Mazzolari e Teilhard de Chardin 

 S. Ravera*, Profeti a confronto. Don Primo Mazzolari e Padre Pierre Teilhard de Chardin, Genova, Marietti, 1991. 

Quando il 5 aprile 1959, don Primo Mazzolari cadde colpito dal malore che da lì a una settimana doveva stroncarlo, sul suo scrittoio ingombro di carte fu trovato aperto e glossato Le phérwmène humain, il testo postumo di Teilhard de Chardin, appena uscito nell’edizione francese.1 

Nel 1971, per i tipi della Locusta, don Silvio Ravera pubblicava Due profili. In quest’opera il combattivo sacerdote ligure accomunava, in un’ardita biografia parallela, il parroco di Bozzolo e il gesuita francese. A distanza di vent’anni, questo lavoro appassionato e appassionante è tornato in libreria per le edizioni Marietti con il titolo Profeti a confronto. E certamente gli estimatori dei due grandi campioni dell’ubbidienza cristiana avranno di che rallegrarsi: don Ravera, con uno stile piano e comprensibile anche ai “non addetti ai lavori”, non dà nulla per scontato e non scade mai nel banalmente agiografico. 

La parte riservata a Teilhard de Chardin pare un’agile introduzione al suo complesso pensiero scientifico. Scorrere queste pagine non prive di interessanti annotazioni biografiche è certamente utile per chi volesse cimentarsi con Le milieu divin, il già citato Phénomène humain e Le groupe zoologique humain. 

Non tutti saranno d’accordo con don Ravera quando vedranno S. Paolo nelle vesti di precursore intuitivo delle scoperte evoluzionistiche di Teilhard2. Pure, è proprio la parte che va da pagina 64 a pagina 70 che pare la più interessante. Qui don Ravera espone con disarmante sincerità e straordinario acume il proprio pensiero. Pensiero, da cui – come si è detto – si può dissentire, che segna però profondamente il lettore. 

Proprio parlando di Teilhard, don Ravera ha detto: .Prima di giudicare un individuo che parte da solide basi scientifiche, bisognerebbe avere almeno la sua preparazione-. Consapevoli di non avere la preparazione di don Ravera, ci asteniamo dall’analizzare oltre questa parte per passare al “pianeta Mazzolari”. 

Ravera, che da giovane sacerdote aveva conosciuto di persona don Mazzolari, tratteggia con mano esperta e delicata la vita inquieta e rigorosa del parroco di Bozzolo. Forse è proprio la tensione, il desiderio di esternare la forte personalità dell’amico che fa cadere don Ravera in alcuni errori di prospettiva. Addirittura in banali sviste; come quando attribuisce a Pio IX la frase riguardo all’ “uomo della provvidenza”. Per il papa che è morto cinque anni prima della nascita di Mussolini, sarebbe stato un bel caso di preveggenza. Tra l’altro, Pio XI – l’autore della frase incriminata – si è solo riferito a “un uomo che la provvidenza ci ha fatto incontrare”. Non è necessario essere molto addentro alle sottigliezze curiali per comprendere che tra le due espressioni c’è una profonda differenza. 

Ma, a parte sviste – attribuibili forse al solito printer’s devil -, anche il cenno alla perpetua ventiseienne che curava il nunzio Pacelli (futuro Pio XII) ci pare sfiorare l’allusione di dubbio gusto, certamente indegna di don Mazzolari e don Ravera. Forse, in occasione della nuova edizione, questo era un brano da cassare inesorabilmente. 

Anche riguardo ai dissapori con il cardinale Montin!, che tanto angustiarono don Mazzolari, don Ravera pare – contrariamente al suo carattere singolarmente reticente e allusivo. Dopo la prima pubblicazione di Due profili, molte penne si sono cimentate attorno a questo argomento, che, a distanza di anni, non pare ormai punto scabroso3. 

Monsignor Montini si sottoponeva al dovere di correggere coloro che erano affidati alle sue cure con una timida sincerità che poteva ben essere scambiata da un animo sensibile come quello di don Mazzolari per una “coriacea” freddezza4. 

Di don Milani si può pensare tutto e il contrario di tutto, ma non lo si può certo liquidare con la frase «…non sempre si mostrò equilibrato nella profetica denuncia dei mali della chiesa… Lo stesso Mazzolari… accenna (in una lettera inviatami nel febbraio del 1959 [a don Ravera, è ovvio]) ai limiti di questo sacerdote, per quanto riguarda appunto l’equilibrata valutazione delle situazioni.5 

Ma, tralasciando queste forzature umorali, quello che meno convince della fatica di don Ravera è l’ostinazione che vuole attribuire assoluto valore documentale a due romanzi di don Mazzolari: La pieve sull’argine e L’uomo di nessuno6. Tra le libertà ascrivibili a un autore c’è anche quella di inventare, in un contesto prettamente autobiografico, quello che ritiene più consono alla riuscita della sua opera. Se così non fosse si dovrebbe considerare don Mazzolari così immodesto da identificarsi totalmente in don Stefano Bolli (il sofferente protagonista dei due romanzi) che lui dipinge così “bello di fama e di sventura”7. 

Prendendo per vero tutto quanto è scritto nella Pieve sull’argine, si dovrebbe pensare che i genitori di don Mazzolari siano morti quando il sacerdote era in giovane età. Tra l’altro, nel romanzo non compare la madre premorta all’iniziarsi della vicenda. Nella verità storica la madre tanto amata di don Mazzolari sopravviverà al marito di alcuni anni, e spirerà nel 1948, poco prima che il Parroco di Bozzolo, ormai quasi sessantenne, iniziasse l’avventura di “Adesso”8. 

Addirittura, volendo seguire l’intenzione di attribuire estremo realismo alla Pieve sull’argine, si potrebbe pensare che un personaggio possa chiamarsi Berto a pago 135 e Cesco a pago 14()l91. Quindi, se l’elenco qui fatto è da attribuirsi all’assoluta libertà dell’autore, all’identica Ubertà creativa va ascritto l’intermezzo sentimentale tra don Stefano e Bellina. Almeno finché non si portano inconfondibili prove documentaU, cosa che don Ravera non fa. 

Vorremmo aggiungere a queste obiezioni anche un peccato di omissione. Don Ravera non accenna neppure all’intensa attività che don Mazzolari compì con coraggio e fermezza per la pacificazione degli animi, nell’immediato secondo dopoguerra. Anche le pagine di “Adesso”, “pupilla destra del suo occhio destro”, tanto per usare un’espressione di don Milani, furono impegnate per questo scopo10. E per questa meritevole opera non esitò ad avvalersi della penna appassionata dell’allora molto criticato Carlo Silvestri11. 

In fondo, questo è il don Mazzolari che preferiamo, l’uomo che aveva sofferto e che sapeva quello che gli storici caudatari dei vincitori amano ignorare, e cioè che “si è sporcato il fascismo e si è sporcata la resistenza: si sono sporcati i Tedeschi e si sono sporcati gli Americani, gli Inglesi. i Russi, i Francesi. Gli ‘immolati’ invece vestono di bianco, anche se la loro causa non è senza macchie”12. 

