Francesco Oliviero – Corrado Barba, Il Test Kinesiologico Quantistico (TKQ), Firenze 2021, pp. 420.

Guarire con la kinesiologia quantistica

     Abbiamo seguito molto da vicino l’attività e l’opera di Francesco Oliviero, napoletano di nascita e siciliano di adozione, e restiamo sempre meravigliati per la dinamicità con cui si dà anima e corpo alla professione medica e alla diffusione dei ritrovati della scienza, per quanto riguarda la medicina non convenzionale, che, prendendo le mosse da quella di origine orientale, dà risalto all’uomo e alle sue capacità di autoguarigione.

     Dopo le pubblicazioni che documentano il percorso umano e professionale di Oliviero (Benattia, Acqua e coscienza, Manuale del benessere ed altre ancora) nel campo dell’omeopatia, dell’omeosinergia, supportato dalla fisica quantistica, il nostro autore è approdato alla kinesiologia che già aveva cominciato a fare i suoi primi passi negli anni Sessanta. Ad essa è dedicato questo nuovo lavoro, Il Test Kinesiologico Quantistico (TKQ), pubblicato a Firenze nel 2021 per i tipi della Libreria Salvemini, in collaborazione con Corrado Barba che tratta l’aspetto storico e psicologico, mentre Oliviero quello strettamente kinesiologico quantistico. È un lavoro ben riuscito, ricco di spunti che aprono alla conoscenza e spingono il lettore ad approfondire aspetti che, pur avendo attinenza con la vita pratica, non è di tutti conoscere. 

     L’argomento del volume è la kinesiologia, che come ricordano gli autori nella prefazione, in senso etimologico, altro non è che «lo studio dei muscoli e del loro funzionamento, applicato alle condizioni fisiche o correlato a degli stimoli». Nella sostanza, essa ci mette a tu per tu con il nostro corpo, in quanto entità  vibrante, capace di far conoscere i lati oscuri che albergano dentro di noi e che ci portiamo dietro. Conoscerli significa poterli eliminare, e così armonizzare e dare benessere al corpo, tramite il test kinesiologico. Indispensabile è, comunque, la “consapevolezza”, che è alla base di ogni riuscita. Come è bene che sia, non mancano i consigli.

     «La Kinesiologia quantistica è una disciplina di indagine interiore prettamente pratica e il suggerimento è quello di effettuare anche un corso con un docente esperto proprio per verificare il proprio grado di acquisizione delle tecniche. In ogni caso una delle cose sulle quali di solito si sorvola è il retroterra teorico che va ben oltre una semplice disamina di aspetti storici e culturali (ib. p. 11).

      Il volume contempla due parti: la teorica e la pratica. La teorica è quella più ampia (13 capitoli), la pratica si compone di 2 capitoli (14 e 15) ed offre esempi di test e considerazioni, molto utili per chi vuole avventurarsi in emozionanti scoperte, perché di scoperte si tratta.

      Corrado Barba rifà in sintesi la storia della kinesiologia, che si sviluppa a partire dagli anni Sessanta negli U.S.A. per merito di George Goodheart e i suoi seguaci, e in Europa negli anni Novanta come Metodo INTEGRA, ad opera di Roy Martina. A svilupparlo e a farlo meglio conoscere fu Marcello Monsellato, di cui fu allievo Francesco Oliviero. Scrive a proposito Barba:

      «Il dott. Francesco Oliviero ha imparato il test kinesiologico direttamente dal dott. Monsellato e l’ha applicato per più di dieci anni sotto forma di test kinesiologico omeosinergetico fino al 2011, quando ha ideato il nuovo TKQ, integrandolo con le applicazioni pratiche della fisica quantistica nella realtà quotidiana» (ib., p. 18). 

     Barba supporta e documenta in questo interessante lavoro d’insieme le conoscenze acquisite e praticate da Oliviero prima e dopo il 2011, da quando cominciò a praticare il test kinesiologico quantistico, fino alla data odierna. Non si limita a fare la storia del TKQ, ma aggiunge considerazioni proprie e fa riferimento a filosofi antichi e moderni che rendono la pagina allettante e ricca, tale da allargarne la prospettiva, e il lettore con maggiore cognizione di causa può farsi idea di quello che ruota attorno e dentro di noi.  A mo’ di esempio, nel capitolo 3, dove affronta e riprende il tema de “I ricordi e la memoria”, sviluppato dal punto di vista di medico-terapeuta dal dott. Oliviero, per essere più incisivo, si rifà a Platone e ne ricorda i miti che ad esso si collegano; tema, come giustamente ricorda, ripreso non soltanto da Platone e da tanti filosofi dopo di lui, a cominciare da Aristotele, Agostino o, in tempi più vicini, da Bergson, Ricoeur ed altri, oltre che dai  pionieri della psicanalisi e da Freud. C’è negli autori, e qui nello specifico in Barba, l’interesse di partecipare alle tante conoscenze che dovrebbero essere di dominio di tutti. Riprendendo, ad es., il dott. Oliviero, a proposito della memoria (ib., pp. 26-28), Barba scrive:

      «La memoria comune, quella che nessuno mette in dubbio e, forse, l’unica esistente per i molti, è quella cosciente o esplicita che ci serve in tutte le attività quotidiane; ma sotto la punta dell’iceberg si cela la cosiddetta memoria implicita primaria, che rappresenta tutta la parte inconscia e lascia le sue tracce nel corpo e nella mente. La memoria, che ci rende quello che siamo o che pensiamo d’essere, è un’articolata scelta di immagini, diciamo che è un puzzle di fotogrammi o di pixel che sono impressi nel cervello; ogni immagine è la fusione di tanti frammenti» (ib., p. 53).

       Molto esplicativo, a proposito, è il riportato mito di Iside ed Osiride. Come i pezzi ricomposti delle membra di Osiride, i «tanti frammenti» di memoria seppelliti nell’inconscio e ripescati con l’aiuto del terapeuta sono alla base della guarigione del paziente, novello Osiride. 

      La narrazione di un argomento non a tutti noto e non sempre facile, come la kinesiologia, procede così, suscitatrice di curiosità ed interesse. Il lettore che si accosta al libro, per  questo ed altri motivi che lo rendono piacevole alla lettura, ha modo di apprezzarlo e di rendersi conto che esso è una risorsa per l’anima e per il corpo, da leggere, preferibilmente soffermandosi su certi punti chiave che lo aprono ad una maggiore comprensione.

 ***

      Argomento del capitolo 2 è “Il TKQ e le memorie”, svolto da Francesco Oliviero e ripreso, come abbiamo visto, dal punto di vista storico e psicologico da Corrado Barba. È, in fondo, l’argomento su cui permea tutto il libro, di grande interesse, perché alla sua base c’è l’uomo e la sua anima, la parte che si dissolve e quella eterna.

     Rifacendosi ad Hamer, il dott. Oliviero riprende il tema della malattia, affrontata in altri suoi scritti, tra cui in Benattia (20042), e ritenuta un conflitto causato da «un’angoscia inespressa», che spesso, cogliendo di sorpresa e non essendo facile poter gestire, procura disagio e rende psicologicamente provati. Leggiamo:

    «Il senso della malattia è quello di ristabilire un equilibrio; una malattia riequilibra simbolicamente l’individuo in disequilibrio a causa della sua intima sofferenza. Per tale motivo, il terapeuta deve portare alla coscienza ciò che è stato occultato nell’inconscio. In sintesi, possiamo dare un nuovo significato alla malattia, alla luce di una nuova Consapevolezza. La malattia è dunque la necessità di una compensazione simbolica a una sofferenza non espressa, a un’angoscia vissuta in un istante, che crea un conflitto del quale non abbiamo più coscienza» (ib., p. 20).

      Compito del terapeuta è quello di portare allo stato di consapevolezza il malato, rendendo conscio l’inconscio, per restituirlo allo stato di benessere. Continuatore dei tanti che lo hanno preceduto, compreso Monsellato, che è stato – ripetiamo – l’amico medico omeosinergetico che lo ha avviato a questo modo di concepire la malattia, Oliviero insegna nei suoi seminari (sedi fisse del suo studio sono Palermo e Bergamo) in Italia e altrove come stare bene, nonostante le difficoltà e i disagi in cui l’uomo è costretto a vivere.

