L’io in-composto di Angela Scandaliato 

Algoritmi del Cuore, Palermo, ed. Il Vertice, 1987. 

Più che una coscienza inquieta, la poesia di Algoritmi del Cuore di Angela Scandaliato, con premessa di Gaspare Giudici e una post-fazione di Pino Amatiello, ci dà lo spessore di una coscienza «in-composta»,lacerata dal vuoto del fondamento delle «certezze consolanti» dove, profugo della ragione, l’io della poetessa cerca o si trova nei luoghi del labirinto, della memoria e del mito come un ritrovarsi retro, quasi un ritorno all’antico ma per interrogarlo. 

L’hybris si consuma attraverso una serie terminologica d’attacco pressante e senza indulgenza: brandelli (termine ricorrente anche nella prima raccolta della Scandaliato, Intermittenze mediterranee: quasi preannuncio), rifiuti, rottami, straniero, spettri, ecc., e una costruzione del verso libero dall’interpunzione e segnato dalla parola emblematica: Eros, Caos, Cosmos, Medusa, Grazia, Gioco, Sisifo, ecc., quasi a concretizzare, esistenziare, nel grafema e nella grammatica sintattica e semantica, questa situazione di angosciata interrogazione. Una interrogazione che erra nell’ambivalenza semantica della crisi: crisi come perdita di identità e crisi come scelta di un nuovo iter. 

La parola singola, che, nella composizione, si pone come verso d’attrazione particolare, e il mito, in Angela Scandaliato, spesso assumono uno statuto figurale, simbolico, che si fa carico, con tutta l’incidenza dell’allusività polisemica, di filtrare prismaticamente la realtà del presente, non escluso un pizzico d’ironia nei suoi esiti politico-culturali ed etici: «Le tue pause hanno il sapore/dell’acqua gasata tante bollicine/frizzanti sull’aridità che la zanzara/aggredisce ronzando sul biscotto/del vin santo spezzando eleatici sguardi d’esistenze intermittenti/E la morte di Dio e quella di Nietzsche/e l’ultimo canto di Saffo è il/nostro canto quotidiano» (ivi, p. 60). 

«Il tragico sommato/del tempo» di Angela Scandaliato, i cui addendi sono anche il linguaggio della nostra epoca tecnologica, se ha un procedimento «risolutivo», un algoritmo, è quello del cuore, di questo navigare nel mare (dove centro e periferia si dilatano infinitamentre come un labirinto che si slarga e cresce su se stesso) che ha il proprio «calcolo» – una posizione precisa, netta e chiara – nei confronti di quell’«ordine» e di quella verità intollerante per cui Garcia Lorca morde «canti del sale». 

Pascal, forse con Algoritmi del Cuore non divide più l’ésprit della ragione e l’ésprit del cuore. La loro con-fusione è in cammino? 

Antonino Contiliano 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 43-44.




 L’etica dell’evento e della contingenza 

Elisabetta Donini, La nube e il limite. Torino, Rosenberg & Sellier ed., 1990, 

“Evocata da una donna. la sostanza invisibile della nube di Cernobyl si materializza nel concreto del vissuto quotidiano. svuotando di senso ogni poesia ed incantesimo. Nelle riflessioni di un uomo. le tracce metaforiche dei cieli della conoscenza segnalano come attorno a ciascun soggetto si condensino dei nuclei di sapere che in tanto sono significativi, in quanto sono limitati.” (ivi. p. 7). 

Certo è che se la nube è quella di Cernobyl o di Seveso o Bhopal o di S. Hussein, lo scud – nuvola leggera spostata dal vento (i missili iracheni che avrebbero dovuto portare le testate chimiche della “madre di tutte le battaglie” nella guerra del Golfo) -, contro cui venivano usati i patriot americani insieme alle “bombe intelligenti”, allora è piuttosto possibile che l’immaginario della nube si perda nel disincanto e nella paura, dal momento che la tecnica ne ha fatto un veicolo di morte, di malattia del corpo umano e di entropia della qualità della vita. 

Tuttavia, pur con letture diverse, la prima di Cristiana Wolf (“evocata da una donna”), e la seconda di William Thompson (“nelle riflessioni di un uomo”), la nube, nel testo della Donini costituisce. a nostro parere. metafora di saperi e pratiche diversi. 

Essa, infatti, con la sua capacità autorganizzativa in forme sempre differenziate e sostanzialmente imprevedibili, segna una cultura della relatività, dell’evento e della contingenza. Del resto la sua storia come simbolo, sia nella storia del pensiero occidentale che orientale, è tracciata come perenne metamorfosi o fonte creatrice di forme-mondi sempre diversi e in perenne movimento senza “legge” e azione comunque intesa a rimuovere il “limite” delle cose. 

Per il cinese taoista c’è un ordine intrinseco e spontaneo della natura – wu wuei (non-azione, appunto o azione spontanea) -, per cui i suoi processi sono continui e regolari anche al di fuori (anzi) di una legge e di una azione dettate esternamente da Dio o dall’uomo. Diversamente invece accade nella cultura occidentale del passaggio dell’universo finito a quello infinito (ivi, A. Koyré). 

Seguendo Joseh Needham (ivi, p. 213), oltre che le origini del pensiero filosofico greco e la configurazione moderna dello sviluppo della scienza, la Donini, infatti, fa vedere, in maniera suggestiva ma anche argomentativamente serrata e congetturalmente fondata, come il concetto di legge e di azione abbiano caratterizzato il mondo occidentale e lo abbiano anche connotato tragicamente con i tratti della violenza, del dominio gerarchico e di potenza. Un dominio e una violenza rivolti sia contro la natura, che gli uomini e le donne, dei maschi contro le femmine e la natura, specie, allorquando nell’età moderna, passando da una concezione organicistica della realtà a quella del determismo meccanicista del sapere aude dell’uomo Jaber, si è affermato il mito dell’uomo -dio (o “dell’uomo maschio bianco borghese, come l’ha chiamato la stessa autrice) con tutte le implicanze di ordine etico e politico che ciò ha determinato sia sul piano dei rapporti tra le persone che tra gli stati. 