Gaetano Radice 

* Silvio Ravera (nato nel 1923 a Celle Ligure -SV-) expartigiano e sacerdote, è autore di diversi lavori letterari e scientifici, tra cui: Di là dal fiume, Mattutino, I due di Emmaus, Ruggine sulla vanga, Maria di Nazareth, ‘Che hobby, ragazzi”, Nelle tue mani, Dal fenomeno umano al fenomeno religioso, Dio si muove, Quale religione per il terzo millennio. Il suo primo libro, Di là dal fiume, che risale al 1956 e che narra la sua esperienza pastorale nella periferia industriale di Savona, “dove la molta miseria e le suggestioni politico-sociali (antireligiose) avevano larga presa”, è stato tradotto in francese e spagnolo. L’intensa attività pubblicistica non ha impedito a don Ravera di essere un apprezzato docente presso un prestigioso liceo savonese e in una scuola di ostetricia (dove insegnava oltre a Etica professionale anche Sociologia e Antropologia), uno sportivo praticante e un attivissimo donatore di sangue. Attualmente è parroco in un paese dell’entroterra ligure. 
l. Cfr. M. Maraviglia, Chiesa e storia in “Adesso”, Bologna, EDB, 1991, nota di pag. 39. Stranamente la studiosa fiorentina usa citare il libro di Tetlhard come Le fenomene humaine (sic). Da notare come l’episodio non fosse noto a don Ravera che, infatti, scrive: “Può sembrare strano che due uomini di tale statura […) non si siano conosciuti, almeno attraverso gli scritti”, Profeti a confronto, cit., pag. 12. 
2. In altre occasioni Ravera ha visto persino Cristo come anticipatore di Marx e Freud. Cfr. Dio si muove, Torino, Gribaudi ed., 1983, Pagg. 51-52. 
3. Cfr. L. Bedeschi, Obbedientissimo in Cristo… Lettere di don Primo Mazzolari al suo vescovo (1917-1959), Milano, Mondadori, 1974, pag. 252; A Bergamaschi, Presenza di Mazzolari, Bologna, EDB, 1986 (1969), n.155, pago 143; M. Maraviglia, op. cit., pag. 103. Sulle attestazioni di amicizia e stima di G. B. Montini nei confronti di don Mazzolati cfr. anche G. Colombo, Ricordando G. B. Montini arcivescovo e papa, Brescia. Istituto Paolo VI. Quaderno 8 (1989) e F. Molinati. La più bella avventura, Mezzo secolo di profezia, in “Jesus”, 6 (1984). 
4. Cfr. L. Bedeschi. op. cit., pag. 252 e A. Bergamaschi, op. cit., pag. 143. 
5. Certe perplessità sull’operato di don Milani don Mazzolari aveva avuto modo di esternarle già in un commento dal titolo “Una risposta che non persuade”. che accompagnava su “Adesso” uno scritto di un alunno di don Milani. Le iniziali C. M. nascondono con ogni verosimiglianza la paternità di don Mazzolari. Cfr. M. Maraviglia. op. cit. I dubbi riguardo all’istruzione come valore e mezzo di emancipazione morale sono forse dettati a don Mazzolari da tristi esperienze (cfr. P. Mazzolari. Quasi una vita. Lettere a Guido Astori, 1908-1958. Bologna, EDB. 1979, pago 79). L’episodio viene riportato quasi integralmente nel romanzo di don Mazzolari, La pieve sull’argine, Milano, I. P. L., 1952. 6. Ora, La pieve sull’argine e L’uomo di nessuno. Brescia, V. Gatti ed., 1966. Come si vede il primo romanzo fu scritto e pubblicato in un momento difficile per don Mazzolati, quando “Adesso” aveva subito una momentanea sospensione. L’uomo di nessuno fu pubblicato solo postumo. Evidentemente qualcosa non convinceva l’autore.
7. Indubbiamente non si può negare che Stefano Bolli sia una trasfigurazione di don Mazzolari. Tra l’altro con questo pseudonimo erano stati firmati diversi articoli su “Adesso”, e Bolli è il cognome da nubile della madre di don Mazzolari. Molto criticabile pare invece il voler imporre un’identificazione assoluta. 
8. Cfr. L. Bedeschi, L’ultima battaglia di don Mazzolari. “Adesso” 1949-1959, Brescia, Morcelliana, 1990, pag. 95. In una lettera datata Bozzolo, 20 dicembre 1948, don Mazzolari ringrazia don Bedeschi per un corsivo di condoglianze comparso sull'”Avvenire d’Italia”. Significative per l’affetto rispettoso paiono le parole: “Mamma Grazia era un dono troppo grande, un privilegio… Sit nomen Domini benedictum”. La signora Grazia Bolli, vedova Mazzolari, era spirata il 13 dicembre. “Adesso iniziò le pubblicazioni il 15 gennaio 1949. 
9. P. Mazzolari, La pieve sull’argine, op. cit. Si tratta di una svista, è ovvio. Una svista che è sopravvissuta ad almeno quattro edizioni e una ristampa. 
10. Cfr. Quando capiremo i morti finirà l’odio, in “Adesso”, I; ora anche in A. Bergamaschi, Presenza di Mazzolari, op. cit. 
11. È lecito pensare che l’articolo “Appuntamento agl’Italiani’, comparso sul primo numero di “Adesso” a firma di C. Silvestri fosse stato scritto, invece, da don Mazzolari. Cfr. Bedeschi, L’ultima battaglia di don Mazzolari, cit., pagg. 98 e 105. C. Silvestri (1882-1955), giornalista socialista, durante il ventennio fu antifascista indomito. Si riconciliò con Mussolini, ormai vinto, durante la Repubblica di Salò, per scopi puramente umanitari (alla sua attività si possono ascrivere numerosi salvataggi in extremis di noti antifascisti. L’ostracismo cadde però su di lui soprattutto a causa della sua appassionata e personale visione del delitto Matteotti. È interessante osservare come la critica storica più attenta si sia progressivamente accostata alle sue tesi. Cfr. le interviste contenute in “Storia Illustrata”, 336, novembre 1985. Inoltre, C. Silvestri, Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, Milano, Cavallotti, 1981; M. Matteotti, Quei vent’anni. Da1 fascismo all’Italia che cambia, Milano, Rusconi, 1985; F. Scalzo, Matteotti. L’altra verità, Roma, Savelli, 1985. 
12. Quando capiremo i morti finirà l’odio, in “Adesso”, cit.

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 61-65.




 L’uomo allo specchio

Marcello Veneziani, Processo all’Occidente, Sugarco Ed., Milano, 1990, pagg. 284 

Hegel scrisse, nella poco decifrabile Fenomenologia dello Spirito, che la Storia si era definitivamente arrestata nel 1806 a Jena. La vittoria delle armi napoleoniche sulle truppe prussiane, secondo il grande pensatore tedesco, aveva dato un irreversibile assetto al mondo. Pure nove anni dopo la battaglia di Waterloo rimetteva in movimento la Storia, smentendo l’affrettata profezia. 

Ora, quasi duecento anni dopo, un articolo pubblicato sul «National Interest» ha rimesso in auge l’idea che la Storia possa subire (anzi, che abbia già subito) un brusco, e questa volta definitivo, stop. Autore dell’articolo è Francis Fukuyama, già prestigioso ricercatore alla Rand Corporation, e adesso cervello pensante dell’amministrazione Bush. 

Naturalmente, il dottor Fukuyama non sostiene che tutti i conflitti sono scomparsi dalla faccia della terra: semplicemente osserva che con la caduta dei regimi dell’Est è sparita l’ultima antitesi ideologica «nell’ambito delle idee e delle coscienze» al liberalismo occidentale. 

A questa previsione si oppone il denso saggio di Marcello Veneziani che denuncia l’intima angoscia che gli suscita la prospettiva di assistere alla planetarizzazione dell’american way of life. E il verdetto a cui perviene il suo Processo all’Occidente è duro (e persino scontato): «…la società occidentale è caratterizzata da un gigantesco processo di alienazione. Alienazione come perdita della propria identità, alienazione come estraniazione dell’ambiente in cui vive e come degradazione dell!ecosistema in cui è inserito, alienazione come disintegrazione comunitaria e come spaesamento nel senso heideggeriano dell’espressione, alienazione come sfruttamento e dunque espropriazione del proprio lavoro, alienazione come mercificazione dell’uomo e in definitiva come riduzione dell’uomo da fine a mezzo». 

Per Veneziani «L’Occidente finisce di essere una terra, per divenire un tempo (la sottolineatura è dell’Autore, N.d.r.) senza confini spaziali, smisurato, consacrato solo al tempo e alle sue categorie: il processo, l’usura, l’obsolescenza, il potere temporale». Con Mircea Eliade, il giovane autore osserva che «l’uomo secolarizzato, si crede o si vuole ateo, areligioso, o almeno indifferente. Ma si sbaglia. Non è ancora riuscito ad abolire l’homo religiosus che è in lui: egli ha soppresso (se mai lo è stato) il christianus. / … / egli è rimasto ‘pagano’ senza saperlo». La perdita della comprensione dei valori religiosi «ha portato», come dice il compianto professor Del Noce nella prefazione, «alla conseguenza estrema il processo di alienazione. La scomparsa della religione con la reificazione dell’uomo. / … / l’eclissi della religione non ha prodotto la fine dell’alienazione, ma la sua estensione». La cacciata di Dio dal mondo ha dunque prodotto l’irruzione d’infiniti dèi gelosi. Secondo Veneziani: «Noi tributiamo sacrifici quotidiani di sangue ai nuovi dèi del Progresso, della Velocità, della Tecnica, del Godimento, della Vacanza, della Droga, degli Affari» (Le maiscuole sono dell’Autore, N.d.r.). Quindi, «l’Occidente», sostiene Veneziani, «vive nella dimensione ludica e angosciante di massa quel che Nietzsche visse nella dimensione tragica ed ebbra di una solitudine inelusa». 

La penna del giovane intellettuale pugliese non si limita a tratteggiare le cupe prospettive di un futuro/presente, ma delinea anche in un intenso capitolo lo strano fascino la sconfitta e i vinti esercitano, da Omero a Canetti, su alcuni tipi umani. L’ «insana» passione per la parte perdente non è solo l’inseguimento della «Giustizia, questa-, come scrisse Simone Weil, «eterna fuggitiva dal campo dei vincitori». È anche un modo per imprimere un moto ascendente alla realtà: «si fa la storia contraddicendola (la sottolineatura è ancora dell’Autore, N.d.r.) rimettendo in gioco ciò che pare acquisito, restituendo relatività e provvisorietà a ciò che pare definitivamente raggiunto e stabilito». 

Proprio in questo importante e intenso capitolo si contano alcune banali sviste: come attribuire a Epaminonda il sacrificio e la gloria delle Termopili, o armare il mitico Longino di una spada anziché di una lancia. Già che siamo in tema di errori: non si comprende perché Juan Donoso Cortés venga privato del legittimo accento acuto. L’errore risulta ancor più assurdo perché quando si tratta di Hernàn Cortés – il conquistatore dell’impero azteco, per intenderci – si ristabilisce l’esatta grafia. 

Ma, refusi a parte, quello che risulta meno convincente di tutto il documentato volume si palesa proprio quando Veneziani si decide a offrire delle alternative all’americanizzazione forzata. Le soluzioni (socialismo tri o multicolore, movimenti ambientalisti, reviviscenza dei localismi, ecc.) paiono proposte più per non sbarrare la porta alla speranza che per un’autentica convinzione. E, a confermarci che lo stesso Veneziani è ben consapevole di questo, possono bastarci alcune sue parole: «il risveglio delle etnie e delle appartenenze culturali-religiose non avviene con uno spontaneo rifiorire di sentimenti, pulsioni e valori originari, ma si presenta mediato culturalmente e in molti casi anche ideologicamente: così come, del resto, l’ecologismo non è tanto un’esplosione genuina, elementare, del bisogno di vivere secondo natura, ma esso stesso è il frutto di mediazioni e di sollecitazioni per analogia e per reazione, di tipo culturale, intellettuale e ideologico che nascono in seno della modernità». 

Concordiamo pienamente con Venezioni nel ritenere il «socialismo individualistico / .. ./ una contraddizione di termini», ma l’idea di «un socialismo spiritualistico e religioso» ci fa tornare alla mente le manie, non del tutto innocenti, dei sansimoniani Enfantin e Bazard. 

La parte che ci pare più coerente e costruttiva è quindi l’ultimo capitolo, interamente dedicato all’analisi dell’indubbio risveglio religioso degli ultimi anni. Veneziani pensa, anzi, che «ci sono fenomeni di persistenza (la sottolineatura è dell’Autore, N.d.r.) religiosa che non sono definibili sotto l’etichetta del risveglio perché in realtà non si sono mai assopiti». Si può quindi sperare di tornare da «una civiltà [che] si misura dalla capacità di attuare il dolore, agevolare il tempo, consentire l’autosufficiente solitudine e ritardare la morte [a] una civiltà alla luce del sacro [che] si misura dalla capacità di addomesticare la morte, il tempo, la solitudine e il dolore». 

