Il mondo del Principe (a cura di G. Scaraffia), Palermo, 1995. 

Il mondo del Principe, a cura di Giuseppe Scaraffia, è un bellissimo titolo. Il libro viene pubblicato da Sellerio editore di Palermo in occasione di una mostra organizzata anche dalla fondazione culturale Lauro Chiazzese presieduta da Francesco Pillitteri. 

Il mondo del Principe è un volume dedicato al “famoso” Gattopardo e allo scrittore-personaggio Giuseppe Tomasi di Lampedusa. L’operazione è condotta intervistando amici e studiosi che, in qualche modo, hanno avuto contatti diretti o indiretti con il Giuseppe Tomasi. Dalla provocante miscellanea nasce un impasto di verità e menzogne. Ci sono i peccati, le invidie di casta, le manie borghesi, le feroci persecuzioni, il piacere del ricordo, le magnifiche ambiguità e il siciliano direenondire. Agli intervistati non mancano le cosidette “affinità elettive” ma ogni cosa è ricondotta in un dolce sentiero profumato dove tutto diventa “misericordioso”. 

Nel volume c’è anche il Luchino Visconti e il suo film. Andrea Vitello che ha scritto il volume più documentato, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, (edito da Sellerio nel 1987), non è presente. 

La mostra di Ettore Viola presentata con classe da Giuseppe Scaraffia e il libro Il mondo del Principe meritano una segnalazione e un commento. 

Giuseppe Tomasi di Lampedusa è lo scrittore italiano più significativo per la cultura della tradizione. Nel luglio 1957 morì a Roma in una clinica a sessantasei anni. Pochi amici se ne accorsero. Venne seppellito a Palermo in una estate odorosa di zagare e di mare. 

Il Gattopardo era ancora da pubblicare e le grandi case editrici avevano respinto il manoscritto. Vittorini in testa. Come faranno per Guido Morselli o per Salvatore Satta. 

Pochi discepoli in Sicilia lo ricordavano. Aveva vissuto appartato. Un solo atto “eroico”. Aveva lasciato a vent’anni il suo caffé di Palermo ed era andato volontario nella prima guerra mondiale. InteIVentista. Poi fino al 1925 ufficiale effettivo dell’esercito italiano. 

Giuseppe Tomasi nel Gattopardo racconta di un suo bisnonno ma impasta tutto. Ci sono i suoi pensieri e il destino già segnato per morire. Allora. Il principe Don Fabrizio Salina era nel suo osservatorio. Pensava al peccato e alla morte con Don Pirrone. L’avventura della vita era nelle stelle che come i pensieri di verità dominano la terra e rendono cronaca la storia e orizzontale ogni speranza. 

Ma chi è questo principe che non cerca il tempo perduto? Il personaggio nella vita si chiama Giulio Fabrizio Maria Tomasi, ottavo principe di Lampedusa, nato a Palermo nel 1815 e morto a Firenze nel 1885. 

Gli avvenimenti si svolgono con meticolosa cronologia. L’udienza reale con Ferdinando di Borbone, lo sbarco dei Mille, il formarsi di nuove istituzioni amministrative con il giungere dello Stato burocratico piemontese, il presentarsi della nuova classe dirigente, l’Aspromonte, e, infine, la decadenza di quella “nobiltà” che non aveva accettato patteggiamenti e compromessi. E questi fatti destano nell’animo del Principe reazioni svogliate, sentimenti contrastanti, impassibilità politiche, giudizi ironici, meditazioni amare, riflessioni politico-religiose. 

Macerato da queste riflessioni, il Principe resta fuori dalla cronaca. Giudica ma non partecipa, come un solitario gigante che, in cima al suo castello, vede l’andare 

affannoso delle carovane degli zingari. «I conti dell’uomo con la storia non tornano mai». Don Fabrizio è troppo principe, troppo aristocratico. troppo astronomo scrutatore dei cieli. per piegarsi alle cose di terra e scomporsi per la piccola avventura di Garibaldi («Eroe giacente sotto un castagno del mondo calabrese») o per quello che si «va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome» (e l’ironia qui per Carlo Marx è staffilante). 

Don Fabrizio in una rassegnata fatalità chiude la storia nella luce prismatica della pigrizia, della nobiltà e del richiamo alla tradizione. 

La tradizione è la guida sicura che permette di distinguere i compromessi dalle novità. il piccolo gioco del conformismo dalle verità, l’apparenza di un potere dalle esigenze della vita. 

Il Principe vive da spettatore. Non ha bisogno di fischiare o di applaudire una storia che non è reale (e sconfina nell’episodico). 

Vive nel suo castello di Donnafugata, nelle sue sale di Palermo, sulla torretta del suo piccolo laboratorio astronomico, divertito, ironico, amareggiato, attonito, scettico per le faccende umane. E, quando è costretto ad occuparsi delle cose del mondo, lo fa con disprezzo e con la tristezza nel cuore. Ma senza avvilirsi mai. Il suo mondo possiede le verità raccolte dalla siderea e infuocata natura e dalla morte dolcissima e trasparente creatura da sempre temuta. 

Sono due spazi spirituali (la natura e la morte) che permettono al Principe di considerare scetticamente l’affannoso affaccendarsi, di sorridere per le ambizioni di Don Calogero o per la pietà tutta siciliana di Padre Pirrone, di riflettere amaramente sulla storia della sua Sicilia, sulla miseria, sull’orgoglio, sulla sessualità, sulla fedeltà. Malgrado Garibaldi o Vittorio Emanuele, esisterà sempre la giovinetta evocata, nel suo letto di morte, con «l’aspetto ridente, l’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate nella strada». 

La natura e la morte occupano l’animo del Principe. La natura, infatti, è intesa come metafisica cosmologica, animata da un archè spirituale e trascendente che movimenta il suo rappresentarsi fenomenico. Accompagna il Principe nella infinità della bellezza siderea e nel silenzio dell’apocalittico sole della Sicilia. Abituato a ironizzare, superbo, non sorride più e si china umile dinanzi alle rose Paul Nejron che «aveva egli stesso acquistato a Parigi» e che erano degenerate a causa del clima e della terra «in una sorta di cavoli color carne, osceni». Prega raccolto e commosso dinanzi alle stelle «felicemente incomprensibili, incapaci di produrre angoscia» e si china umilmente osservando nel cielo «Venere, chicco d’uva sbocciato, trasparente e umido». 

La morte, d’altro canto (la «giovane signora: snella con un vestito marrone da viaggio ad ampia toumure, con un cappello di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliziosa avvenenza del volto»), è inseguita dal Principe con il desiderio dell’innamorato. È una creatura che entra, come un male affettuoso, nel sangue e alla fine si presenta incantevole in una stanza di albergo di Palermo. 

Quando la signora giunge, un sogno si avvera già previsto nelle sale da ballo della casa Pallavicino. È un sogno fastoso che non ha paura perché limpidamente definito nella immagine dei granelli che «si affollano e sfilano ad uno ad uno senza fretta e senza soste dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia». 

La morte è dentro la vita, e, forse, per il Principe, è più della vita. Rappresenta, finalmente, la completa liberazione nel «silenzio assoluto» È l’affacciarsi su una finestra aperta nei secoli per ammirare la infinita magia di luce e amore senza rimpianti. Come un «naufragio alla deriva su una zattera, in preda ci correnti indomabili», amaramente tentato di «raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici». 

E allora chi è questo Principe? Che cosa resta di Tomasi di Lampedusa? E di questo Principe che appartiene «a una generazione disgraziata, a cavallo tra i vecchi tempi e i nuovi e che si trova a disagio in tutti e due»? 

Resta l’ostinazione perseguita per tutta la vita nell’evocare ombre generose e avventurose di cavalieri e di poeti, di duchesse e di marchesi, nella tristezza consapevole che si tratta solo di illusione. E anche il gigante, «appassionato fino alla violenza» di altri tempi, quando si poteva vivere felicemente sognando la dolce morte e l’incantevole stellata, mentre intorno i garibaldini sbarcavano a Marsala. 

Aldilà di ogni retorica il neorealismo imperante e sostenuto dalla cultura egemone del tempo venne sconfitto dal Principe con il suo Gattopardo. L’arte resta e la cultura muore e finisce. Ed è giusto che sia così. 

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 27-30.




 VIRGILIO TITONE, Politica e civiltà , ed. Sciascia, 1951 

All’indomani della prima guerra mondiale un’opera di filosofia della storia emblematicamente intitolata Il tramonto dell’occidente veniva pubblicata dal pensatore tedesco Oswald Spengler. In essa si dava un giudizio negativo sul destino della civiltà europea, avviata secondo lui ad una inevitabile catastrofe. A partire d’allora, di fronte alla grande mutazione che appariva chiara nelle istituzioni e nell’economia, il concetto di civiltà nella sua essenza, la storia delle diverse civiltà del presente e del passato, comparate tra di loro, entrarono tra i temi più discussi della saggistica contemporanea, anche per lo spessore culturale degli autori che vi hanno partecipato. 

Virgilio Titone scrisse sull’argomento il libro Politica e civiltà, pubblicato nel 1951 dalle edizioni Salvatore Sciacca, nel quale si rifaceva alla “morfologia della storia” prospettata dallo Spengler. Lo storico siciliano apprezzava questa come contributo all’inevitabile rinnovamento degli studi storiografici e delle dottrine politiche, richiesto dal nostro tempo. Il Titone faceva riferimento ad Arnold J. Toynbee, inglese e di professione storico, a differenza dello Spengler. Nella sua poderosa opera, A Studi of History, 12 volumi apparsi tra il 1934 e il 1961, con metodo comparativo, venivano studiate ventuno società che avevano in comune il carattere di civiltà, a differenza delle società primitive. 

Le civiltà sono, al pari degli individui viventi, degli organismi che nascono, crescono e muoiono, le cui vicende il Toynbee narra con un “ottimismo cosmologico”, che lo distingue dal radicale pessimismo dello Spengler (Lucin Febvre, Problemi di metodo storico, Reprints Einaudi, Torino, 1976, pag.1 01). Titone, nel riferirsi a questi autori, che tra gli storici d’allora venivano accolti con diffidenza, avvertiva l’importanza che le loro opere avevano per l’innovazione degli studi storici, per un loro incontro con le scienze dell’uomo e sociali, prendendo (e dando) linfa alla loro metodologia. ((Ogni età – scrive – ha la sua storia. E forse può credersi che qualche volta la nostra età abbia la sua in questi scritti che in quelli che propriamente si considerano come storie, e ciò puri tra i molti paradossi, le generalizzazioni gratuite e le astrazioni o analogie arbitrarie» (Politica e civiltà, pag. 8. D’ora in avanti di quest’opera citerò solo la pagina). 