      La memoria è al centro dei suoi interessi, perché spesso è la causa dei malanni e delle malattie. Qui non si tratta della memoria esplicita, quella a cui ricorriamo giornalmente per i nostri bisogni fisici o culturali, ma della memoria implicita, a cui fa riferimento Barba, che relega cose, immagini e ricordi nell’inconscio, memoria che «perde la dimensione del tempo, come se fosse in un eterno presente, e si attiva nonostante la nostra volontà» (ib., p. 23). Questa memoria che alberga nell’inconscio ed è causa di malattie altro non è che energia repressa.

     «L’accumularsi continuo dei ricordi corporei (memoria somatica) – scrive Oliviero – schiaccia col suo enorme peso il nostro corpo, e ci fa ammalare. I ricordi profondi del corpo ci accompagnano fin della nascita e anche prima; ecco perché non esiste un organo specifico della memoria, in quanto tutto il corpo si ricorda di precedenti esperienze. Ogni parola, ogni gesto, ogni azione è il risultato di un processo fisico che si è stabilizzato nel corpo» (ib., p. 25).

        È, quindi, il conflitto che viene a generarsi all’interno del nostro corpo il generatore di malattia, sintomo di richiesta, sempre da parte del corpo, di un intervento per autoguarire; esso porta a galla memorie che sono causa di malessere, e di qui il bisogno di dargli ascolto. Oliviero, come altri studiosi, ne è convinto e insiste a parlare di “benattia”, lo stare e come poter stare bene, traguardo che si può soltanto raggiungere attraverso l’accettazione della stessa malattia. Il consiglio, che come medico dà, è quello di non allarmarsi, di aver fiducia, addirittura di parlare con la parte del corpo lesa e di essere consapevoli di ciò che si sta vivendo. Proprio per questo, dando valore alla parola, egli, medico e terapeuta, fa un salto di qualità, passando dall’applicazione del test kinesiologico omosinergetico a quello kinesiologico quantistico.

       Partendo dalla logosintesi di W. Lammers che utilizza la parola per fare emergere nel paziente energie bloccate che lo condizionano e dargli così consapevolezza e benessere, Oliviero se ne serve, dopo aver eseguito il TKQ nel paziente, utilizzando la LMI (Liberazione di Memorie inconsce) tramite il ricorso al “Qui ed ora…” all’inizio di ogni frase. Scrive:

     «La diagnosi energetica viene svolta interamente dal TKQ attraverso l’individuazione dei conflitti primari, collegati con le memorie dell’inconscio, che riverberano nel presente della persona e ne condizionano la vita. Poi si applica la tecnica di scioglimento delle memorie conflittuali. Tutto diventa lineare e semplice, incisivo e delicato al tempo stesso, utilizzando il grande potere creativo della parola, ed esaltandone ancora di più lo scopo finale: la liberazione dell’individuo dalle sue schiavitù cognitive, dalle sue convinzioni e credenze che lo tengono prigioniero della mente egoica, del diaballon [parola che deriva dal greco antico e che significa “ciò che divide, che separa”] (ib., pp. 316-317). 

       Lo studio, la ricerca, la fisica quantistica, sono i fondamenti su cui il dottore e terapeuta Oliviero costruisce il percorso di guarigione del paziente, restituito alla consapevolezza. Ne risulta che il TKQ è liberatorio e il paziente può ricominciare a vivere la sua vita di sempre. Al centro del test non c’è l’ammalato-cavia, costretto a prendere medicine che bloccano il sintomo ma non guariscono, ma l’uomo che, avendo sbloccato conflitti dimenticati e occultati nel suo inconscio, ritrova la fiducia in sé e negli altri. Per questo, a chiusura del volume, è riportata la parte pratica, con esempi di test, i cui risultati sono abbastanza positivi e sono da stimolo per il miglioramento degli studi e delle tecniche in tale direzione. 

       Il bello di questo libro è che apre il lettore ad una maggiore comprensione di sé e del mondo che lo circonda, non tutto visibile, ma confortato da consolidate leggi della fisica e da un inconscio che andrebbe da tutti esplorato e conosciuto per vivere appieno la propria vita. Questo è il messaggio che traiamo dalla lettura, ed è un messaggio di amore e di comprensione con una forte spinta all’unità per riconoscerci parte del Tutto che alberga in noi e nel mondo. 

        Salvatore Vecchio




 La poesia di Paolo Frosecchi 

Piazza del Limbo (pref. di A Gatto), Nuova Guaraldi Editrice, Firenze, pagg. 141, s.i.p. 

Di solito, quando si ha da fare con un pittore che scrive anche poesie, viene spontaneo riferirsi ai temi caratterizzanti le sue tele per meglio definirlo e conoscerlo. Non così avviene per la poesia del pittore Paolo Frosecchi (fiorentino di nascita – è del 24 – e milanese di adozione) che, se è una riconferma delle sue doti di artista, è nel contempo un viaggio interiore proteso alla ricerca di una identità più marcata. 

Giustamente Alfonso Gatto ha parlato di diario; e un diario proprio costituiscono queste poesie, se consideriamo che al centro di ognuna di esse c’è il poeta con i suoi ricordi, le nostalgie, i sentimenti che lo attaccano alla vita. 

La breve lirica Lunga strada, spoglia di ogni compiacimento verbale, ci dà l’esempio di questo voler scrutare dentro, e spiegarsi l’umana esistenza e ciò che essa ci riserba lungo il suo cammino. 

«Gli alberi neri» proiettano il poeta nell’età dell’infanzia, quando bastava un nonnulla per incuterci tanta paura e farci tremare. Un senso di nostalgia traspare da questi versi, ma Frosecchi non lo fa pesare, perché sa che a niente vale, se non a peggiorare le cose. L’ingenuità, la fede di una volta non ci sono più, e la realtà è ben altra cosa ora che «sono spezzati i rami». E dietro a questa realtà veramente pungente, la morte, l’inesorabile morte, che tutto tocca e non perdona. Ciò che rimane non è altro che il ricordo, nostalgico – abbiamo detto -, ma pieno di grande umanità. Come ne I lucarini, là dove la lucarina col suo «cuore piccino» piange il compagno morto: «Ritorna bambina / quand’era soltanto / una voce / un trillo / un trillo di trilli. / Si lascia morire / e non posso toccarla / chiuso come sono / da queste sbarre». Una bella lirica, questa, che gradatamente acquista il tono giusto per sciogliersi poi negli ultimi versi con la stessa cadenza iniziale. 

A volte il poeta è tutto preso da un fare polemico e sarcastico insieme, che non vuole essere affatto atteggiamento derisorio, ma nasce dalla consapevolezza di chi, non potendo sfuggire dinanzi ad una realtà come la morte, accetta, perché diversamente non può. Si legga, ad esempio, Storia, dove la collocazione degli stessi aggettivi («stupide pecore», «processione lenta», «bigio asfatto», «moccioso muso») ci dice l’indifferenza e il distacco propri di chi è abituato a considerare la vita come se non gli appartenesse. 

Altrove, però – vedi la lirica lo – lo scontento, che è poi dovuto ad un morboso sotteso attaccamento al mondo e alla vita che lo circonda, viene anche indirettamente evidenziato. 

Ma più che ogni altro motivo torna caro al poeta quello dell’amore, che occupa un posto di rilievo. Ancora, la figura femminile viene a stagliarsi meglio nel ricordo. E qui sta la bellezza di questi componimenti, perché nel ricordo tutto s’ingentilisce, anche se poi l’amara realtà si rivela diversa. 

In Richiamo c’è l’immagine di una donna restia, indifferente, appunto, al richiamo d’amore. 

Essa viene colta negli occhi che guardano nel buio e nell’atteggiamento di chi non dà alcuna importanza a tutto ciò che prima aveva costituito la sua gioia («Come in una danza / esci dalla tua pelle / contaminata d’amore / ti vesti di soli capelli / quei capelli neri / che passan tra le dita / quasi d’acqua»). Il poeta non trascura i «capelli neri», morbidi e leggeri come l’acqua che passa tra le dita, ma a niente vale il suo interesse, perché oramai la donna è sorda ad ogni richiamo. 

Ancora in Autunno riaffiora il ricordo di lei dai «grandi occhi / neri e neri e neri / di lucenti cristalli» che niente dicono ora al poeta, paragonati come sono alla foglia che si stacca morta. 