Gaetano Radice

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 49-51.




 Il contro-dramma di Etty Hillesum 

Etty Hillesum, LETTERE 1942 – 1943 (trad. di C. Passanti), Milano, Adelphi, 1990. 

“Erano gli anni in cui in tutta l’Europa si rappresentava il dramma dello sterminio. Etty Hillesum era ebrea, e scrisse un contro-dramma.” Così scriveva felicemente nell’introduzione al Diario 1941 – 1943 di Etty Hillesum il professor Gaarlandt. E, adesso, con le Lettere 1942- 1943, un fondamentale nuovo atto è venuto ad aggiungersi al “contro-dramma”. 

Esther (Etty) Hillesum, nata a Middelburg il 15 gennaio del 1914, respirò fin dall’infanzia aria di alta cultura: suo padre era preside del Ginnasio Municipale di Deventer – ridente cittadina dell’Olanda orientale – e studioso di grande merito di lingue classiche. Il fratello maggiore di Etty, Mischa – bambino prodigio, che a sei anni suonava Beethoven in pubblico -, venne presto considerato come uno dei più promettenti pianisti d’Europa. Il più giovane dei fratelli Hillesum, Jaap, a diciasette anni aveva scoperto un nuovo tipo di vitamina, fatto questo che gli aprì l’accesso a tutti i laboratori di ricerca. 

Di tutta la famiglia, Etty appare la più eclettica, con interessi vari e addirittura tra loro discordanti. Brillante studentessa al liceo, con una forte propensione per gli studi letterari e filosofici, consegue regolarmente un’inutile laurea in giurisprudenza. Quando le truppe germaniche invadono l’Olanda, è alle prese con una seconda laurea in letterature e lingue slave. Ma non ha tralasciato, per questo, personali studi di psicologia, stimolata anche dalla relazione con lo “psicochirologo” Julius Spier1, e neppure nasconde l’aspirazione di potersi affermare come scrittrice. 

Davanti alle persecuzioni naziste che di giorno in giorno si fanno più feroci, per Etty si prospettano due alternative: o emigrare o nascondersi. Ambedue le soluzioni le sarebbero state possibili grazie ad amici influenti e fedeli. Ma lei sceglie ben altrimenti: come un Christus patiens, si consegna ai persecutori: e, allo scopo di essere d’aiuto ai suoi confratelli, si fa assegnare al campo di raccolta diWesterbork. 

E da questo campo, dove genti delle più varie estradizioni attendono il convoglio che le condurrà al loro tragico destino, escono le lettere che possiamo oggi leggere nella precisa traduzione di Chiara Passanti. 

Ed è proprio dalle parole scribacchiate in fretta nei luoghi e nei momenti più impensati e scomodi che emerge una figura di acuta pensatrice, con una forte e irrisolta propensione religiosa. Etty accetta di contemplare niccianamente l’abisso ma non di farsene inghiottire. O meglio, dal profondo dell’abisso in cui si è sprofondata riesce a contemplare vette immacolate di virtù ascetica. Riesce ancora a vedere “il sole brillare nelle pozzanghere melmose”: e arrecare sollievo agli altri con fantasiose storie attestanti una prossima liberazione. Rimane sino alla fine un “roseau pensant” capace di trovare nell’angoscia della partenza senza ritorno parole di conforto per i rimasti. Frasi piene di forza e addirittura banali, urbani ringraziamenti sono contenuti nel suo ultimo biglietto, gettato giù dal convoglio in partenza e fortunosamente pervenuto ai destinatari: “. . . apro la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto ricetto” /…/ Abbiamo lasciato il campo cantando /…/ Grazie per tutte le vostre buone cure”2. 

Eppure Etty non è stata esente dalla disperazione: “Ogni tanto mi viene voglia di preparare il mio zaino e di salire su uno di quei treni di deportati che vanno all’Est, ma una persona non deve cercare di rendersi la vita troppo facile”. E, tra l’altro, questa frase conferma la consapevolezza che Etty aveva del suo destino3. Ma da questa tentazione sapeva riemergere come “un ragno / che / lancia davanti a sé i fili principali”: Etty sapeva che “la strada principale della / sua / vita / era / tracciata per un lungo tratto davanti a / lei / e arriva / va / già in un altro mondo”. 

La riflessione (nota e banale, ma anche sostanzialmente vera) sulla considerazione che “la massa è un orribile mostro, i singoli fanno compassione” ci pare esemplificare la definitiva scelta di Etty. Infatti, costata in se stessa “che non esiste alcun nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro4. Questo amore del prossimo è come un ardore elementare che alimenta la vita5. Il prossimo in sé ha ben poco a che farci”. E nella stessa ottica va considerata un’altra sua espressione che sembra ricalcare certe dure formule evangeliche: “Sono sempre più convinta che l’amore per il prossimo, per qualsiasi creatura a somiglianza di Dio. debba stare più in alto dell’amore per i parenti”6. 

Ma questa intensa ricerca spirituale. e il desiderio di non sconvolgere i destinatari dei suoi scritti non attenuano le capacità di autentica scrittrice realista che sorregono la prosa della Hillesum. Certi stralci ci paiono degni persino del suo amato e studiato Dostoevskij. Come la vicenda di “quel ragazzo impaurito /che/ improvvisamente gli era toccato partire, aveva perso la testa ed era scappato. I suoi fratelli di razza erano stati costretti, a dargli la caccia”. O la descrizione indimenticabile di quella madre che, avendo perduto il figlioletto neonato. si offre come nutrice per il convoglio in partenza. 

E a Etty non sfuggono neppure le assurdità di quella condizione: come gli artisti di fama che ritardano la loro partenza con frenetici spettacoli davanti alle autorità del campo. Una frase captata per caso le basta per illuminare una situazione o un tipo psicologico: “Una voce dietro di me: ‘una volta avevamo un comandante che ci spediva a calci in Polonia, questo lo fa a sorrisi”. E non ci nasconde neppure le angosciose crudeltà che puòperpretare una vaga speranza di salvezza: “Come è possibile che l’ospedale lasci partire delle persone quasi morte?” – aveva chiesto il padre di Etty a un infermiere, e la risposta di quest’ultimo è raggelante e, nel contempo, logica e giustificabile: “L’ospedale consegna un cadavere per trattenere un vivo”. 

Dalla lettura di questo scarno libro non emerge, come nel caso di altri volumi epistolari, la sensazione di avere violato la privacy dell’autore; si ha piuttosto la netta impressione che una voce persa nel tempo, ma ancora vitale e valida, sia venuta a informarci, a incitarci, da tanto e tale dolore, addirittura a confortarci. 

E per questo dobbiamo ancora dare a Etty e a tanti come lei una risposta. Certamente non abbiamo compiuto questo suo proposito: “se non sapremo offrire al mondo impoverito / … / nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non basterà / .. ./ nuove conoscenze dovranno portare chiarezza oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena / … / e forse / … / la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti”. 

Gaetano Radice

l. Per “psicochirologia” si intcnde lo studio e la classificazione delle linee della mano. È lecito pensare che le uniche notizie su Spier reperibili in italiano siano quelle contenute nell’introduzione al Diario 1941 – 1943 di Etty Hillesum. Milano, Adelphi. 1985. Alla stessa opera si rimanda chi volesse ulteriori ragguagli su Etty e la sua famiglia.
2. Etty Hillesum morirà a Auschwitz il 30 novembre 1943. Anche i suoi genitori, e Mischa, periranno nello stesso campo. Jaap morirà durante il ritorno in Olanda. 
3. Consapevolezza che mancava ad altri deportati; per esempio, a Primo Levi. Cfr. Se questo è un uomo. Torino, Einaudi. 
4. “Superare Simone Weil” è un appunto trovato fra le carte di Ignazio Silone (Cfr. Darina Silone, Storia di un manoscritto, in Ignazio Silone, Severina, Milano, Mondadori). Un paragone tra le due pcnsatrici è certamente azzardato. Ma se lo scopo della vita è di non “mancare / la propria / morte” (Simone Weil, Ecrits de Londres et demières lettres, Gallimard. Collection Espoir, Paris, 1957), allora la sua vita l’ha certamente realizzata di più Etty Hillesum.E quale 
fonte d’ispirazione avrebbe costituito per lo scrittore abruzzese la vicenda spirituale c umana di Etty? 
5. “Nonostante la mia età, a dispetto dei miei mali, sento fortissimo il bisogno d’amare e di essere amato”, aveva scritto Giovanni Papini – evidente l’affinità di pensiero eon Etty Hillesum – negli infelicissimi suoi ultimi anni. 
6. “Perché sono venuto a separare l’uomo dal padre, la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera; e l’uomo avrà per nemici proprio quelli di casa sua” Mt, X, 35-36.

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 52-55




F. A. Giunta, Il posto delle pietre, Pescara, 1996.

Francesco Alberto Giunta ci avvince con un recentissimo romanzo, Il posto delle pietre, edizioni Tracce. Pescara, agosto 1996. Emblematica nella sua corposa nudità la copertina. olio su tela di umberto Verdirosi: nudità della pietra e dell’uomo sullo sfondo di un universo infinito. 

Già conoscevamo Giunta per i suoi precedenti romanzi: Viaggiando sulla strada (1985); Notizie da via Daniele (1988); A Lipari un giorno. Avvenne (1994) e per il volume di racconti Il respiro dell’uomo (1992). Colti e raffinati i suoi versi raccolti in Le parole sono cose (1984); Verso i Tatra (1985); Ballate e canzoni no (1988). 

-Se vuoi. lettore. leggere cose coerenti. .. connesse logicamente, che abbiano un principio, un mezzo, una fine … cercale dove vuoi, ma non qui, ammonisce l’Autore con le parole di Miguel Unamuno. 