Movendo dalle due guerre mondiali della prima metà del ‘900, l’attenzione del Nostro si allarga ad altri periodi storici, alla ricerca di ((come avvenga il passaggio da una certa serie di forme storiche a un’altra» (pag. 26), lo sviluppo delle singole civiltà. Lo fa elaborando i concetti che costituiscono la trama di «Politica e civiltà». Tra essi contesta l’uso che di quelli di crisi si è fatto tra gli anni Trenta e Quaranta, rendendolo un termine generico e ormai fin troppo abusato» (pag. 141). Considerare le crisi come fuoriuscita da una condizione di normalità, intensa come qualcosa di stabile e di duraturo, non ci dà una interpretazione corretta della storia, la cui regola è il divenire. 

((Se per crisi dunque – scrive il Titone – s’intende, come vuole intendersi, un periodo di transizione, poiché di nessun periodo della storia può dirsi che transizione non sia, la storia stessa non sarebbe se non un succedersi ininterrotto di crisi, anzi un’unica interminabile crisi: il che sarebbe come negare che di crisi, comunque definibili, possa parlarsi» (p. 142). Spiegare i fatti storici, il loro

succedersi, non può consistere in una sovrapposizione di modelli prestabiliti, il che fanno le varie teorie. 

Quella del Titone non è arida metodologia. Nel saggio qui esaminato troviamo un notevole stile narrativo, quale si addice ad un’ opera di storia, con un richiamo costante ad avvenimenti situati tra l’antichità e l’età contemporanea, nei quali si manifesta il processo stesso della vita, il movimento. Leggiamo: «La storia ci si presenta come una serie di organismi che, compiuto il ciclo dell’affermazione e dello sviluppo, si esauriscono per dar luogo a nuove vite» (pag.61). Ed ancora, e questa valga per tanti altri richiami che si ricavano dalla lettura del libro: «È certamente un grave errore parlare dei romani della decadenza come di degeneri e indegni nipoti dei loro avi gloriosi. In sé, anche quando abbandonano ai barbari la difesa dell’impero, non lo sono più di quanto non fossero stati prodi coloro che avevano combattuto con Annibale. Non ci sono generazioni di eroi e generazioni di poltroni, nati a servire. Si tratta sempre di bisogni e di concezioni della vita diverse: di circostanze, anche, nelle quali è necessario o superfluo l’eroe… Figlia di Roma è la Chiesa Cattolica … Quegli stessi motivi che ci fanno nel declinare dell’impero pensare alla fine imminente, qui ci parlano di una promettente giovinezza» (pagg. 65-67). 

A spiegare la storia valgono poco le filosofie della storia, le sociologie che tendono a prendere il suo posto nel nostro tempo, il tentativo di ridurla entro i limiti di una scienza esatta. Essa non ubbidisce alle regole della nostra logica, non valgono gli accorgimenti dell’individuo: «La storia è più accorta che egli non sia. Può magari girare l’ostacolo, ma prosegue ugualmente per la sua via» (pag. 41). 

Gli avvenimenti successivi alla seconda guerra mondiale fanno esitare il cattedratico palermitano sulla chiave di “interpretazione” dei fatti storici che ha usato sinora. «Abbiamo – scrive – mostrato come si alternino le fasi di espansione e quelle di contrazione e come pervengano a una saturazione e quindi alla crisi, alla guerra o alla rivoluzione, che segnano il passaggio alla fase successiva, del resto preparata dall’esaurimento progressivo della fase in questione… Ci si affaccia il dubbio … se questo presente sia tale da potersi in qualche modo porre sul piano stesso del passato. E sembra che tutto sia così diverso e così radicalmente nuovo da escludere senz’altro ogni possibilità di confronto» (pagg. 241- 243). Qui emerge il limite del saggio del Titone. Esso sta nella concezione elitaria della storia che spinge il nostro autore ad auspicare il ritorno sulla terra di nuove primavere nelle quali sia possibile il formarsi «di una vera aristocrazia che si erga a maestra e guida del popolo» (pag. 105). Invece – osserva turbato – si assiste all’emergere non di «quella che il Fichte chiamava la classe dei dotti», ma dell’altra, («quella degli indotti» (pag. 245). 

La crisi del nostro tempo non terminerà con una restaurazione, come nelle passate, perché sono entrate come nuove protagoniste le “masse” ( un termine che il Titone non usa). Esse, “gli indotti”, non hanno radici nell’ordine tradizionale della società, non riconoscono le aristocrazie, come portatrici di valori, che giustifichino il loro predominio sociale. L’atteggiamento del Titone si avvicina all’angoscia del Croce timoroso che l’avvento della democrazia liberale di massa travolgesse, insieme alle élites, la loro morale (Domenico Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia. 1860-1989, Laterza, RomaBari, 1991, pag. 400). Un altro hegeliano, il Weil, avverte la fine della tensione che divideva la società del passato. Ancora una volta la storia dimostra di essere “accorta”, con la possibilità di accesso per tutti ai gruppi superiori, rendendo sempre più uniformi il modo di pensare e lo stile di vita. «Così non c’è niente di sorprendente se i vecchi valori mettono di nuovo radici nella massa» (Eric Weil, Masse e individui storici, Feltrinelli , Milano 1980, pag.98). Lo testimonia la vicenda dei “diritti umani”, in nome dei quali oggi si può fare anche la guerra. E su quella del Kosovo leggiamo: IlGli Stati democratici dipendono dall’opinione dei cittadini e quest’ultima va conquistata attraverso l’impiego di argomenti in cui la giustificazione morale abbia peso… il mondo costituito sugli arcana imperii era il mondo chiuso delle corti e dei principi. Ora quell’universo autistico non esiste più e regna il potere trasparente della democrazia. E quindi gli Stati sono legittimati solo se sono in grado di giustificare moralmente le proprie azioni… in guerra non si punta più sulla conquista e la gloria, ma sulla difesa dei diritti umani» (Sebastiano Maffettone, Guerra e pace sotto gli occhi degli innocenti, in “Il Sole – 24 ore”, n°124/8 Maggio 1999, pagg. 1-5). 

Giovanni Gerardi

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 43-46.




S. Di Marco, Editoriali 1988-1993, Ragusa, 1996.

Iblea Grafica di Ragusa ha pubblicato un’opera singolare di Salvatore Di Marco, Editoriali 1988-93, pagg. 304. Vi sono raccolti 63 editoriali del “Giornale di poesia siciliana”, il giornale palermitano fondato e diretto da Di Marco, noto poeta e saggista. Il prefatore, altro noto studioso universitario di letteratura e dialetto siciliano, Giovanni Ruffino, degli editoriali traccia una lettura “globale e coerente”, indicando il filo conduttore che lega insieme ben più di cinque anni del più diffuso giornale di poesia e di dialetto siciliano. Questo è indicato dallo studioso in quattro postulati facilmente individuabili: la cultura dialettale come bene culturale, il dialetto come organismo tuttora vitale, l’ansia rinnovatrice della letteratura dialettale in un nuovo umanesimo, che difenda la nostra identità, e la prospettiva sopraregionale per un nuovo contesto culturale, cioè un’apertura alla cultura dialettale delle altre regioni. 

L’indicazione di Ruffino tesse le dinamiche culturali svolte da Di Marco in una visione unitaria e ci fa capire più facilmente come lo studioso ha operato in un quadro storico generale con l’analisi dei fatti politici e letterari un’indagine critica fondata sull’analisi della scrittura, ma che evidenzia nello stesso tempo lo spazio etico e letterario. 

L’opera vista unitariamente gode di un respiro “grande e profondo, perché è il respiro dei tempi lunghi e degli ampi spazi”. 

Almeno per un solo postulato, a conclusione dell’anelito di rinnovamento della poesia siciliana, riporto le parole di Di Marco: “.. .le ragioni del rinnovamento della poesia dialettale in Sicilia non sono soltanto prettamente letterarie, ma sono anche ragioni sociali (e perciò politiche)”. 

La fiducia nella rinascita del dialetto siciliano nasce dal profondo amore che Salvatore Di Marco nutre per la sua isola e per la sua lingua. Ma l’interesse maggiore che il libro suscita deriva dall’ammirazione per la profonda conoscenza della materia, come risalta da ogni pagina: l’opera è ricchissima di informazioni e di considerazioni sia sul dialetto che sulla letteratura siciliana. 

Sullo stesso piano culturale e con gli stessi interessi Salvatore Di Marco pubblica una raccolta di studi di docenti universitari, premettendovi un saggio introduttivo che informa ampiamente sul problema. L’opera è La questione della “koinè” e la poesia dialettale siciliana, pubblicata dai “Quaderni del Giornale di poesia siciliana” di Palermo (1995, pagg. 161, edizione non venale). La questione è importante, perché incide direttamente sul processo di rinnovamento: l’uso di una “koinè” letteraria è posto arbitrariamente ed astrattamente in alternativa all’uso dei dialetti e delle parlate locali, che la maggior parte dei poeti dell’Isola in effetti pratica. La questione era stata posta da una ventina d’anni soprattutto dal poeta catanese Salvatore Camilleri ed ha visto impegnati in primo piano letterati e poeti. Ma sull’argomento mancavano le valutazioni ed i pareri degli intenditori, studiosi universitari specializzati nelle scienze del linguaggio e dialettologiche. Sin dal 1990 Salvatore Di Marco ha curato di raccogliere attraverso il “Giornale” sopra indicato le valutazioni di docenti universitari della statura di Giuseppe Cusimano, Giovanni Ruffino, Salvatore C. Trovato, Giovanni Tropea, Vincenzo Orioles, Giuseppe Gulino, Sebastiano Vecchio. 

Personalmente ammiro il senso di opportunità e l’equilibrio, oltre che la dottrina e la compostezza tenuta da Salvatore Di Marco nel raccogliere tutto il materiale e soprattutto nello svolgere il saggio introduttivo, condotto non senza un taglio polemico, ma approfondito e composto. La serenità, cui s’è ispirato il saggio, ben si accompagna alla concretezza reale ed alla dottrina della discussione tenuta. Ancor più apprezzabile è la disponibilità rivelata al confronto diretto delle idee e delle affermazioni da parte di poeti e studiosi sul problema della “koinè”. 

Ricchissime ed approfondite sono la bibliografia e le note esplicative, nonché le informazioni sugli autori. 

Carmelo Depetro

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 43-44.




Una prosa d’impegno 

I. Marusso. Un uomo per una folle speranza Mafia e droga nella Sicilia occidentale viste da vicino, Ed. Bastagi. Foggia. 1990. pagg. 100. 

