Per una storia della letteratura siciliana

Una letteratura siciliana vale a dire una storia letteraria che ha il suo fulcro narrativo-critico in una singola regione del nostro paese, stimola e nello stesso tempo esige un doppio ordine di giustificazioni, in quanto, se da una parte non è superfluo proporre una riflessione sul perché di una nuova storia letteraria, a fronte di un panorama editoriale, scolastico e non, che di testi, nei quali con dignità e rigore culturale si affrontano le grandi tematiche della letteratura nazionale, ne offre tanti, dall’altra occorre ritrovare e chiarire a se stessi e ai lettori le ragioni di questa scelta prospettica, per la quale la problematica storico-letteraria viene affrontata nell’ottica specifica di una singola regione. 

Cominciamo col dire che forse la risposta alla prima implicita domanda potrebbe anche essere costituita dalla seconda domanda, nel senso che la novità della prospettiva di studio e di ricerca che è stata in questo caso privilegiata, potrebbe anche essere sufficiente ad identificare una motivazione per la proposizione di una nuova storia letteraria. 

Ma non possiamo fare a meno di proporre qualche riflessione: in primo luogo la stessa ricchezza articolata del panorama editoriale per quanto concerne le storie della letteratura italiana significa che discorsi unici e definitivi non sono proponi bili: potrà apparire paradossale, ma il fatto che ci siano molte storie letterarie significa implicitamente che di storie letterarie se ne possono scrivere tante, se ne possono scrivere ancora, senza che nessuna di essa abbia sapore di ridondanza, scada nel superfluo, si squalifichi come inutile doppione culturale. L’importante, naturalmente, è che ciascuna di queste storie letterarie si caratterizzi in nome della originalità dell’ approccio, della peculiarità dello sviluppo espositivo, della specificità dei risultati critici che si preoccupa di proporre. 

Vorrà dire, a questo punto, che il repertorio, se cosi possiamo chiamarlo, delle storie letterarie, assumerà il significato di un repertorio intellettuale, di una rassegna culturale non più soltanto delle proposte cognitive in relazione a fenomeni e personaggi della vicenda letteraria nazionale, ma anche in ordine alla presenza e incidenza di questi fenomeni e personaggi nella vicenda quotidiana della nostra nazione. 

E se facciamo riferimento appunto al rapporto fra accadi menti storico-letterari e accadimenti quotidiani del sociale, ci risulterà anche più lineare e comprensibile il ragionamento in relazione alla specificità di una storia letteraria siciliana. 

È appena il caso di sottolineare, infatti, che, quanto più fortemente apparirà sottolineato il rapporto fra la dimensione letteraria e lo svolgersi della quotidianità, tanto più dovremo sforzarci di cogliere i rapporti fra la generale valenza letteraria o storico di un avvenimento, di un personaggio e il contesto storico-sociale della terra che lo ha visto accadere, se si trattava di un episodio, che lo ha visto nascere e poi agire, se si trattava di un personaggio. 

Certamente Gorgia da Leontini sta nella storia della filosofia e, in prospettiva più specifica, in quella della retorica, per il suo essere portatore di uno specifico culturale, quello della raffinatezza ed eleganza formale dell’ eloquio, quello della potenza di convincimento che attraverso quell’eloquio raffinato si dispiegava. 

Ma bisognerà anche ammettere che quella complessa ed articolata serie di capacità/potenzialità si dispiegò, non certo casualmente, nel contesto politico e culturale della Sicilia: non a caso nel 427 a. c., quando gli abitanti di Leontini vollero chiedere l’aiuto di Atene contro Siracusa, proprio a lui si rivolsero, con un atto di fiducia che trovava le sue radici da una parte nella fama già diffusa del rètore, e dall’altra nell’istintiva convinzione che la comune origine siciliana avrebbe indotto il parlatore illustre a spendere i tesori del suo eloquio per la sua terra. 

Vuol dire che la dimensione territoriale, la prospettiva regionale, si giustifica in funzione di tutta una serie di legami, più diretti e immediati, che certamente esistono fra l’autore, fra il protagonista della vicenda letteraria, e il contesto storico-culturale nel quale si è svolta la sua vicenda umana e nel quale si articola la sua presenza culturale. 

Ma mi sia consentito di fare una riflessione particolare per quanto concerne lo specifico di questa storia letteraria, che si offre alla nostra attenzione di lettori come storia della letteratura siciliana. E dico una riflessione particolare, in quanto credo che non si possa prescindere da una considerazione relativa allo spessore vincolante che la sicilianità, se così posso esprimermi, assume nei confronti di chi ha avuto i natali e ha trascorso la sua vicenda esistenziale, in questa terra, che il sole riscalda, che il vulcano incendia, che il mare blandisce e nello stesso tempo schiaffeggia, che i profumi di tante coltivazioni ardenti di calore e sangue fanno vibrare sottilmente, di questa terra nella quale gli uomini non sembrano sempre voler riconoscere se stessi e la propria dignità, nella quale non sempre la dimensione umana della persona, pur sentita, pur vissuta, pur esaltata, viene accettata e riconosciuta nella pienezza della sua superiore dignità. 

Se posso abbandonarmi per un attimo al gusto del paradosso, alla tentazione di una provocazione, vorrei dire che uno scrittore siciliano, e s’intende siciliano per sangue, cultura, dolore, sofferenza, speranza e morte, uno scrittore siciliano sarà pure ad un certo punto scrittore italiano, nella prospettiva di una dimensione nazionale della vicenda storica, ma rimane pur sempre scrittore siciliano, perché le stimmate sofferte della sua condizione esistenziale di partenza difficilmente si cancellano. 

Il che non significa, si badi bene, che la catalogazione di uno scrittore nato in Sicilia nella dimensione della letteratura italiana sia da respingere o da mettere almeno in discussione: quello che qui si vuol dire è che si ha voglia di essere letterariamente italiani, ma si rimane comunque e sempre, almeno letterariamente, siciliani. 

C’è da fare ancora qualche considerazione, doverosa per uno come me che la cultura la vive, la sente, e, se mi è consentito dirlo, la soffre nella prospettiva della dimensione anche scolastica del problema, sulla collocazione appunto didattica di un discorso culturale del genere. 

Intanto comincerei con l’osservare che non è fuor di luogo, anche indipendentemente dalla mia esperienza ministeriale, preoccuparsi del rapporto che fra una produzione editoriale del tipo e del genere di quella che stiamo qui presentando, e l’attività didattica, deve esistere. 