Chi ha avuto modo di ammirare alcuni quadri di Frosecchi pittore, avrà potuto notare che le donne mancano di affiatamento, e tra esse sono scostanti, quasi a voler proporre ognuna la sua bellezza. Nella lirica Le amiche, Violetta e Mammola, «bianche come ricotta / preparata su un piatto / si tenevano il mignolo / graziosamente allacciato», vanno arroganti nella loro candida grazia, desiderose solo di essere ammirate e amate. La realtà è che nella poesia Paolo Frosecchi ritrova il luogo idoneo a potere colloquiare con sé e con gli altri. E lo fa col tono discorsivo proprio della nostra migliore tradizione poetica, col risultato di una poesia scevra di ogni avanguardismo di moda, capace di parlare direttamente al cuore dei lettori. 

A volte il poeta usa un linguaggio spregiudicato – l’ha fatto bene notare per primo Alfonso Gatto, citando Natale -, ed è pure vero che se ne serve per trovare il tono giusto della sua ispirazione, riscontrabile, ad esempio, ne «l’amore dell’amore / che mi cresce e m’incanta». Poche parole bastano al Frosecchi per dire tutto il suo affetto di figlio e l’importanza che una madre ha nella vita di un uomo. Ma questi atteggiamenti ora spregiudicati ora di abbandono possono bene ascriversi ad una tendenza propria della lirica moderna, e non solo italiana. Sicché il poeta, quasi senza avvedersene, risente di tutto questo, e non può fare diversamente, in quanto è come un tributo che ciascuno di noi paga al proprio tempo. 

Frosecchi cade verso un modo di fare poesia sotto certi aspetti ermetica (Notte, Mendicante d’amore, Un urlo, per citarne alcune tra le più palesi), tentazione di non pochi poeti di questa seconda metà di secolo. A dire il vero, sono componimenti strutturalmente ben concepiti, e anche le immagini calzanti, ma non hanno quel calore e quella partecipazione a cui siamo abituati. Di questo il poeta se ne rende subito conto, e fa bene in tempo a cambiare strada e a ricalcare le orme della sua poesia più autentica. Si leggano, ad esempio, La magnolia e la ringhiera, o la già citata lo o, ancora, I segni, che sono tra le ultime liriche di questo libro Piazza del Limbo, dove colori e immagini bene appropriati ci restituiscono la giusta misura. 

La nostalgia, nella lirica Alle sette di sera, s’impossessa del poeta proprio sul far della sera, quando chiuso nella sua solitudine è assalito dal ricordo ancora troppo vivo per non far soffrire tanto l’uomo. Notate l’atmosfera, che è veramente propizia al pianto: una notte d’inverno e il ricordo di una primavera ben puntualizzata, il grigiore della morte e l’esuberanza della vita. 

C’è nella poesia di Paolo Frosecchi un non so che di classico e romantico insieme. La compostezza formale, la coloritura delle immagini,la partecipazione stessa del poeta in quelli che sono i suoi fantasmi creativi fanno di questa poesia il punto di partenza e di arrivo di una sensibilità moderna che affonda le sue radici in un solido retroterra culturale. Sicché, aprendo questo libro, il lettore si sente subito portato a leggerlo d’un fiato, perché alla memoria del passato il poeta affianca la sua spiccata sensilità di moderno, aperto ai problemi e ai richiami del mondo. La lirica L’esecuzione, che a prima lettura potrebbe apparire troppo prosastica («Mille e mille i cacciatori / sono partiti / coi fucili puntati / caricati a palla, / dietro la muta dei cani…»), è carica di tanta umanità, e il tono dimesso trova la sua piena giustificazione nello scontento proprio di chi vede la natura e il mondo andare giorno dopo giorno a rotoli. Scontento che, come in Primavera, viene subito meno all’approssimarsi della stagione primaverile, quando tutto ciò che sa di nuovo sembra esplodere .in una danza impazzita». 

Sono questi alti e bassi dell’animo sensibilissimo del poeta a dare credibilità a questo suo viaggio interiore, segno non dubbio di validità poetica e umana, destinato a riproporsi in una luce più chiara e con risultati migliori. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 62-65.




 La «ricerca» di Ionesco 

La quête intermittente, Paris, Gallimard, 1987. 

Eugenio Ionesco non finisce mai di sorprenderci. Quasi ottantenne (è nato a Slatina, in Romania, nel 1912), con questo nuovo libro, affronta il pubblico con fierezza ed orgoglio per difendere ancora una volta il suo teatro e, nello stesso tempo, è ansioso e preoccupato per la vecchiaia che avanza, le difficoltà finanziarie, l’incerto avvenire della sua donna Rodica e della figlia Marie-France. 

La quête intermittente è un diario, il diario dell’anima di Ionesco, che è poi una continuazione del Journal en miettes del 1967. Viene scritto tra l’estate del 1986 e il gennaio dell’87 a Saint-Gall, dove festeggia i suoi cinquant’anni di matrimonio, e Le Rondon, un posto tranquillo dove passa l’estate in un pensionato per anziani con Rodica. 

L’autore è più disteso, tante focosità battagliere in lui si sono spente e, all’approssimarsi della morte, vuole continuare il dialogo con se stesso, a volte, per rafforzare le sue convinzioni e restare fermo in certe sue posizioni, a volte, per sentirsi vivo e presente a sé e agli altri. Quello che Ionesco insegue è un po’ più di tranquillità, di giustizia, dopo una vita spesa per la «ricerca» del vero, al di là di ogni convenzionalismo, per il bene dell’uomo e di certi ideali che essi solo fanno affrontare con dignità la morte. 

Così come Bérenger di Le roi se meurt, giunto verso la fine dei suoi giorni terreni, consapevole che l’ineluttabile passo dovrà pur compiersi, egli si rivolge indietro negli anni intravedendovi la gioventù, i parenti, tanti degli amici più cari, ohimè!, passati per sempre, le fedi incrollabili, che ora non gli dicono niente, il dubbio ritornante, forse l’unico che non l’ha mai lasciato… 

Ionesco è scrittore di grande umanità e di finissima sensibilità: e quello a cui egli si rivolge è il mondo, il suo vissuto di uomo e di artista in cerca ancora di una identità, che è segno di vitalità umana oltre che intellettuale. La sua «ricerca» consiste in un continuo interrogarsi, in un manifestarsi per non tradire il suo io e rivelarsi nella sua interezza. 

Prima di tutto, il libro è un canto di riconoscenza e di amore rivolto a Rodica (ed è l’elogio più bello che una moglie possa ricevere) ed offre anche spunto a Ionesco per manifestare il suo amore paterno, le sue premure e preoccupazioni per l’unica figlia che, quasi indifesa, per l’avanzata età del padre, ha da affrontare il mondo sempre più pieno di insidie e di malvagità. 

«A côté de moi, allongée, elle lit. Sereinement. Mon amour n’est pas irréel, 
l’amour n’est pas irréel. La vie de l’amour est d’une réalité irréfutable. Je 
suis certain, maintenant, que l’amour est éternellement irréfutable» (pag. 34). 

E ancora: 

«La nuit tombe. De nouveau, la panique. Elle est si fragile! Si fragile, la 
pauvre, ma petite. Et moi-meme si fragile… 

Je pense aussi à Marie-France. Pauvre petite, elle aussi» (pag. 86). Ma, a parte questo che è uno degli aspetti più caratterizzanti dell’opera, Ionesco non perde l’occasione per parlare di teatro ed imporre anche la sua presenza, ad onta di chi ne vorrebbe sminuita la portata artistico-letteraria. Gli si rinfaccia di non essere stato comunista, quando tutti si atteggiavano a comunisti e maoisti, come Sartre, seguendo le direzioni del vento. 

«On n’avait pas le droit d’etre anticommuniste quand les encore «jeunes» 
philosophes étaient communistes, il fallait etre stalinien, maoiste avee eux, 
et, maintenant, après eux, dire qu’on s’était trompé: la lumière ne devait 
venir que par eux» (pag. 43). 

Ionesco non ha fatto mai politica attiva o, per lo meno, la sua è stata sempre la politica dell’uomo per l’uomo, nel senso che alla base di ogni suo scritto, sia una pièce o un romanzo c’è la ricerca e la riscoperta di quei valori che, messe da parte ingiustizie e malignità, fanno veramente umano l’uomo. Sicché critica ogni tipo di ideologia, gli uomini ammalati di «rinocerontite» (vedi Rhinocéros del 1959) e propugna la via verso un mondo migliore, dove siano finalmente debellati i soprusi e le violenze. 