L’uomo-maschio-borghese occidentale ha trasferito l’idea di legge e quella di azione creatrice, produttrice e riproduttrice, dall’ordine sociale a quello cosmico come norma e atto imposti dall’esterno: Dio-Padre o uomo (o rovesciando i termini) ha voluto modellare il mondo umano a immagine e somiglianza delle leggi e dell’ordine presupposti nella/della natura. Le leggi svelate dalla ricerca scientifica sono manipolabili con i ritrovati della tecnica in maniera oggettiva, impersonale e con procedure universalmente valide. Nell’uno e nell’altro caso si è sempre fatto appello ad una necessità indiscutibile e inappellabile. Essa è stata quella della cultura della verità assoluta. Assoluta, necessaria e universale perché sottratta alla concretezza della contingenza e dell’evento e ridotta agli schemi astratti della simulazione logica del laboratorio, fino ad arrivare alla dematerializzazione e derealizzazione della guerra del Golfo, battezzata “tempesta nel deserto” dal piano americano di aggressione al nemico iracheno. Qui gli obiettivi militari e civili sono diventati schermo per wargames: simulazione informatica e scacchiera da “guerre stellari”. Le cose e le persone sono diventate impersonali inquadrature di punti e coordinate spazio-temporali sullo schermo dei computers calcolanti la quantità e la qualità della distruzione e della morte. 

Una scienza, una cultura al servizio del potere e del dominio a tutti i costi, capace di rimuovere qualsiasi “limite”. Un sapere e una pratica dell’aggressione gratuita e folle, senza rispetto per le interdipendenze e la coordinazione sistemica che vige nel multiuniverso. 

Dalla cultura violenta della gerarchia e del dominio della verità assoluta, il libro della Donini pone l’emergenza di una cultura al “femminismo”: la cultura della relazione, della correlazione, delle interdipendenze legate alla coscienza del “limite”, che, come dice la sapienza cinese del Tao, non sempre va forzato. Il limite così si connota come una dimensione trasversale che: 1) nella conoscenza impone una relazione di interdipendenza dinamica soggetto/oggetto, soggetti/soggetti, soggetti/mondi, 2) in etica attenziona la responsabilità dell’interconnessione tra l’affermazione di sé, il riconoscimento dell’altro e della natura, 3) nei rapporti tra le persone e il mondo sottolinea la reciproca compatibilità delle parti del sistema, anziché il dominio di una sulle altre. 

Il testo è una denuncia continua e serrata della logica del dominio sia della scienza e della potenza che del modello capitalistico e neocapitalistico, aggressivo e manipolatorio, che alla scienza si rivolge per trovare giustificazioni al proprio modo d’essere. Dalla stessa l’uomo-maschio ha tirato fuori una concezione e una visione della verità che, sessualmente penetrando la materia e la donna, le subordina alla generazione passiva di sempre nuove creature. Persino la “fissione” del nucleo di uranio penetrato dal neutrone ripercorre questa strada: dalla divisione dell’atomo, come dalla divisione cellulare in biologia, si genera, viene alla luce, nasce il “Little boy” (ragazzino) e il “Fat man” (uomo grasso): le prime bombe atomiche che distrussero Hiroshima e Nagasaki. 

Non dissimili dalla logica del dominio è quella del “dono”: anche questo è un venire dall’esterno, specie se ci si rifà alla tematica della bioetica che guarda alla vita come a un dono, che, appunto per la sua origine, è un qualcosa che viene dal di fuori del proprio corpo, sebbene se ne vorrebbe salvaguardare l’integrità dagli interventi della riproduzione artificiale e dell’ingegneria genetica. Sulla questione del “mettere e venire al mondo”, poi, utilizzando certe riflessioni decostruzioniste del tipo di J. Derrida, l’autrice svela la pretesa innocenza e neutralità di termini come “procreare, generare, riprodurre”, che si riferiscono alla natalità. Procreare rinvia a un agire per conto di Dio. Generare rinvia al genus, alla stirpe, alla proprietà, alla trasmissione del patrimonio ereditario. Riprodurre rinvia a un modello meccanico di ripetizione di copie.

Queste sarebbero identiche a strutture date e statiche. Il modello è quello della “trascendenza”, di una separatezza della verità che, con protagonismo maschilista aggressivo e illimitato, crede di trasformare le cose con evidenza e certezza evolutiva incontrovertibile. 

Il modello “femminista” che la Donini gli contrappone, invece, è quello dell’immanenza, della co-evoluzione contestuale e plurale. Questo ha la mobilità e la consapevolezza della parzialità dei punti di vista, la contingenza e la provvisorietà degli eventi-fenomeni inter-agenti all’interno dei sistemi chiusi e aperti. U~ modello che’, cogliendo un pensiero di Lidia Menapace, si pone all’interno di un’etica della contingenza e dell’evento: “La parola ‘evento’ mi sembra carica della possibilità di comporre o almeno confrontare attivo e passivo, decisione e attesa, opzione e risposta. E in questo senso mi sembra una categoria di un pensiero politico che non oscilli più di continuo tra programmazione ed emergenza, tipico di chi non è in grado di realizzare davvero la portata solo eventuale delle proprie previsioni, né gli strumenti della flessibilità necessaria per capirne le logiche, le interruzioni, gli svolgimenti. Analogamente credo che sia importante costruire un’etica dell’evento, che ti consenta di prendere la decisione quando la devi prendere, con il senso del suo limite e rnormabilità” (ivi, p. 238). 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 49-52.