Voglio dire che un testo di storia letteraria, quale che sia l’articolazione delle finalità e degli obiettivi immediati per i quali esso viene proposto, vuoi nell’ottica creati va dell’ Au tore, vuoi nell’ ottica disseminativa dell’editore, non può mai essere considerato privo di ricadute in senso didattico, perché, anche se esso non fosse immaginabile in quanto suscettibile di specifico impegno nel contesto dell’attività didattica quotidiana, esso concederà comunque alla formazione dei docenti e determinerà comunque, a breve o a medio termine, ricadute formative sugli studenti, ai quali auspicabilmente i docenti si presentano sempre più preparati, sempre più aggiornati. 

Io sono convinto che il discorso della letteratura regionale abbia una valenza di forte incidenza formativa, in quanto consente di cogliere – con particolare immediatezza – i nessi che caratterizzano la trama dei rapporti tra prodotto letterario e condizione ambientale nella quale la vicenda umana dell’autore si svolge. 

E non è certamente da temere che un’attenzione regionalistica alla problematica 

letteraria possa scadere in forme di settorialismi demotivanti o assumere aspetti di separatismo culturale altrettanto preoccupanti. In realtà l’attenzione alla dimensione regionale, se opportunamente adoperata come premessa per comprendere in che modo quella produzione regionale si scomponga e si sciolga nella superiore unità culturale della letteratura nazionale, servirà a determinare visioni unitarie nel senso più autentico della parola, cementate dalla chiara conoscenza di nessi e rapporti di fondo, non costruita su surrettizi accostamenti ed accorpamenti fra realtà che sono diverse e che non hanno da temere dalla loro diversità, che ne costituisce l’elemento caratterizzante nell’ambito di una superiore unità garantita dal carattere genetico nazionale. 

E vorrei anche dire che non si deve ritenere che un siffatto processo autenticamente formativo si metta in movimento soltanto o in particolare per gli studenti appartenenti alla regione alla quale la trattazione storico-letteraria si riferisce: è chiaro che, anzi, la penetrazione dei complessi fenomeni locali sarà ricca e articolata anche per chi dalla specifica realtà territoriale è lontano fisicamente. 

Ben venga dunque questa Storia della letteratura siciliana di Salvatore Vecchio, una storia costruita con competenza e passione, una storia nella quale la fondatezza dei procedimenti critici attraverso i quali essa è stata articolata egregiamente si coniuga con la ricchezza dei materiali e dei documenti attraverso i quali essa si snoda. 

Non mi pare questa la sede per analizzare la struttura compositiva di una storia della letteratura siciliana, ma mi pare indispensabile almeno sottolineare alcune caratteristiche che mi appaiono particolarmente felici di questa struttura. 

Mi riferisco alla ricca ed articolata presenza dei documenti letterari diretti: in un’epoca nella quale acquista sempre più spazio e merita sempre più attenzione una didattica testuale, non avrebbe senso una trattazione di storia letteraria che si rifugiasse soltanto nella prospettiva indiretta della notizia, pur seria, complessa, puntuale, documentata, senza svilupparsi con rigore di puntigliosa ricostruzione dall’interno, intorno ai testi che della storia letteraria sono sangue e linfa vitale. 

E mi riferisco anche alla presentazione comunque sempre puntuale, specifica, rigorosa delle opere che, anche quando, per ovvie ragioni di equilibrio dell’opera, i testi non possono essere presenti al di là di un certo spazio, sono comunque illustrate ampiamente, con ricchezza di particolari e puntualità di informazione complessiva. 

Forse potremmo apporre come ideale e simbolico messaggio di sintetica presentazione di questa opera i versi di Omero, che anche in essa si leggono, quei versi nei quali si parla della Sicilia. 

Forse potremmo dire che nelle pagine di questa storia letteraria incontro ti verranno le belle spiagge della Trinacria isola, dove pasce il gregge del Sol… 

Ai lettori fortunati che in queste pagine riusciranno a ritrovare gli itinerari ideali di un percorso fra gli uomini ai quali la terra di Sicilia diede i natali e che alla terra di Sicilia restituirono grati tributi di alta poesia, l’augurio affettuoso di buon viaggio da parte di chi, come me, il viaggio l’ha fatto tante volte, in termini di amore, in termini di nostalgia, in termini di speranza. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 6-9.




L’etica ontologica: Cartesio e Spinoza a confronto 

Si può dire che l’originalità di Spinoza consista nell’avere integrato la scienza moderna, la scienza galileiana, in una filosofia, in una teoria generale dell’essere che ne radicalizza la matrice razionalista. L’incontro che contribuì a definire la struttura del suo pensiero fu quello con Descartes che, prima di lui, aveva rappresentato la vetta più alta della speculazione filosofica, aprendo la strada alla modernità. Il Discorso sul metodo è stato il punto di arrivo e insieme il punto di partenza della storia della filosofia, che gli va tuttora debitrice per tre aspetti del suo pensiero: la scoperta dell’io quale punto di riferimento della conoscenza, la necessità di ancorare l’attività conoscitiva a certezze di assoluta evidenza, la distinzione tra la res cogitans e la res extensa che riassume in due polarità la moltitudine degli enti recuperandone l’oggettività dopo avere affermato l’egemonia conoscitiva ed esistenziale del soggettivismo. In questo senso Spinoza, che è un cartesiano, va più lontano di Cartesio, perché elimina le divisioni all’interno dell’essere. 

Come Cartesio, Spinoza vuole integrare la scienza moderna nell’ambito di una definizione generale dell’essere che si fondi sui concetti di necessità e determinismo. Egli, però, non teorizza le dualità con cui Cartesio separava il mondo dei corpi da Dio. Dio rimaneva, infatti, nella metafisica un principio spirituale, uno spirito creatore, e ciò in aderenza a tratti fondamentali della tradizione speculativa. Cartesio inoltre sostiene che esiste una radicale differenza tra l’uomo, che è un’unità di corpo e di spirito, ed il resto della natura. Per Spinoza, bisogna riunificare questi dualismi, superarli, per capire la grande lezione della scienza della natura, che si svolge tutta nella prospettiva dell’unità del mondo dei fenomeni. 