Con questo libro Irene Marusso ha mantenuto la promessa. La “Trilogia del malessere”. già annunciata qualche anno fa, ora è completa, ed anche felicemente perché il libro che la conclude ha diversi motivi di validità, come cercherò di dimostrare. 

Quali sono questi motivi? Prima di ogni altro, il modo di mantenere e integrare la coerenza e la organicità del disegno. Sono volumi legati fra di loro da quella che potrebbe dirsi una struttura profonda, cioè, un motivo di base che li percorre tutti e che si identifica con la sensibilità per certi problemi umani che nella sostanza sono problemi di sempre, ma che oggi, per il duplice motivo che, purtroppo, li conosciamo direttamente nella vastità del loro manifestarsi, li viviamo quasi quotidianamente. ci sembrano esclusivi del nostro tempo. 

È così che, dopo averci presentato con “Una moglie frigida” le complicazioni di un esistenziale rapporto coniugale reso difficile dalla routine e dall’intrecciarsi di situazioni scabrose, e dopo averci fatto riflettere con “Umanità alla sbarra” sul rifiuto che questa nostra società oppone ad esseri umani segnati, contro la loro volontà, da passioni amorose sconvolgenti, Irene Marusso ora, con questo “Un uomo per una folle speranza” sollecita le nostre considerazioni sulla problematicità di un riscatto morale e sociale che, pure perseguito ad alta voce da tanti programmi e dichiarazioni ufficiali, tarda, purtroppo, ad arrivare a soluzione. ed anzi pare allontanarsene ogni giorno di più. 

Sotto la spinta dell’interesse per i problemi umani. che è alla base di tutte le opere, non soltanto di narrativa, ma anche nelle liriche e negli scritti giornalistici. Irene Marusso si è soffermata sulla vicenda di un uomo che lotta per dare realtà a una speranza veramente bella. ma che alla fine si rivela solo “folle”. Ma il titolo non deve fuorviare. 

Un libro come questo va considerato sotto due aspetti: quello letterario e quello storico-sociale. Sono due aspetti che sembrano abbastanza distinti, ma se si guarda più a fondo nel caso specifico si scopre che l’ambientamento spazio-temporale è parte integrante del racconto, e gli fa da imprescindibile base. Tale ruolo è svolto, per un lato, da una Sicilia tratteggiata nei suoi elementi più tipici, essenziali e realistici, in un modo che si evidenzia l’amore di Irene Marusso per la sua terra. dall’altro dal richiamo di taluni eventi caratterizzanti la storia più recente. In questo quadro le due vicende di amore vissute dai protagonisti. sia quella brevissima ma intensa con la dolcissima Cincin. la giovane vietnamita conosciuta nella giungla sconvolta dalla guerra, sia quella più durevole e determinante intrattenuta con Caterina, costituiscono l’ordito su cui vengono a interessarsi le trame sottili di un messaggio che consiste non nella rivelazione di un sistema risolutorio. ma nella indicazione di un problema di vasta portata sociale animata dall’intento di richiamare su di esso la necessaria attenzione da parte di tutti. 

Io non credo che Irene Marusso abbia raccontato solo per il gusto di raccontare. Ha raccontato certo perché ne ha l’attitudine e nello scrivere si realizza, ma il suo racconto ha dato. secondo me, consapevolmente, il valore di un invito ad aprire gli occhi sull’epoca in cui viviamo, sì da andare a capire com’è che essa è quella 

che è. attraverso quali eventi e per quali eventi e per quali più o meno palesi ragioni essa sia arrivata ad essere tale, invogliandoci, quindi a vivere con utile consapevolezza e adeguata maturità. Se così non fosse, avrebbe dato al suo romanzo quel sottotitolo che campeggia così ben circostanziato sulla copertina: “Mafia e droga nella Sicilia occidentale viste da vicino”. Così il triste fenomeno risulta documentato negli accadimenti e nella crudezza dei suoi effetti, constatato nella disumanizzazione di cui è causa, accusato in tutta la sua perfida potenza di disgregazione e di annientamento. Ed è proprio per assicurare la chiara percezione di questa base storico-sociale che qua e là il racconto cede spazio a sintetici ma lucidi richiami di eventi storici che, se pur coevi a molti di noi, noi stessi abbiamo quasi dimenticato sotto l’urgere degli obblighi quotidiani. il progressivo rinchiudersi nel privato e l’incalzare di nuove esperienze. 

Sono passi che hanno l’impronta di excursus storici e il pregio della sobrietà e della chiarezza, nonché quello dell’oggettività, in quanto da essi non traspare, tantomeno emerge. alcuna presa di posizione preconcetta contro chicchessia. Quel che invece balza fuori ben chiaro. attraverso l’evidenza assicurata a certi dati raccapriccianti, è la denuncia degli errori in cui gli uomini incorrono a dei danni di vario genere che tali errori inevitabilmente producono. Si vedano, per esempio, i flashs sulla guerra del Vietnam: narrazioni e descrizioni soltanto, ma tanto efficaci quasi quanto le insistite sequenze che una recente cospicua filmografia di produzione americana ha mandato in giro per il mondo quasi a confessare un sanguinoso reato contro l’umanità innocente, e a recitare il mea culpa. E si leggano tra le righe anche le notizie dei delitti di mafia, scarne ed essenziali, annotate come in un rapporto di cronaca, eppure così funzionali a produrre avversione contro un così triste e discreditante fenomeno. Per contro, non mancano parole di plauso, e quasi di gratitudine, per chi offre attiva collaborazione e aiuti concreti a iniziative animate dal serio proposito di togliere di mezzo ogni motivo di malessere. 

Comunque, il contributo migliore al trionfo della causa giusta viene dall’andamento della vicenda che fa da nucleo sostanziale a tutta l’opera. 

Questo giovane mutilato che sopperisce con la fede nei suoi giusti principi, con la vivacità della sua intelligenza. con la fermezza del carattere e la tenacia dei sentimenti alla quasi impossibilità di muoversi. e che, nonostante l’immobilità fisica cui è condannato. riesce a muovere tante di quelle persone che l’avvicinano, e che egli arriva ad avvicinare, e a dare ad esse tanta fiducia nella vita, è un tipo umano che si propone come esempio a una società che sempre più spesso va perdendo la nozione e il senso di quel che significa veramente impegno civile ed umano. Purtroppo, alla fine egli soccombe, e così pare che il male sia invincibile o, che è lo stesso, che le sue forze siano superiori a quelle del bene. Visto che il successo che arrideva agli onesti propositi di questo benefattore viene meno, pare legittimo che il pessimismo tomi ad avere il sopravvento. Per altro, se sospendiamo la lettura del libro e poniamo mente alla cronaca di tutti i giorni, e alle brutte esperienze che spesso ci tocca fare per strada, negli uffici, e persino dentro le stesse pareti domestiche, dobbiamo, se pure a malincuore, riconoscere che il pessimismo sul nostro presente e, ahimè, sul nostro futuro, ha maggiore fondatezza dell’ottimismo. Ne è rimasta condizionata pure Irene Marusso, che certo sarebbe rimasta fuori della realtà se avesse concluso trionfalmente la sua storia. Anche perché chi conosce le sue opere sa bene che da esse è bandito sistematicamente il lieto fine, forse anche per adesione a quel principio cui diede massima notorietà, in epoca di neorealismo, un critico cinematografico quale Giuseppe Chiarini, quando scrisse: “il lieto fine è immorale”. 

C’è, però, una precisazione da fare: la fine tragica del protagonista non deve assolutamente significare sconfitta e invito alla resa. Vale, invece, come testimonianza e come avvertimento. Vorrei che ci riportasse fuori dal gretto materialismo imperante ai nostri giorni verso quei bei tempi di realismo romantico di cui gli eroi, anche se soccombenti, deliberatamente votatisi al sacrificio, erano in realtà i veri vincitori: primo, perché a differenza dei loro nemici potevano agire fuori dalle tenebre e dall’ombra ed, anzi, alla piena luce del sole, poi, perché la loro fine, quando si verificava, era il principio della riscossa, di una lotta più coraggiosa e sagace per l’affermazione dei propri ideali. Penso specificatamente, in letteratura, agli eroi alfieriani e, nella storia di tutti i tempi, anche i più recenti, e di tutti i luoghi, alla folta schiera di martiri che presto o tardi riescono a prevalere e ad ottenere il riconoscimento del giusto diritto dei propri ideali e del grande valore delle azioni da essi ispirati. 

In questa ottica credo che Irene Marusso chieda si legga la conclusione della “trilogia» di cui è autrice, e in particolare quella del suo terzo momento. Rifiuto decisamente l’idea di una Irene Marusso che presta la sua voce a certo pessimismo progrediente. Che se poi qualcuno dei lettori gradisce solo racconti di vicende di singoli, narrazioni di fatti di amore con tutta la vasta e varia gamma dei loro momenti, può trovare pure questi nel libro di cui parliamo; e sono fatti raccontati con buona perizia letteraria nell’impostazione e conduzione dei dialoghi e nella caratterizzazione dei personaggi; tanto gli uni che gli altri hanno quasi tutti i requisiti necessari per interessare e piacere. Si tratta infatti di una storia d’amore raccontata con garbo, con discrezione, con misura, senza nessuna concessione a quell’erotismo che oggi è tanto di moda, neanche in quei passi in cui pur ce ne sarebbe stata l’occasione. Una storia che bada ai sentimenti, più che ai sensi, e li pone in primo piano, e li esprime con mezzi semplici, con il parlare di tutti i giorni, con rapidi tocchi e accenni fugaci, battute essenziali, lasciando che emergano di per sé, e di per sé si impongano all’attenzione di chi legge, e di per sé si imprimano nella sua memoria. Una tecnica narrativa, insomma, di tutto rispetto, e che mi pare anche si presti bene ad una sceneggiatura cinematografica, e quasi la prepari. Ma chi si ferma a leggere questa storia solo come fatto sappia che, in realtà, viene a sottrarre al libro il valore che gli deriva da quell’impegno morale e quindi civile che lo anima pacatamente e che il breve giudizio stampato sull’ultima pagina di copertina pone in opportuna evidenza. 

In altri termini, chi limita la sua attenzione alla vicenda, godrà certo i pregi letterari del racconto ma perderà di vista, colpevolmente e con suo danno, la presenza di quell’impegno di cui dicevo sopra, e che, seppure non enfatizzato, certo è elemento integrante del libro, e quindi merita e richiede di essere adeguatamente valorizzato. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 45-49




V. Monforte, Il padrino di mio padre.

È un libro che merita attenzione. Per vari motivi, ma anzitutto per la sua originalità, che emerge già dalla qualifica di .romanzo amaristico. dichiarata in sottotitolo e che, seppure perseguita programmaticamente, non perde mai l’importante requisito della naturalezza. 