 Una poesia essenziale 

Lucio Zinna. Bonsai, Palermo – Sao Paulo, Ila-Palma, 1989, pagg. 56. 

Esiste un filo conduttore tra le opere precedenti e quest’ultima, attraverso il quale si evolve un discorso continuativo. il cui sviluppo graduale permette all’autore di presentare, in maniera ampia e completa, le problematiche esistenziali, verificate però allargando l’indagine conoscitiva verso uno spazio vivente più vasto, varcando così definitivamente la cortina di silenzio che protegge i pensieri, privatizzati dalla paura di scoprirsi e di scoprire le proprie debolezze. 

Tramite l’analisi accurata di situazioni e di vicende personali, il poeta giunge, dopo ulteriori riflessioni, ad un riscontro dalle caratteristiche universali quanto mai evidenti. È un perpetuo travaso di lucide e razionali conclusioni, viaggianti su un binario unico, che inizia e finisce senza fermate secondarie. Si tratta della ricerca di nuove formule, per mescolare e coordinare le parole, ottenendo, con manovre da abile alchimista, uno stile raffinato, di grande effetto compositivo e terminologico. Esso rende la poesia essenziale, depurandola da inutili e superflui involucri strutturali, che, di norma, la appesantiscono con zavorra, utilizzabile soltanto per il galleggiamento persistente, di certe tendenze e correnti letterarie ormai stantìe. Ma l’elaborazione operata dall’autore, se da un lato rende agile e scorrevole la scrittura, raccogliendo valide ipotesi di sempre nuove sperimentazioni logiche, dall’altro propone una poesia che, al primo impatto, sembra fredda, difficile, chiusa, ma, dopo una successiva e attenta lettura, rivela aspetti di notevole interesse. S’insinua tra i versi una sottile e discreta velatura intellettuale, tessuta nel tempo con pazienza e tenacia, del resto, alquanto naturale, considerata la costante e ininterrotta permanenza del poeta, nell’ambiente letterario. 

Si aggiunga anche il persistere di un leggero strato d’ironia. addolcito dai ricordi, ricostruiti e rivisitati insieme ad alcuni avvenimenti legati al mal risolto meridionalismo, o meglio, meridionalità, tanto pesante da sopportare perché sempre imposta dall’alto, un’isola dentro l’isola, dove si attende ancora la libertà dai cosiddetti liberatori-conquistatori, senza capire che è necessario trovare dentro di sé la capacità di liberarsi ( «Preghiera per i liberatori»). 

Il simbolismo è un’altra arma, sciorinata dall’autore per mettere a fuoco quelle che sono le caratterizzazioni umane, cercando una possibile classificazione («Gli irreversibili»). Ma il rivelare le gelide e ostiche realtà della vita, accende il desiderio di fuggire in una ipotetica «Casablanca», giardino, eden di «Palmizi bianchi» e «Bianchi palazzi» dove si confonde il passato vissuto, con la voglia di vivere, seppur meno intensamente l’improvviso flash nella memoria di rievocazioni frammentarie, che impreviste tornano, ospiti del pensiero, sotto forma di brevi ritratti, istantanee riviste in piccole sequenze alternate. Restare dunque, e affrontare l’enorme cosmo cittadino, vivere, e sentirsi in trincea tutti i giorni, immersi in questa urbana follia, oppure scappare? È difficile fare una scelta, sempre che esiste ancora la possibilità di scegliere. Per Zinna il dilemma continua, forse non c’è soluzione, forse bisognerebbe invertarla, ma non è detto che in seguito il poeta non ci riesca. 

Maria Giovanna Cataudella 

da “Spiragli”, 1990, n. 1 – Recensioni 




Il contrassegno del poeta 

Gaetano Salveti – P.O.W. 358483 poesie disperse – Ragusa, CDE, 1990, pagg. 48. 

Salveti ha al suo attivo numerosissime pubblicazioni, tra le più recenti ricordiamo: Il caso Lucifero (prefazione di Giacinto Spagnoletti, 1982 ) e Il vento delle Pasque del 1989. Inoltre, sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, e ciò dimostra l’internazionalità di questo poeta e critico letterario. E ancora Dimenticanze e successi ingiustificati – Cosenza 1983; Il trapianto dell’io – Palermo 1989; Elogio all’ipotesi – terza edizione Maiori, 1986. Al momento è Segretario Generale dell’Associazione Critici Letterari Italiani e Segretario Generale dell’Union Europèenne des Artistes, des ècrivains et Hommes de Science. 

La sua ultima silloge raccoglie poesie inedite, scritte quando si trovava prigioniero in Mrica, durante la seconda guerra mondiale, ed era appena all’inizio della sua attività creativa. 

I versi che compongono ogni singola immagine di ricordi così particolari e terribili si trattengono sullo scritto lievemente, quasi volessero disintegrarsi nel tempo. Tuttavia queste immagini riescono con estrema lucidità ad essere solide, compatte presenze guidate da un caratterizzante essenzialismo che determina il quadro, quanto mai esauriente delle emozioni vissute, senza l’assillo di un possibile ritorno ad una estensione temporale del passato. Dunque, l’evolversi del pensiero corre sul filo dipanato della memoria, sviluppando una serie coordinata di frammenti esistenziali alternanti tra la vita quotidiana nel lungo momento della guerra e il vissuto normale e felice all’interno del nucleo familiare, idealizzato come un sogno mitico, un Eden perduto, ma forse ancora recuperabile, sotto forma di energia, stimolo continuo per non smarrire l’esatto svolgimento della ragione, sopra ogni probabile demoralizzazione psichica: 

«…Frammenti! degli amici, degli studi della casa dei giorni più felici. .. È triste dimenticare le cose consuete…» (Frammento di Sempione). 