È quindi soprattutto il Dio di Spinoza, la teoria generale della natura, che costituisce una innovazione nel campo della filosofia: Dio, la sostanza, è uguale alla natura – deus sive natura – è l’affermazione scandalosa di Spinoza che fa di lui un pensatore moderno propriamente detto. Spinoza non cade, infatti, nel dualismo perché non si tratta di due sostanze separate, ma di due attributi della medesima sostanza. «Questo tuo Dio è un mostro», gli scrisse uno dei tanti corrispondenti che cercavano di chiarire il suo pensiero; ma lui, non riusciva a comprendere reazioni tanto violente. «Questo è vero per definizione», diceva e si stupiva che gli altri non capissero. La forza della definizione è opera di Spinosa ed assume con lui il valore del Logos, del Verbo, della Parola, celebrati nel Vangelo di Giovanni, solo che per lui credere nella Creazione era una bestemmia intellettuale: il suo Dio non era creatore ma assoluta potenza necessaria: Causa sui, Dio è causa di se stesso, e di conseguenza non ha bisogno di essere pensato attraverso le categorie della creazione o dell’ emanazione. Se questo è il punto di vista fondamentale, Dio traspare nel mondo, poiché tutto quanto si produce in natura, nella natura che è Dio, si trova in Dio, e Dio consiste in questa stessa produzione. È quindi quest’unità di Dio con la natura (questo nuovo concetto dell’essere che, producendosi autonomamente, produce tutto quanto può esistere) a costituire la novità assoluta dell’ontologia di Spinoza, del suo panteismo. 

Si può allora dire che la novità radicale di Spinoza è la sua diversa maniera di concepire l’essere. Spinoza dice che Dio si produce in virtù di se stesso e che, producendo se stesso, produce un’infinità di cose finite – le res particulares – in un’infinità di modi. C’è quindi una sorta di simultaneità o coincidenza all’interno dell’ essere tra l’atto attraverso il quale Dio si produce e l’ atto attraverso il quale egli produce l’universo. Si può dire che Spinoza concepisca l’essere come una produzione: e pensare l’essere come una produzione significa rinnovare in modo radicale la metafisica. Conducendo all’estremo il discorso, è possibile affermare che la natura è l’unità del suo processo produttivo e dei prodotti che sono tali al suo interno. 

Spinoza supera le prospettive di Cartesio; l’idea che tutto venga prodotto, che nulla venga creato, che nulla derivi da un principio che in qualche modo sarebbe al di qua del processo produttivo della natura naturans, fa emergere la natura come una struttura ontologica unitaria. L’unità non significa astrazione, eliminazione delle differenze, in quanto è «unità nella distinzione»; Dio non finisce mai di produrre un’infinità di modi e tutti i suoi prodotti sono intelligibili in se stessi. E questo è il secondo elemento fondamentale dello spinozismo: se nel primo viene radicalizzato il principio del materialismo secondo cui ex nihilo nihil fit e, di conseguenza, viene confutato il concetto di creazione, superando secoli di teologia, il secondo consiste nell’affermare che ciò che viene prodotto è in sé intelligibile. Nell’ambito di questa maniera di concepire l’essere c’è un posto specifico per l’etica. L’etica è lo scopo fondamentale di Spinoza. Non è un caso che la sua opera fondamentale sia l’Etica more geometrico demonstrata, in cui il rigoroso impianto metafisico è la base per un’etica volta alla liberazione dell’uomo. L’etica ha come caposaldo teorico la negazione della libertà di scelta e di volere (ciò che tradizionalmente veniva chiamato arbitrium indifferentiae). Dal momento che ogni cosa risulta dalla determinazione di un insieme di cause, anche l’uomo rientra negli enti naturali e non ha una facoltà libera dalla catena causale. Tutta la realtà è regolata dalle cause naturali, e ciò esclude l’esistenza delle sostanze spirituali, dell’ anima in senso cristiano e dell’ intervento diretto del Dio biblico. 

Questo è uno dei motivi per cui Spinoza fu bollato come eretico e i suoi libri furono oggetto di condanne da parte delle gerarchie ecclesiastiche e non solo. Il mondo di Spinoza è totalmente spiegabile attraverso cause naturali, che sono poi quelle della nascente fisica galileiana e cartesiana. 

L’Etica inizia con la definizione di Dio, come sostanza unica, assoluta e causa di sé. Tutta la realtà è espressione della potenza di Dio, non nel senso che Dio interviene direttamente per causare i singoli fenomeni, ma nel senso che tutte le leggi naturali e i singoli individui sono espressione della potenza divina, che si identifica con tutta la realtà. Quindi il mondo spinoziano è un mondo intrecciato in una catena causale infinita a cui non si può sottrarre nemmeno l’uomo. La realtà è divisa in estensione e pensiero, che sono i due attributi di Dio, e anche l’uomo è estensione (corpo) e pensiero (mente). Ma l’uomo per Spinoza non è solo mente e corpo, poiché alla base di ogni cosa e in particolare di ogni uomo c’è un’essenza individuale che distingue questa cosa da tutte le altre. L’essenza individuale è irriducibile ad altro ma si esprime concretamente nella vita di tutti i giorni poiché ogni essenza è conatus in sese perseverandi, ovvero sforzo di autoconservarsi. 

Questa idea non era del tutto nuova nella filosofia occidentale, infatti ha origine nel pensiero stoico; tuttavia Spinoza ne dà una versione più significativa. Alla base di ogni individuo (per Spinoza «individuo» è ogni cosa individuabile che ha una esistenza più o meno lunga, ma qui considereremo solo l’individuo in quanto uomo) c’è la spinta automatica ad autoconservarsi, che significa l’energia che dà l’impulso per vivere; ma alla base vi è anche l’essenza, che è la forma particolare di un individuo che ne determina la natura (ovvero il principium individuationis). Ogni individuo è esposto a una incontrollabile serie di incontri con altre cose e uomini, con cui può avere un rapporto positivo o negativo, qualità determinata dalle nature dei due individui, che possono comporsi positivamente o scontrarsi. 

Due nature individuali si incontrano positivamente se hanno qualcosa in comune e l’una è utile all’altra; all’inverso se le due nature non hanno niente in comune, l’una danneggia l’altra. L’uomo non può fare in modo di avere incontri solo positivi nella sua vita, ma può cercare di conoscere la propria natura e agire di conseguenza. La soluzione spinoziana è opposta a quella stoica: se quest’ultima prescriveva di ritirarsi nella dimensione spirituale, dal momento che sugli eventi esteriori e materiali non possiamo avere controllo, per Spinoza la conoscenza della propria natura e delle cause delle cose permette all’ uomo di cercare il proprio utile e di liberarsi dalle passioni. Questo è il punto fondamentale dell’etica di Spinoza, nel senso che non si ingiunge di negare il lato passionale ed emotivo dell’uomo, che tanto anima la vita, cioè non si predica una vita stoica o ascetica. Invece Spinoza mostra che, se si conoscono le cause dei nostri moti d’animo, la passione diviene semplicemente affezione. Nella passione, nell’ affezione senza conoscenza, l’uomo è passivo nei confronti dell’ esterno, invece se conosce la causa diviene attivo rispetto a ciò che avviene all’infuori di lui. In questo senso il significato globale dell’etica spinoziana è la ricerca del modo in cui diventare attivo. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 35-37.