Contro coloro che fanno Beckett promotore del «teatro dell’assurdo», che Ionesco preferisce chiamare «teatro nuovo» o «d’avanguardia», egli porta le sue pezze d’appoggio, citando nomi di autori ed opere, rivendicando a sé, con La Cantatrice chauve del 1950, il ruolo di iniziatore di questo teatro «d’avanguardia», «una avant-garde toujours vivante, puisque depuis les années 1950, ce théatre, très caractéristique, n’a pas eu de relève» (pag. 46), e fa i nomi di Adamov, di Tardieu, Weingarten e altri, mentre En attendant Godot è del ’53. 

Ionesco crede nel teatro e, come tale, non può sopportare le meschinità degli arrampicatori di specchi. Per questo motivo, non risparmia nessuno, critici ed impresari teatrali che fanno il bello e il cattivo tempo, a scapito del teatro e dell’arte. 

La ricerca della verità altro non è che ricerca di Dio: e questo costituisce un altro aspetto del libro, aspetto che, per la verità, Ionesco ha sentito e vissuto sempre intensamente. Sin dalle sue prime pièces, c’è l’anelito della religiosità che a poco a poco andrà prendendo contorni ben delineati: ne Les Chaises (1952), i due vecchi s’uccidono per unirsi agli «invisibili», superando così la loro solitudine, ne La Soif et la Faim (1965), il protagonista Jean tende ad una vita migliore che solo dopo la morte può sperare, ne Le roi se meurt (1962), Bérenger I accetta la morte con serenità, confortato dall’amore e dalla speranza e, ancora, negli ultimi lavori, dove è più marcato il senso religioso della vita e l’approdo nella fede. Basti ricordare il libretto Maximilian Kolbe. Ma, più propriamente, in questo La quête intermittente, c’è la professione di una credenza fortemente cristiana e cattolica, anche se Ionesco non è mai pago per quel suo bisogno di comunicazione profonda che tende istaurare tra lui e il mondo, tra il finito e l’infinito, con Dio. 

Un libro, questo, che troviamo utilissimo per la comprensione dell’opera dell’autore, per conoscere meglio Eugenio Ionesco che mai, come ora, si è messo a nudo e si è palesato così per intero. Ma non è solo questo che ci fa accostare a La quête intermittente: esso è una chiave di lettura importantissima e indispensabile per quanti si vogliono accostare alla sua drammaturgia e, in generale, al «nuovo teatro», che veramente ha dell’originale e risponde appieno alle esigenze dell’uomo, mai come ora in cerca della sua vera identità. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 39-41.




 La poesia di Paolo Frosecchi Piazza del Limbo (pref. di A. Gatto) (recensione) (pref. di A Gatto). Nuova Guaraldi Editrice. Firenze. pagg. 141. s.i.p. 

Di solito, quando si ha da fare con un pittore che scrive anche poesie, viene spontaneo riferirsi ai temi caratterizzanti le sue tele per meglio definirlo e conoscerlo. Non così avviene per la poesia del pittore Paolo Frosecchi (fiorentino di nascita – è del ’24 – e milanese di adozione) che, se è una riconferma delle sue doti di artista, è nel contempo un viaggio interiore proteso alla ricerca di un’ identità più marcata. 

Giustamente Alfonso Gatto ha parlato di diario; e un diario proprio costituiscono 

queste poesie, se consideriamo che al centro di ognuna di esse c’è il poeta con i suoi ricordi, le nostalgie, i sentimenti che lo attaccano alla vita. 

La breve lirica Lunga strada, spoglia di ogni compiacimento verbale, ci dà l’esempio di questo voler scrutare dentro, e spiegarsi l’umana esistenza e ciò che essa ci riserba lungo il suo cammino. 

•Gli alberi neri» proiettano il poeta nell’età dell’infanzia, quando bastava un nonnulla per incuterci tanta paura e farci tremare. Un senso di nostalgia traspare da questi versi, ma Frosecchi non lo fa pesare, perché sa che a niente vale, se non a peggiorare le cose. L’ingenuità, la fede di una volta non ci sono più, e la realtà è ben altra cosa ora che sono spezzati i rami-o E dietro a questa realtà veramente pungente, la morte, l’inesorabile morte. che tutto tocca e non perdona. Ciò che rimane non è altro che il ricordo, nostalgico – abbiamo detto -, ma pieno di grande umanità. 

Come ne I lucarini, là dove la lucarina col suo, cuore piccino- piange il compagno morto: Ritorna bambina / quand’era soltanto / una voce / un trillo / un trillo di trilli. / Si lascia morire / e non posso toccarla /chiuso come sono / da queste sbarre-o Una bella lirica. questa, che gradatamente acquista il tono giusto per sciogliersi poi negli ultimi versi con la stessa cadenza iniziale. 

A volte il poeta è tutto preso da un fare polemico e sarcastico insieme, che non vuole essere affatto atteggiamento derisorio, ma nasce dalla consapevolezza di chi, non potendo sfuggire dinanzi ad una realtà come la morte, accetta, perché diversamente non può. Si legga, ad esempio, Storia, dove la collocazione degli stessi aggettivi (<<stupide pecore-, «processione lenta-, «bigio asfatto-, «moccioso muso-) ci dice l’indifferenza e il distacco propri di chi è abituato a considerare la vita come se non gli appartenesse. 

Altrove, però – vedi la lirica lo – lo scontento, che è poi dovuto ad un morboso sotteso attaccamento al mondo e alla vita che lo circonda, viene anche indirettamente evidenziato. 

Ma più che ogni altro motivo torna caro al poeta quello dell’amore, che occupa un posto di rilievo. Ancora, la figura femminile viene a stagliarsi meglio nel ricordo. E qui sta la bellezza di questi componimenti, perché nel ricordo tutto s’ingentilisce, anche se poi l’amara realtà si rivela diversa. 

In Richiamo c’è l’immagine di una donna restia, indifferente, appunto, al richiamo d’amore. 

Essa viene colta negli occhi che guardano nel buio e nell’atteggiamento di chi non dà alcuna importanza a tutto ciò che prima aveva costituito la sua gioia (.Come in una danza / esci dalla tua pelle / contaminata d’amore / ti vesti di soli capelli / quei capelli neri / che passan tra le dita / quasi d’acqua-l. Il poeta non trascura i «capelli neri-, morbidi e leggeri come l’acqua che passa tra le dita, ma a niente vale il suo interesse, 

perché oramai la donna è sorda ad ogni richiamo. 

Ancora in Autunno riaffiora il ricordo di lei dai «grandi occhi / neri e neri e neri / di lucenti cristalli- che niente dicono ora al poeta, paragonati come sono alla foglia che si stacca morta. 

Chi ha avuto modo di ammirare alcuni quadri di Frosecchi pittore, avrà potuto notare 

che le donne mancano di affiatamento, e tra esse sono scostanti, quasi a voler proporre ognuna la sua bellezza. Nella lirica Le amiche, Violetta e Mammola, «bianche come ricotta / preparata su un piatto / si tenevano il mignolo / graziosamente allacciato-, vanno arroganti nella loro candida grazia, desiderose solo di essere ammirate e amate. La realtà è che nella poesia Paolo Frosecchi ritrova il luogo idoneo a potere colloquiare con sé e con gli altri. E lo fa col tono discorsivo proprio della nostra migliore tradizione poetica, col risultato di una poesia scevra di ogni avanguardismo di moda, capace di parlare direttamente al cuore dei lettori. 

A volte il poeta usa un linguaggio spregiudicato – l’ha fatto bene notare per primo Alfonso Gatto, citando Natale -, ed è pure vero che se ne serve per trovare il tono giusto della sua ispirazione, riscontrabile, ad esempio, ne .l’amore dell’amore / che mi cresce e m’incanta•. Poche parole bastano al Frosecchi per dire tutto il suo affetto di figlio e l’importanza che una madre ha nella vita di un uomo. Ma questi atteggiamenti ora spregiudicati ora di abbandono possono bene ascriversi ad una tendenza propria 

della lirica moderna, e non solo italiana. Sicché il poeta. quasi senza awedersene, risente di tutto questo, e non può fare diversamente, in quanto è come un tributo che ciascuno di noi paga al proprio tempo. 