La figura di Serapione (non è altri che il poeta) ci conduce attraverso il racconto utilizzando, nelle situazioni descritte via via, un sottile velo sensitivo che ricopre con garbo e con maestria il contenuto assemblaggio di protagonisti, siano essi uomini, luoghi o paesaggi che non sono separati nettamente in categorie ma si mescolano con naturalezza. «Venne e parlò: son io. Poi chiuse le palpebre e gridò: son io. Quindi si copri di un velo e scese nel deserto…» (Memoria per il capitano Gibardi). 

L’ambiente che ospita il confronto delle armi, non è un sito poi così ostile e ciò è dimostrato dalla delicatezza con cui l’autore descrive alcuni particolari: «Notte di oriente lucidità del prodigio… Deserto di dolcezze a questa landa dolcezze di risacche colonne pensili di mare…» (Il mio golfo). 

Le bellezze che catturano lo sguardo anche soltanto per qualche istante, suscitano un lirismo che però si spegne quasi immediatamente nella cruda certezza bellica: «Cimiteri marini e paesi per sempre abbandonati…» (Il mio golfo). 

Il desiderio di dimenticare la condizione attuale, non accettata perché non voluta, trascina il malinconico fragore dei pensieri, che sciabolano senza tregua dalla terra natia («Risale dalla notte il tuo ricordo terra natia, tenero paese festose campagne di ciliegi a rosse lune» (Casa quadrata), al naufragio interiore nella consapevolezza di aver sprecato gli anni migliori, quelli più importanti: «Sopra 

specchi immoti di deserto… passi stanchi, memorie, galoppo di cavalle sul Volturno sentieri di lichene e capelvenere giovinezza che sfuma nella guerra…» (Solitudine). 

Il deserto, menzionato quasi ossessivamente è il simbolo immoto della solitudine e del rimpianto, ma anche la denuncia di uno “status” di «soldato perduto nel deserto» (Ricordi) che oppone resistenza, rifugiandosi in un turbinio di passato-futuro, alla ricerca di una dimensione più chiara dell’essere umano: «E tu, invecchiato precoce Serapione cerca dell’uomo il giorno che ti manca» (Ricerca). 

La poesia si scioglie con cadenza espressiva del linguaggio, costruito tramite una sobrietà fraseologica, molto efficace. «La rocca diruta, l’altare abbandonato, la cresta dei merli…» (Elegia alla noia). 

È rilevabile il misto compendio di aspirazioni varie, che annoverano anche l’evenienza di tollerare positivamente persino la noia, come un utile antidoto per l’oblio: « Meglio la dolce, amabile noia… la voce che tutto fa uguale» (Elegia alla noia). 

La reclusione sembra confinare in un limbo preordinato, privo di visibile perimetro, l’autore e i suoi compagni. L’unica traccia che riporta un alito di vita è il discontinuo mutamento atmosferico e i rumori circostanti. «È passato il ghibli sulle tende. Viene dal Nilo la frescura della sera il canto del jellàh, il rumore del biroccio sulla strada» (Negritudine 4). 

Una ridda di sembianze eteree che interrompono il silenzio appassito della segregazione. 

I carcerieri si allineano ad un segmento di riflessa similitudine con il quadrante fisico e spirituale dell’autore. Infatti la frase «s’annera tra i negri della muta» offerta in diverse versioni si trasfigura in una triste litania, anticamera del lamento isolato, che assurge a mesta preghiera ormai priva di speranza. 

P.O.W. 358483 (non a caso il titolo del libro) è una sigla, un numero che contrassegna il poeta e lo accompagna per tutta la permanenza nel campo di prigionia. La guerra, atroce e diabolica invenzione, riduce l’uomo ad un semplice numero: questa la drammatica realtà che viene sempre imposta con la forza, mascherandola come unica soluzione per risolvere i conflitti sociali. Ma la contiguità degli elementi presi in esame provoca una combinazione in perfetta armonia. Il narratore si confonde con il narrato in una fusione mistica che coinvolge il lettore, pur senza l’ausilio dei rituali formalismi, di solito utilizzati da certi reduci che esaltano, simili a “novelli rambo”, la “falsa gloria” degli eventi. 

Questo non è certo Salveti per il quale la composizione diventa un felice pretesto, che nonostante l’argomento trattato, non si chiude alla lettura delle riflessioni, ma assimila nel contesto globale, altre e nuove aperture tematiche. L’attualità della raccolta ne è la conferma, l’autore va oltre il significato primario del poetare, in quanto affronta, con l’elasticità tipica “dell’incessante navigatore di parole”, l’itinerante letterario. 

La semplicità del segno non soffre di scalfiture provocatorie, ma vuole essere il commento pulito di una frase storica appartenente ad ogni individuo, al di là del fatto generazionale, che avverte comunque la necessità, l’esigenza di una continua analisi delle azioni e dei comportamenti umani, affinché possa concretizzarsi in un “presente-futuro immediato” la capacità dell’uomo di vivere un rapporto sereno e civile con i propri simili e con il territorio, 

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 53-55.