 Ricordo di Giuseppe Ungaretti

Sì, lo ricordo bene: ho come dei flash-back che me lo riportano alla memoria in modo diverso e a diverse età: mie e sue. 

Lo ricordo quando, bambina, nel giardino di casa Saffi – dove si faceva musica di élite tra «dilettanti» – ma che dilettanti! – e il Trio di Trieste, non ancora molto noto, incantava con i trii di Beethoven che risuonavano dalle cucine al giardino – Ungaretti si appartava a volte con noi bambini, ma come isolato tra sé e sé in un mondo magico, fantastico: e cominciava a un tratto a declamare i suoi versi. Mi pare di risentirlo -la sua voce roca con intonazioni ancora toscane -lucchesi, per la precisione: infatti i genitori di Ungaretti erano lucchesi, anche se era nato ad Alessandria d’Egitto – recitare «Il Mughetto»: «Mughetto fiore piccino/calice di enorme candore/sullo stelo esile/innocenza di bimbi gracili/sull’altalena del cielo». E ancora: «Stelle»: «Tornano in alto ad ardere le favole. /Cadranno con le foglie al primo vento. /Ma venga un altro soffio/ritornerà scintillamento nuovo». Le sue parole mi sembravano davvero favole, ma favole nuove: il loro incanto era per me molto convincente. 

Ascoltavo affascinata quella voce rauca che sembrava arrancare alla ricerca delle parole, ognuna delle quali sgorgava nuova, come colta in quel momento in un giardino di fiori poetici, creata ex-novo; e, legando inconsciamente musica e poesia – due arti, cui fin da piccola ero consueta, essendo figlia di poeta e musicista – intuivo l’intonazione musicale della parola detta. Null’altro allora. Solo più tardi avrei scoperto consapevolmente il poeta Ungaretti, che diceva di sé: «Quando trovo/in questo mio silenzio/una parola/scavata è nella mia vita/come un abisso». 

Chi dice che i bambini non possono capire la poesia? Al contrario: io credo che la riconoscano a istinto, quando è vera. Forse mio unico merito è di aver riconosciuto Ungaretti vero poeta solo a pochi anni. E avere avuto il privilegio di conoscerlo, di ascoltarlo già in quel tempo lontano, ha fatto sì che egli avesse larga parte nella mia vita e nella mia formazione culturale, facendomi amare e inseguire quell’arte chiamata «poesia», che io già amavo e a cui sarei rimasta incline per tutta la vita. 

In quel salotto di casa Saffi si incontravano settimanalmente anche gli amici de «La Ronda», la famosa rivista letteraria seguita a «La Voce» che includeva Bacchelli, Barilli, Baldini, Cardarelli e tanti altri. Ungaretti, della «Ronda», non fece mai parte, tuttavia era buon amico di tutti loro, anche se da alcuni veniva molto contestato. Mentre «i grandi» si occupavano della cultura, le mie sorelle e io preferivamo giuocare con la figlia di Giuseppe Ungaretti, Ninon: era meno impegnativo! 

Fu anni più tardi – dopo aver letto Il sentimento del Tempo e molte altre cose di Ungaretti ed essermi documentata sull’uomo-poeta che avevo conosciuto bambina – che conobbi maestro. Frequentavo infatti le sue lezioni di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea all’Università di Roma, dove insegnò per molti anni al ritorno dal Brasile. Capii allora via via che il messaggio della sua poesia – della quale ogni tanto lo costringevamo, noi allievi, a parlare – aveva quasi sempre un carattere irrazionale, suggestivo, quasi magico, anche se ben ancorato a una realtà della quale l’A. non prescindeva. Ungaretti era ben convinto che uno scrittore, un poeta, appartiene decisamente a un dato momento storico, è incarnato in una certa realtà: donde, la conseguente necessità di impegno. Soleva dire: «Lo scrittore è sempre impegnato: se no, è uno scrittore inesistente». E continuava: «Non esiste poesia disimpegnata, anche quando la poesia sembra più libera, anche quando sembri non ascoltare se non la propria voce di poesia: la poesia è impegnata, legata ai suoi tempi, al destino suo, al destino degli altri uomini… E le fatali limitazioni che le si pongono non devono mai impedire alla poesia di conservare o di ambire di avere una universalità». Richiesto, una volta, se il poeta, nonostante i condizionamenti sociali, potesse a suo parere contribuire a rendere l’uomo consapevole della propria libertà, Ungaretti rispose, tra le altre cose: «Certo, se non ci fossero più poeti nel mondo, se non ci fossero più uomini che non credono che il mondo sia puro determinismo, la persona umana sarebbe finita, non esisterebbe più… Il valore della poesia è di rivendicare costantemente questa autonomia singola della persona umana e di fare sentire agli altri che va rivendicata perché altrimenti l’uomo sparirebbe come persona e diventerebbe una piccola parte di un ingranaggio meno importante degli ingranaggi che lui stesso ha trovato1». 

Oggi tutto questo può suonare come espressione estremamente individualistica: è accaduto per certi poeti russi, ad esempio, che pur condividendo e vivendo gli avvenimenti storico-politici del loro tempo e del loro paese, sembrano essere rimasti più «poeti» , più «profeti» e «narratori» della storia contemporanea, che non veri rivoluzionari e poeti della rivoluzione. Penso ad esempio a un Pasternak in Russia. Tuttavia non è così: proprio la universalità della qualità poetica della vita impedisce alla poesia stessa di farsi strumentalizzare in qualsiasi modo. Essa «è» di per sé e comunque. In tal senso è anche strumento: non altrimenti. A Ungaretti piaceva dire: «Io credo che la poesia ha una sua validità anche se la gente non la leggesse, perché c’è in tutti gli uomini, la poesia, c’è inespressa ed è quello che salva nell’uomo l’uomo che è singolo, che è distinto da tutti gli altri uomini, che è una cosa che vale per se stessa». 

Il messaggio della poesia di Ungaretti, dicevo, non era dunque messaggio indecifrabile come i critici di allora spesso ebbero a dire: bensì messaggio poetico autentico. Ungaretti stesso rifiutava critiche come quelle del Flora, che facevano di lui una specie di fondatore dell’«ermetismo» e rifiutava il termine di «oscuro», a lui spesso riferito, anche se affermava con foga che «dietro la parola e i suoi significati più precisi. più detti, c’è uno spazio illimitato, illimitabile, lo spazio del “segreto”: lo spazio, appunto, della poesia». 