Occorre allora, a intendere correttamente l’opera, cercare una definizione di questa novità che è l’.amarismo•. È definizione non facile. anche se l’autore ci fornisce. nell’avanti-testo, a mo’ di sussidio critico. le caratterizzazioni essenziali di alcune varietà di umorismo letterario con cui l’amarismo ha qualche relazione. Ma sono cenni. appunto. essenziali, riguardano forme poco note, fors’anche perché straniere. e ne indicano. sostanzialmente, l’alterità rispetto all’amarismo. in quanto limitano l’elemento comune a una certa misura di assurdo o di paradossale. Insomma, aiutano poco. Se ne può sapere di più, sull’amarismo, solo prendendo contatto col libro e per esso, in questa sede, con la sua trama. La sintetizzo subito e rimando a dopo l’esame della sua funzione. 

Al protagonista, che è poi persona cui l’autore dà forma di io narrante, capita che, quando è in età di dodici anni, gli nasca il padre! Giacchè ogni neo-nato va battezzato e per battezzare ci vuole il padrino – e il neonato stesso lo reclama con i suoi strilli – il protagonista si assume il compito di trovarglielo. Ma sulla terra ciò è impossibile, perché essa è deserta di uomini (attenzione al doppio senso!), e allora egli, arrampicandosi sulle stelo di una zucca nata da un seme posato entro una buca da lui scavata in terra e arrivata, in appena mezz’ora, a toccare il cielo. lo va a cercare sulla luna. Qui l’amoroso pellegrino viene a conoscere un mondo nuovo, la vera terra, abitato da una comunità di esseri in cui una sorta di profeta, Equatore (nome da intendere in senso etimologico e non geografico), ha realizzato un certo numero di antiche aspirazioni sociali quali l’eguaglianza e la libertà, l’identificazione delle esigenze proprie di ciascuno con quelle dei propri simili, la possibilità di appagare tutte le esigenze proprie, anche quelle naturali, appagando le altrui. Qui, dopo una serie di esperienze soprendenti, il nostro cercatore trova il padrino desiderato, un certo Zero, cioè un non valore. È un tipo anch’esso strano, ora onesto ora corrotto, ora placido ora irascibile, che viene subito meno al suo compito, perché appena arrivato sulla terra scompare. La nuova ricerca il figlio tanto zelante la conduce nel paese di Sitrovantutte, una sorta di aldilà che accoglie uomini che vivono una vita assai strana, non da uomini ma neanche da bestie. Questo paese il protagonista visita guidato da un Vecchio che tutto gli spiega. Zero viene ritrovato e, dopo una lunga serie di contrasti col Vecchio e col giovane, battezza il padre, ma solo attuffandolo in una avvilente palude. 

Una simile trama è, chiaramente, soltanto un pretesto. Appena un canovaccio su cui ricamare un tessuto fittissimo di trovate, di battute, di sottigliezze, di paradossi, di assurdità – tali almeno appaiono di primo acchito – le più ardite e impensate. La qualità più spiccata del Monforte è proprio questa sua capacità inventiva, prima di tutto, formale. Egli inventa sia sul piano dei fatti sia, e più ancora, su quello del linguaggio. Non è un caso che il numero delle vicende sia ridotto entro termini minimi e che il racconto sia costruito quasi tutto attraverso il dialogo. Le didascalie apposte alle battute ed esprimenti, in maggioranza, lo stato d’animo del protagonista hanno sì la funzione di mandare avanti la vicenda ma soprattutto mirano a sottolineare l’eccezionalità di quanto viene detto. 

Fondamentalmente, l’ironia si esercita sulla ideologia che condiziona la vita di quella società. I lunari, ad esempio, nella loro ansia di eguaglianza, hanno abolito i nomi propri e per chiamarsi hanno scoperto che bastano i numeri. 

Costante è il gusto del paradosso. Basti dire che al protagonista la fame passa perchè i lunari hanno mangiato per lui. Il che è ancora un effetto della teoria e della pratica dell’uguaglianza. Tra eguali, infatti. è sempre possibile che ci sia qualcuno che mangi la razione propria e, per gli altri, quella di altri. Anche il lavoro del resto, e come il lavoro il riposo, non sono tutti a farlo: i lunari sono o lavoratori o riposati: ognuno svolge una mansione, ma la svolge anche per gli altri, sia essa il lavoro o il riposo, e fino al punto che i lavoratori morirebbero di stanchezza se non ci fossero i riposati a riposare. Ormai l’intenzione di Monforte è chiara. Egli ha voluto fare oggetto di pungente satira teorie sociali da lui non condivise. Il loro crollo storico, posteriore allibro, gli avrà dato certo una bella soddisfazione. 

Comunque l’opera va apprezzata indipendentemente dall’ideologia che sottintende. Notevole, ad esempio, la varietà dei moduli stilistici: la battuta a sorpresa, le antitesi, i neologismi. 

Ha un certo peso anche la cultura letteraria dell’autore. L’eccezionalità e il conseguente umorismo di certe situazioni hanno chiaro fondamento sul gusto ariostesco del meraviglioso e dello straordinario, così come l’orrido di certi paesaggi e l’imbestialimento di certe figure umane richiamano direttamente certi passi dell’inferno dantesco. Sono, però, elementi che qui hanno tratti più realistici e al tempo stesso altrimenti simbolici. Tutto concorre a creare un’atmosfera pienamente adeguata alla particolare stranezza e cupa novità del luogo, un’atmosfera da ‘visione’ medievale ricostruita dalla mente smaliziata di un uomo dei nostri tempi, un uomo che, impegnando a suo modo buone capacità, di pensare e di esprimersi, si è divertito, diverte, e al tempo stesso induce a qualche proficua meditazione sull’epoca in cui viviamo. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 53-55..




 Il nostro tempo tra storia e mito 

Maria Pina Natale, Epopea Rog, Marzorati Editore, Milano 1989, pp. 432. 

Libro in certo senso inquietante questo Epopea Rog di M. Pina Natale: quanto agevole è la sua lettura altrettanto impegnativa è la sua interpretazione, dato che è senz’altro da escludere una semplice presa d’atto. La fluidità del linguaggio e la linearità della vicenda, per altro convenientemente dotata dell’opportuna imprevedibilità parziale e complessiva, conquistano presto e tengono sempre desta l’attenzione del lettore, aiutandolo a superare qualche iniziale disagio causato da un’articolazione in episodi alquanto autonomi che nella prima parte è piuttosto frequente. 

Siccome, poi, le pagine, diciamo così, prevalentemente meditative hanno buona capacità di attrarre, oltre che di stimolare, la lettura procede spedita, nonostante l’alto numero di pagine del volume, e al punto che c’è il pericolo di perdere di vista tanti dei suoi valori, specie a livello di pensiero. E questo è pericolo che il libro non merita affatto di correre. 

Costituisce, poi, altro motivo di impegno la ricerca della sua collocazione in uno dei settori canonici della narrativa. Verò è che la poetica dei generi ha ormai fatto il suo tempo, ma, se non si pecca di schematismo, una qualificazione di questo tipo è sempre opportuno farla, se non altro perché aiuta a capire, e quindi a valutare. Proviamoci anche con Epopea Rog. 

Articolato in tre parti – che l’Autrice chiama “libri” alla maniera degli antichi poemi epici – e con un “Intermezzo” tra la prima e la seconda, questo testo possiede, come mettono in evidenza segni così espliciti, tutti i numeri per potere stare entro i confini non di un genere soltanto bensì di almeno due: l’epica mitica e il romanzo realistico. Poi, però, ci si accorge che dentro tali confini esso ci sta stretto per il fatto che altre tematiche che tratta e altri elementi che lo qualificano gli conferiscono una personalità tutta propria, per tanti aspetti nuova, e lo portano quindi a sconfinare. 

Prendiamo la prima parte. Tutta materiata com’è di racconti di vicende connesse con la lotta partigiana, parrebbe direttamente appartenere al filone della cosiddetta letteratura della Resistenza. Ma se ricordiamo che questa letteratura visse e operò sotto le insegne di una precisa ideologia politica, al tempo stesso sua matrice e suo programma, dobbiamo immediatamente cancellare un simile inserimento, perché Epopea Rog non si alimenta di ideologia politica né a sua volta la alimenta. Certo, si avverte qua e là qualche “condanna” dell’agire e del carattere dei Tedeschi – per altro detti “nazisti” molto raramente – ma questo è un dato ormai sancito dalla storia e come tale, quindi, acquisito pacificamente da quella letteratura. Sarebbe stato un impegno troppo gravoso per M. Pina Natale mettersi contro di esso, cioè, in definitiva, contro corrente; e poi, non rientrava neanche nei suoi programmi. I quali, fondamentalmente sono etici, in senso largamente umano e mai in forma ossessiva. Lo si vede dal fatto che la nostra Autrice inserisce in questa condizione anti-tedesca del suo protagonista certi spiriti umanitari che lo inducono a escludere sentimenti di odio dai moventi della sua condotta e a ispirarla, per contro, e quasi istintivamente, ad un proposito, sentito quasi come un innato bisogno, di “lavorare per tutti coloro che hanno bisogno, senza distinzione di campo, buoni o cattivi che siano.” (p. 359). Lo dichiara proprio in questi termini un suo interlocutore che per lunga frequenza ha avuto modo di conoscerlo assai bene. La Resistenza, insomma, non è altro che il momento cronologico e umano che fa da substrato, da tessuto connettivo, da area storico-geografica in cui e su cui il protagonista compie tutte le sue magnifiche gesta. Senza quei Tedeschi da spiare e da neutralizzare, ma anche da comprendere in certe esigenze individuali, senza quei partigiani da soccorrere e da sostenere, senza quelle montagne da valicare e quelle vallate da percorrere al fine di dare piena attuazione a precisi piani operativi, tanta parte delle ragioni d’essere del protagonista verrebbero a mancare. Vien fatto di pensare che, stando alla natura degli eventi, il protagonista opera sì a favore della Resistenza, ma nella realtà letteraria dell’opera la Resistenza serve solo a dare a lui possibilità di estrinsecare il suo io e quindi di essere. Pare, allora, scontata la conclusione che la Resistenza non è il fine ma il mezzo. Il vero fine è Rog. Un personaggio esuberante, ricco di vitalità. estremamente attivo; un personaggio che ha incontrato nel suo momento storico una copiosa fonte di stimoli, un forte elemento reattivo. un banco di prova delle sue straordinarie capacità operative. È questo aggancio storico che gli dà una certa misura di connotazioni realistiche. Senza di esso, sarebbe un personaggio tutto fantastico, ed ancora più sorprendente perché non si tratta di un uomo bensì di una donna. Rog, infatti, è una giovane che dall’evento della morte in guerra dell’amato marito prende le mosse per la conquista di una personalità tipicamente virile e che della sua femminilità, per altro piacente, si ricorda solo per metterla al servizio della buona riuscita del suo incontenibile e prepotente bisogno di agire. Privata del suo amore, Agata, questo il nome di battesimo del protagonista, perde ogni capacità di amare (“anzi non ha mai amato”, arriva a dire l’interlocutore che ho citato prima) e acquisisce un carattere freddo, pronto, risoluto, che la porta a guardare con distacco, con superiore indifferenza uomini e cose e a dominare, col sostegno di un fisico estremamente agile e robusto e tuttavia non privo di grazie, persino il dolore, un dolore causato da piaghe da tortura sparse in tutto il corpo e restie a cicatrizzare, sì che esso non ferma affatto i suoi voli attraverso i cieli e le sue corse attraverso le boscaglie, anzi neppure li rallenta e neanche li ostacola. 