G. Stecher, Album, – Editrice Il Vertice, Palermo, 1991, pag. 32.

Leggendo i versi della Stecher (vive e lavora a Messina. Collabora alla terza pagina della Gazzetta del Sud, ha pubblicato: “Dialoghi e Soliloqui” – Firenze 1978-; “Qualcosa di sbagliato”- Palermo 1981-; “Non la terra” Palermo 1983-; “Quale Nobel Betuna” -Palermo 1986-; sue poesie sono presenti in riviste ed antologie sia italiane che estere) è quasi del tutto naturale immaginarsi l’autrice seduta alla sua scrivania, intenta a raccogliere da vecchie e ingiallite foto d’epoca il ricordo, l’emozione, il pensiero svanito nel tempo. Gli affetti familiari sono “la culla primordiale” del nostro “crescere”, della nostra personalità, e se vissuti in serena simbiosi, offrono spunti incredibili per itineranti “trasmissioni” della memoria, ricco forziere di possibili animazioni sensitive, lontane dal freddo pragmatismo psicologico. Non basta rivelare come preistorico florilegio gli episodi genealogici, per coinvolgere con la poesia chiunque voglia soffermarsi sull’idillio elegiaco di un “artista delle parole”. Occorre (come fa la Stecher) “creare” atmosfere, veri teatri di posa dove gestire la regia del “raccontare”, con la naturale conversione di attenti, precisi riferimenti storici e sociali che navigano “oltre” il tema privato, in un armonico, coerente “spazio architettonico” dove l’eterogeneità dei singoli componenti non agisce come elemento di disturbo. Un “campo lungo” che si rivolge a se stesso, estraendo l’io narrante per adagiarlo su una base speculare, adatta all’interpretazione diretta dello spirito introspettivo, ultimo anello della catena, ma assolutamente fondamentale. Le assonanze ironiche, terse freddure logiche, aggiungono lo stile denominativo, che puntualizza senza errore il temperamento “stecheriano” (“… La tua incuranza fu la loro penai perché non c’è peggio per i polli / che di veder fuggire un prigioniero”. – Foto di mia madre-). 

Da non dimenticare la minuzia, il gioco sottile del “particolare”, non sempre legato ad un oggetto ma spesso identificato con l’atteggiamento specifico, che attira l’attenzione selettiva e sagace (non per questo discriminante) della poetessa, abile nelle sortite dialoganti con l’ampio carnet dei personaggi presi in esame. 

Questa miscelante rappresentazione del nucleo domestico, lascia nel lettore un vago profumo di cose perdute. Evanescenti essenze mai svaporate dalla ciclica e intermittente “danza delle ore”. Ingranaggio di percezioni che non “corrodono” la temporalità poetica dell’autrice. Lucida e reale evocatrice del proprio lirismo. 

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pag. 79




Carmelo Pirrera – La farfalla di Brodsky. Ediz. Il Vertice, Palermo, 1992, pag. 91.

Carmelo Pirrera (nato a Caltanissetta nel 1932 ma vive a Palermo) è un autore versatile che ama «distribuire- il proprio estro grafico nei diversi settori della scrittura (la poesia, la narrativa e la critica), senza subire alcuna difficoltà di impostazione. In questa epoca letteraria dai labili e scadenti «costumi creativi» spacciati per «genialità di pensiero» è un fatto raro, degno di attenzione. 

Tra le numerose pubblicazioni segnaliamo: Racconti: Il colonnello non vuole morire – Palermo 1978: Poesie: Il miele di maggio Itinerario antologico – Palermo 1985; Pergamo la cenere – Palermo 1986. 

C’è da aggiungere la collaborazione di Pirrera con riviste specializzate e l’impegno con cui dirige una casa editrice siciliana (in particolare una collana di «presenze nella poesia») per la quale ha realizzato alcune raccolte antologiche, inoltre, le sue poesie sono state tradotte in svariate lingue. Questa ultima silloge ha registrato notevoli riscontri positivi. 

Il libro, suddiviso in varie e ordinate argomentazioni che hanno una loro precisa collocazione strutturale, permette una lettura scorrevole e coordinata. La composizione sviluppa il suo reticolo lirico traendo origine dal ricordo. La memoria, con l’infinito bagaglio di immagini remote, accende la mente che si abbandona all’onda costante del confuso smembrarsi di episodi, sentimenti, persone e sensazioni riemersi improvvisamente dal silenzio più profondo dell’anima. Il passato e il presente si «attraversano», incrociando un muto e onnipresente ascoltatore («l’altro io»), sicuro e indiscusso giudice del «muoversi» quotidiano nel bene e nel male. 

«Esigenza dialogante» primaria per il poeta che rievoca senza tregua, in uno sfogo intimo e solitario, la metafora trascendentale dell’essere, lievitando così in un possibile sollievo spirituale. Anchise, personaggio emblematico, controfigura dell’autore che aleggia in tutta la raccolta («Da vecchio, Anchise riscoprì le lacrime ed il gusto del pianto. Il miele era ricordo di una bocca e di seni di luna, ed era già finito quando sciami d’api scesero a pungerlo negli occhi»). Definisce il modulo tecnico della comunicazione espressiva, non necessariamente legata al verso, stimolando il metodico sciogliersi di un «canto» spontaneo che sommerge il volo radente delle parole, in perfetta simmetria con il «suono» grammaticale. 

Ma figure evanescenti appaiono e scompaiono in un silente e ininterrotto colloquio con il poeta (•.. .Inutile tirarsi il lenzuolo sulla faccia. Mi stanno guardando tacendo È per orgoglio. soltanto per orgoglio. che resisto alla voglia di urlare il mio disappunto per questa invasione improvvisa e per questa nuova violenza…» “Gerontion”). 