Sovente, durante le sue lezioni, citava Leopardi, dicendo che questi, molto meglio di lui, aveva affermato che se la poesia non suscita nella persona che l’ascolta, o nello stesso poeta che dà la parola, questo senso che va oltre il «preciso» significato delle cose, oltre la realtà determinabile, non è poesia. Egli si considerava volentieri un continuatore del filone antico che faceva capo a Petrarca 

e a Leopardi… e, forse, in tal senso rappresentò anche quella «restaurazione culturale» promossa dal fascismo, che aveva teso a riportare la poesia a un certo ordine nell’ambito – anche figurativo e musicale – del neo-classico. Tuttavia Ungaretti fu essenzialmente il poeta che. disgregando il verso tradizionale e frantumando il discorso poetico in una serie di «monadi verbali sillabate», fu innovatore assoluto e diede, in un preciso momento difficile della storia letteraria in Italia, un impulso fondamentale, con un’azione di violenta rottura e di contestazione, dimostratasi delle più feconde. La poesia di Ungaretti cominciava ad apparirmi come una vera e propria riconquista critica del valore di ogni parola, un’illuminazione profonda della complessità della vita e della fantasia, primitività lirica riconquistata con grande sapienza. 

Lo ricordo anche bene, Ungaretti – forse più umano e meno «diabolico», anche se i suoi occhi piccoli e un po’ satanici sotto le sopracciglia folte e cispose mi spaventavano sempre – nella sua casa di Piazza Remuria, sull’Aventino nuovo, circondato dall’affetto e dalle premure della cara, silenziosa moglie francese e della figlia Ninon: nella quiete del primo pomeriggio, quando mi riceveva e, dalla sua grande poltrona di cuoio, mi dava – con apparente distacco – consigli per la stesura della mia tesi di laurea (preparavo infatti una tesi su Bruno Barilli, musicista, critico musicale e letterario, giornalista e compositore, un personaggio anch’esso da me conosciuto bambina e grande amico degli Amici al Caffè. Non era facile né comodo, Ungaretti, come maestro. E nemmeno come uomo. Nella sua casa viva di memorie, di affetti, di immagini, fra i suoi libri e i quadri degli amici, Ungaretti sembrava immerso in un continuo soliloquio e in continua meditazione. Una delle sue poesie ben rispecchia questi stati d’animo: «E quando squillano al tramonto i vetri/ma le case più non ne hanno allegria/per abitudine se alfine sosto/disilluso cercando almeno quiete/nelle penombre caute/delle stanze raccolte/quantunque ne sia tenera la voce/non uno dei presenti sparsi oggetti/ invecchiato con me/o a residui d’immagini legato/di una qualche vicenda che mi occorse/può inatteso tornare a circondarmi/sciogliendomi dal cuore le parole». 

Forse l’Ungaretti poeta e l’uomo Ungaretti – più vero, più scoperto, più aderente al suo messaggio poetico – mi si rivelava soprattutto quando riusciva a parlarmi del figlio molto amato, Antonietto, morto a San Paolo del Brasile nel 1939: lo ascoltavo e lo guardavo, in quei momenti rari, come chi è fatto oggetto e depositario di una confidenza affidata, grave, importante. In quei momenti il suo volto appariva segnato dal dolore e dalle vicissitudini, e anche dall’intensità della vita interiore: in quei momenti Ungaretti somigliava molto all’uomo del ritratto che un giovane pittore di genio gli aveva fatto, a come lo aveva visto: Scipione, nel suo bellissimo ritratto. Da quel dolore, antico, infatti, erano anche scaturite poesie di grandissima qualità. 

Lasciatosi andare alle confidenze, a volte mi proponeva di accompagnarlo in una delle sue passeggiate per i viali alberati intorno a casa sua, dove si recava ogni giorno quasi a inseguire lentamente i ricordi, «echi brevi che si protraggono in un inutile infinito…» Avremmo dovuto parlare della mia tesi, e invece… Le «usate strade» lo conducevano dove l’antico risplendeva nella memoria, dove il nuovo s’innestava nella luce del vivere quotidiano. Come da ragazzo passeggiava sulle rive del Nilo, ad Alessandria d’Egitto – mi raccontava dove era nato e nelle tiepide sere egiziane usciva quasi a seguire il ritmo di un’insolita soffocata poesia, così quell’abitudine non l’aveva più abbandonato. E a Roma scendeva fino al Tevere che – come tutti i fiumi importanti della sua vita – sembravano accompagnarlo nel suo lento e solitario vagare. Il Tevere gli era diventato familiare, «laborioso», non più mitico: al suo cospetto, davanti allo schieramento dei palazzoni nuovi che già allora sembravano sopraffare l’incantata sopravvivenza degli acquedotti, Ungaretti sembrava cercare ancora una misteriosa corrispondenza tra se stesso e il cosmo, l’armonia tra se stesso e gli altri. 

Si direbbe che il fiume sia stato come un emblema umano di Ungaretti. Tutta la sua vita si è svolta, a ben pensarci, sotto il segno dell’acqua: da quella del Nilo a quella della Senna, nei suoi anni di studente alla Sorbona di Parigi, dal Serchio all’Isonzo, negli anni della guerra del ’14-’18 e delle sue prime, straordinarie, «essenziali» poesie, scarne e rapide come quando si ha fretta di scrivere perché non c’è tempo da perdere e perché potrebbe non esserci un altro giorno per scrivere. Di quell’epoca sono la famosissima «Si sta come/d’autunno/sugli alberi/ le foglie». E anche: «Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro/ Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto. Ma nel cuore/ nessuna croce manca/È il mio cuore/il paese più straziato». 

Per anni, poi, lo persi di vista. Il lavoro, i viaggi mi impedirono una consuetudine più stretta. Tuttavia lo ricordo bene quando, per le celebrazioni in onore dei suoi 80 anni, nella Sala della Protomoteca in Campidoglio fu festeggiato e, commosso, andava dicendo che non confessava -né sentiva – di avere 80 anni, ma che aveva risolto il problema dicendo che aveva «4 volte vent’anni»! Di quel giorno – così come di un incontro con i giovani di una scuola nei dintorni di Roma – ho una breve registrazione, che forse a molti piacerà ascoltare per udire dalla viva voce di Ungaretti vecchio – così intensa, così sempre più roca, rarefatta e rada, così scavata e sofferta, quasi alla ricerca di vibrazioni sempre più sottili, di espressioni sempre più essenziali – le sue emozioni, il suo sentire. Ai presenti che gli chiedevano come facesse a ottant’anni a scrivere poesie d’amore, egli rispondeva sogghignando che «basta essere vivi nel cuore, per scriverle»… 

Francesca Boesch 

(*) Appunti per una conferenza tenuta presso l’Istituto Italiano di Cultura in Danimarca il 1°-12-’88 nel centenario della nascita del Poeta. 

