Elisabetta Donini, La nube e il limite. Torino, Rosenberg & Sellier ed., 1990,
“Evocata da una donna. la sostanza invisibile della nube di Cernobyl si materializza nel concreto del vissuto quotidiano. svuotando di senso ogni poesia ed incantesimo. Nelle riflessioni di un uomo. le tracce metaforiche dei cieli della conoscenza segnalano come attorno a ciascun soggetto si condensino dei nuclei di sapere che in tanto sono significativi, in quanto sono limitati.” (ivi. p. 7).
Certo è che se la nube è quella di Cernobyl o di Seveso o Bhopal o di S. Hussein, lo scud – nuvola leggera spostata dal vento (i missili iracheni che avrebbero dovuto portare le testate chimiche della “madre di tutte le battaglie” nella guerra del Golfo) -, contro cui venivano usati i patriot americani insieme alle “bombe intelligenti”, allora è piuttosto possibile che l’immaginario della nube si perda nel disincanto e nella paura, dal momento che la tecnica ne ha fatto un veicolo di morte, di malattia del corpo umano e di entropia della qualità della vita.
Tuttavia, pur con letture diverse, la prima di Cristiana Wolf (“evocata da una donna”), e la seconda di William Thompson (“nelle riflessioni di un uomo”), la nube, nel testo della Donini costituisce. a nostro parere. metafora di saperi e pratiche diversi.
Essa, infatti, con la sua capacità autorganizzativa in forme sempre differenziate e sostanzialmente imprevedibili, segna una cultura della relatività, dell’evento e della contingenza. Del resto la sua storia come simbolo, sia nella storia del pensiero occidentale che orientale, è tracciata come perenne metamorfosi o fonte creatrice di forme-mondi sempre diversi e in perenne movimento senza “legge” e azione comunque intesa a rimuovere il “limite” delle cose.
Per il cinese taoista c’è un ordine intrinseco e spontaneo della natura – wu wuei (non-azione, appunto o azione spontanea) -, per cui i suoi processi sono continui e regolari anche al di fuori (anzi) di una legge e di una azione dettate esternamente da Dio o dall’uomo. Diversamente invece accade nella cultura occidentale del passaggio dell’universo finito a quello infinito (ivi, A. Koyré).
Seguendo Joseh Needham (ivi, p. 213), oltre che le origini del pensiero filosofico greco e la configurazione moderna dello sviluppo della scienza, la Donini, infatti, fa vedere, in maniera suggestiva ma anche argomentativamente serrata e congetturalmente fondata, come il concetto di legge e di azione abbiano caratterizzato il mondo occidentale e lo abbiano anche connotato tragicamente con i tratti della violenza, del dominio gerarchico e di potenza. Un dominio e una violenza rivolti sia contro la natura, che gli uomini e le donne, dei maschi contro le femmine e la natura, specie, allorquando nell’età moderna, passando da una concezione organicistica della realtà a quella del determismo meccanicista del sapere aude dell’uomo Jaber, si è affermato il mito dell’uomo -dio (o “dell’uomo maschio bianco borghese, come l’ha chiamato la stessa autrice) con tutte le implicanze di ordine etico e politico che ciò ha determinato sia sul piano dei rapporti tra le persone che tra gli stati.
L’uomo-maschio-borghese occidentale ha trasferito l’idea di legge e quella di azione creatrice, produttrice e riproduttrice, dall’ordine sociale a quello cosmico come norma e atto imposti dall’esterno: Dio-Padre o uomo (o rovesciando i termini) ha voluto modellare il mondo umano a immagine e somiglianza delle leggi e dell’ordine presupposti nella/della natura. Le leggi svelate dalla ricerca scientifica sono manipolabili con i ritrovati della tecnica in maniera oggettiva, impersonale e con procedure universalmente valide. Nell’uno e nell’altro caso si è sempre fatto appello ad una necessità indiscutibile e inappellabile. Essa è stata quella della cultura della verità assoluta. Assoluta, necessaria e universale perché sottratta alla concretezza della contingenza e dell’evento e ridotta agli schemi astratti della simulazione logica del laboratorio, fino ad arrivare alla dematerializzazione e derealizzazione della guerra del Golfo, battezzata “tempesta nel deserto” dal piano americano di aggressione al nemico iracheno. Qui gli obiettivi militari e civili sono diventati schermo per wargames: simulazione informatica e scacchiera da “guerre stellari”. Le cose e le persone sono diventate impersonali inquadrature di punti e coordinate spazio-temporali sullo schermo dei computers calcolanti la quantità e la qualità della distruzione e della morte.
