se non altro ovviare a pericoli di ben altra ribellione, la più deprecabile che ci sia: quella che genera la lotta di classe, sempre possibile quando sono negati i sacri diritti umani. 

Alla luce di quanto sin qui esposto, si può dire che sia stato Salucci, con la sua Mafia dietro la scrivania, a spezzare o quanto meno a fiaccare i tenaci gangli di quella parte di burocrazia inefficace, dando avvio, consistenza e nuovo originale svolgimento al romanzo-saggio, inquadrandolo nelle vicende moderne da lui esposte con fervore creativo e diversificate forme dei suoi protagonisti. Non più nobilumi, non più dirigenti e funzionari inquisitori, non più magistrati infallibili, ma la gente del popolo, le donne, i fanciulli e persino i bambini in braccio alle loro madri vi fanno mostra di rivolta contro le pubbliche istituzioni per richiamare attenzione ai loro diritti. 

C’è in tutta la trama del romanzo una impostazione morale dei vari problemi che affliggono la società e una volontà di superare certi schemi espressivi e discorsivi di luoghi comuni nel proporre nuovi temi di ansie concrete al posto dei vecchi, architettati di estemporanee decorazioni evasive. Quindi, partecipazione attiva ai problemi della vita attraverso una narrativa di letteratura viva, intrisa di realtà, di umanità concreta, fatta di sentimenti puri e gentili, di doveri ma anche di diritti. E massimamente di giustizia alla quale si anela al grido di libertà quando ci si vuole sbalzare di dosso il giogo dell’arbitrio e della coercizione. 




Divagazioni linguistiche 

La storia della lingua non è altro che la storia della mente umana attraverso l’analisi della parola e dei suoi significati nella varietà di ogni aspetto creativo. Concetto, questo, che ci porterebbe a dedurre, andando a ritroso nel tempo, le origini di molte, se non di tutte le lingue, procedendo per gradi nell’analisi strutturale del linguaggio, scomponendolo nei vari passaggi della sua formazione che da principio fu certamente composta di monosillabi, al pari di tutte le lingue primitive, che, altrettanto vero, conobbero inarticolati suoni gutturali. 

Noi stessi, del resto, da bambini, abbiamo cominciato a parlare con sillabe. Pa (per papà), ma (per mamma), ta (per tata), etc., accorciando e contraendo o troncando sillabe più lunghe, per poi sillabare parole di ogni misura con l’imitazione e l’esempio dei più grandi. Il che non era possibile ai primi formatori delle lingue e ancora oggi è impossibile un processo del genere nella lingua cinese, immutata nei propri ideogrammi sin dalla tenebrosa notte dei tempi. 

Il contrario si è verificato, invece, nella lingua greca e conseguentemente in quella latina, le quali, durante le varie tappe del loro perfezionamento, hanno subito continui adattamenti e trasformazioni a mano a mano che il progresso ha consentito adeguamenti alle esigenze dei tempi, sotto la spinta di altre civiltà, rispettando per capriccio o per dolcezza oppure per imposizione dialettale o per pronunzia irregolare e corrotta, il dover comunque cambiare faccia alle parole col successo del tempo, fino a introdursi nelle scritture e dare vita ad esigenze di regole ed eccezioni, come vediamo nella nostra e in quasi tutte le lingue. 

Seguendo un’accurata analisi dell’itinerario filologico dei termini, ci possiamo rendere conto di come, da pochi primitivi monosillabi radicali e successivamente dai nomi che da principio formavano tutto il linguaggio tra diversi allungamenti, differenziazioni e variazioni di significato, inflessioni, composizioni e modificazioni di ogni sorta, riuscissero i latini a cavare infinità di parole nuove e, con esse, minime espressioni di differente variabilità delle cose che in principio si erano andate accumulando in uno stato confusionario, e traessero quel complesso linguistico che doveva racchiudere tutti i pregi del discorso che poi sono anche i nostri. 

Nel seguire questa panoramica dissertazione linguistica è sottinteso che coloro i quali non hanno dimestichezza con le lingue classiche, di qualunque nazione siano, non possono sentire le stesse armonie dei versi latini e greci, se non prima si siano assuefatti a udime la cadenza in ogni circostanza, notandone, con regolarità e, un po’ per volta, tutte le sfumature, le piccole corrispondenze e relazioni, fino a che l’orecchio non ne gusterà le armonie. Ovviamente, simili processi sono indispensabili anche a chi meglio intenda le stesse lingue, latina e greca. 