Così, a volte, il poeta Frosecchi cade verso un modo di fare poesia sotto certi aspetti ermetica (Notte. Mendicante d’amore, Un urlo, per citarne alcune tra le più palesi), tentazione di non pochi poeti di questa seconda metà di secolo. A dire il vero, sono componimenti strutturalmente ben concepiti, e anche le immagini calzanti, ma non hanno quel calore e quella partecipazione a cui siamo abituati. Di questo il poeta se ne rende subito conto, e fa bene in tempo a cambiare strada e a ricalcare le orme della 

sua poesia più autentica. Si leggano, ad esempio, La magnolia e la ringhiera, o la già citata lo o, ancora, I segni, che sono tra le ultime liriche di questo libro Piazza del Limbo, dove colori e immagini bene appropriati ci restituiscono la giusta misura. 

La nostalgia, nella lirica Alle sette di sera, s’impossessa del poeta proprio sul far della sera, quando chiuso nella sua solitudine è assalito dal ricordo ancora troppo vivo per non far soffrire tanto l’uomo. Notate l’atmosfera, che è veramente propizia al pianto: una notte d’inverno e il ricordo di una primavera ben puntualizzata, il grigiore della morte e l’esuberanza della vita. 

C’è nella poesia di Paolo Frosecchi un non so che di classico e romantico insieme. La compostezza formale, la coloritura delle immagini,la partecipazione stessa del poeta in quelli che sono i suoi fantasmi creativi fanno di questa poesia il punto di partenza e di arrivo di una sensibilità moderna che affonda le sue radici in un solido retroterra culturale. Sicché, aprendo questo libro, il lettore si sente subito portato a leggerlo d’un fiato, perché alla memoria del passato il poeta affianca la sua spiccata sensilità 

di moderno, aperto ai problemi e ai richiami del mondo. La lirica L’esecuzione, 

che a prima lettura potrebbe apparire troppo prosastica (.Mille e mille i cacciatori / sono partiti / coi fucili puntati / caricati a palla, / dietro. la muta dei cani…•), è carica di tanta umanità, e il tono dimesso trova la sua piena giustificazione nello scontento proprio di chi vede la natura e il mondo andare giorno dopo giorno a rotoli. Scontento che, come in Primavera, viene subito meno all’approssimarsi della stagione primaverile. 

quando tutto ciò che sa di nuovo sembra esplodere .in una danza impazzita». 

Sono questi alti e bassi dell’animo sensibilissimo del poeta a dare credibilità a questo suo viaggio interiore, segno non dubbio di validità poetica e umana, destinato a riproporsi in una luce più chiara e con risultati migliori. 

Salvatore Vecchio 




Centocinquant’anni dalla nascita di Federico De Roberto

Centocinquant’anni dalla nascita di Federico De Roberto

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 30.




A futura memoria – Letteratura come vita.  Ricordo di Nino Tripodi 

Il romanzo di Francesco Grisi A futura memoria (edito dalla “Newton Compton” nel 1986, finalista al premio “Strega” con quattro edizioni) , sarà pubblicato nei “tascabili-economici” in Germania e in Italia. 

Per l’occasione siamo’ lieti di fare conoscere un breve saggio-recensione inedito di Nino Tripodi scritto pochi giorni prima di morire il 22 luglio 1988. 

Si tratta di una riflessione che prende avvio dal romanzo di Francesco Grisi e propone una visione della letteratura come problematica creativa. C’è nello scritto di Tripodi la cosiddetta “immaginazione teologica” che faceva da guida alla vasta cultura del politico e dello storico. 

L’articolo lo pubblichiamo per ricordare il Tripodi, scrittore, docente universitario, deputato e letterato. 

Il volume che diede al Tripodi popolarità ha come titolo Intellettuali sotto due bandiere. L’ultimo è una raccolta di novelle: Nuvole e simboli, del 1988. 

* * * 

“La ragione non è stata più sufficiente per capire la vita”: questo concetto conclude il libro che Francesco Grisi, con il titolo A futura memoria, ha recentemente pubblicato e che, allo “Strega” si è affermato al terzo posto, con uno scarto di appena qualche voto dal secondo. Il concetto – già del vecchio Shakespeare (“ci sono più cose al mondo di quanto non pensi la vostra filosofia”), anzi del tutto dell’antichissima saggezza latina (“cave a consequentiariis”) – è anche un po’ il filo conduttore del romanzo. Ma il libro è proprio un romanzo? O non piuttosto un riflessivo saggio intercalato, in apertura e in chiusura, dalla brillante inventiva d’arte con la quale Grisi narra la parentesi esistenziale del suo inquieto personaggio? 

Saggio o romanzo, nelle sue pagine la vita è avvolta nel velario del mistero. Per penetrarne il segreto, le simmetrie dei principi o la dialettica dell’ordine dello spirito, spiega il reale e guida il mondo. La fede rompe le tavole della ragione. Maria di Nazareth, non ricordo più in quale canto dantesco, suggerisce pacatamente alla “umana gente” di stare “contenta al quia”, cioè di fermarsi al poco che sa. 

Ma non è che ragionare sia superfluo o vano. Basta capire che i concetti nati dalle pur necessarie procedure logiche non chiariscono tutto. In fondo ad esse resta sempre una porta chiusa sulla quale i credenti scrivono la parola “Dio”. Se Grisi, ambiziosamente, tenta di forzarla attraverso le ramificazioni della fede. riesce appena a scorgere il sottile spiraglio che illumina l’anima e accompagna il disperato e disperante viaggio dell’esistenza. Come nella raffigurazione romanzata della madre di Maria, sottrattasi al mondo sotto il saio monacale della clausura. 

Il convegno narrativo – ed è qui l’arte di Grisi – consiste nel contrapporre un modernissimo personaggio piuttosto stravagante o del tutto schizofrenico come il suo Giovanni ai trapassati e rassegnati estensori dei vangeli cristiani. Matteo, Marco, Luca e Giovanni hanno tramandato quattro lettere indirizzate all’apostolo Filippo. “a futura memoria” per spiegare ai posteri le pieghe segrete dei loro racconti, che fanno testo nel Nuovo Testamento. Le lettere giungono, come che sia, a un santone integralista, Armageddo, che a sua volta le affida al protagonista del romanzo. mentre costui, in veste giornalistica, se ne va peregrinando tra guerriglieri e terroristi islamici. Le lettere a Filippo rappresentano la vita di Gesù secondo le testimonianze e i diversi disegni dei quattro evangelisti. E sono quattro modi. utili a ognuno, per intendere il messaggio lasciatoci da nostro Signore. quasi predizione della vocazione ecumenica soprattutto oggi avvertita dalla Chiesa di Giovanni Paolo II. 

Matteo è il più ebreo; accentua l’estrazione ebraica del Nazareno; avvalora la possibilità del cristianesimo di vivere nella legge giudaica, in attesa del Regno. Marco si libera invece dalla ritualità israelitica, distingue il cristianesimo dal giudaismo, e, poiché vive a Roma, tenta di dare alla perseguitata religione di Gesù il supporto del potere romano: il centurione, sotto la Croce, simboleggia il riconoscimento del figlio di Dio da parte dell’Urbe universa; storicamente, è Marco che vince. Luca non ha cure temporali; per lui solo la fede è salvifica, le istituzioni sono il segno terreno della caduta; in Luca è la chiesa del futuro. Giovanni è l’apostolo prediletto, al punto che il Messia gli affida sua madre prima di morire; Giovanni è “l’utopia amore” disegna il Maestro come il vertice della tradizione esoterica degli esseni, della contemplazione ellenica e del simbolismo orientale: Gesù è “il profeta e il compimento”. 

La traduzione di queste quattro arcaiche missive costituisce una documentazione sagace per gli studiosi e una piana, persuasiva informazione per i comuni lettori. Occupando per altro la parte centrale del libro, ne lievita la valenza sotto il profilo saggistico. 

Narrativamente, la comparazione del mondo evangelico con l’odierna esperienza quotidiana scava un distacco abissale. Si potrebbe congetturare una polivalenza di abitudini espressive, un Grisi uno e due, la coesistenza del Grisi immaginifico col Grisi raziocinante, lo sdoppiamento insomma di uno scrittore tra spregiudicatezza e conformismo, modernità e tradizionalismo. Forse però il conflitto da nient’altro discende che dall’antitesi voluta per separare stilisticamente e antropologicamente due linguaggi: l’uno insaziato, spesso sconnesso e morboso del giovane Giovanni, errabondo tra la ragione che non appaga e la fede che non lo redime; l’altro iniziatico, convinto, controllato, dei quattro evangelisti. “Narrare è cosa diversa che scrivere un romanzo”, fa dire Grisi al Giovanni evangelista; e lo convalida col “romanzare” egli stesso i discorsi del protagonista e col “narrare” le lettere a Filippo degli evangelisti. La narrazione, chiarisce, è completamento della storta “in un quadro dove trovano accoglienza i racconti, le allegorie, le meditazioni e le emozioni come simboli della eternità dei tempi e non della cronaca”. 