E chi si accinge alla lettura de Il posto delle pietre deve accogliere in sé lo spirito del mistero, dell’avventura, la disponibilità dell’uomo al fremito degli eventi. l’accettazione della vita col suo volto mutevole fatto di luci e di ombre, di multiformi implicazioni psicologiche in una ricerca senza fine. Perché le strade del mondo sono infinite, e noi qui assistiamo a un intrigo multietnico. corale, costituito da un grumo di lingue, tradizioni, culture e soprattutto sentimenti feriti. 

Un soffuso dolore sembra essere il comune denominatore di creature destinate a vivere e a lottare per vivere; dolore ora esplicitamente confessato, a volte adombrato, persino taciuto. Un dolore che solo l’amore. o meglio la ricerca più o meno illusoria dell’amore può mitigare, rendere accettabile a livello della stirpe dell’uomo. 

Casimiro, Ornar. Hans-Felipe, Evaristo, Karin, sono sfaccettature di una umanità tormentata, nel cui baricentro palpita Chiara, la moglie, con la sua ansiosa attesa, i suoi dubbi, cedimenti e remore borghesi. 

Un filo invisibile lega l’onnipresente Chiara allo spettro di Karin, che alla fine prenderà voce nel romanzo solo per dire: io sono Karin, e attestante in tal modo la sua reale presenza. 

Il sottile giuoco dei sensi rende complici i quattro uomini tanto diversi fra loro, eppure tutti impegnati nel giuoco più alto della vita. E se HansFelipe infine scomparirà, determinando forse con la sua scomparsa la rottura dell’equilibrio fra Karin e Casimiro, non per questo resterà vivo nella mente proprio per quel suo incessante e doloroso pellegrinaggio alla ricerca della moglie perduta, viaggio parallelo a quello della dolce Chiara. 

Non s’intende svelare maggiormente la trama che si srotola fra colpi di scena e che deve essere colta con sospesa pazienza fra le pagine e i risvolti di un libro, che del mistero fa il suo punto di forza. Mistero che da una semplice avventura di viaggio si amplia al mistero della coppia, ai suggestivi richiami di un sesso per l’altro sesso, orfismo della passione amorosa, ai sotterranei segreti di popoli e civiltà, di religioni e folklore. 

E i paesaggi si diversificano come gli uomini, la vegetazioni, i suoni. Alla grigia atmosfera della città di Milano segue il paesaggio desertico e sconfinato dell’Africa, un’Africa così diversa da chi l’ha conosciuta anche per breve tempo: un nugolo di stelle nella voragine del cielo notturno. Ma certo l’Africa narrata ne Il posto delle pietre è più rispondente alla psicologia di Chiara, d’improvviso sradicata dalla famiglia, dalla coppia, dal proprio habitat, da ogni ancoraggio. 

Indubbiamente il paesaggio che con maggior vigore ti conquista per il fascino dell’antico che si rinnova è lo scenario di Taormina con l’ampio respiro su un mare fra i più splendidi per colore, brezza di vento, profumo, in cui il salmastro si annulla nei profondi anfratti della terra e nell’orgia floreale. A confronto di questo paesaggio che ha del miracoloso persino l’esotico lontano Giappone sembra attenuare il suo fascino di indubbia bellezza. 

È la linfa mediterranea che, come nei precedenti romanzi (in particolare in A Lipari un giorno avvenne), torna a scorrere limpida, con amore immutato, perché si può guardare con trasporto e sete di conoscenza ai paesi del mondo, ma il cuore e il corpo restano legati alla propria terra, alle radici più profonde che sono essenza di ragione e sentimento. 

E Giunta, pur nella sua totale apertura verso l’Europa e il mondo, è l’Ulisse delle Colonne d’Ercole, il figlio di un’isola che non si chiama Itaca ma Sicilia. 

Maria Racioppi

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg.41-42.




 Brama di palingenesi 

Rosa Barbieri, Testimonianze dal mare, Ed. Janua, Roma, 1988, pagg. 110. 

Arpeggiando un ideale contrappunto alla precedente raccolta (Dal fondo delle anfore, Pisa, 1984), Rosa Barbieri cerca ansiosa il ‘varco’ montaliano, la ‘maglia’ rotta nella rete per risalire, lei discesa nell’abisso pelagico, a interrogare la grande ‘immensa culla’ della vita, il mare, per rinascere purificata e rorida nel sole e nelle stelle, con quest’ultimo canto poematico: Testimonianze dal mare. 

Oltre i limiti della filosofia, sulle soglie della religione, con timore e tremore kierkegaardiano, si situa la poesia barbieriana, il cui movente giustificativo, squisitamente morale, è quello dantesco del ritrovamento della «diritta via» smarrita, della salvezza individuale e cosmica, attraverso la tragica prova dello sprofondamento e perdita dell’ego negli abissi oceanici ed ambigui della propria anima, attraverso le oscurità angosciose della notte di S. Giovanni della Croce, o l’allucinante visione della ‘waste land’ eliotiana o del deserto beckettiano. 

«I poeti. dice la nostra poetessa in una nota autobiografica, «sono pescatori di luci profonde, convergenti tra reale e immaginario, tra il terrestre e il cosmico». È l’eterno appello ai valori dell’interiorità dello spirito: in te ipsum redi che però in Rosa Barbieri diventa anche (e di qui l’angoscia assillante) la «discesa degli inferi» baudeleriana, la discesa verso gli anditi più torbidi e oscuri della nostra coscienza, e la conseguente inorridita constatazione sia del fascino dell’angelo come dell’attrazione verso il satanico che pure è dentro di noi. Questa prima ‘fase, l’immersione nell’abisso, è la conditio sine qua non per intraprendere l’itinerario mistico verso il Verum-Bonum: solo ripiegandosi su di sé, dopo aver fatto il vuoto e il silenzio più assoluto riconoscendo umilmente la propria nullità e la vanità del tutto, l’anima sarà in grado di auscultare il battito eterno del cuore di Dio. Solo così «il naufragar» sarà dolce «in questo mare» della misericordia divina, l’inquetudine agostiniana riposerà pacata. Ma il rischio e lo scacco heideggerriano e jaspersiano sono sempre in agguato, in questa fase di introspezione radicale, se appena Euridice «scompare a l’ingordo volere», se Dio cioè scandalosamente tace e si onubila alla vista e al cuore dell’anima smarrita. L’in te ipsum redi paradossalmente si capovolge appunto in un tuffo disperato nella voragine infernale, baudeleriana, appunto dove non si ascolta il battito del cuore misericordioso e pacificatore di Dio, ma «il lamento dell’anima», la sua angoscia, il suo smarrimento in un cosmo effimero ed assurdo. 

In questa atmosfera drammatica squassata dai venti del nichilismo e del materialismo contemporaneo, Rosa Barbieri, aggrappata al suo ponte tibetano di corde, sospeso nel precipizio, si dibatte per salvarsi, implorando ali alla poesia per spiccare il volo verso il suo sole, il cielo. 

E la poesia, pietosa, accoglie il grido e la Donna s’impiuma e si fa aquila, si fa Pegaso scalpitante tra le galassie, lasciandosi dietro, perduto, il pensiero che non riesce più a tener dietro a quella corsa sfrenata di immagini galoppanti, accavallandosi nel turbine incandescente dell’immaginazione priva di corrispettivi nel linguaggio ordinario: la scrittura si fa ardua, allucinata, automatica .difficile da ricondurre nell’alveo minimo di una logica». In tale stato di trance forse il poeta gioca la sua partita più pericolosa: un invisibile filo rosso divide il bene dal male, il vero dal falso, la vita dalla morte: «Alle vergini folli i fiori del male / danzano sul petto con vaghezza di morte». 

Il carattere orfico è evidente in molti passi della poesia di Rosa Barbieri, echi di parole proferite da una Sibilla, parole bisognose di una lettura e di un ascolto attentissimo. La grande fascinosità di questo personalissimo linguaggio assurge a profezia nel suo flusso lavico e incandescente di immagini catartiche e purificatrici. Bisogno di un varco di salvezza, in questo nostro mondo tecnologico – consumistico «dove i numeri inalterabili ruotano combinazioni / alleandosi alla morte»; un mondo votato, come pare all’autodistruzione: «Dicono che non rimarrà / più nulla di tutto questo, ogni pagina / ogni parola data al rogo, al massimo / impigliato in qualche metro di nastro». Un mondo nelle mani di empi «orologiai genetici» di «laccatissimi robot.» la cui sola religiosità è il potere, la violenza, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Un mondo, ancora spietatamente additato alla gogna dalla Nostra, in cui regna il maligno, annidato come un «serpente-drago» nelle voragini dello spirito umano, e che ha paurosamente trasformato l’uomo in un diabolico Caronte «con occhi di brace» a solcare «le distese astronomiche e marine» per snidare e dissacrare la santità dell’Essere universale. 

Ma l’uomo, creatura di Dio, non può non deve morire proprio perché siamo all’epilogo, all’ultimo atto della battaglia dell’anticristo, in cui «il diavolo furoreggia / nella sua esperienza di spazio», fiancheggiato da coloro che si «alternano al comando», unici detentori del codice per interpretare «le formule anagrammate ambiguamente». Toccato il fondo dell’abiezione e della disperazione, con timore e tremore, l’uomo intenerisce il cuore di Dio ed attende «gabbiano imbrattato nella neve» una parola di salvezza, una nuova novella, un nuovo Gabriele. 