In altre parole, l’armonia è data soprattutto dall’esercizio e dalle consuetudini invalse nel tempo, educando, in crescendo, l’orecchio fino a raggiungere scelte preferenziali, proprie, ad esempio, del volgo che trova armonia, più che altrove, negli inni sacri e non in qualsiasi eccellente poeta latino. Ciò perché gli inni ecclesiastici, per metro e andamento, rima e struttura somigliano a versi barbari e in metri latini. Lo comprova il fatto che, se ci accade di ascoltare un qualsiasi 

pezzo di un’aria che conosciamo e, ad un certo punto, di notare che il seguito di questo pezzo è diverso da quello conosciuto, proviamo subito un senso di discordanza, perché avvertiamo che questa diversità si contrappone alla sua particolare assuefazione. 

Ciò significa che, in casi del genere, la consuetudine e l’esercizio hanno un ruolo determinante nella distinzione armonica o disarmonica dei suoni. Alla stessa maniera di come parimenti è determinante, nella lunga vita di una lingua, il mantenerla immutata nelle sue radici e quindi nei suoi toponimi, che, in quanto tali, non potranno mai morire (Davide Nardoni, Manuale idiotico, Ed. EILES, 1994). 

In tal senso l’esempio ci viene dato dai Greci, che non hanno mai rinunciato a parlare la loro lingua, nemmeno dopo periodi di decadenza; se ne sono sempre ricordati, diversamente dai Romani che, in determinati periodi storici, permisero l’imbarbarimento e la conseguente decadenza del latino, avendo più volte interrotto, e per lungo tempo, i legami con la propria lingua d’origine. Vale, cioè, lo stesso discorso a proposito dell’armonia della quale si è detto all’inizio: la costanza della tradizione e la ricchezza di una vasta letteratura rafforzano, ingentiliscono, aggraziano, prolungano la vita di una lingua. 

Sia d’esempio la sanscrita che, ricca di pregevoli scritture di ogni genere, secondo il gusto orientale, vive ancora in vastissime contrade dell’India, a distanza di secoli. Vive ancora con l’uso e con la cognizione delle sue ricchezze letterarie, con la venerazione dei suoi sommi scrittori. Diversamente da quanto si verificò a ‘Roma nei secoli di barbarie, quando i Romani non sapevano più nulla persino di Virgilio, di Cicerone e di tante loro glorie letterarie. 

Del resto, vuoti così profondi, nel buio della storia, sono sempre avvenuti e sempre avverranno anche tra popoli di grandi civiltà e cultura, ogni volta che la filologia smette la sua funzione di preziosa interprete e fontinuatrice di eventi che per essa stessa affiorano dalla tenebra del passato, dal cimitero delle morte parole, dai fossili linguistici di un’avversa fatalità, ma, il più delle volte, dalla crassa ignoranza di ricercatori presuntuosi e senza scrupoli nel rimestare le regole linguistiche della storia dei popoli. 

Lo studio del linguaggio è sempre rifiorito dopo più o meno lunghe parentesi di oblio, anche nel Settecento, quando si cercavano nuovi impulsi che poi ebbero sbocco definitivo nella metà dell’Ottocento, con la nascita di una nuova linguistica scientifica e, alla fine del Novecento, con l’apertura alla rivoluzionaria filologia sperimentale di Davide Nardoni, che, con diacroniche dimostrazioni del suo crivello, rivisita tutte le fonti letterarie e storico-filologiche per scoprire verità mai dette e con queste rilevare le fallaci interpretazioni di vanagloriosi ricercatori ancorati ad una non sempre illuminante filologia classica, morta nella sua gretta staticità. Costoro poco o quasi nulla dicono della tendenza di adattamento al quale il linguaggio è soggetto nel divenire dei secoli. Motivo, questo, per il quale molte volte alcuni linguisti hanno falsato, senza peraltro accorgersi, le loro ricerche, dando così vita arbitraria a nuove radici tutt’altro che originarie, addirittura inesistenti e quindi non in grado di dare inconfutabile certezza di originalità. 

Nelle lingue c’è una continua interazione, nel senso che non possono esserci immobilismo e compartimenti stagni, dal momento che studiarle vuol dire studiare origini, usi, costumi di popoli confinanti, in un’ alternanza di periodi ricorrenti, con sempre nuovi impulsi da coloro che li hanno raggiunti o dominati, trasmettendo influenze di ogni genere, ma con ciò, nella ricerca di remote origini nessuno può arrogarsi il diritto di cancellarle con l’arma impietosa della devastazione linguistica. 