1. Quel «lui» non mi piace, anche se è di Ungaretti, come non mi è mai piaciuto «Il zappatore» del Recanatese; visto però che è seguito da «stesso»… 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 29-33.




Casa Landau. Ricordando Carmelo Samonà 

La prima impressione – fortissima, peraltro, impossibile a ignorarsi cominciando a leggere il primo capitolo del libro di Carmelo Samonà uscito incompiuto e postumo (Casa Landau) è stata di “sorpresa”: ma non già di sorpresa come scoperta dell’Autore e tanto meno sorpresa o rivelazione di bellezza del dire e del descrivere: che, queste cose, erano prevedibili, in un libro di Samonà, quasi attese, dopo “Fratelli” e “n Custode”. Ma sorpresa, delle mie reazioni alla lettura: una risposta immediata da dentro, come un aver teso l’orecchio ad ascoltare eco di cose lontane e attualissime, risvegliate da una bacchetta di artista affinato, capace di resuscitare memorie, emozioni, sensazioni accantonate, sopite nel nostro io più profondo perché prive di riscontro nel normale quotidiano. Ho cercato di capire che cosa avesse provocato in me questa grande emozione, dopo aver letto solo poche pagine. E non ci sono riuscita. Ma mi sono ricordata di averne provata una simile, a diciotto anni, leggendo per la prima volta “Le Grand Meaulnes” di Alain-Fournier. Quel libro della gioventù ha lasciato in me una traccia che permane nel tempo, fonte d’indicibile inquietudine, dell’anima e al tempo stesso di una gioia immateriale, intangibile senza movente. Si diceva, un tempo: “ha fatto vibrare tutte le mie corde”. Ebbene, anche se la frase è in disuso, per questa “sensazione” non posso che richiamarla sotto le armi. È come un brivido sottile, che attraversa le fibre e riporta momenti dell’infanzia, della prima gioventù; è come una sintesi perfetta di quello che sentiamo e vorremmo esprimere, senza riuscirci; un insieme di profumi, di incertezze, di aspirazioni che portiamo dentro e che il più delle volte non riescono a trovare un loro sbocco: un anelito a capire sempre di più. 

“Le domaine inconnu”, le “domaine mystérieux” di Alain-Fournier, “comme un souvenir plein de charme et de regret”, fatto di silenzi, di ombre, di solennità, e al tempo stesso di mille odori mischiati tra loro, di un profumo profondo che tutto avviluppa e appare come segno tangibile di una presenza infinita quanto indefinita, è come l’entrata in un altro mondo di anime che cercano le loro risposte, che vogliono capire, che tremano di paura ma al tempo stesso portano in sé la forza, la spinta assoluta e irrinunciabile della necessità del conoscere, del sapere, del voler vedere. È un “domaine” nel quale non sembra di poter penetrare se non divenendo prima nuvole, raggi di sole, soffi di vento… Cui si accede da un grande viale… Il viale misterioso che porta a “Casa Landau” – che Samonà ci fa percorrere con un “brivido di paura”, con l’ansia del personaggio del suo romanzo ultimo – e un po’ come il viale che porta, in Alain-Fournier, al “domaine mystérieux”. Solo che, mentre il “viale” di Alain-Fornier, del quale non si intravede la fine, si suppone conduca a una dimora di fate, verso un incantamento, un incantesimo preparato solo per noi, nella migliore tradizione dei simbolisti, il “viale” di Casa Landau è come il sentiero della conoscenza dell’uomo moderno, del ragazzo che percorre il sentiero della vita, con le sue paure e la sua attrazione per il mistero, le sue scoperte sempre al limite dell’immaginazione, il desiderio, la necessità di conoscere, costi quel che costi, la rivelazione progressiva delle cose e del loro significato. Non ricerca senza scopo, curiosità: ma ricerca di chi, pur in età assai giovane, vuol capire; di più, che sa di dover cercare per capire la vita stessa e i suoi misteri percorrendo la via della conoscenza, che passa, sì, attraverso quello che si apprende dai maestri e nei libri, ma è soprattutto necessità di scoprire la verità sulle cose e sugli esseri umani – e i misteri che li avvolgono – giungendo da soli alla rivelazione dell’incognito. Questa la differenza essenziale nelle due letture, per me. E non a caso lettura, l’una, della giovinezza, con i suoi sogni senza forma, della maturità, l’altra, con la stessa pienezza di funzionamento delle antenne, che però nel tempo sono diventate anche chiave di lettura per la realtà. 

Non strana, dunque, la stessa emozione provata nei due casi, a distanza di tempo. Strano è invece che ci si accorga in maniera così vistosa, da farci ammettere che solo pochi, e veramente pochi, riescono a cavar fuori da noi il nostro “tutto”, in modo da costringerci a leggere le loro pagine con tutti i nostri sensi, con tutte le nostre forze e le nostre potenzialità: per arrivare a capire. Questo è certamente il caso di Samonà. 

Ho conosciuto poco Camlelo Samonà: e me ne faccio un cruccio; ma sono grata agli amici che me lo hanno fatto conoscere e so che devo loro molto. Credo di averlo intuito, comunque: e non posso che rammaricarmi di aver avuto poco tempo per conoscerlo meglio. per approfondirne la conoscenza: e mi rattrista fin d’ora pensare che. quando invecchierà, un “maestro di vita” come lui non sarà vivo, materialmente. Il sentimento che ha legato per anni Carmelo Samonà ad ognuno dei suoi amici, per motivi diversi e non sempre comprensibili ai più, testimonia nel tempo la presenza di un uomo speciale, di un essere umano speciale. di un amico speciale, di un uomo di cultura speciale. Anche in morte Samonà ha permesso ad amici e parenti. a quelli che aveva cari e che lo avevano caro. di stargli accanto per un funerale a dir poco inconsueto. 

Dalle parole “dette” ai funerali di Carmelo Samonà da Francesco Orlando – in mezzo a una strada. costretti, i presenti tutti, a reinventare un modo per trattenere il defunto tra loro, quasi per impossibilità di separarsene con la brutalità di un funerale “normale” – (e pubblicate recentemente sulla Rivista “Belfagor”) – mi è rimasto impresso questo: “Si potrebbe dire che. mentre a me è possibile cogliere l’importanza e il significato delle parti solo all’interno di un tutto, per lui era il valore del tutto che poteva passare solo attraverso quello delle parti”. Credo che questo fosse assolutamente vero, per Carmelo Samonà. 