Data la sacralità del tema in discussione, la trama libresca non coinvolge però solo la storta che ha dimensione umana e terrena, ma anche la teologia che è divina e trascendente. Le tesi con le quali Grisi fa giustificare dagli evangelisti le loro nozioni sulla vita di Gesù rasentano talvolta l’eresia. Quando Marco parla dell’ “ipotesi” del suo vangelo, e di essere stato “costretto”, nonostante le sue “perplessità”, a inserire a motivare a modo suo il pagamento del trtbuto a Cesare, di avere cioè architettato una “messinscena” per accattivarsi la benevolenza di Roma, vulnera un precetto della parlata dei credenti che, quando dicono “è vangelo”, intendono sottolineare l’inconfutabilità di un fatto. Che vangeli sarebbero mai questi se la loro stesura fu forzata dalla necessità di ricorrere a un’ipotesi, o, peggio, a una sceneggiata? 

Però anche questo scoglio, al giorno d’oggi, è superabile. Non si va parlando di “immaginazione teologica” come stampella della fede e perciò a fin di bene? Dunque la questione sarebbe risolta. E Grisi può fare recitare al tormentato 

Marco, magari ovattando la zampata del leone, che pure è il suo simbolo: “Tu mi dirai che ho ingannato i lettori. E posso darti anche ragione. Ma che cosa mi restava da fare? La mia comunità romana dovrà trovare nell’impero romano le strutture per raggiungere tutti i popoli civili e convertirli. E, allora, potevo io impedire questo grande disegno, raccontando, a proposito del tributo quello che veramente Gesù pensava? .. Ho agito nella convinzione di servire nostro Signore… Ho scritto questa mia ipotesi di vangelo per il domani, convinto che solamente dalla collaborazione tra Chiesa e Impero romano potrà nascere qualcosa per il futuro”. 

Sì, è vero, canterà molto più tardi Carducci, recIiminando: “son chiesa e impero una ruina mesta”. Ma nei secoli antichi Marco non poteva conoscere gli esiti esiziali di certe collaborazioni debordate dalla donazione di Pipino il Breve alle pastoie del diritto concordatario, senza citare fra Dolcino e i roghi dell’Inquisizione. 

Grisi ha scritto un libro non solo intelligente, ma coraggioso. Libro che induce a riflettere, sia prima di dargli ragione che di dargli torto. La provocazione è nelle pagine nelle quali l’Autore si cala nell’interpretazione del personaggio fino a tradurne nel lessico le frantumate espressioni del pensiero; e lo è nell’evidente contrasto con il fluido e agevole discorrere degli apostoli. Lo è anche nell’ammettere la contraffazione delle lettere a Filippo, sapendo che ciò accresce l’interesse per il saggio ridivenuto romanzo. Vero o non vero Grisi riprende dal teatro lo spettro della verità: “La vita è la verità che noi crediamo”. Come Pirandello, per la verità: “lo sono colei che non si crede”. Ma Grisi rincara: “I vangeli non sono anche romanzo? E i romanzi non sono frammenti di verità?”. 

Tutto è relativo. Non resta che rompere gli argini della ragione. Ma è il guado ribollente della fantasia che preoccupa, forse più delle acque gelide della ragione. A meno che la fede non venga a salvarci dalle insidie dell’immaginario. 

Nino Tripodi 

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 54-57.




Un autentico maestro 

 E. Bonora, Montale e altro novecento, Caltanissetta-Roma, Sciascia ed., 1989, pagg. 267. 

Nel ripiego della copertina di questo nuovo ed atteso volume di Ettore Bonora si legge: «I saggi di questo volume sono in parte inediti – e fra questi c’è anche un’intervista con Montale del 1961 – in parte già noti perché apparsi in riviste, in memorie accademiche, in atti di convegni». Ora, oltre all’opportunità editoriale di raggruppare in volume gli sparsi interventi critici, anche se apparsi in autorevolissime edizioni, ad esigerlo è la omogeneità esegetica che bene li armonizza lungo l’iter delle proposte e delle conclusioni. Peraltro il volume fa seguito, non tanto cronologicamente, quanto ermeneuticamente ai tre precedenti volumi del Bonora su Montale: (Le metafore del vero. Saggi sulle «Occasioni» di Eugenio Montale, Bonacci, Roma 1981 – Poesia di Montale: Ossi di seppia, Liviana, Padova 1982 – Conversando con Montale, Rizzoli, Milano 1983) che insieme a questo, oltre che costituire una armoniosa tetralogia, rappresenta il corpus critico più qualificato ed autorevole sul grande poeta genovese. 

Undici saggi (di cui sei dedicati a Montale), un’avvertenza esplicativa ed un’assai opportuna notizia bibliografica compongono un volume ricco e corposo che già avvince per una tecnica scrittoria narrativa e per una misura stilistica fortemente equilibrata, gradevolmente ‘acidula’ che invita ad una piacevole lettura e ad un amabile conversare. E già solo questo sarebbe non poco, nel clima di revival di «vecchi tromboni» che nella foga di strombazzare obsolete primogeniture e fantomatiche benemerenze, mortificano i più elementari canoni stilistici, che sono parte integrante di una seria ricerca scientifica. 

Certo lo «stile Bonora» (e qui lo intendiamo nella sua più ampia accezione) non si improvvisa; esso è il frutto più vero ed autentico di una onestà e di un rigore intellettuale che, temprati da una rara acribia critica e affinati da robuste dosi di «sciroppo di tavolino», ne fanno uno dei pochi, autentici maestri dell’italianistica e della critica letteraria. 

Uscito ad un anno di distanza dalle sue Interpretazioni dantesche (Mucchi, Modena 1988) di taglio più squisitamente filologico linguistico, quest’ultimo volume montaliano è una ulteriore ed ennesima testimonianza della vastità, della duttilità e della versatilità critica dello studioso milanese. E anche se, nella prefazione alle Interpretazioni con l’umiltà dei valorosi, non osa dichiararsi un dantista per via della sua ‘poca’ produzione, egli, per certo lo è; lo è perché il confessato amore ermeneutico per Dante lo conferma; lo è per l’assoluta qualità dei suoi interventi; lo è per la rigorosissima selezione bibliografica; e lo è infine perché, tralasciando i suoi studi notevoli su Petrarca, Folengo, Bembo, Guarini, Tasso, Parini, Manzoni, ecc., è storico valoroso ed autorevole di tutta la letteratura italiana, come ampiamente testimonia la sua Storia della letteratura italiana (Petrini, Torino 1976). 

Ma ritornando al volume in oggetto, è subito da notare il richiamo pregnante all’attenzione ed alla lucidità di analisi di versi mai sufficientemente ascoltati nel loro carico di rimandi e di richiami intertestuali. Qui a registrarsi è una caparbia fedeltà al testo che induce il critico ad una lettura che non si attardi, o non subisca rallentamenti davanti a scarsa conoscenza delle fonti alle quali invece costantemente volle rifarsi il poeta: e attraverso lo studio delle quali si perviene al recupero di significati che in qualsiasi altro caso andrebbero irrimediabilmente perduti. 

Non meno diligente risulta l’analisi condotta sulle pagine di documentazione critica fiorita, senza soluzione di continuità, sulla figura e l’opera di Eugenio Montale. L’amico Montale viene sottoposto allo scrupoloso esame della sua squisita sensibilità interpretativa, mentre il rigore analitico sottolinea le indubbie difficoltà di decodificazione del verso. Difficoltà acuite dal fatto che il poeta ha sempre dispensato, anche agli amici, con molta parsimonia e con ampie riserve, la verità sugli enigmi dei propri versi, fino a depistare, e con gusto, la critica più invadente e sprovveduta. 