La sua è una pratica di vita che, seppure legata ad un preciso momento storico, originalmente lo trascende per farsi estrinsecazione, come ho detto, di un incoercibile bisogno di agire, esercizio di un’idea, positivamente costruttiva, di nobile altruismo. Quel che conta è l’azione, e non l’azione “contro” ma l’azione “a favore”, anche, eventualmente, di potenziali nemici. 

Ad uomini, o donne, siffatti si dà di solito il nome di ‘eroi’, e le loro gesta si qualificano come ‘epiche’, tenuto anche conto della loro eccezionalità. Mettere allora il nostro Rog, considerata anche la cultura della sua ideatrice, in compagnia di Achille, Aiace, Orlando, Ruggero e simili e visto che la sua parte di ‘storicità’ non gli toglie certo ‘leggendarietà’, non mi parrebbe proprio fuori luogo, ma lo sconsiglia senz’altro la sua ostilità verso ogni sanguinarietà, cui invece quegli antichi erano assai propensi. Lo accosterei quindi, più attendibilmente, a quella categoria di eroi che sono più famosi per intraprendenza e mobilità, a figure quali Ulisse, l’uomo dall’ingegno pronto e astuto, e soprattutto ad Astolfo, l’eroe antonomastico della mobilità, arditamente in groppa al suo cavallo alato. Con essi il nostro Rog ha in comune molto di più che qualche semplice nota. Col primo soprattutto la pronte7..za dell’intuito e l’immediatezza della parola, con l’altro, una quasi sovrumana speditezza di movimenti che non solo è capacità di spostarsi velocissimamente da un luogo ad un altro avendo per ippogrifo – “il mio ippogrifo!” (p. 385) – un docilissimo aeroplano e un morbido paracadute, ma anche l’attitudine ad apparire e disparire in un battibaleno. Ovviamente, dotato di così eccezionali qualità, il nostro eroe può compiere felicemente tutte le sue missioni e al tempo stesso legittima nei suoi lettori il pensiero che qualche elemento utile alla sua costruzione lo abbiano fornito pure i Masters e altri simili eroi di quei cartoni animati e di quei fumetti che sono l’inguaribile passione di tanti ragazzi dei nostri tempi. 

Fin qui le pagine di M. Pina Natale cl hanno offerto come dato più qualificante una nutrita serie di episodi movimentati e un personaggio freneticamente e positivamente attivo. Finita la guerra. la situazione cambia. E così Agata, adattando ai nuovi tempi la sua operosità ma contraendo di molto la sua sfera di azione, si tramuta in imprenditrice sociale e dIviene “fondatrice-proprietaria-animatrice” (p. 262) di un colossale complesso assistenziale in cui diecine e diecine di bambini, molti dei quali nati nel reparto Maternità dello stesso Istituto. vengono seguiti capillarmente dai primi gradi scolastici fino al compimento degli studi medi o universitari e al loro ingresso nella vita di lavoro. A tale imponente complesso la sua realizzatrice, dà il nome di Città Rog e con l’aiuto di collaboratori fidati idonei anche a sostituirla riesce a farne un’istituzione altamente benemerita. Ma la malafede di alcuni profittatori viene a mettere In crisi tutta l’organizzazione. Agata subisce un processo per maltrattamenti a minorenne e alcuni malintenzionati, per distruggerla, non esitano a gettare una luce sinistra sul suo passato. Alla fine, però, la sua innocenza trionfa e l’ammirevole donna riprenderebbe con nuova lena la sua encomiabile attività se il suo fisico, che pur aveva superato sofferenze. materiali delle più terribili, non cedesse alle estenuanti prove cui la vicenda giudiziaria l’ha sottoposta, soprattutto a livello psichico. 

Questa seconda parte, senza dubbio più serrata e compatta rispetto alla prima, ci presenta un’Agata notevolmente diversa anche se sostanzialmente coerente con la precedente. Tutto il suo frenetico agire si è contratto nell’organizzazione del complesso che ho detto e nel controllo da lontano, ma sempre in modo partecipe, della sua attività. Convogliata in questa direzione la sua filantropia. la Nostra ha cercato giustamente il riposo e il ritiro dall’attività febbrile. appagandosi di contemplare l’attuazione del suo antico programma di riscatto umano. Ma in questo mondo non c’è pace per i buoni. Agata deve tornare a scendere in campo. E vi scende infatti. Sorretta dalla sua antica tempra di persona votata all’azione, reagisce con fermezza alle dense minacce che facevano temere il crollo e impiegando, questa volta, più che le energie fisiche le risorse dell’intelligenza e le altre doti del carattere, organizza sagacemente una difesa efficace, concretatasi nell’impianto di trame indovinate e nell’impiego di straordinarie capacità dialettiche. La qualità degli argomenti e la varietà di trovate e di toni con cui essa sconfigge l’ispettore ministeriale venuto a inquisire sull’amministrazione di Città Rog con l’evidente. anche se non dichiarato. proposito di mettervi i sigilli. si segnalano per la loro non comune efficacia. sì che le pagine che riferiscono il colloquio hanno più di un motivo per essere ammirate. A parte le proporzioni e le qualità dei personaggi e dei fatti, esse mi hanno richiamato alla memoria un celebrato colloquio di manzoniana memoria: quello del conte zio con il padre provinciale, così come, del resto, non può non venire in mente la famosa notte insonne dell’Innominato, sempre di manzoniana memoria. quando si legge il turbamento notturno del Commissario Palmi. l’inquisitore, sconvolto da sentimenti e pensieri i più disparati. L’originalità di M. P. Natale in ogni caso è salva e merita riconoscimento, così come lo meritano altre qualità positive di tutto 

il libro e in particolare della sua seconda parte. Intendo l’evidenza assicurata al ritmo incalzante ma ordinato degli accadimenti; la resa piena, pur nella sua sobrietà. della condizione della società nel secondo dopoguerra; la caratterizzazione dei personaggi comprimari chiamati a svolgere ciascuno il proprio ruolo contro o a favore di Rog-Agata; la serie delle riflessioni suggerite dalla varietà delle situazioni e presentate con la massima naturalezza senza pose predicatorie, quasi una germinazione spontanea nel fluire stesso della vita e un pungente stimolo a viverla più avvedutamente. meno irresponsabilmente. 

In conclusione, Epopea Rog è un’opera in cui la maturità letteraria della scrittrice dà le sue prove più chiare, al tempo stesso in cui si fa documento di una intensa e gradevole pensosità sul nostro più spesso dolente che lieto destino di uomini. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 67-72




 Francesco Grisi, Maria e il Vecchio ed. Rusconi, s.i.p. 

“Allora”: la congiunzione segna non di rado, nel romanzo, l’inizio di un capitolo, di un periodo, introduce l’argomento piuttosto che avviarne la conclusione. È un modo confidenziale di narrare, o meglio, di comunicare, quasi la ripresa di un discorso appena interrotto, la sua prosecuzione, un conversare senza fine, continuamente arricchito, sempre sorprendente, magico, che attrae e crea attesa. Il messaggio è affidato a un modello di scrittura caratterizzato da un periodare dal taglio rapido, da un’essenzialità spinta, a volte, all’estremo limite: una prosa che affascina anche chi è legato alle forme tradizionali. Una soluzione convincente sotto i profili artistico e storico, che interpreta, cioè, senza abdicare all’eleganza del dettato, esigenze pratiche connesse con i ritmi di vita del nostro tempo. 

Digressioni, voli pindarici, ritorni, molti flash: è come una lunga corsa per non lasciare nulla di inespresso, nulla che provochi rimpianto per non essere divenuto parola, oggetto della creazione artistica. «L’antico è nel gesto – scrive Grisi – Il presente è nella parola.» Poesia dell’esistenza fissata nel suo fluire, prima del silenzio. Senza contare, poi, che la scrittura è, per gli eletti, salvezza, «È – dice il prof. Malaparte, protagonista del romanzo – una forma di preghiera nel rifugio ironico del mondo». Una prosa poetica, dunque, questa di Maria e il vecchio, nella quale spesso la proposizione secondaria esiste senza il puntello della reggente: un aggettivo, una congiunzione, un avverbio vengono isolati da una punteggiatura collocata con estrema libertà: una forma espressiva che non è puro gioco, ma risponde senza dubbio all’esigenza dello scrittore di sottolineatura, di volta in volta, di particolari stati d’animo e delle molteplici direzioni lungo le quali si snoda il pensiero (il lettore attento percorrerà a ritroso l’iter della creazione artistica). 

È la lezione dei futuristi moderatamente accolta, personalmente rielaborata e profondamente sentita nella sua carica di vitalità. 

«Il Futurismo è come un fiume carsico che tra le montagne si nasconde e all’improvviso appare» – scrive lo stesso Grisi (appassionato studioso del movimento, «allegro e ironico, terrorista e contestativa», e autore di un volume sull’argomento) su “Contenuti”, n o 1-1990. È in atto nel romanzo l’abbandono della «prigione rappresentata dalle forme tradizionali responsabili del “sacrificio della fantasia”, la quale, pertanto, può librarsi, esercitando la sua funzione di “provvidenza umana che ci libera dal male”» (sono tutte espressioni di Grisi, in “Contenuti”, n o 3 -1990). 