Orlando ha ricordato anche una conversazione che, lui quattordicenne e Samonà ventiduenne, nell’immediato dopoguerra, ebbero in un bosco “incantato” di Gibilmanna, aggiungendo: “da quel bosco incantato in un certo senso non sono uscito mai più”. E quel bosco, sulle colline di Sicilia, era certo rimasto a far parte integrante anche di Carmelo Samonà. Di quella sua Sicilia di origine, infatti, di Palermo in particolare, portava segni antichi, tracce di civiltà molteplici. straordinariamente ricomposte e unificate al suo interno; nonché alcune parole inconfondibili, determinanti: e il “mistero”: un mistero fatto di sguardi, di saggezza e di accattivante attrazione, da “gattopardo” di grande intensità e spessore; di profumi, profumi della Sicilia, dalla zagara aspra e dolce al gelsomino d’Arabia… profumi, tutti, pieni di contrasti, avvolgenti, indimenticabili. 

Così come una sensibilità di qualità straordinaria e rara, un’intelligenza umana e intellettuale d’eccezione – vero “intelligere”, nel senso etimologico della parola: ossia, “capire”; mirabile fusione, in lui, delle energie del cuore e della testa. Così il suo scrivere, che nella incredibile capacità di sintesi non trascura il minimo particolare e lo fa assurgere a pienezza: anch’esso, vorrei dire, pieno di “profumi” evocatori. Il suo procedere asciutto e stringato, ma al tempo stesso ricchissimo, moderno e attualissimo, ma pur carico di tutto l’antico che la sua personalità porta dentro, senza mai indulgenze ma vivissimo d’immagini che denunciano una fantasia al colmo delle sue potenzialità, è raro esempio di prosa attuale, coltissima e semplice: come, del resto, il suo autore. 

Carmelo Samonà è stato portatore di valori tali da segnare chiunque lo abbia “incontrato”. Ed è testimonianza che durerà nel tempo di come tali valori – se sono tali e quando sono tali – sanno anche manifestarsi e possono essere recepiti dagli altri. 

La parola di Samonà è anche musica – quella musica che da Beethoven al più tardivo, amatissimo, Mozart, ha fatto sempre parte della sua vita: ma è, soprattutto, ritmo: quel ritmo che è l’esistenza stessa quando segue il suo filo conduttore. che come un concerto brandemburghese di Bach precipita nel dolore o sorride sul filo dell’ironia, dando il giusto senso alla vita e trovando verso di essa il giusto atteggiamento, sempre. La sua parola scritta è “sintesi”. 

Pochi hanno attraversato – credo – vicende gravi e prepotenti di richieste come quelle che si è trovato a fronteggiare Carmelo Samonà: eppure, il suo far rotta sui sentieri della vita non si è interrotto se non in morte, ne ha interrotto il filo del suo calore umano, delle amicizie, della sua attività intellettuale, della sua ricerca spasmodica e perenne di cercare di comunicare con gli umani, al di là di un’originaria riottosità caratteriale e di una grande istintiva riservatezza “antica”. In tutti i suoi libri troviamo questo sforzo immenso, sempre incarnato e spesso premiato, di trovare comunque, a prezzo di superamenti eroici, lo strumento giusto per comunicare con chiunque, ponendosi e proponendosi come “persona” anche di fronte al muro del silenzio e, spesso, della follia, in qualsiasi forma questa si manifestasse. 

Una parola ricorrente ha destato nel corso della lettura di Casa Landau la mia curiosità specifica e la mia attenzione: “inveramento”. Parola desueta, ora, ma un tempo cara al lessico filosofico di Croce e di alcuni suoi predecessori, certamente studiati da Samonà giovane. Samonà usa questa parola con frequenza inaspettata in lui, con una assiduità da “basso continuo”. quasi a ricordarci il trasporsi della sua fantasia eccezionale di ragazzo – imbevuto di romanzi storici, di Jules Verne, di Victor Hugo – il “calarsi” nella realtà di uno che ne ha paura, ma nondimeno non si rifiuta mai di scoprirla, di affrontarla, costretto dalle circostanze, “trascinato dai fatti, da alcuni fatti più forti di ogni immaginazione, di ogni possibilità di traslato o trasferimento” (p. 90). 

“Una specie di emendamento alla dottrina libresca si faceva luce nella mia mente”, ci dice a un tratto. “Forse non ero io che governavo dall’alto de “I miserabili” la successione degli eventi di Casa Landau. Forse questo potere non era in me, e non era neanche nella trama del libro, con tutte le modifiche e i mutamenti di rotta che potevo introdurvi. Qualcosa accadeva “di fuori”, e possedeva una sua forza. Probabilmente, alla dottrina della dipendenza della vita dai libri e delle circostanze degli individui da quelle dei personaggi fantastici. bisognava sostituire l’idea di una sintonia, d’una convergenza segreta e ininterrotta fra i due momenti; e la teoria di un disegno generale. continuamente in atto, che comprendeva i personaggi e i viventi (questi non più come proiezioni o reincarnazione dei primi ma come una loro progenie) poteva ancora sussistere”. Sembra di poter intuire in queste parole significati profetici, misteriosi, che potrebbero aver adombrato avvisaglie personali di morte come di avvenimenti oscuri e fatali riferiti alla storia che ci racconta. 

Due parole sulle “donne” di casa Landau. La figura della madre amata e desiderata ma, in un certo senso, non all’altezza del suo compito nei riguardi di un figlio tredicenne assai maturo per la sua età e, quindi, per lei problematico, pieno 

di “risvolti”, di “pieghe”, di sfumature, che vive una vita tutta e solo sua, mascherando e celando i sentimenti più profondi e i turbamenti propri della sua età di transizione alle due donne che gli sono parenti e a lui più vicine “fisicamente”. Estraneità e incomunicabilità, dunque, con coloro che meglio dovrebbero poterlo capire perché lo hanno quotidianamente sotto tiro. È una certa disistima, quindi, e per l’una e per l’altra, che diventa a tratti bonomia o quasi sufficienza, come a dire: «sono molto più “grande” io di voi». Per una madre, dunque, che vive in modo assai immaturo la separazione dal marito, – che accusa di “non esserci”, per il figlio, di fronte alla educazione del quale si sente inadeguata; e per una sorella in qualche modo “complice” della madre, e quindi distante, preoccupata di sé, molto più grande di lui, che denuncia antichi retaggi di una certa educazione e un desiderio evidente di prevaricazione nei confronti del fratello minore: un rapporto misto di sensi materni e di avversione, dovuto a non-comprensione. 

“Distanze” – come dire – dal protagonista del romanzo, che vive con i cinque sensi tesi e ricettivi come antenne di un radar, cui nulla sfugge nel corso di una giornata. Così Samonà, di cui si può dire che abbia messo a frutto in ogni istante della sua vita i sensi tutti di cui la vita lo aveva dotato: strumenti perfetti e affinati di cui usufruiva ininterrottamente, percependo con gli occhi, le orecchie, l’olfatto ogni più piccolo o debole cenno che provenisse dagli esseri umani. E trasmettendo a questi allo stesso modo. 