Come uno «specchio animato» le percezioni più nascoste ed invisibili della coscienza accennano un ritorno, per essere considerate nel loro intento persuasivo alla riflessione. anticamera di un probabile cambiamento. Non è facile riuscire «sempre» a rimuovere le paure, i dubbi e i timori che «intossicano» con la loro rutilante presenza la vita. La realtà non è certo elusa da Pirrera, che denuncia le «manipolazioni politiche» costruite dall’uomo per avvelenare il libero arbitrio dei propri simili («…non c’erano più rami di mimosa / né ventagli di seta. / ma parole / solo parole di scontata cenere / che crescevano dentro come pena…. “Guernica”) («…scende la barca. / il fiume grigio e pigro. / Il sonno non ci condurrà le fate / ma visioni di piazze-mattatoio…» “Ikebana”). 

Il fiore della libertà ha il diritto di sbocciare ovunque sia richiesto, desiderato come riscatto per una civile e armoniosa coesistenza sociale. È dunque irrimediabile solitudine, quella che accompagna il proficuo dibattito interiore dell’autore, un granello di sabbia nel mare delle intemperanze. 

Purtroppo, il messaggio di contenuti racchiuso nella poesia è nella maggioranza dei casi, «la voce» che si perde nel deserto dell’indifferenza collettiva. 

Maria Giovanna Cataudella 

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 56-57.




Un sogno d’amore

A. Cremona, Sogno d’Aldonza, Siracusa, Edizioni dell’Ariete, 1989, pagg. 77, L. 10.000. 

Non è facile imbattersi in un libro così agile come questo Sogno d’Aldonza di A. Cremona, agrigentino, alla sua prima esperienza di «teatro in musica», ma con un solido retroterra culturale e artistico. Basta solo ricordare la sua militanza nel campo della poesia (Occhi antichi, 1957, L’odore della poesia, 1980, per citare alcuni dei titoli più importanti) per renderci conto come questo lavoro sia «teatro di poesia» o, meglio, teatro dettato dall’animo sensibilissimo di un poeta di tutto rispetto. 

Partendo da un fatto realmente accaduto in Val di Noto,nella Sicilia orientale, Cremona ci dà una prova di scavo psicologico e di grande umanità, perché alla base della vicenda pone il sogno d’amore di Aldonza Santapau, bella nobildonna innamorata del marito, Antonio Piero Barresi, barone di Militello in Val di Catania. 

L’azione, con struttura circolare, si svolge in due tempi. Oltre ai protagonisti, come personaggi, troviamo un Mimo, alcune Voci e delle Donne. Nel primo tempo, come se la tragedia si fosse consumata, la condanna e poi la commutazione della pena di Barresi, mentre Aldonza, inizialmente incoraggiata dalle donne, si prepara ad un duetto che, se a prima vista può sembrare un canto d’amore, ha in sé oscuri presagi. 

Aldonza «Mi parli, nel vento, la tua voce. La brezza sparge ossute spine, lungo il sipario degli ontàni… 

Barresi In ciclo rocca – dove uomini-nibbi si scavano nidi – infrange il sole, nuvole, nel vento» (pag. 41). 

Ma ai sogni di Aldonza, tutti rivolti al marito, s’intrecciano altri sogni, si sciolgono e s’intrecciano per giungere all’epilogo. L’idillio dei due è minato dalla malvagità propria degli uomini che non finiscono di tramare oscuri complotti. Nel secondo tempo, dopo un crescendo sempre più marcato, l’entrata in scena e l’annuncio del Segreto, poi la furia punitrice di Barresi, accecato da una folle gelosia che lo rode. A predominare e ad imporsi non è Antonio Barresi, ma Pietro Caruso, il Segreto, che rivela una forte personalità, tanto coraggio e un amore sofferto, nascosto sino allora nel profondo del suo intimo. 

«Segreto – (con i polsi legati) Qualunque cosa vi dica, il mio destino è fatto; l’avete composto voi, con la vostra ira. Così, voi – che potete tutto – vi trovate in mio potere. Credete di avere scolpito meglio il mio destino – la mia fine – con la vostra ira; ma proprio la vostra ira – contemporaneamente, insieme – vi devia il destino: l’affida a me, alla risposta che mi chiedete, e siete voi stesso a chiederla. A determinarla, in modo che vi ferisca; che a sua volta, vi uccida. Più misero di me vi vedo, potentissimo signore. La verità (scandisce) che non vi ho offeso. Ma – a questo punto – se lo avessi fatto, come – voi – volete credere, con acuminata ostinatezza: qui vi dico, tra le fustigazioni brucianti – e la ruota che taglia l’anima – e le vostre tenaglie, tremende, in punto di morte vi dico – se l’avessi fatto – l’unica cosa sensata sarebbe tornare a farlo» (pag. 71). 

Sergio Campailla, nell’Introduzione, ha bene identificato nel Segreto Cremona stesso che non può non dire la sua a difesa di questa giovane, attratto, appunto, dai sentimenti profondi che ancora la legano, nonostante tutto, al marito. 

Questo di Cremona è un amore nell’amore, un sentimento forzatamente 

represso per paura di offendere lei, Aldonza Santapau, nella bellezza e nel suo sentire. 

Teatro di poesia, si è detto. Ed è, questa, un’opera di alta poesia, profondamente vissuta e sofferta, meditata in ogni parola, in ogni scansione, nel ritmo sapientemente dosato e orchestrato con rara efficacia e tanta abilità. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 44-45.