Maria e il vecchio si legge tutto d’un fiato: dialoghi, soliloqui, poesia e affresco; si pensi alle bellissime pagine su Roma nella luce settembrina, su Roma di notte col concerto delle sue fontane (dove tratti ben più rapidi e incisivi evocano lo stesso fascino de «Le notti romane» di Giorgio Vigolo); si pensi a quelle su Venezia, «città di vecchi e di amori disperati”, su Messina (con l’incontro della donna calabrese in nero, per sempre segnata dalla tragedia rusticana, un nero «che dilaga fino ad occupare i giardini e le pietre» e disperde i colori dal diorama di piazza Duomo); su Todi (città di pigri eppure patria del passionale Jacopone) e su Barcellona col ((sole che fiorisce negli occhi delle donne». Immagini fugaci, particolari sbozzati, un dialogare essenziale, a volte delirante, illuminano il microcosmo dei protagonisti, proiettandolo nel macrocosmo, e sollecitano il lettore all’immediata riflessione sul centimetro di scrittura. 

La meditazione è guidata e si allarga a ventaglio sulla vita, sull’amore, sulla morte, al di là di ogni logica comune, si concentra sulla “provvidenziale”pazzia, una pazzia attraente, coinvolgente, quella che dà sapore alla vita e apportafelicità all’uomo. Ed ecco l’elogio: «I pazzi inventano la vita», «I pazzi sono liberati». Così il protagonista afferma che Maria è una pazza con “la nonna-girasole”e “il padre-topo” e aggiunge con passione: «Bisognerebbe amare solo le pazze». «Anche io, professore Malaparte, cavaliere della Repubblica, non sono normale». 

Questo “vecchio” di cinquant’anni non si crogiuola nei rimpianti, ma ritrova gli slanci giovanili ed ora ha capito tutto della vita (e non era possibile capirlo prima), vuole gustarla nella sua essenza che è amore («Bisognerebbe vivere alla rovescia. Cominciare a novanta e finire a zero») e, come un fanciullo («L’amore è anche diventare infanzia»), vuole vivere ogni emozione nella sua intensità. La condizione di “vecchio” del protagonista è, fin qui, considerata nell’accezione positiva, quale momento di recupero dell’incanto dopo il disincanto, di acquisizione della coscienza del male di vivere ” normale” e piatto, di riflessione sull’ineluttabililità della morte e di approdo alla pienezza dell”‘amore fatto con l’anima”. È un recupero che muove dalla «disperata volontà di chiedere ancora dalla stagione stanca i frutti d’oro della giovinezza». 

“È l’autunno la stagione più bella della vita” – pare dica il prof. Malaparte, che riesce a sconfiggere la sua solitudine (che non vuol dire – precisa altrove lo stesso Grisi – “stare-solo”) tra le braccia della terrorista Maria, la quale ha nell’animo un misticismo che la redime ed una fede nell’utopia attraverso cui approdare alla libertà. 

Per lei esce dalla schiera dei “vivi già morti” che «all’apparenza si muovono. Piantano alberi e fanno affari. Ma sono in solitudine. Non hanno speranza… Sono nel sistema e vivono nell’ingranaggio». E ancora, «Maria è un fantasma per lottare contro la morte che viene». È l’illusione al di là dei confini del bene e del male, al di là di qualsiasi logica, come dicevamo. Approdo di un’inconsapevole ricerca, l’illusione si configura come amore-dolcezza-consolatoria del tarlo (il presentimento della morte) che è nel cuore dell’uomo, la morte che rende vana ogni lotta e “vince il toro e il torero” e che nel romanzo è presenza ossessiva, tenuta viva dalla figura del padre gravemente malato. «Anch’io – dice il prof. Malaparte – sarò come lui. E forse tra qualche anno mi porteranno in questo letto. E sarò in attesa, e allora, perché non vivere?» 

Ma l’illusione è polvere d’oro. Scivola tra le dita. Le intinge di luce. È sorriso. Impalpabile. E, poi, struggente memoria. Lo stile di Grisi ha un fascino contagioso. E l’esperienza irripetibile va ad arricchire quello che l’Autore chiama “sentimento del tempo”. 

Era già scontato, “ogni cosa doveva essere”. All’addio di Maria, l’amore-provvidenza, riappare lo spettro della morte, torna l’immagine sopita del padre e la sua visione del «carro di tenebre con il cavallo frustato» ed è il padre che, nell’immaginazione del prof. Malaparte, recita nell’aldilà Ezra Pound: «Come su fiori penduli la luce sfiorisce quando un vento li solleva. Se ne andava da me. Qualunque cosa avvenga un’ora fu piena di sole…». 

Un nuovo atteggiamento nei confronti della vita si accompagna, così, nel protagonista al desiderio del ritorno «nell’ombra degli uliveti. Una fetta di pane. L’acqua nel pozzo. L’alba negli occhi. E vivere così». (È questa una tra le molte pagine di intenso lirismo). 

Ora egli non può che autodefinirsi “savio” nell’accezione negativa del consenso, dell’accettazione della vita e della morte cosiddette “normali”, del “consumare il giorno”, l’uomo del “si”, che rientra nella schiera dei “vivi già morti”, un savio-morto appunto, che dinanzi al dramma dell’esistenza si fa schermo dell’ironia. 

Anna Maria Crisafulli Sartori

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 47-50.




 Intellettuali e impegno politico 

Il tema del rapporto tra intellettuali ed impegno politico è un tema antichissimo che riguarda aspetti importanti: il rapporto fra teoria e prassi, fra cultura e politica, fra il dominio delle idee e il puro dominio etc. Tutte le volte che viene in discussione quale sia il compito degli intellettuali nella società, con tutti i problemi connessi, fra i quali occupa un posto importante se essi costituiscano un ceto o una classe, se abbiano una loro funzione specifica e quale essa sia, molti introducono il discorso sulla divisione fra lavoro manuale e intellettuale, sulla progressiva estensione del secondo rispetto al primo, sulla disoccupazione intellettuale. 

Ha fatto notare il filosofo Norberto Bobbio (Voce “intellettuali” in Enciclopedia del Novecento, Istituto dell’enciclopedia Treccani, Roma 1978), che ciò che caratterizza l’intellettuale non è tanto il tipo di lavoro quanto la funzione: un operaio che svolga anche opera di propaganda sindacale o politica può essere considerato un intellettuale , per lo meno i problemi etici e conoscitivi del suo impegno sindacale e politico sono quelli stessi che caratterizzano il ruolo dell’intellettuale: qual è l’incidenza delle idee sulle azioni? È lecito distorcere i fatti per raggiungere uno scopo pratico? Come si colloca la sua attività nell’ambito del potere costituito o costituendo? 

È necessario, dunque, definire la categoria in modo non tanto larga da comprendere tutti i lavoratori non manuali, non tanto stretta da comprendere soltanto i protagonisti (Platone,Cicerone, Erasmo, Machiavelli, Kant, Kierkegaard o Nietzsche, Lenin o Gramsci.) Su questa base si possono operare delle distinzioni. La distinzione più ovvia è quella che si rifa al criterio delle “due culture”: da un lato gli umanisti, i letterati, gli storici, dall’ altra gli scienziati. Ricorre frequentemente anche la distinzione fra intellettuali creativi o innovativi e quelli ricettivi o ripetitivi. Altra opportuna distinzione è quella tra “ideologi” ed “esperti” che corrisponde alla distinzione tra intellettuali-filosofi e intellettuali-tecnici. “Ideologi” sono da intendere coloro che forniscono idee-guida, per “esperti” coloro che forniscono conoscenze mezzo. Gli ideologi sono coloro che elaborano principi in base ai quali un’azione si dice razionale; gli esperti sono coloro che suggerendo le conoscenze più adatte per raggiungere un determinato fine fanno sì che l’azione vi si conforma possa essere razionale secondo lo scopo. 

Ogni società in ogni epoca, come vedremo pur rapidamente più avanti, ha avuto i suoi intellettuali, o più precisamente un gruppo più o meno esteso di individui che esercitano il potere spirituale o ideologico contrapposto al potere temporale o politico, un gruppo cioè di individui che corrispondono per la funzione che svolgono a coloro che oggi chiamiamo intellettuali. Ma per quanto ogni società in ogni epoca abbia nel suo seno i rappresentanti di quel potere che a differenza del potere economico si esercita con la parola, e più in generale attraverso segni e simboli, oggi, quando si parla di intellettuali, ci si riferisce a un fenomeno caratteristico del mondo moderno. 

Non si può dissociare il significato di “intellettuale” dal significato di “intelletto” e “intelligenza”, e quindi dall’uso prevalente di operazioni mentali e di strumenti di ricerca che hanno un qualche rapporto con lo sviluppo della scienza. 

Il precedente più convincente degli intellettuali di oggi sono i philosophes del Settecento, ma occorre aggiungere che l’aumento di coloro che vivono non soltanto per le idee ma anche di idee, è dovuto alla stampa e alla facilità con cui i messaggi trasmissibili attraverso la parola possono essere moltiplicati e diffusi. 

La Riforma, le guerre religiose, la rivoluzione inglese, quella americana e francese, scatenano la produzione e la diffusione di una miriade di scritti che nelle età precedenti sarebbe stato impossibile immaginare. Nelle città greche la forza delle idee si rivelava attraverso la parola: la figura tipica dell’ intellettuale era l’oratore, il retore, in senso spregiativo il demagogo. Dopo l’invenzione della stampa la figura tipica del l’ intellettuale è lo scrittore, l’autore di libri, libelli, e poi di articoli su riviste e giornali. 

Per Kant l’illuminismo è strettamente connesso all’ “uso pubblico della ragione” sviluppato attraverso l’impegni degli intellettuali. Attraverso l’ uso della radio e della televisione si è allargato enormemente lo spazio e l’ influenza della parola e delle comunicazioni di massa. 

La caratteristica fondamentale del moderno ceto degli intellettuali è stata la formazione di una sempre più vasta opinione pubblica. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con l’affermarsi di quella che è stata definita, in modo piuttosto impreciso, “società dell’informazione” la stessa attività lavorativa diventa sempre più intellettuale. 

Il contesto storico-politico ha da sempre condizionato la considerazione che del proprio ruolo avevano l’intellettuale e l’artista, indirizzandola di volta in volta nel senso dell’impegno o del disimpegno, più o meno marcati che fossero. ‘L’arte per 1’arte’ o ‘l’arte per la vita’ sono formule che riflettono due maniere antitetiche di considerare prerogative e finalità dell’ atto artistico, che, in ultima analisi, scaturiscono dalle effettive condizioni della società in cui vive l’intellettuale che se ne fa portatore. 

La produzione ermetica di Quasimodo, ad esempio, non si può comprendere appieno se si prescinde dal clima culturale degli anni ’30, nel quale il poeta opera; allo stesso modo la valutazione della produzione letteraria e cinematografica neorealista non può non tenere in considerazione il tormentato clima della guerra partigiana, prima, dell’immediato dopoguerra, poi, che la alimenta e, se così si può dire, la provoca. 