E la Parola è venuta ed eternamente corre nel vento; la Parola che saprà far «partorire il seme d’oro» dopo che la carne si sarà straziata e macerata, perché sbocci una coscienza nuova, pura, e l’uomo sia di nuovo libero «con larghe mani» per riabbracciare il mondo. La Parola per cui tutto è stato fatto e per cui si rifonderanno cieli nuovi e terre nuove e per cui ancora «radici lontane rifluirà / il ramo cilestrino che sovverte il gioco». La Parola che ancora dice «Lasciate che i pargoli vengano a me», ecco, un pargolo, il suo bambino, è stato prematuramente chiamato, sacrificio richiesto nell’attraversamento del deserto. Quale «creta dolcissima premuta / alla violenza dell’esistere», il diletto figlio vive ora nel mistero dell’Universo «dalle grandi sciagure, dalle grandi meraviglie», e che ci nasconde un segreto e una gioia inimmaginabili, che ci prepara una «gioia più grande» e più vera, secondo l’intuizione manzoniana. La madre ora sa che egli è nel seno di Euridice, nell’immensa luce dell’Amor «che move il Sole e l’altre stelle», ed al figlio, ora lei, sovvertendo il gioco, chiede la mano perché non possa perdersi per raggiungerlo. In quell’istante supremo, dopo avere posto lo sguardo pietoso sulle maniglie delle porte e delle finestre, sullo specchio, tolte tutte le prese di corrente, ancora e sempre «il glicine [la poesia) rifiorirà lungo l’arco dei secoli per la fatica di tenere desta la memoria». Così, abbandonata ogni cosa di questa società in cui gli uomini, come in un «teatro rabbioso», sono giocolieri disperati «amputati dell’anima», e fatto il deserto interiore, la nave prenderà il largo verso il mare aperto ed infinito dell’Essere, unico e salvifico porto. 

È in questa seconda fase, la ‘pars construens’, che più ci piace cogliere la poesia di Rosa Barbieri; una fase in cui il ‘raptus’ si placa, l’allucinazione si fa sogno dolcissimo in dormiveglia, la parola si ricompone, il pensiero controlla e addolcisce lo spasimo di trance, le schegge e i frantumi delle sillabe si ricoaugulano e le immagini, parossisticamente inseguentesi, illimpidiscono unificandosi. Ed è in questa misura ritrovata di equilibrio olimpico che si scioglie il canto soavissimo di questa Sirena nell’ultima parte di Testimonianze dal mare, e cioè ne Il Veggente e la Cosa, all’unisono col canto dell’Universo di Pierre Tenhard de Chardin. Il varco della salvezza è trovato, la nave segue sicura la rotta illuminata dal faro dell’Oriente; l’uomo, che aveva dimenticato «l’ebbrezza delle stelle e il tocco della Pasqua», può ritrovare l’Eldorado perduto, accogliendo la «pepita d’oro dell’annuncio» ai piedi della radice di Jesse; «l’umanità intera sboccia dal focolaio del Giusto». 

Deluso dalla ‘sfinge’ della ragione che sempre si affatica a riordinare «spezzoni di epitaffi» per spiegare tutte «le possibili facce della Cosa», senza pervenire a nulla se non a riconoscere il proprio scacco, accettato lo scandalo di un Dio che ama la vita nel «Figlio dolente», che riscatta il dolore dell’uomo e del cosmo attraverso il corpo straziato di Cristo «tra le braccia giganti del Sole» (il Padre), l’uomo finalmente rinuncia alle ambizioni luciferine e si abbandona fiducioso al respiro incessante della Cosa, confidando che il risucchio della sua anima nel gorgo eterno dello Spirito genererà una nuova creatura, un nuovo parto di cui già avvertiamo le doglie nella tensione cosmica; l’anelito accorato della fine e del ritorno alla casa della Gerusalemme celeste. 

Come tra i primi cristiani, nell’attesa della Parusia, si leverà il grido: «Vieni, Signore Gesù», dopo aver accettato di morire nel solco come il chicco di grano; perché questa è la legge eterna del divenire, la sola che permetta di risalire à rébours, ricongiungendo la morte con la vita nel «miracolo del capovolgimento»: «Tutte le cose lo sanno / e dolcemente chinano il capo in attesa / che si colmi il limite doloroso» per una nuova e vergine mutazione. 

Filippo Pirro

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 52-55.




Tra impegno e sentimento 

 Antonino Contiliano, Gli albedi del sole (Pref. di V. Titone), Ila-Palma, Palermo 

– Sao Paulo, 1988, pagg. 125. 

Antonino Contiliano, professore di pedagogia e filosofo, con Gli albedi del sole, alla terza raccolta di poesie, entra nel clou della sua produzione distanziandosi dalle poetiche ricorrenti e immergendosi in un mondo nuovo, attuale, proiettato in un cosmo scientifico di pulsar di galassie, di sinkers che tra le stesse galassie viaggiano e si intersecano, partendo sempre, però, dal reale, dai sentimenti, dagli ambiti familiari, anche. 

E a un lettore superficiale potrebbero sembrare non pertinenti alle tematiche di questo libro (per chi scrive, Gli albedi del sole tende a sviluppare delle tematiche) i voli pindarici e ricchi di pathos di un poeta che rifugge dai luoghi comuni, che tende ad andare controcorrente, che rifugge pure dall’accademismo per servirsi della parola come contrappunto ad una situazione esistenziale che talvolta sembra voler sfuggire di mano ma che, a ben indagare, si dimostra del tutto spontanea, non costruita, anche se il linguaggio, come dicevamo prima, è spesso nuovo di zecca. 

Ma gli amori, i disamori, le passioni, le paure, la rabbia contro questo nostro pazzo mondo sono sempre gli stessi, e il sociale e il politico predominano nel contesto dei temi trattati. 

Vi sono in queste pagine delusioni e speranze, maledizioni e benedizioni, tutto quanto si agita nell’anima generosa del Poeta che, pur vivendo la sua vita di lavoro e di affetti familiari, è maledettamente coinvolto negli ingranaggi del vivere giornaliero, che spesso ci riserva atroci delusioni, lacerazioni che l’amore non riesce a suturare. 

Se Contiliano colloquia con il figlio Michele, vita della sua vita, non può estranearsi dalle miserie incombenti; se parla con gli amici è sempre un martellare 

di ricordi non lieti, di giorni consumati in attesa di «un’estate che tarda a venire», di avvenimenti drammatici che hanno bagnato e bagnano spesso di sangue innocente la nostra terra, di amarezze per la perdita di amici cari. Chi di noi non ha sofferto per la morte immatura dell’amico poeta Rolando Certa? E Contiliano a Rolando dedica una delle più belle liriche del libro: «Amico mio non aspettarti robìnia di singhiozzi / anche se in gola ricaccio pugni nodi di tenerezza/… io e mio figlio abbiamo deciso di catturare il sole/dove tu ora navighi viaggiatore della speranza Sud» (pag. 37). 

E come prendendo l’abbrivo dalla parola Sud, il Poeta si lancia in alcune righe apparentemente oleografiche che sono tanto delicate da farci venire la voglia di riportarle. Dice Contiliano: «…qui al Sud nelle notti ballate d’estate/non si sta sotto i pergolati racconti di terra/sull’argento lunare uliveti ascolto di grilli». E ancora: «Perché qui al Sud non distendere la giovinezza / posarla nuda sui bagliori adorarla di baci…» (pag. 42). 

E poi, come un controcanto dolente: «Scannate/sul mixage di trasversali confessioni/desaparecidos lupara bianca / le zagare d’inverno (s)memoriano/ questa gente lavata al sole dell’isola» (pag. 44). E le parole pietre, anzi pugnali in ‘Per l’agguato di Trapani’, quell’agguato per il quale tutti sono inorriditi per le vie distrutte di una madre e di due bimbi innocenti. Dice Contiliano: «Non conosco né perdono né pianto né sonno / sui tessuti sgranati dal sangue mafioso a congegno / sparsi lì a disegnare le geometrie del terrore / e i percorsi-agguato sulla strada della gente» (pag. 47). E a mano a mano si snodano le accuse contro le tra- sgressioni, contro l’apartheid («dagli steccati la negritudine apartheid/ scandaglia il fondo dell’isola black-out»), contro la guerra, contro i missili nella consapevolezza del day-after è «giorno senza costellazione», «notte senza concerto») al quale nessuno può sfuggire, e per il quale è vano il dire e il fare, lo scrivere dell’«uomo di tempo», «fiancheggiatore o terrorista o inquieta coscienza», capace solo di «…prove d’artista sempre / col fucile e la parola che ne denuda le pieghe…» (pag. 66). 

E con quanto detto siamo entrati nel clou di questa poesia quasi farneticante, scritta per impulsi psicologici elevati a potenza e che, a causa della forte tensione emotiva, stenta a rientrare nei limiti della comprensione per i non addetti ai lavori. 

Chi scrive crede di aver capito quanto si agita nel conscio e nell’inconscio del poeta Contiliano, delle sue profonde emozioni di fronte a realtà e anche a fantasie legate alla stessa realtà per evasioni non progettualizzate ma sulle quali ha inciso la forza motrice del cuore e dell’intelletto. 

Tuttavia, se ci avviciniamo alla seconda parte del libro (da pagina 79 in poi, diciamo) ci sembra che il discorso si faccia più sereno, si nutra di affetti familiari (Mariangela, Micol, Michele in primo piano) rientri nell’alveo delle emozioni private. 

Bella, proprio bella la lirica Per una solitudine, nella quale le parole non sono più pietre ma suoni di violini, vibrare di farfalle: e giù, giù, fino alle pagine seguenti che ci pare segnino un’altra fase della vita del Poeta, una fase più serena, più permeata di sentimenti teneri nei quali sempre più di rado tornano parole come Comiso e Cernobyl. Le parole ora s’incentrano negli amori terreni: «la tua voce volo di rondine / notturna il ritorno della primavera / … / Gelsomini seguono ad agosto / quando mani di vento a sera / cullano la sete di scirocco…» (pag. 106). E la chiave di tutto ci sembra averla trovata ne Il viaggio dell’istante. quando una strofa recita così: 

«L’altro ieri violenza di anni troppo inquieti 
raccogliemmo sospetti l’accoglienza degli opposti 
e la testa fra le mani piegata dall’assurdo 
sullo schermo vedemmo una giostra echi luminosi» (pag. 114). 
Sofferenze vissute che oggi si ricompongono dentro il pianeta-uomo Contiliano 
in questa sua recente raccolta di poesie Gli albedi del sole. 