La Sicilia rurale nell’inchiesta agraria di Abele Damiani

Salvatore Ierardi, con la sua sensibilità di storico attento e puntiglioso, ci dà un quadro della Sicilia rurale di fine Ottocento molto distaccato e obiettivo, anche se ha da fare i conti con carte spesso unidirezionali e faziose. 

Le inchieste, che fino a quel tempo erano state fatte, cercavano di attutire e giustificare i disagi della massa contadina e mineraria, nel nome del benessere collettivo, per cui poco importava se a farne le spese erano i più umili e i deseredati. 

Su questa linea d’onda era anche l’inchiesta Damiani che, per difendere la classe padronale di appartenenza, non dà peso alla triste condizione di miseria della povera gente e non tiene in alcun conto la schiavitù a cui erano soggetti carusi e donne. 

A niente, per lui come per il governo di allora, erano valse le denunce di Sonnino, Franchetti e Cavalieri, ed altri, autorevoli e lungimiranti, che avevano messo il dito sulla piaga e accusato di indifferenza e immobilismo la classe dirigente. 

Ierardi, servendosi dell’inchiesta Damiani, mette in risalto questo, sottolineando che i mali potevano e possono, allora come ora, essere evitati o, perlomeno, attutiti, per mezzo di una politica più attenta, non rivolta all’interesse dei pochi, e desiderosa d’un benessere allargato, che restituisca a tutti fiducia e dignità proprie di uomini liberi. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pag. 61.




Realtà e Fantasia

Conoscevamo Mario Tornello come pittore e poeta, ma, a considerare questo nuovo libro, la sua versatilità di artista va ben oltre. Il signor Piazza ed altri racconti ci dà la prova tangibile di uno scrittore che è sulla via giusta da seguire per ottenere risultati ancora migliori. Certo, in mezzo alla babele in cui ci troviamo in fatto di produzione libraria (e non solo in questa), dobbiamo dire che Tornello ci ha regalato un libro di buona fattura, e sarebbe riuscito meglio nel suo intento se avesse evitato alcuni ritorni di vocabolo che, a lungo andare, stonano e rompano l’armonia della pagina. 

Il signor Piazza è il racconto più corposo che dà il titolo al libro. È una patetica figura di uomo che, però, nasconde una forte personalità. Artigiano nato, creatore di statue religiose in un momento di crisi dell’attività che fino ad allora si erano tramandata da padre a figlio, Piazza abbandona tutto e tutti e va, da clandestino, Oltremare in cerca di fortuna. Non vuole altro che uscire dallo stato di solitudine, dare una svolta alla vita che niente sembra prospettargli e vincere la malinconia delle giornate asfittiche e sempre uguali. 

Il lettore si renderà bene conto che non è la ricchezza la molla che spinge .il professore., come viene chiamato dalla gente il protagonista, bensì la mancanza di un affetto sicuro, di un amore che gli spazzi via la solitudine che si porta dentro. Teresa, ex meretrice sua compagna, niente dice all’uomo che scompare senza alcun commiato. E quando, malgrado i soldi e la posizione che s’era fatta, gli verrà meno Elisabeth, la donna per cui era sembrato rinascere, il signor Piazza non saprà più reagire; .si senti improvvisamente estraneo in quella terra, come calatovi da una mano misteriosa. Ebbe più grave il complesso del clandestino e percepì la sua estraneità in quel luogo. (pag. 37). 

Apparentemente il protagonista subisce, ma – dicevamo – c’è in lui una personalità complessa, anche se spesso repressa, pronta, però, a venir fuori e ad imporsi, esplodendo ogni qualvolta vede calpestata la sua dignità: reagirà, volendo punire quell’America che gli si è mostrata ingrata, e ucciderà don Salvatore Aquino per vendicare, più che ogni altra offesa, l’oltraggio all’onore. Questo omicidio, vero che lo riscatterà agli occhi della gente, ma lo farà chiudere col mondo. quel mondo a cui aveva tante volte teso le mani, a costo di abbandonare il quartiere dove era nato, la .Vuccirìa». e i volti amici. e volutamente finirà i suoi giorni da barbone, ai margini della città che sempre aveva portato dentro di sé, specie durante il soggiorno americano. È il suo, un gesto di rigetto, un ribellarsi al destino che risolutamente si era accanito contro di lui. 

Bella è la descrizione iniziale e indicativi sono i tratti descrittivi che fanno da sottofondo alla figura tormentata di quest’uomo. 

Gli altri racconti (La trappola, Salvatore, carissimo cane, Il paese dell’anima, Kusna, il nano) sviluppano temi che ad una prima impressione potrebbero sembrare a se stanti, ma che poi, riflettendoci bene, tutti sono riconducibili all’uomo, visto nelle varie sfaccettature e con i suoi problemi. 

Sempre curata è l’affabulazione. E Tornello non si perde in lungaggini, anzi, gli bastano poche battute per presentarci una situazione o uno stato d·animo. Le frasi sono come piccole pennellate, sicure e incisive. Il pittore dà una mano allo scrittore. e la prosa è piacevole. con punte squisitamente letterarie. 

“Il paesaggio va imbiancandosi; la neve caduta durante la notte ha disteso i suoi bianchi lenzuoli ed il silenzio antico è stracciato da un’auto rabbiosa che sale in direzione di un villaggio dove è attesa” (pag. 56). 

È un passo della Trappola che a tendere, stavolta, è la natura, volendo punire certi uomini per la loro malvagità. La fuga in montagna, dopo una rapina e un conflitto a fuoco da cui uscirà fuori un morto, si rivelerà inutile a causa della neve e di una bufera che costringeranno i due banditi a trovare rifugio dove rimarranno intrappolati e stretti da una morsa di freddo e di ghiaccio. 