Da questo punto di vista, è altamente emblematica la variazione delle prerogative dell’ intellettuale nella Grecia antica, in ordine ai mutamenti politico-istituzionali intervenuti nel corso dei secoli all’interno della società ellenica, col passaggio dalle libere poleis ai regni ellenistici. Ad Atene, nel V secolo, dove la gestione dello Stato implicava la partecipazione del singolo cittadino alla cosa pubblica, rendendo ogni ateniese zoon politikon, la dimensione politica era connaturata all’attività dell’intellettuale. Il disimpegno, in tale contesto, è inconcepibile. Si pensi alla più grande creazione artistica della polis, il teatro, ed alla fondamentale valenza politica che il dramma aveva nel contesto comunitario, sintesi di performance, assemblea e rito. 

Dopo la sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso e la fase ad essa seguita – con la dittatura, prima, dei cosiddetti ‘trenta tiranni’; poi, con l’ instaurazione di un regime democratico che condannò a morte l’uomo ‘più giusto’, Socrate – gli intellettuali iniziano ad interrogarsi sulle ragioni profonde della crisi della polis, cercando di proporne delle soluzioni etiche e politiche assieme. È indirizzata in tal senso la riflessione filosofica del più grande pensatore greco dell’antichità, Platone, il fondamento politico della cui speculazione filosofica è noto a tutti. Egli stesso ce ne parla nella famosa VII lettera, da lui scritta in età avanzata, nella quale, in ultima analisi, auspica l’avvento di una società di filosofi al potere. 

Nato in una famiglia aristocratica, da giovane Platone pensa di darsi alla politica attiva, guardando con speranza al regime oligarchico dei Trenta Tiranni, 

instauratosi nel 404 a. C., di cui fanno parte alcuni suoi parenti e conoscenti. Ma il futuro filosofo rimane fortemente deluso dagli eccessi di quel regime, come, in seguito, anche dall’ esperienza democratica di Trasibulo, ad esso seguita, che nel 339 condanna a morte il suo maestro, Socrate. È soprattutto tale drammatico evento ad indurre Platone a ritirarsi dalla politica attiva ed a convincerlo sempre di più della necessità di una riforma della politica a partire da una rifondazione del sapere. 

Solo la filosofia può rappresentare il punto di riferimento fondamentale del filosofo. Solo in virtù della vera filosofia, infatti, è possibile vedere tutto ciò che è giusto sia nell’attività pubblica sia in quella privata. E perciò le generazioni umane non si sarebbero affrancate dai mali, prima che gli autentici e veri filosofi non fossero giunti ai vertici del potere politico, oppure i potenti non si fossero messi a filosofare veramente. Si può dunque dire che Platone considera il ruolo dell ‘ intellettuale come fondato sull’impegno. 

Tale impegno viene decisamente meno in età ellenistica con il mutare delle condizioni politiche. Le poleis elleniche perdono l’indipendenza ed entrano a far parte, prima, del regno macedone di Filippo, poi, dell’ impero universale di Alessandro, infine, dei regni ellenistici dei diadochi. In un contesto politico in cui le decisioni sono appannaggio esclusivo del monarca, all’individuo non è più data la possibilità di condividere le scelte comuni: il cittadino si è trasformato in suddito. Conseguentemente, anche l’opzione obbligata dell’ intellettuale diventa quella del disimpegno. 

Esemplare in tal senso la figura di Callimaco, il poeta ufficiale di corte della dinastia dei Tolomei ad Alessandria – città diventata, fra l’altro, il centro culturale più importante del mondo ellenistico – dapprima sotto il Filadelfo, poi sotto l’Evergete. Callimaco non si rivolge più alla collettività, ma ad una cerchia ristretta di individui che condividono con il poeta conoscenze ed interessi. E, del resto, in tal senso va anche la diffusione della fruizione scritta dell’ atto letterario a scapito di quella orale. Bruno Snell definisce Callimaco e gli altri poeti suoi contemporanei, ‘post-filosofici’, poiché “non credono più nella possibilità di dominare teoricamente il mondo” e, allontanandosi dall’universale, “si rivolgono con amore al particolare”. Nel prologo alla seconda edizione degli Aitia così esorta il lettore: “Giudica la mia sapienza secondo l’arte e non col metro persiano”. Risultano ancora illuminanti le parole di Snell: “(Callimaco) non cerca altra misura dell’arte che non sia l’arte stessa. Tutte le composizioni poetiche precedenti avevano un significato che trascendeva la poesia, e anche quando la poesia perdette col tempo la sua funzione sociale i poeti si preoccuparono di cogliere significati nuovi e oggetti vi, […] mentre Callimaco giudica l’arte soltanto secondo il suo valore artistico. Con ciò egli si rivolge a un nuovo e particolare pubblico. La tragedia attica parlava ancora all’intero popolo, ora invece una ristretta cerchia di persone colte era chiamata a esprimere il suo giudizio.” 

Anche a Roma, come in Grecia, i mutamenti politico-istituzionali condizionano 

fortemente prerogative, ruoli e funzioni della figura dell’intellettuale, sui quali, però, influisce anche lo status sociale di appartenenza. Infatti in questa sede non facciamo riferimento certamente ai primi scrittori in lingua latina, che non erano non soltanto espressione della classe dominante, ma neppure cittadini romani, e non partecipavano dunque alla res publica, ma a quegli intellettuali che appartenevano alla classe di cives che detenevano il potere politico all’interno dello Stato. Si pensi a Cicerone o a Sallustio, fra gli altri. 

Per tutta l’età repubblicana la personalità del civis viene giudicata sulla base 

dell’ impegno politico e l’ otium è concepito soltanto come tempo libero dal negotium. Cicerone è uomo politico, prima di essere scrittore, anche se soprattutto 

scrittore di cose politiche. L’evento che più d’ogni altro contribuisce a modificare l’impegno dell’intellettuale è, senz’altro, il passaggio istituzionale dalla Repubblica al Principato. Con il regime inaugurato da Augusto, infatti, lo spazio di azione politica che al civis viene lasciato è senz’altro poco rilevante rispetto a quello gestito dalla corte imperiale. L’azione dell’intellettuale non può più essere propositiva, ma solo consultiva. Il suo luogo d’azione non è più il foro, ma la corte. Il suo più grande merito politico può essere, tutt’ al più, la formazione di un princeps illuminato. 

Sull’importanza decisiva di questo cambiamento istituzionale si sofferma Tacito nel prologo delle Historiae, quando afferma che dopo la battaglia di Azio, e dunque quando il potere si concentrò nelle mani di uno solo, magna ingenia cessere. In questo passo Tacito si riferisce, in particolare, alla crisi della storiografia, che sfocia nella corruzione, nell’adulazione, nell’invidia e nel servilismo di chi, persa definitivamente la possibilità di incidere nella gestione della cosa pubblica, diventa un vero e proprio suddito, che riceve ordini dall ‘alto e sconosce i reali problemi dello Stato. Ma identica è la causa della crisi della retorica, secondo Materno, portavoce del pensiero tacitiano nel Dialogus de oratoribus. Per attecchire, l’eloquenza ha bisogno di un clima politico arroventato, in cui ci sia spazio per le sedizioni, per la sfrenatezza popolare, per i conflitti fra i partiti. Essa è, cioè, alumna licentiae, quam stulti libertatem vocant. Per questo, secondo Materno-Tacito, l’eloquenza ha avuto un enorme successo durante l’età delle guerre civili, mentre il principato, eliminando tutto ciò, ne ha indirettamente impedito lo sviluppo. A conti fatti, secondo lo storico, tutto ciò non è un gran male, in quanto il principato, negando l’abuso della libertas, ha assicurato la pace sociale. 

Il percorso intellettuale di Seneca dall’impegno al disimpegno è particolarmente indicativo dell’incidenza decisiva che la realtà effettuale ha sulle scelte del singolo. Posto che, per lui, l’impegno politico di un filosofo si può estrinsecare, solo indirettamente, nell’opera di educazione e formazione del princeps illuminato, vero ed unico garante dell ‘ordine e della concordia dello Stato – come viene sostenuto nel De clementia e messo in pratica nei primi cinque anni del principato neroniano – l’opzione per la vita attiva, fatta nel De tranquillitate animi, viene superata nel De otio in favore di quella contemplativa, solo nel momento in cui l’influenza di Seneca sulle scelte politiche di Nerone viene meno, mentre si accentuano gli aspetti di spotici ed autoritari del regime. 

Con l’affermazione dell’intellettuale rivoluzionario contro il potere costituito in nome di una classe e per la instaurazione di una nuova società, e con l’affermazione dell’intellettuale puro che lotta contro il potere in quanto tale in none della verità e della giustizia, venivano proposti i due temi fondamentali del ruolo dell’intellettuale nella società che spesso saranno in contrasto fra loro e rappresenteranno i due poli del dibattito insoluto che giunge sino ai nostri tempi. Entrambi l’intellettuale rivoluzionario e l’intellettuale puro, hanno in comune la coscienza dell’importanza del proprio ruolo nella società e della propria missione nella storia onde si potrebbe parlare – e si parla spesso a ragion veduta dell’eterno illuminismo degli intellettuali: per il primo vale il principio che non si fa rivoluzione senza una teoria rivoluzionaria che di conseguenza la rivoluzione deve avvenire prima nelle idee prima che nei fatti; per il secondo, il principio che la ragion di Stato, la ragion di partito, di nazione o anche di classe, non deve mai 

prevalere sulle ragioni imprescrittibili della verità e della giustizia. 

Il sociologo tedesco Max Weber fu rigorosamente contrario alla contaminazione fra l’opera dello scienziato (Fine Ottocento-primi del Novecento) e quella del politico e del moralista. Per Weber l’unica impresa umana che doveva guidare la ragione era la scienza. Nel 1918 Weber in una celebre conferenza esaltava la scienza come professione e come vocazione, l’intima dedizione al lavoro dello scienziato e dell’insegnamento universitario che è certamente indicato per i profeti e i demagoghi. 

Anche l’italiano Antonio Gramsci elabora una sociologia degli intellettuali nei Quaderni del carcere scritti durante la detenzione fascista. La tesi dell’intellettuale organico è la risposta critica alla tesi dell’intellettuale indipendente. Se ogni classe ha i suoi intellettuali organici, anche la nuova classe avrà o dovrà avere i suoi intellettuali organici, ma saranno diversi da quelli tradizionali: l’intellettuale tradizionale è l’umanista, illetterato, l’oratore, il cui modo d’essere essenziale è l’eloquenza; il nuovo intellettuale, invece sarà insieme specialista (o tecnico) e politico (Gramsci usa la formula specialista + politico = dirigente). Questi in quanto politico non può trovare altra sede per l’esercizio della sua specialità che il partito, cui incombe in primo luogo, come partito della classe operaia, il compito della riforma morale e intellettuale della società. 