Irene Marusso 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 59-61.




 “L’UTOPIA DI HANNAH ARENDT” 

L’ultima raccolta di poesie di Nino Contiliano 

Prendendo lo spunto dall’utopia di Hélllilah Arendt, così come riportato nel titolo del libro, questa nuova raccolta di Antonino Contiliano ci dà per certo la sua abilità di poeta dal non comune, del difficile, potremmo dire. Del difficile, insistiamo, perché questo è un libro per addetti ai lavori e non per coloro che tornano a ripetersi “l’albero a cui tendevi la pargoletta mano” del buon -leone Carducci. E anche se l’oculata presentazione del critico Domenico Cara può aiutare ad introdurre alla lettura, sono tante le sinestesie, le allitterazioni (vanire vivere venire- assenza assente), le diserzioni verso un linguaggio scientifico, materico, matematico, verso le citazioni in lingue vive e morte, che bisogna impegnarsi, e di buzzo buono, per enucleare da questa preziosa raccolta di versi il succo di una sensibilità spinta talmente al parossismo da sembrare spesso farneticamente, demenziale. 

Il transfert dall’utopia della Arendt avviene, diciamo, per una corrispondenza d’amorosi sensi. Contiliano è un “idealista”, un uomo spinto per sua natura verso una utopia sociale nella quale purtroppo non si ritrova per le contingenze della vita odierna. 

Un poeta, e un poeta come Contiliano non è influenzabile da sollecitazioni esterne, ma in esso scopre il tutto di sé, quel che gli preme dentro e che quasi lo soffoca se vi pone mente. E allo stupore delle scoperte si accompagna tutta una serie di excursus negli avvenimenti apparentemente esterni ma che hanno lasciato e lasciano tracce profonde, coaguli di dolore nella sensibile psiche. 

Ora, anche se nei precedenti libri di poesia di Contiliano c’erano già i prodromi di questo exploit poetico-narrativo, diario dei giorni nostri, oggi ci troviamo fra le mani una vera scatola a sorpresa dalla quale saltano fuori tutti i marchingegni di cui dispone il formato vocabolario del nostro amico, il quale vive, sì, nel suo tempo, ma anche al di là di questo tempo, in un cosmo tutto suo e tutto involuto nel quale dolorosamente si muove come il feto nel suo liquido amniotico, ansiosamente aspettando la sua proiezione alla luce, verso quella utopia che è poi l’utopia di tanti altri come lui che vivono e soffrono nello stesso tempo. 

L’aggancio alla Arendt ci sembra come una specie di ancora lanciata alla ricerca di un appiglio, un grido che attende la sua eco, una speranza per scansare i buchi neri: quelli dell’anima, s’intende. 

E così Contiliano sembra annaspare sempre fra quelle sabbie mobili che sono le catene dalle quali vorrebbe districare se stesso e il mondo circostante nel quale sono rimasti pure invischiati i ragazzi di Tian An Men, e quegli altri “stormi di rossi ragazzi” e quegli altri ancora figli del Sud del Nord dell’Ovest dell’Est “e tutti i morti della violenza geostorica” per i quali “la guerra non è più la guerra mercante / inutile feroce indicibile l’es / ma tempo-noviola di possibili pentagrammi / gioco di arazzi mondi fiamminghi sparati”. 

Un delirio nel quale le sabbie mobili vorrebbero avere ragione della sofferenza del Poeta, mentre la vita “castra anche le ali di Pegaso”. 

Un delirio che è rabbia per l’incenerimento delle speranze, per la terribile constatazione che la vita-sogno di Calderon è fuggita dall’esistenza degli uomini di oggi, si è fatta fantasma veramente inseguito con affanno “nel cuore che naviglia astrografie d’insonnia” mentre “senza riposo cerchiamo un traguardo atteso”. 

E, allora, non è un voler morire, un voler rinunciare a quel filo di speranza che sonnecchia al fondo di ogni creatura umana. Contiliano, con questa sofferta raccolta di versi che ha coinvolti nel magma del dolore, ma non per ciò tende a precluderei un desiderio di resurrezione. 

Irene Marusso

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 77-78.




Giovanni Altamore, HYBRIS E FOLLIA NELLA STORIA DELL’OCCIDENTE, Caltanissetta, Terzo Millennio, 2004, pagg. 208. 

 È stato pubblicato, per i tipi di Terzo Millennio Editore, un saggio di Giovanni Altimore dal titolo: Hybris e follia nella storia dell’Occidente, con presentazione di Piero Barcellona, pensato e iniziato nel settembre del 2001, quando quel tragico giorno Il furono attaccate e distrutte le Torri gemelle di New York. Ma l’analisi che viene fatta prescinde dagli eventi che dal quel giorno si susseguono, anzi ne costituiscono la netta conferma, come lo stesso autore avverte nella postfazione. 

Già dall’ Introduzione, l’Autore parte da un dato di fatto: a prescindere se l’Occidente è, o ancora non, al suo tramonto, è finito il tempo di imporre e di imporsi. Se non si vuole il peggio, è tempo di cooperare e di ristabilire un equilibrio mondiale capace di garantire democrazia, libertà ed uguaglianza tra tutti i popoli, senza alcuna discriminazione tra quelli ricchi e i poveri, tra il Nord e il Sud del mondo, al momento, costretto a subire ingerenze e angherìe. La globalizzazione del mercato ha acuito ancor più il divario esistente, e più forte è l’esigenza di una giustizia distributiva che dia agli uomini pari dignità. Questo facilita « l’affermarsi di uno spirito comunitario di appartenenza … che, in alcuni paesi, sta alimentando tendenze fondamentaliste, foriere di violenze e di guerre» . 

Per evitare il peggio, occorre bloccare queste tendenze, dare un corso nuovo alla storia che non sia quello della violenza e della tracotanza, della superbia del più forte, il quale prepotentemente s’impone; cioè, dire fine alla storia che caratterizzò fin dalla sua nascita l’Occidente. È quello che l’Autore fa emergere dalla rivisitazione della filosofia e della storia dell’ antica Grecia. 

La I parte del libro evidenzia l’affermarsi della ci viltà orientale, in contrapposizione a quella orientale, e l’emergere di un nuovo modo di concepire lo Stato, ormai non più rapporto armonico di cittadini liberi, ma come potenza che s’impone, spesso per l’interesse dei pochi, sugli altri. È sempre qui il pericolo, e lo previde Eschilo, ma non sarà ascoltato, perché «è legge di natura che “i più forti esercitano il potere e i più deboli si devono adattare” e che “chi può ricorrere alla violenza, non ha bisogno di ricorrere alla giustizia”» . 

La realtà è che il più forte detta leggi, e questa è giustizia, nel cui nome opera e s’ impone, e pretende di essere seguito, perché, qualunque sia, il detentore del potere ha bisogno di consenso. Lo dimostra l’attuale situazione internazionale. Bush, benché abbia un potente apparato militare, cerca alleati, ma non tanto per essere aiutato nelle sue azioni di guerra, quanto per essere sostenuto e avere quanto più consenso per potere con più tracotanza estendere il suo impero. Anche nel nome della democrazia e della libertà. E in nome di Dio, aggiungiamo, parafrasando M. Cacciari, laddove scrive – il riferimento è all’America – che «Unico Dio è quello che in essa abita e che essa ha scelto per la propria autentica rivelazione» . 

Giustizia, equità, libertà, democrazia, sono le categorie che vengono argomentate nella II e III parte del libro, e vengono meglio a completare, anzi a sviluppare, il discorso iniziale. Grazie ad uno stile abbastanza chiaro e lineare, la lettura risulta avvincente, oltre che interessante, anche per chi non ha mai studiato filosofia. E questo è un pregio che persino i lettori più sprovveduti devono riconoscere. Ciò perché Giovanni Altamore segue con molto interesse ed attenzione le umane vicende e le partecipa con la sua stessa intensità di sentire agli altri. 

In tutto questo argomentare si coglie, comunque, una delusione che non è solo dell’autore, ma di quanti seguono con attenzione i fatti attuali. L’uomo, che nel corso dei secoli si è adoperato per coronare il sogno di uguaglianza, di democrazia e di libertà, con l’avvento della modernità tecnologica e globalizzante vede sminuite le sue conquiste, passando da uomo-cittadino ad uomo-massa; cioè, se nel tempo era riuscito ad esprimere se stesso come individuo, adesso sono i pochi detentori di potere ad esprimersi per lui. In sostanza, l’uomo-individuo serve nel momento di dare il consenso, poi basta; sono gli altri ad ergersi al di sopra delle leggi e ad esprimere la loro volontà. Ne deriva che qualsiasi categoria sopraccitata viene spogliata del suo significato originario (il diritto, ad esempio, o la giustizia, o la stessa costituzione), e l’uomo viene ad usufruire di una pseudo-libertà, continuamente in contrasto, ogniqualvolta cerca di ripristinare la sua dignità. 

Altamore termina il suo saggio con una espressione di M. Cacciari: «Non sappiamo dove andare, dove il Dio comanda di porre le nuove sedi. Ma il contraccolpo alla storia europea è stato dato» . Ma Dio ha lasciato l’uomo libero, e se il suo scopo è perseguire il bene, non gli resta che riprendersi il consenso dato e utilizzarlo per ricostruire un mondo a sua misura, in cui possa veramente manifestare il suo essere ed espletarlo nel migliore dei modi. Sarebbe ancor più deludente piangere la caduta, se non ci fosse la volontà di rialzarsi e di rifarsi una vita degna di essere vissuta. 

Salvo Marotta




 10 anni di militanza poetica 

I Tizzoniani nella vita e nell’arte (a cura di A. Arcifa), suppl. de «Il Tizzone», Rieti, A. X, n. l, marzo 1989. 

Vorrei mettere tra le mani di tutti quelli che sono interessati alla poesia, non alla paludata poesia dei poeti «laureati» ma alla poesia che scaturisce in mille fonti nel nostro Paese, questa antologia dei collaboratori di «IL TIZZONE» di Rieti, pubblicata nel decennale della Rivista. 