In Salvatore, carissimo cane c’è, invece, tutta la generosità e la fedeltà dell’animale, non sempre ripagate, come in questo caso, dall’uomo che al momento opportuno fa di tutto per liberarsene. Il cane è il vero personàggio del racconto, Salvatore. per aver salvato il figlio del vecchio zio Filippo, ed ora, incurante del male subito, gli riporta la giacca che aveva dimenticato. 

Kusna, il nano ripropone l’antica sempre nuova aspirazione dell’uomo a volare. Kusna, quasi per un dono di natura che, a sua volta, lo aveva fatto nano e brutto, vola sfiorando le nuvole e il mare, godendo l’ebbrezza dello stare in alto, al di sopra pure della malvagità degli uomini, i quali mai si erano interessati a lui se non in quella occasione, rosi dall’invidia e desiderosi di emularlo. Ma la bontà è negli animi sensibili. 

“Kusna compì una larga virata verso la costa, ormai illuminato nella mente dall’amore immenso per i suoi bimbi cui si legava ogni giorno di più. Non avrebbe potuto rinunciarvi, sarebbe stato come spezzare l’unico filo …” (pag. 114). 

Questi racconti – dicevamo – sono tutti legati tra loro dal filo sottile che porta alla nostra misera umanità. Ed è quanto di più vero e di più nobile l’Autore ci possa dire, quasi a conforto e ad indicarci che, in fondo, sta a noi condurre il mondo verso una vita migliore, e che ci vuol poco per rendere felice chi sta peggio di noi. Tornello dice questo più col cuore che con le parole, perché non ha tanta fiducia negli uomini. Piuttosto preferisce rivolgere la sua attenzione alle piccole creature indifese, o guardare indietro nel tempo e ritrovarsi bambino. Come nel Paese dell’anima, dove con soffusa nostalgia va alla ricerca delle proprie origini che, poi, sono le nostre. 

È per questo che il libro non solo è interessante, ma è utile, perché scava, come gli acquazzoni, sui nostri io frastornati dalle tante sollecitazioni quotidiane, e ridimensiona, facendoci scoprire una sensibilità che sembra appartenga ormai ad altri tempi. 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 73-75.




 L. Zingales, LA MAFIA NEGLI ANNI ’60 IN SICILIA

Caltanissetta, Terzo Millennio, 2003, pagg. 280. 

Leone Zingales, giornalista e scrittore, con una serie di pubblicazioni analizza e mette a fuoco il problema della mafia. Il mestiere di cronista lo aiuta molto, perché ha spesso notizie di prima mano che gli permettono di formulare ipotesi e, soprattutto, di delineare un quadro chiaro e sempre più ricco di risvolti del fenomeno mafioso in Sicilia. 

In questo suo ultimo libro, La mafia negli anni 60 in Sicilia. Dagli affari nell’edilizia alla prima “guerra” tra clan fino al processo di Catanzaro, edito da Terzo Millennio, molto sensibile ed aperto alle problematiche sociali, Zingales offre una panoramica d’insieme della mafia, quale si venne gradatamente a delineare, dagli ultimi anni ’50, dietro lo stimolo di Cosa Nostra americana. 

Il libro, a parte la premessa e l’introduzione, consta di tre sezioni ed inizia con: Com’era la mafia tra gli anni ’50 e gli anni ’60, in cui, oltre a mettere in evidenza il passaggio dalla vecchia alla nuova mafia, l’A. si sofferma a trattare dei rapporti bene intrecciati tra la mafia siciliana e quella d’oltre Oceano, segno dei mutati interessi e di un rinnovamento in negativo che avrebbe portato ad innumerevoli morti ammazzati e ad una marea di azioni criminose. 

Evidentemente va anche detto che allora in Sicilia e nel Meridione era in atto un cambiamento socio-economico dovuto all’abbandono delle terre, ad opera dei contadini che prima avevano invocato la riforma agraria e la spartizione della terra, ma poi, ottenutala, per mancanza delle nuove infrastrutture e una serie di cose, preferiscono andare a lavorare altrove. Le campagne non renderanno più come prima ed, inoltre, si spopoleranno, spostando l’asse degli interessi nelle città, compreso quello dei malavitosi, che sperimentano anche loro, come già gli amici americani, la possibilità di più facili e lucrosi introiti. 

La seconda sezione è costituita da: La prima guerra di mafia, 1959-1963, ed elenca tutta la serie di omicidi ed attentati, che portarono alla ribalta i “Corleonesi”, disposti a recludere a chiunque il loro spazio vitale, a costo di imporsi ancora con le armi, le intimidazioni e le stragi, le quali seminarono sangue e panico anche tra gente onesta e innocente. 

Nella terza ed ultima sezione (Anni ’60. Scontro tra clan) viene riportato il processo di Catanzaro, con le sentenza e la relativa condanna. A leggere il voluminoso fascicolo ci si fa chiara idea della guerra che si combatté in quegli anni, con nomi di capi e di gregari, retroscena e luoghi dove i responsabili consumarono delitti e stragi. Quello che ne risulta è un quadro abbastanza movimentato, ricco di particolari, e di aiuto alla comprensione del fenomeno mafioso, come risulterà negli anni a venire, con le dichiarazioni di Tommaso Buscetta e le informazioni dei pentiti. 

Leone Zingales propone con questo suo libro una pagina sanguinante della storia siciliana, ma è una pagina vera (collusione mafia-politica, riciclaggio di denaro, contrabbando, estorsioni), che deve far riflettere per migliorare e per ritrovare quel senso di rispetto della persona, garante d’un vivere sociale onesto e rispettoso del diritto. 

U. Carruba