Ma se il suo era un gioco, o un ironico riserbo che lo sorreggerà anche quando si accorgerà di essere il più vecchio del «Nobel», il corpus del Bonora lo svela penetrando, con i piedi di piombo, nei meandri delle censure ed incastonando tessere fondamentali nel complesso e celato mosaico della sua poetica. Affondando il bisturi nei recessi più inospitali del ‘suo’ autore il Bonora ne scopre, oltre all’inventiva ed all’ironia, anche l’amarezza finale, la tristezza di chi si vede costretto a demolire quegli ideali di ‘coscienza’ di ‘sensibilita’ e di ‘dignità’ per i quali ha lottato, ponendo in discussione tutto, financo la cultura. 

Come non è difficile arguire, l’impresa di sistemazione critica non è stata certo delle più agevoli, in considerazione anche del ventaglio di linee orientative prospettate e delle difficoltà di selezione; ma questo conferisce maggior lustro ad un volume che, con i tre precedenti, più che utile è fondamentale per gli addetti ai lavori, ma che torna illuminante anche al lettore comune non disattento che vi potrà apprezzare, su un registro interpretativo, metodologicamente ineccepibile, una assai bene articolata indagine che lo rende strumento imprescindibile per una «paideia» montaliana fuori dai canoni libreschi e dal manierismo di schemi canonizzati. 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 41-43.




 Un amore che si trasfigura 

A. Gamboni Mercenaro, Poesie d’amore e altre, Poggibonsi, Lalli 1989 

“Ho scritto questi versi con una penna-scandaglio riproponendo il tema antico e sempre magico dell’amore”, È questa la frase che apre l’autoprefazione alla raccolta di liriche di Antonio Gamboni Mercenaro. Una frase che, a primo acchito, potrebbe suonare come una disarmata e disarmante banalizzazione dell’eterno tema sentimentale, indagato ancora una volta, con lo scandaglio del rabdomante alla ricerca di un amore totale che non troverà. 

Ma in una poesia di intonazione eccezionalmente leggera, qual è quella di questa silloge, ove oggetti percepiti come frammenti della realtà dispongono ad una specie di idillio vissuto, aleggia un pathos lirico pregno di sensuale tenerezza: «La tua bocca una scialuppa di baci/ … / I tuoi seni due gole di tortora» “(Dormivi, pag. 27). Una tenerezza che illegiadrisce una passione ardente e fuga una malinconia che è fin troppo naturale in un uomo che sente riaccendersi d’amore per “tutte le donne che con il loro affetto hanno dato veste ai [suoi] sentimenti” (Dedica). 

Ed è proprio la contemplazione amorosa, evocata in Le tue dita di vento (pag. 24), ripresa in Sei bella quando ridi (pag. 33) e pur non chiusa in L’ultima volta (pag. 38), che porta il poeta verso simboli e verso metafore che sublimano. in un’unica, superiore sfera gnoseologica, la storia personale e la storia dell’umanità, sola e sofferente, che ha, come il poeta «[…] cuore di spugna seccai e labbra sterili di risa» (Nessuno, pag. 62). 

E benché Gamboni Mercenaro nei suoi riferimenti culturali non sia sempre prevedibile, anche perché montalianamente gli basta poco per ricavarne sostanza di poesia da letture più o meno recenti, non è difficile rilevare un suo debito al platonismo rinascimentale. Un platonismo “mediato” tra Gismondo e Perrottino che ricrea l’immagine di un cuore «vaso/ nel mio petto/ con un pesciolino rosso / Il mio cuore/ sei tu!» (Sei tu, pag. 46), ma che non rifiuta, anzi accoglie di Lavinello l’idea che «il silenzio è la preghiera udibile/ dell’anima che cerca Dio» (Il silenzio, pag. 71). 

Un amore, dunque, a tutto tondo, “nel senso più vasto”, sentito, anzi avvertito come una promessa di liberazione dell’umanità: un amore che si trasfigura per adattarsi ad una esperienza autobiografica, e nel contempo si significa e si alimenta della nota melanconica e solitaria. Proprio con “solitudine” e “notte” si apre la silloge: «La notte è solitudine densa»: «La notte è luna mussulmana»: «La notte è quercia dura» (Luna mussulmana, pag.11): per perpetuare questa”preziosa” melopea con le tre lettere ad una donna dove dai dadi truccati dentro «l’urna della solitudine», si passa all’eco di una rata scaduta, per concludersi nello slontanamento di uno «scoglio franato dal dirupo» che pur non cede alle insidie del mare ostile della vita. 

Per concludere queste brevi note non ci resta che rilevare le non poche reminiscenze da lettore colto che sono sparse per tutta la raccolta: essa non è corposa, dimostra tuttavia non poca familiarità con la lirica neosperimentalistica 

dell’ultimo Novecento: e non è azzardato dire che qui si tenta l’apertura di un frammentismo di maniera che, nel toccare le varie corde dell’amore, testimonia di una fine sensibilità “pudicamente” manifestata con navigato mestiere. 

Vito Titone

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 58-59




PICCOLO-BUFALINO, due scrittori esaminati dai critici Tedesco e Zago

Natale Tedesco Lucio Piccolo, Marina di Patti Ed. Pungitopo.

Nunzio Zago

 Gesualdo Bufalino, Marina di Patti, Ed. Pungitopo. Molto interessante, nel panorama editoriale italiano contemporaneo, ci appare l’iniziativa della casa editrice «Pungitopo» di Marina di Patti (Me). Ci riferiamo ai tascabili di colore blu, intitolati «La figura e l’opera» che presentano, di volta in volta, narratori e poeti siciliani del Novecento, inquadrati in uno studio critico da parte di valenti studiosi ed accademici illustri. La pubblicazione dei tascabili ha cadenza trimestrale e, fino ad ora, sono stati dedicati, tra gli ultimi mesi del 1986 ed il 1987, a Pirandello, Sciascia, Piccolo e Bufalino. In questa sede vogliamo occuparci degli ultimi due che, fra l’altro, sono i più recenti. Di Piccolo si occupa Natale Tedesco. dell’Università di Palermo, con un lavoro scrupoloso e di indubbio valore scientifico, dove viene messo insieme un puzzle singolare e prezioso. Nella parte specificatamente critica ne delinea l’itinerario artistico, sottolineando la sostanziale incomprensione, nei riguardi della sua poesia, da parte degli addetti ai lavori, ancora legati al neorealismo. Non fu apprezzato molto, all’epoca, il taglio astratto delle liriche del poeta di Capo d’Orlando, malgrado l’avallo e l’appoggio di Eugenio Montale. Tedesco fa passare in secondo piano l’invenzione barocca di Piccolo, per sottolinearne l’interrogazione esistenziale riguardo al sentimento del dolore della vita. Azzarda anche l’ipotesi delle influenze che può aver esercitato su di lui da parte del secentista siculo-spagnolo Simone Rao. Afferma che l’invenzione barocca è soprattutto letteraria, facendo notare i vocaboli di uso antico e di ascendenza spagnola che s’inseriscono nella tradizione del simbolismo occidentale europeo. Viene anche sottolineata la floralogia del mondo provinciale messinese, che s’intravede anche in Quasimodo, in Cattafi, in Cardile, in Joppolo e, più tardi, nei D’Arrigo e nei Consolo. «La voce di Piccolo, senza perdere la sua estranea e cosmopolitica esotericità» scrive Tedesco «ne guadagna altresì una più domestica, nativa e primigenia. Insomma la ‘provincia’ messinese non è stata una dispersione per Piccolo, ma un acquisto duraturo». Dopo aver esaminato cronologicamente la bio-bibliografia di Piccolo, Tedesco si sofferma sul volume «La seta», edito da Scheiwiller nel 1984, che raccoglie 32 poesie inedite, dove il poeta si muove in «una sorta di naturalismo interiorizzato tra realtà e sogno, tra luce ed ombre». Segue una scelta antologica, molto accurata, fra cui due brani in prosa, apparsi nei numeri 3 e 4 della rivista «Galleria» del 1979. Il volume dedicato a Bufalino è curato da Nunzio Zago, dell’Università di Catania, anch’egli nativo di Comiso, come il narratore, che ha al suo attivo un interessante studio su Tomasi di Lampedusa, pubblicato dalle edizioni Sellerio, qualche anno fa. La vita e il pensiero di Bufalino vengono tracciati con acutezza,mentre vengono messe in evidenza le tappe principali della sua affermazione, avvenuta in tempi relativamente recenti, ma che lo fa considerare tra le personalità più rimarchevoli della nostra epoca. Si tratta di un’intervista ideale, seguita da una sapida antologia, nella quale, in un suggestivo identikit, viene ricostruito il ritratto interiore dello scrittore. Zago ha consultato tutte le fonti, giungendo a focalizzare i vari nuclei attorno ai quali si dipana la vicenda esistenziale di Bufalino in una biografia che, gettando un occhio indiscreto, quasi in chiave psicanalitica, riesce a darci una misura dello scrittore, in un contesto ritrattistico e narrativo. L’analisi risulta estremamente lucida, mentre è molto originale nel suo svolgimento. L’esperienza artistica dello scrittore viene ripercorsa con discrezione e partecipazione mentre, oltre alla guida per la comprensione dei testi, il lavoro si configura come un importante contributo critico, denso di concetti. Forte di una sonda critica, antropologica e letteraria, lo studioso ci porta a considerare come lo snodarsi dell’attività di Bufalino abbia origine e motivazione in una improrogabile e incessante vocazione alla comunicazione letteraria, come luogo privilegiato dell’esprimersi. Pregio di questo volume è l’aver inquadrato l’esperienza artistica dello scrittore in continua interazione con le ragioni più profonde della sua autobiografia, sublimate e trasferite nella pagina scritta da una mente fra le più sofferte e le più creative del nostro tempo.