Vorrei vederli a contatto con gli autori che il curatore, Alfio Arcifa, con immensa pazienza e attenzione ci presenta, ad uno ad uno, fornendoci la data di nascita,1’indirizzo e una breve bibliografia: spesso, e opportunamente, le brevi, telegrafiche annotazioni critiche sono tratte dalle stesse autopresentazioni degli autori. 

Il curatore è pienamente consapevole delle difficoltà che oggettivamente scaturiscono nel costruire un volume in cui sono «raggruppati, in rigoroso ordine alfabetico per autore, scritti di vario genere e di varia natura, dalla poesia alla prosa d’arte, dalla novella o racconto al saggio critico, dall’articolo di informazione alla cronaca; ognuno, insomma, che ha voluto figurare in questo volume è presente con qualcosa di proprio…» (dalla Presentazione p. 7). Ed aggiunge, a doveroso chiarimento ed indirizzo del lettore: «Non è nemmeno un’antologia, anche se di questa ha le caratteristiche formali, ma una miscellanea d’idee e di sentimenti, d’impegni e di spirituali intenti, di cose viste e fantasticate, di sogni e di intuizioni, di punti di vista e di osservazioni, di critiche e di scrupolose verità… ». 

Proprio perché «non è nemmeno un’antologia», mi sento di raccomandarne la lettura. La freschezza, la sincerità, le ingenuità a volte di queste autopresentazioni sono disarmanti e coinvolgenti ad un tempo. Le note che introducono i vari autori ci offrono uno spaccato interessantissimo delle scelte di vita di questi scrittori e fanno di questa «antologia. non solo un prezioso luogo di esperienze di lettura ma anche un documento fondamentale per elaborare un primo abbozzo di una indagine sugli «individui poetanti». 

Sono convinto che vale la pena richiamare, per frammenti, questo lampeggiare di critica e autocritica ed esperienze di vita nello scorrere degli autori, dei versi e delle pagine. Vado solo per accenni, lasciando ai lettori del volume di completare, se lor piace, l’opera. 

Le notazioni critiche che introducono ogni autore tendono ad individuare i caratteri essenziali, sottolineando a volte la giovinezza e l’esperienza breve, a volte la lunga militanza nel campo della scrittura e degli interventi culturali. 

Leggiamo così, ad esempio: «è poetessa d’istinto»; «donna di squisita sensibilità e di spontaneo istinto»; «coltiva la passione della poesia»; «coltiva (la poesia) con l’istintiva passione di chi ne è fortemente preso»; «la sua aspirazione deriva da moti e da sensazioni istintuali, da vibrazioni interiori profonde…»; «è poetessa di chiaro, fresco e spontaneo intuito, dalle schiette e suadenti immagini di breve e romantica fattura»; «da qualche tempo è stato preso dal divino fuoco della poesia ed ha cominciato a produrre i suoi spontanei versi». 

Qualcuno è molto più preciso e deciso. Un giovane ventiduenne, nativo di Siena «perito in telecomunicazioni, professa l’arte e fa il pizzaiolo», dice di sé: «…un tentativo impossibile: descrivere attraverso le parole un mondo invisibile, inconcepibile alla mente e quindi intraducibile per mezzo di vocali e consonanti. Esprimere l’inesprimibile. Cercare di fare ciò che non si può fare in nessun modo». 

Qualche altra ci stupisce, con i suoi risultati da Guiness dei primati: «Direttrice di scuola, diplomata in pianoforte… inizia la sua attività nel 1984… in soli 4 anni ha ottenuto ben 280 premi, di cui 30 premi assoluti». Ci gira quasi la testa a pensare a questa media indiavolata di un premio ogni cinque giorni e sette ore, circa. 

Abbiamo anche il «forbito conferenziere e fondatore del dimensionismo» e il «docente universitario specializzato in farmacia industriale» e il «dirigente di una grande Azienda Commerciale Nazionale. per il quale «La poesia è stata il suo amore segreto fin da ragazzo» e il tizio che si interessa di estetica e di oscologia e che pubblica il suo «Decalogo dell’estetica per valori» di cui, tanto per solleticare i palati di chi mi sta leggendo, cito il punto 3: «Per il problema estetico bisogna anche avere una larga conoscenza della problematica della ricerca della fenomenologia della conoscenza storica dell’essere». Non vorrei trascurare la «pluriaccademica», nata nel 1903 e residente a Napoli, che «ha speso tutta una vita per la famiglia, l’insegnamento e la poesia dimostrando di avere spesso doti di equilibrio, di squisita intelligenza e di sentimento in tutti i campi, specie in quelli che le sono particolannente congeniali». 

Un altro aspetto interessante che contribuisce ulteriormente a qualificare questa antologia dei «Tizzoniani» come un valido spaccato degli italici produttori di versi è la dislocazione geografica degli autori: da Palermo a Sondrio, tutta l’Italia è presente a conferma che il lavoro decennale di Alfio Arcifa ha suscitato fiducia e scambi culturali ben al di là dell’ambito regionale, in cui, tra l’altro, egregiamente opera. 

Giovanni Lombardo 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 70-72.




 Adelfia E. Cardinale, La grande scienza in Sicilia, Napoli,Idelson-Gnocchi ed., pagg. XXIV – 161.

Quando si tenta di ricostruire il profilo culturale della Sicilia negli ultimi 150 anni, i nomi che invariabilmente ricorrono sono, di solito, quelli della tradizione letteraria. 

Si fa, cioè, riferimento a quegli autori, talvolta sommi, che, dai Veristi a Sciascia, hanno imposto alla cultura italiana una considerazione della peculiarità isolana e questa realtà, spesso dolorosa e tragica, hanno rappresentato in modo tale da farla acquisire come patrimonio della nazione e come emblematica di una condizione umana più generale. 

Talvolta, allargando il discorso, si fa riferimento a qualche economista, a qualche pensatore politico, ai grandi storici e alle loro scuole, alla folta schiera dei politici che si assunsero il compito di inserire la Sicilia nella comunità nazionale e che mediarono, attraverso la politica, la partecipazione, nello stato unitario, della cultura, dell’economia e della vita civile dell’isola. 

Da questo panorama è solitamente assente la Scienza, e questo fatto pare indicativo della parzialità dello sviluppo della cultura siciliana e finisce per suggerirne la subalternità rispetto ad altri apporti. 

La grande scienza in Sicilia, il nuovo libro di Adelfia Elio Cardinale (Idelson – Gnocchi Editore, Napoli, pp. XXIV – 161, Euro 22,00) consente di avere le idee più chiare sull’argomento. 

Il libro ha una struttura molto semplice, e consta di una raccolta di 26 biografie di uomini di Scienza siciliani o che in Sicilia hanno operato, qui realizzando alcune delle loro scoperte. 

Ma la semplicità è solo apparente. Infatti le narrazioni biografiche sono mediate dalla Presentazione di Antonino Zichichi, e dalla Prefazione dello stesso autore, le quali danno indicazioni esplicite sulla tipologia dell’operazione culturale che risulta condotta sapientemente e con molteplici finalità cosicché il libro si presta ad una serie di considerazioni ed è suscettibile di diversi livelli di lettura. 

Innanzitutto si tratta di una ricerca condotta dall’interno perché Adelfio E. Cardinale è egli stesso uomo di scienza, ed ai massimi livelli. Da anni ai vertici del mondo accademico, dal ’91 al ’94 Pro-Rettore dell’Università di Palermo, è attualmente Preside della facoltà di Medicina, è stato Presidente della SIRM (Società Italiana di Radiologia Medica), è autore di numerosi e poderosi volumi sulla diagnostica per immagini utilizzati in diverse Università come testi di studio. 

Ma Cardinale è anche, e con convinzione, un divulgatore scientifico perché la Scienza rimane altera e isolata, mentre la divulgazione scientifica consente una riconciliazione con la società dando la possibilità ai non specializzati di comprendere il significato ed il valore della cultura scientifica, superando le difficoltà linguistiche nel rispetto del cammino e del progresso intellettuale compiuto nei secoli dal genere umano. 

In più egli è convinto assertore dell’ufficio civile assolto dall’insegnamento scientifico: educazione alla scienza e società sono sinonimi strettamente connessi, ed esempi di impegno civile trova in ognuno degli scienziati di cui traccia la biografia. Cosicché delineando il profilo di quelle personalità che fecero uscire la scienza della Sicilia dall’isolamento intellettuale, contribuendo a produrre cultura e diffonderla operosamente e con profitto nella società, egli erige una sorta di Pantheon scientifico che nasce come atto di devozione e doveroso omaggio a personalità alte e complesse, che spesso difesero i punti cardinali della civiltà occidentale: storia, libertà, democrazia e scienza e si pone sulla loro stessa linea di continuità. 

Anche la scelta del taglio biografico non è casuale ma deriva dalla consapevolezza della difficoltà di una ricostruzione organica di un contesto e di un processo storico: missione quasi disperata, perché di qualunque avvenimento si tenti di fare una ricostruzione, non si riuscirà mai a fornirne una definitiva. Perciò egli ripiega sulla storia attraverso i personaggi ove l’elemento umano entra anch’esso nella costruzione della storia della scienza, come piccola fiamma che chiarisce e conferma i grandi percorsi dottrinali. 

E ricordando con Schlegel che il futuro appartiene ad una comunità nella misura in cui essa possiede il proprio passato, Cardinale imprende a narrare de La grande scienza in Sicilia. 

Appare subito evidente come la Sicilia, nel secondo ‘800 non fosse estranea al progresso scientifico al quale contribuì con grandi personalità e con apporti originali talvolta derivati dalla peculiarità della situazione storica e dell’ambiente. 