Una scienza, una cultura al servizio del potere e del dominio a tutti i costi, capace di rimuovere qualsiasi “limite”. Un sapere e una pratica dell’aggressione gratuita e folle, senza rispetto per le interdipendenze e la coordinazione sistemica che vige nel multiuniverso.
Dalla cultura violenta della gerarchia e del dominio della verità assoluta, il libro della Donini pone l’emergenza di una cultura al “femminismo”: la cultura della relazione, della correlazione, delle interdipendenze legate alla coscienza del “limite”, che, come dice la sapienza cinese del Tao, non sempre va forzato. Il limite così si connota come una dimensione trasversale che: 1) nella conoscenza impone una relazione di interdipendenza dinamica soggetto/oggetto, soggetti/soggetti, soggetti/mondi, 2) in etica attenziona la responsabilità dell’interconnessione tra l’affermazione di sé, il riconoscimento dell’altro e della natura, 3) nei rapporti tra le persone e il mondo sottolinea la reciproca compatibilità delle parti del sistema, anziché il dominio di una sulle altre.
Il testo è una denuncia continua e serrata della logica del dominio sia della scienza e della potenza che del modello capitalistico e neocapitalistico, aggressivo e manipolatorio, che alla scienza si rivolge per trovare giustificazioni al proprio modo d’essere. Dalla stessa l’uomo-maschio ha tirato fuori una concezione e una visione della verità che, sessualmente penetrando la materia e la donna, le subordina alla generazione passiva di sempre nuove creature. Persino la “fissione” del nucleo di uranio penetrato dal neutrone ripercorre questa strada: dalla divisione dell’atomo, come dalla divisione cellulare in biologia, si genera, viene alla luce, nasce il “Little boy” (ragazzino) e il “Fat man” (uomo grasso): le prime bombe atomiche che distrussero Hiroshima e Nagasaki.
Non dissimili dalla logica del dominio è quella del “dono”: anche questo è un venire dall’esterno, specie se ci si rifà alla tematica della bioetica che guarda alla vita come a un dono, che, appunto per la sua origine, è un qualcosa che viene dal di fuori del proprio corpo, sebbene se ne vorrebbe salvaguardare l’integrità dagli interventi della riproduzione artificiale e dell’ingegneria genetica. Sulla questione del “mettere e venire al mondo”, poi, utilizzando certe riflessioni decostruzioniste del tipo di J. Derrida, l’autrice svela la pretesa innocenza e neutralità di termini come “procreare, generare, riprodurre”, che si riferiscono alla natalità. Procreare rinvia a un agire per conto di Dio. Generare rinvia al genus, alla stirpe, alla proprietà, alla trasmissione del patrimonio ereditario. Riprodurre rinvia a un modello meccanico di ripetizione di copie.
Queste sarebbero identiche a strutture date e statiche. Il modello è quello della “trascendenza”, di una separatezza della verità che, con protagonismo maschilista aggressivo e illimitato, crede di trasformare le cose con evidenza e certezza evolutiva incontrovertibile.
Il modello “femminista” che la Donini gli contrappone, invece, è quello dell’immanenza, della co-evoluzione contestuale e plurale. Questo ha la mobilità e la consapevolezza della parzialità dei punti di vista, la contingenza e la provvisorietà degli eventi-fenomeni inter-agenti all’interno dei sistemi chiusi e aperti. U~ modello che’, cogliendo un pensiero di Lidia Menapace, si pone all’interno di un’etica della contingenza e dell’evento: “La parola ‘evento’ mi sembra carica della possibilità di comporre o almeno confrontare attivo e passivo, decisione e attesa, opzione e risposta. E in questo senso mi sembra una categoria di un pensiero politico che non oscilli più di continuo tra programmazione ed emergenza, tipico di chi non è in grado di realizzare davvero la portata solo eventuale delle proprie previsioni, né gli strumenti della flessibilità necessaria per capirne le logiche, le interruzioni, gli svolgimenti. Analogamente credo che sia importante costruire un’etica dell’evento, che ti consenta di prendere la decisione quando la devi prendere, con il senso del suo limite e rnormabilità” (ivi, p. 238).
Antonino Contiliano
Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 49-52.