Emanuele Schembari

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 65-67.




 Quando l’ironia è la dimensione dell’anima 

Giorgia Stecher, Quale Nobel Bettina (Premessa di D. Bellezza), Il Vertice libri 

editrice, Palermo, 1986, pagg. 79. 

La colloquialità volutamente disadorna di Giorgia Stecher sembra nascere da impressioni casuali, il tono quasi di canzonatura nella scioltezza rapida del ritmo poetico, ma bastano pochi versi a darci il senso di un rigore mentale che ha le sue radici in una forma mentis delle più severe. 

Nulla di epidermico dunque in questo diario intimo che, forse proprio a causa della sua impietosa asciuttezza, scava fino alle radici dell’essere, sommuove emozioni memorie sentimentali che il piglio dissacrante non rende meno vivi e autentici. 

Il monologo della Stecher si dipana con una limpidezza e un nitore d’immagini quasi provocatori (una sorta d’intrepida sfida) che, a dispetto di chi non saprebbe mai approdarvi senza scadere nella più deprimente banalità, ci restituisce all’essenzialità crudele del vivere un giorno via l’altro, a una realtà spoglia di qualsiasi infingimento, dolente delle sue piaghe, specchio fedele della nostra esistenzialità difficile e amara a cui la Stecher presta sembianze ora desolate ora suadenti, nella suggestione di una narrazione fluida e serrata. Ma può accadere che la scorrevolezza del discorso si frantumi inaspettatamente con un secco e folgorante paradigma di parole, le più semplici all’apparenza, ed eccoci alla resa dei conti, squallide marionette che nessun filo regge e a cui nessuno suggerirà le battute. 

Senza parere dunque il poeta smantella le ragioni spesso risibili e meschine che si celano dietro ogni atto, ogni scelta, ogni umana piccola scelleratezza e lo fa con la forza irresistibile di un’ironia scintillante e nervosa, a cui il verso asciutto e scarno dà una quasi insostenibile evidenza. Sempre più di rado capita, in questa società fracassona e carnevalesca e con l’occhio sempre attento al botteghino, di trovarsi di fronte a una scrittura totalmente e sdegnosamente priva di allettamenti lessicali e di falsi scintillii, spietata nella sua disarmante nudità e perciò stesso carica di molteplici sensi, simile quindi a un gioiello raro che spicchi in una vetrina vuota. Una poesia insolita dunque che nel ritmo veloce e incalzante dà la misura di un itinerario mentale in cui i pensieri convergono nella loro schietta complessità dettando cifre, segni, suoni. C’è in questo straordinario tessuto narrativo (qui si raccontano i volti, i gesti, le voci, le strade, i muri, i corpi) un uso sapientissimo del verbo, mentre ben di rado la Stecher indulge all’aggettivo, quasi rifiutandovisi, con un effetto d’incredibile purezza linguistica al cui interno nulla vi è di superfluo, di lustro, di ozioso, neppure un sospetto di barocchismo poetico, neppure l’ombra di una coloritura romantica, nessuna concessione alla «bella immagine». Una poesia quindi che pur non ricorrendo ad alcun trucco intellettualistico e anzi proprio a causa della sua linearità lascia intravedere un complesso mondo di struggenti emozioni, di pensieri, di idee, di dolore. E lungo i percorsi di questa affascinante trama il poeta altro non è che un giocoliere elegante e raffinato che i fili del discorso recupera da remote distanze snodandoli e riannodandoli secondo geometrie sottili e ariose. La sua passionalità risentita, già trattenuta nella misura del verso: «Posso arrivare ad odiarti / se all’improvviso irrompi / nella mia solitudine… », si stempera nell’ironia (che, lo si è già detto, è il connotato di maggiore spicco della Stecher), in un’ironia di una qualità non sempre facile a definirsi, più vicina, spesso, a un’irrisione scanzonata o a una disperazione allegra (o allegria disperata?) piuttosto che a distaccata malinconia. 

C’è una sorta d’impetuosità nella cadenza spesso precipitosa del racconto poetico che procede – appunto – a perdifiato, adagiandosi a tratti in una musicalità dolcissima e commossa. Si legga, ad esempio, la splendida poesia dedicata alla madre, dal finale insospettatamente drammatico: «C’erano i maribù / nei miei giorni d’infanzia / voli bassi d’aigrette / e uccelli del paradiso favolosi», in cui sembrano aleggiare in una trasparenza d’acquario figure d’incantevole levità. Ma moltissime altre ve ne sarebbero da citare, nelle quali certe lampeggianti immagini ti colgono di sorpresa lasciandoti in uno stupore che è quasi stordimento: «mentre seduto in poltrona / guardi i cari parenti / cogli occhi tondi di chi / la mente tiene a parcheggio / in altri spiazzi». Qui la scelta tutt’altro che casuale di termini di uso spicciolo squarcia i veli dell’innocuità, mettendo a nudo scenari sotterranei, situazioni esistenziali note a chiunque, ma valle a dire in poesia anziché in un discorsetto volgare tra amici, senza trovarti intrappolato in forme e modi sciatti, insulsi e implausibili, specie se – appunto – non si ricorre ai rimedi ingegnosi del manipolatore di parole che crede di sistemare tutto con qualche bell’aggettivo ridondante messo al punto giusto. 

Ebbene la Stecher, con la sua «semplicità» svagata tanto da apparire casuale, illumina di bagliori incandescenti certi dettagli minimi. isolandoli in un cerchio di fiamma, con effetti a dir poco sorprendenti. Quanti altri poeti contemporanei, più o meno noti per le loro fumose acrobazie mentali, riuscirebbero a dare. magari in una sola immagine, in uno scorcio rapido, il senso dell’incombente crudeltà sottesa ad ogni evento o fatto insignificante, ad ogni più informe apparenza? 

Le poesie della Stecher, spoglie e deserte come un’alba fredda, riaccendono memorie, ridestano rimpianti e nostalgie e – strano, no? – c’inchiodano a un presente tanto più minaccioso quanto meno ne scorgiamo le insidie nel suo grigiore compatto e rassicurante. La crudeltà dunque, ci suggerisce il poeta, è nelle cose che ci guardano ferme mentre dentro di noi tutto crolla in schianti silenziosi. ma la vita continua, si capisce. anche se può accaderci di perdere qualche appuntamento: «Cosicché guardo gli altri / procedere spediti / e che bella mostra fanno / che grato tintinnio / tra il metallo cromato / nell’allegra foschia / del polverone!» 

Totale quindi è il suo disinganno di fronte al dissolversi di tutte le speranze, ma c’è come un sorriso di amaro divertimento sospeso tra rigo e rigo, quasi nulla avesse veramente importanza tranne il semplice fatto di vivere (o sopravvivere) tra mestizie e furori, disfatte e rivalse. 

Si vorrebbe aggiungere. a conclusione di queste note, che la singolarità e l’originalità di questa scrittura si trova persino nella scelta del titolo. Quale Nobel Bettina, che sottintende un lungo discorso e che si attanaglia mirabilmente, col suo sarcasmo gentile e desolato, allo stile di tutta la raccolta. 

Isabella Scalfaro 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 52-54.