Il Palermitano Stanislao Cannizzaro, ad esempio, fece le sue prime scoperte a Parigi, perché vi si trovava esule dopo la rivoluzione del ’48. A Palermo, poi, dove nel ’61 venne chiamato alla cattedra di chimica dell’Università, proseguì i suoi studi. Egli formulò una coerente teoria atomica della materia sulla base dell’ipotesi di Avogrado del numero fisso di particelle che si trovano in una grammolecola di gas, enunciò la regola di Cannizzaro per determinare il peso atomico di un elemento chimico e descrisse la reazione di Cannizzaro, un fenomeno caratteristico di alcune aldeidi. Fu uno dei fondatori della Chimica moderna. 

La biografia di Cannizzaro, che con Michele Amari era stato l’estensore della relazione illustrativa del progetto di statuto regionale siciliano approvato, all’indomani dell’unificazione, dal Consiglio straordinario di Stato, è tra i tanti emblematici dell’impegno civile degli scienziati siciliani e, dal terreno proprio della formazione della classe politica, intro- Reperto del Museo Geologico Gemmellaro duce ad un fenomeno più vasto di compenetrazione, fra l’isola e il continente, a livello della formazione di una coscienza nazionale e di una comune cultura. 

All’inizio di questo itinerario si pone pure Gaetano Giorgio Gemmellaro, catanese, spinto dalla particolare situazione derivata dalla presenza del vulcano, a iniziare ricerche mineralogiche e sulle rocce. Indirizzò i suoi studi sulla geologia e sulla stratigrafia fino a diventare il più grande paleontologo mai avuto in Italia. Due volte Rettore dell’Università di Palermo, accademico dei Lincei, grazie a lui la Sicilia fu la regione italiana geologicamente meglio conosciuta e descritta. Curò il Museo Geologico Universitario facendo in modo che il Museo di Palermo diventasse il più importante d’Europa, forse secondo solo al British Museum di Londra. 

E strettamente legata alla realtà siciliana risulta anche la vicenda scientifica e umana di Alfonso Giordano, nato a Lercara Freddi, paese di miniere, medico e filantropo, precursore nel campo della medicina sociale. 

Mentre diversi politici ed economisti tentavano ancora di giustificare le terribili condizioni di vita e di lavoro nelle miniere con le necessità imposte dalle leggi economiche, egli senza mezzi termini, denunciò la insostenibilità della situazione. E dal punto di vista scientifico quando l’anchilostomo anemia mieteva 

innumerevoli vittime nelle zolfare della Sicilia, con scarsi mezzi di indagine ne intuì la causa, mentre generalmente si affermava trattarsi di malaria. L’esperienza siciliana del Giordano permise, poi, di curare gli operai impegnati nel traforo del Gottardo, e sempre da quell’esperienza e grazie al suo afflato umanitario si organizzava più tardi il 1° Congresso Internazionale per le Malattie del Lavoro e poi il Congresso Nazionale, e prese avvio la Medicina del Lavoro. 

Andando avanti negli anni, nel libro risulta, inoltre, molto bene delineato il rapporto diretto tra la Sicilia e la vicenda scientifica e umana dei ragazzi di via Panisperna. Si può dire anzi che parte del cammino della Fisica Atomica abbia preso avvio a Palermo. 

La storia inizia con Pietro Blasterna, fisico illustre, professore a Palermo dal 1863. 

Si occupò di geofisica, di elettronica, delle proprietà dei gas reali, delle correnti indotte, della polarizzazione della luce, modificò dalle radici gli insegnamenti di matematica e fisica, riuniti nella Facoltà Fisico – Matematica (denominata dal 1874 Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali). 

Promotore di scienza, Blasterna dapprima aderì al Circolo Matematico di Palermo, fondato da Giovan Battista Guccia, istituzione di smisurato prestigio internazionale, successivamente, trasferitosi, fondò il Circolo Fisico di Roma. 

Successore di Blasterna fu Augusto Righi che occupò a Palermo la Cattedra di Fisica dal 1880 al 1888. 

Un primo gruppo delle sue ricerche sperimentali riguarda il comportamento degli isolanti posti nei campi elettrici e, conseguentemente, la teoria dei condensatori, dell’elettroforo e della macchina a induzione. In un altro gruppo di lavori Righi cercò di riportare le varie forze elettromotrici a un’origine comune: comparvero qui, per la prima volta, le idee generali sulla natura dell’elettricità. Si occupò poi di onde elettriche riuscendo a scoprire una serie di fenomeni ed a costruire strumenti che furono alla base di esperimenti di Marconi e Maxwel1. 

A Palermo a Righi successe Damiano Macaluso, valente fisico che poi divenne Rettore dell’Ateneo, e Macaluso ebbe ben presto come allievo e aiuto Orso Mario Corbino, catanese, venuto quasi per caso a Palermo, anzi in quel periodo il maestro e l’allievo scoprirono il cosiddetto effetto Macaluso Corbino collegato all’effetto Zeeman. 

Corbino divenne così una delle speranze della comunità scientifica italiana e fu conosciuto ed apprezzato dal Righi che nel frattempo si era trasferito a Roma: da allora la sua carriera si svolse rapida e brillante. 

Nel 1904 fu chiamato ad insegnare a Roma e qui, egli che a Palermo aveva creato uno dei primi impianti radiologici universitari, si applicò a migliorare gli apparecchi a raggi X, e sviluppò studi di elettricità, elettrotecnica, elettroacustica. Nominato senatore da Giolitti fu due volte Ministro e, organizzatore di scienza, creò la scuola di fisica romana, nota come la scuola dei ragazzi di via Panisperna con riferimento a Segrè, Amaldi, Rasetti, Majorana, Pontecorvo. 

Nella famosa scuola fisica romana gli scienziati avevano icastici soprannomi: il fondatore Orso Mario Corbino era il padreterno, Enrico Fermi il papa, Emilio Segrè, per il carattere ispido e pungente, il basilisco. 

Nel 1935 la cattedra di Fisica di Palermo era rimasta libera e fu chiamato a coprirla Segrè. 

Il fisico alloggiò dapprima in una pensione di via Lincoln, quindi alI’Hotel Excelsior; infine acquistò un appartamento in piazza Crispi e aderì al Rotary Club, deciso a considerare il suo incarico universitario non transitorio. Nello stesso periodo si sposò con Elfride Spiro ed ebbe un figlio, Claudio. 

Grazie a Fermi stava nascendo la moderna radiobiologia. 

Segrè, anche a Palermo, continuò questo filone di studi e scoprì nel 1937 il tecnezio, sperimentando il materiale fornito dal prof. Lawrence e proveniente dal ciclotrone di Berkeley, in California: il tecnezio fu così chiamato per ricordare che era il primo elemento artificiale, mentre allo scopritore era stato suggerito di chiamarlo Trinacrio. 

Sempre a Palermo un gruppo di fisici e fisiologi, Segrè, Camillo Artom, Carlo Perrier, Gaetano Sarzana e Mariano Santangelo, dava conferma, nel 1937, del dinamismo delle strutture viventi dimostrando l’attiva incorporazione del radiofosforo nei fosfolipidi dell’organismo e aprendo la strada nel mondo al metodo isotopico in biologia e medicina. 

Nel 1938, mentre Segrè era negli Stati Uniti per studiare altri isotopi del tecnezio, fu licenziato da Palermo a causa delle leggi razziali promulgate dal governo fascista. Si fece allora raggiungere dalla moglie e dal figlioletto e si stabilì a Berkeley. 

Negli USA scoprì l’elemento di numero atomica 85, astato, entrò nel gruppo di Los Alamos che realizzò la bomba atomica e scoprì l’antiprotone, che gli valse il premio Nobel. 

Tornò a Palermo solo nel 1987, a 82 anni, ed inaugurando il Congresso di Medicina Nucleare alla Fiera del Mediterraneo si espresse con queste parole: È difficile esprimere i miei sentimenti, quando arriverete alla mia età e, dopo mezzo secolo ritornerete nel luogo dove avete iniziato il vostro lavoro e fondato la vostra famiglia, queste emozioni vi saranno più chiare. 

La vicenda umana di Segrè introduce a quella di tanti altri scienziati e professori che, in quanto ebrei, furono epurati e subirono persecuzioni. 

In Italia furono licenziati 279 presidi e docenti delle scuole secondarie e 104 professori universitari. A Palermo i professori di razza ebraica espulsi furono Segrè, Camillo Artom, Maurizio Ascoli, Alberto Dina, di elettrotecnica, Mario Fubini, di letteratura italiana. 

A questi si deve aggiungere Giuseppe Levi, il padre di Natalia Ginzburg, biologo, maestro di 3 premi Nobel: Salvador Luria, Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini. A Palermo aveva creato un laboratorio nell’Istituto di Porta Carini e aveva fatto ricerche importanti sull’accrescimento e invecchiamento dei tessuti e sulla struttura e le connessioni delle formazioni nervose. 

Camillo Artom, biochimico, al momento dell’epurazione stava per andare a Zurigo per un congresso. Impeditone, affidò a due allievi delle lettere segrete per chiedere di essere ospitato dalla comunità scientifica e riuscì, così, ad emigrare negli Stati Uniti, da dove non volle più tornare. 

Maurizio Ascoli, preside della facoltà di Medicina dal 1933 al ’35, dal 1929 docente di Patologia Medica, autore di numerose scoperte, medico sommo, posto d’autorità in pensione, subì il divieto di esercitare liberamente la professione medica, fu posto al bando della società civile e, anziano e solo, non potendo avere, in quanto ebreo, persone di servizio ariane, fu ospitato alla clinica Noto, una delle oasi di tolleranza civile della città. 

Questa e tante altre vicende umane rendono avvincente, oltre che interessante la lettura de La grande scienza in Sicilia. Libro scritto con passione per rendere il dovuto omaggio a maestri che furono magistrati civili, alle scuole accademiche, intese nel senso più nobile come sodalizio nel quale operano uomini che condividono ideali scientifici, animati da forti e reciproci interessi intellettuali che allargano gli orizzonti umani, costruendo un percorso culturale. Un contributo alla storia del progresso scientifico, nel quale un posto va riconosciuto anche alla Sicilia ed ai Siciliani delle ultime generazioni. 

Salvatore Ierardi

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 51-59