Ben vengano le fusioni tra i popoli e, oggi più che mai nel fervore di iniziative comunitarie, siano però difese le loro originarie strutture di appartenenza, distintivo delle proprie radici, inconfutabile contrassegno della propria identità, libere da tecnicistiche elaborazioni, da impetuosa e caotica produzione di neologismi nell’ incalzare dello sviluppo della scienza e della tecnologia, foriera, nel nostro paese, per l’indifferente legge del lasciar correre, di vocaboli e sigle straniere, specie anglosassoni, senza che gli amministratori della nostra vita culturale si premurino di tutelare la lingua che ha dato e dà voce unica e costante alla tradizione nazionale, tenuto anche conto che l’integrità dell’italiano, studiato da un numero sempre crescente di stranieri, non può abbondare di babeli terminologiche e tanto meno essere svilita da eccessivi quanto inutili sinonimi per i quali la lingua diviene più acconcia a nascondere che a manifestare il pensiero (*). Come pure dubbia può rivelarsi l’esattezza di quanto detto e scritto intorno all’ etimo delle varie scoperte filologiche, se condite di esorbitanti divagazioni di compiacimento edonistico, peggio ancora da infelici velleità innovative. 

Lasciarsi inquinare il proprio linguaggio da infiltrazioni di altre lingue o di barbarismi che dir si vogliano, in una commistione di ibridi connubi filologici, significa, a lungo andare, perdere le proprie origini, la propria “identità, dare allo straniero licenza di devastare i propri tesori linguistici, affidare se stessi all’ arbitrio di quelle nazioni che, per vantati meriti di trapassate egemonie, pretendono di avere predominio nell’interscambio lessi cale del commercio, che di certo non fa onore al nostro idioma, erede indiscusso della nobilissima lingua latina dalla quale Dante trasse «lo bello stilo» del suo capolavoro. 

Paolo Monelli, attivo difensore della nostra purezza linguistica, ci attribuiva mancanza di orgoglio, la disponibilità a raccattare ogni foresteria con balorda premura e a farci inquinare il linguaggio con fare tipico degli ignoranti, degli schiavi; e precisava: «il che non è indizio di spirito moderno, è al contrario tabaccosa mania». 

Lapidario e veritiero il pensiero di Lorenzo Valla: «Tramontano gli imperi, tramontano le imprese dei popoli e dei re, ma non la lingua quando largamente diffusa non tanto e soltanto in forza di meriti espansionistici, quanto perché, come la latina, più preziosa della propagazione dell’impero romano, da conservare gelosamente come un Dio disceso dal cielo.» E difatti, ovunque si è espanso il dominio romano, anche se ormai cessato da secoli, ivi la stirpe dei casci latini, la loro progenie, la romana gens, continuano a vivere e a regnare poiché l’impero romano è restato dovunque ha imperato la lingua di Roma. «Imperio populos, Romane, memento», esortava il Vate: «o Romano, ricordati di guidare i popoli al Parime, alla parificazione ». 

Senza dubbio i popoli vanno guidati soprattutto dalla lingua, istituzione voluta dal nostro consenso, a seconda che permettiamo che sia, in un modo o nell’altro, in diretta dipendenza dalla nostra volontà. Se non la curiamo, se non la difendiamo dagli assalti nemici, se la lasciamo contagiare dai germi infettivi d’infiltrazioni egemoniche, prima o dopo finirà per ammalarsi e perdere la sua vetusta potenza espressiva, pervasa da fiaccanti contraccolpi stranieri. Adagio, quindi, a indulgere con l’uso di forestierismi e neologismi a indiscriminate aperture alla moda. Piuttosto è quanto mai necessario istituire un’autorità in grado di adattare la terminologia straniera alla nostra, seguendo l’esempio di quegli stessi paesi che ambiscono a posizioni di assoluta preminenza. E occorre, peraltro, sottrarla agli assalti deformanti di coloro che, facendone continuo uso, si ritengono professionalmente autorizzati a farne scempio. 

Donato Accodo

* Cfr. «Repubblica», sabato, 26 febbraio 2005, «Bonsai italiano», di Sebastiano Messina. In poche righe e con fine satira, l’autore focalizza il problema che non va preso alla leggera, bensì affrontato con fermezza e determinazione. (n.d.r.)

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 5-8.