Che la rivoluzione dovesse essere guidata da uomini illuminati era un’idea che veniva da lontano. 

Già Marx, in un articolo giovanile, aveva enunciato le sue celebri tesi che “la teoria diventa potenza materiale non appena si impadronisce delle masse”, che “la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali così come il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali”. 

L’intellettuale politico e l’intellettuale puro rappresentano due modelli positivi, anche se spesso l’uno è negativo per l’altro. Esiste un contrasto che può essere di volta in volta composto, mai definitivamente superato. E sino a che il contrasto esisterà, si continuerà a discutere del problema degli intellettuali. 

Salvatore Costantino




 Calogero Messina, storico dell’anima siciliana, recupera «La Plebe» di Lorenzo Panepinto. 

In giro per la Sicilia con «La Plebe» (1902-1905). Un giornale dell’agrigentino introvabile. Herbita editrice, Palermo, 1985, pagg. 390. 

Dobbiamo alla tenace passione e all’acume di ricerca di Calogero Messina se a distanza di oltre ottanta anni non sono andate definitivamente perdute le annate del periodico fondato e diretto da Lorenzo Panepinto e se ancora possono essere consultate dagli studiosi del movimento contadino e delle origini del socialismo siciliano. 

Il curatore del volume, infatti, ha piena consapevolezza che la sua fatica non è soltanto un contributo alla tutela della memoria storica ma anche un apporto non irrilevante alla migliore comprensione dell’operato politico del suo illustre concittadino. Avere raccolto e pubblicato la «Plebe» è certamente un’impresa meritoria che fa onore a chi vi ha dedicato tante energie perché, in questo modo, è stato sottratto ai guasti del tempo e all’offesa della dimenticanza un cospicuo materiale documentario che appartiene a pieno titolo al più interessante patrimonio della storia della Sicilia contemporanea. 

La «Plebe» è un giornale dell’agrigentino: un giornale introvabile, come esattamente sottolinea Calogero Messina, quasi perduto nei labirinti di un ricordo che andavano pazientemente frugati, diligentemente investigati, e lucidamente rischiarati. Questo giornale irreperibile, aggiungiamo noi che da tempo sollecitammo l’amico e collega ad intraprendere siffatto lavoro, è stato quasi gelosamente custodito tra gli affetti più intimi di un popolo, considerato e preservato come un bene prezioso. 

La storia di questo giornale, quindi, non si circoscrive al pur breve ma intenso triennio della sua vita, ma è anche la storia del suo silenzio, della sua seconda venuta alla luce in una cornice di senso di padroneggiamento del tempo ritrovato. Artefice di questa operazione, Messina ha per un verso squarciato il velo d’oblio che il tempo impietosamente stendeva sulle pagine ingiallite della «Plebe», per altro verso ci fa guadagnare una dimensione cronologica che sembrava remota alla nostra sensibilità attuale. 

La sua ricerca di un giornale introvabile ha perciò lo stesso valore di una ricerca del tempo ritrovato, tant’è che appaiono assai commoventi la cura, la dedizione, la speranza e l’inevitabile delusione da cui è stato sorretto ed in cui si è dibattuto. «È stato un lavoro di una ventina d’anni – ci rammenta l’autore -. In quante biblioteche, in quanti archivi, in quante case abbandonate e abitate l’ho ricercato! Quanti libri ho sfogliato, con quante persone ne ho parlato! Più l’esito è stato deludente, più mi sono accanito nel mio impegno (mi capita spesso!), soprattutto dopo che sono riuscito a leggere qualche pagina della «Plebe». Pareva che fosse già stata condannata alla dimenticanza. Nemmeno una notizia nei lavori dei cosiddetti specialisti». 

Invece la «Plebe» è una fonte storiografica importantissima: attraverso i suoi fogli scopriamo una realtà sociale e politica ricca di fermenti, dominata dal bisogno, ansiosa di rinnovamento. Ne emerge un quadro nitido delle contraddizioni oggettive in cui si muovono i protagonisti dell’epoca e dell’articolazione dei rapporti sociali sul territorio. Pur essendo un giornale di provincia, la «Plebe» non è mai un angusto giornale provinciale dal momento che riesce sempre a coniugare il localismo con un progetto di formazione politica di più ampio respiro. In tal senso 1’ideale socia1isteggiante prospetta un punto di riferimento che può conferire una suggestione di coesione a quelle masse di diseredati e di proletariato rurale cui si rivolge il giornale quasi programmaticamente nella sua significativa intestazione. 

Gli emarginati del latifondo, che sono appunto la nuova plebe siciliana, trovano nel periodico di Panepinto un moderno mezzo di diffusione delle loro istanze ed un efficace mezzo di informazione della loro condizione presso l’opinione pubblica. Grazie alla «Plebe» essi stessi diventano opinione pubblica e perciò in qualche modo voce che fa sentire il proprio parere e la propria presa di posizione ora sui patti agrari, ora sulle scelte dei candidati alle elezioni, ora sui problemi dell’economia mineraria, ora sulle questioni dell’istruzione pubblica. 

Il giornale è moderno nella sua impostazione: vuol essere una palestra di dibattito per tutti i socialisti dell’area bivonese, ma anche un raccordo con il socialismo siciliano e quello nazionale. Per questo motivo si dà ampio spazio alla polemica, ma soprattutto alle conquiste salariali ed ai progressi effettuati sul piano dell’organizzazione delle leghe e delle cooperative di mutuo soccorso, di produzione e di consumo. I testi delle risoluzioni adottate dal movimento contadino nei convegni tenutisi in quegli anni sono pubblicati con grande rilievo e costituiscono oggi, per gli addetti ai lavori, documentazione essenziale per la comprensione delle alterne fortune del socialismo siciliano. 

Accanto a questa ispirazione squisitamente politica non va sottaciuta l’esigenza che Panepinto avvertì sempre in maniera consapevole di un più vasto coordinamento con gruppi e luoghi affini per problemi e situazioni. 

È interessante notare come la «Plebe» si avvalse di una fitta rete di corrispondenti di ogni centro dell’Isola e come mantenne vivo un flusso di notizie tra le due sponde dell’Atlantico abitate da cittadini stefanesi. La lotta per l’esistenza, ci mostra la «Plebe», è la stessa sia in terra di Sicilia sia a Tampa negli Stati Uniti. Sotto questo punto di vista il giornale di Panepinto fu una fiaccola di sentimenti comuni tra chi restava e chi emigrava e contribuì potentemente a mantenere vive le radici di italianità e quelle più autenticamente popolari della nostra gente. 

Calogero Messina, che è storico tra i più attenti dell’anima del nostro popolo, ha reso pubblico, con la collaborazione di un editore illuminato, il testamento spirituale di Lorenzo Panepinto, la cui piena fruibilità non può che essere di incitamento per nuovi studi. 

Manlio Corselli 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 59-61.




 Sull’ironia di N. Martoglio 

Vito Titone, L’agro della favola, ed. Centro Servizi Stampa Facoltà di Magistero, 

Palermo, 1988, pagg. 130, s.p. 

Con il suo consueto stile, che coniuga stringatezza, chiarezza e capacità critico-analitica, il prof. Vito Titone, docente di Lingua e Letteratura italiana dell’Università di Palermo pubblica i risultati della sua ricerca sulla Centona di N. Martoglio. 

È un lavoro questo che, ci sembra, consente all’autore, con tipica e pertinente penetrazione, di rappresentarci il complesso mondo martogliano e l’humus che lo sorregge. Un mondo che Vito Titone articola attraverso l’esame dei seguenti temi portanti: società e linguaggio, le suggestioni letterarie, tra eros ed ethos, preludio al teatro. 

Certamente, per lo spazio di una semplice e modesta recensione, non possiamo parlare distesamente (come meriterebbe) della fatica di Titone. Non possiamo tuttavia esimerci dall’individuare nel «realismo» e nell’«ironia» del Martoglio la chiave di lettura del saggista, il quale, inoltre, nota anche i limiti ideologici del poeta e drammaturgo siciliano nella mancata occasione di una «vasta dialettica della società isolana» (p. 93). 

Il realismo del Martoglio è quello filtrato dall’anima di un poeta che contemporaneamente è uno «scettico razionalista» e un «moralista», «reprensore (e nel contempo difensore) di un atavico costume, che tradisce una certa disposizione ad un’etica solo assai genericamente cristiana» (p. 98). 

Da questo campo d’osservazione la «mimesi» dell’artista, sia nella Centona che nell’opera teatrale, non può condursi che attraverso l’ironia, la cui fabula non può che avere il sapore dell’agro (da cui, secondo noi, L’agro della favola), specie se il campo semantico di «agro», pur da radice diversa, abbraccia sia il pungente, l’aspro della satira che la campagna come metafora del popolare. 

Ma l’ironia di Martoglio dove il «riso» ha una valenza conoscitiva e non di puro divertimento o di scarica ilare, dice il Titone, si serve di una parola, come delle ipotiposi e delle metonimie, per aderire con mimesis e verosimiglianza al mondo tragico dei catanesi e dei siciliani e renderlo nella vividezza dei suoi contrasti eterni, spesso emblematizzati nella dialettica metafisica di vincitori e vinti per eterno destino. 

La mimesis dell’ironia martogliana però non riproduce né il vero né il verosimile come copia fotografica, perché la mimesis non è oggettivo riflesso bensì azione della poiesis dell’artista, così come documenta la morfologia di questi termini che sono diventati cardini paradigmatici della cultura letterario-filosofica occidentale. Né tanto meno il «verosimile» è da tradursi e leggersi come «simile al vero» ma come credibile perché ragionevole nella praxis del poeta che rimpasta la realtà. 

Ma l’ironia martogliana non nasce solo dalle tragiche condizioni del mondo siciliano e dall’altrove, dallo spostamento di senso che l’ironia sistematicamente comporta come chiave di lettura e artistica. Essa nasce anche da una convinzione ideo-logica di vedere e rappresentarsi la realtà nella sua contingenza e casualità (forse un inconsapevole precursore letterario della «sfida della complessità»?). 

La mimesis martogliana come la realtà è permanente processualità dinamica 

e aperta come i processi del «non-equilibrio». «Poeta realista, nel significato più vero della locuzione, Martoglio, paradossalmente, distrugge la realtà nella sua apparenza fenomenica per reinventarla nella sua significatività; e la reinvenzione è affidata ad un interessato processo di costruzione e distruzione. Un processo cioè di accumulamento e di depauperamento di significati, di fissaggio, di amplificazioni e di modificazioni di immagini, di scarti successivi, talora vistosi, talora appena percettibili dei registri linguistici» (p. 125). 

Antonino Contiliano 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 50-51.