E “Miranda”, la “donna della finestra” di Casa Landau, che costituisce forse per lui nel racconto anche la scoperta della donna ma che, forse proprio perché “creatura angelicata”, “angelo caduto” – come dice il professor Landau al ragazzo – è dunque una “creatura anomala, dolorosa e goffamente sublime”. “È umana? Certamente è composita, e dunque è anche umana, ma fra i propri simili rimarrà sola e sperduta e sarà punita e reietta”. Quanti messaggi nelle parole di Samona… 

Alla richiesta di aiuto del Professor Landau il ragazzo risponde, decidendo di “arrischiarsi” ed entrando così “nel periodo più intenso e travagliato” della sua vita, l’incontro con la realtà e il suo coinvolgimento in una responsabilità che teme ma che non rifiuta. 

I vari personaggi – rispetto ai romanzi precedenti di Samonà – che si muovono nel libro Casa Landau sono, in un certo senso, una novità. Così come lo è, in qualche modo, lo spalancarsi delle tende quando il ragazzo, presa la sua decisione e “iniziato” alla stanza della misteriosa creatura femminile che è Miranda. immerge la stanza “nella luce del giorno”. Sembra quasi, a volerlo cogliere, che una tenue nota di speranza si insinui nelle vite dei protagonisti del racconto a dispetto delle situazioni e dell’ambientazione stessa del racconto, che fa presagire tacitamente la guerra alle porte e la probabile disintegrazione di tutti, salvo che del narratore, che assurge perciò quasi a simbolo della continuità della vita contro le nefandezze in predicato: “del professor Landau e di sua figlia non ho saputo più nulla”. Che cosa non ci fa sottintendere Samonà con queste poche, incisive parole, che potesse essere detto più esplicitamente? Tutti gli orrori della guerra, il massacro degli Ebrei – racchiuso forse solo nel nome ebraico di Landau – e quello che non può comunque essere descritto in parole… I rapporti stessi tra i personaggi, in questo romanzo, così intensi ed essenziali, sono incisi per sempre in noi con poche, straordinarie pennellate che dicono più delle parole… 

L’inizio del Capitolo XVIII, rimasto incompiuto alla morte di Samonà, resta quasi a testimonianza non casuale di un suo sguardo finale verso la “vastità” della vita e di tutti i suoi aspetti simboleggiata nella “villa”. Umori infiniti, decadenza e presenza umana “esperta”, qualità e abbandono: uno scenario complesso e grandioso ma, soprattutto, senza confini. 

“Io, per la verità non trovai mai il muro di cinta che mi aspettavo, ricoperto di edera e muschio, segno sicuro di un limite della villa”. Queste, le parole ultime di Casa Landau: che assurgono a espressione poetica assoluta, ma anche a simbolo inequivocabile della apertura di orizzonte, sconfinata, propostaci in vita e in morte da Carmelo Samonà. 

Per lui mi vengono alla mente le parole di Baudelaire ne L’Albairos. Queste, certo, gli si attagliano, anche troppo facilmente. Ma mentre l’albatros di Baudelaire ha ali da gigante, sì, ma che gli impediscono di camminare, di Carmelo Samonà si può invece dire che le sue ali, di apertura veramente eccezionale, non solo non gli hanno impedito di volare spaziando in orizzonti ai più preclusi per insufficienza di strumenti, ma gli hanno permesso di camminare tra noi come uno di noi; uno che però ci indica la via per il superamento degli ostacoli anche i più difficili, non perdendo mai il senso concreto della realtà e il senso dell’umorismo. e sapendo godere appieno di ogni moderna forma di comunicazione che possa aiutarci a vivere e a sopravvivere trasferendo anche la realtà nell’immaginario. 

Francesca Boesch

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 17-23.




Per salvare una pagina di storia e d’arte in Sicilia: la pittura di «regime» di Alfonso Amorelli

A quasi quarant’anni dal lontano novembre del 1969 quando, come egli stesso ebbe a dire nel suo diario Il tempo vola, raggiunse «gli dei, spero quelli veri», sembra che da più parti un rinnovato interesse prema per aggiungere nuovi tasselli al mosaico della biografia artistica di un pittore palermitano forse troppo presto caduto nell’oblio, Alfonso Amorelli (Palermo 1898-1969)1. 

Alla propria pittura, colta ed ingenua al contempo, ma sempre elegante ed armoniosa nel segno, «chiara, gioiosa» nella succosità degli arditi contrasti cromatici, spesso ironica nell’ intenzione, per circa un cinquantennio, dagli anni ’20 allo scorcio degli anni ’70, l’artista chiede di essere «l’unico godimento», il solo spensierato «gioco», capace di aprirgli un varco nel dolore del mondo durante gli anni soffocanti delle due guerre mondiali e dei rispettivi dopoguerra, permettendogli così di continuare a vivere. 

L’iscrizione nel 1913 al Regio Istituto di Belle Arti gli permetterà di fruire dell’insegnamento dei più autorevoli maestri palermitani di inizio secolo, quali Ettore De Maria Bergler ed Ernesto Basile, ma saranno i suoi numerosi viaggi, le otto volte in cui attraversa l’intera Europa in macchina, a consentirgli un’approfondita conoscenza dei movimenti e degli esponenti più significativi dell’arte italiana e mitteleuropea novecentesca, individuabili in filigrana nell’intera sua produzione artistica. 

Dietro i suoi pastiches culturali sono stati rintracciati nomi di noti artisti extraisolani, dai macchiaioli Mancini, Spadini e soprattutto Fattori e Signorini, ai meta fisici De Chirico e Carrà, da Balla a de Pisis, a diversi protagonisti di «Novecento», ma anche di respiro europeo, dai fauves Matisse e Dufy, agli espressionisti Schmidt-Rottluff, Kirchner, Heckel e da Cézanne a Chagall. Ma la grandezza di Amorelli consta nell’operare una distillazione frazionata di queste componenti culturali rielaborandole attraverso l’apparente scioltezza di un tracciato segnico che riesce a sintetizzare mirabilmente l’intimo significato delle cose. 

Quando, intorno alla metà degli anni venti, Amorelli, terminati gli studi all’Accademia, cominciò la sua attività artistica, due erano sostanzialmente le strade che in termini di scelte stilistiche potevano essere intraprese da un giovane smanioso di modernità, l’adesione all’arte futurista o a quella di stampo novecentista. 

Pur partecipando alle mostre organizzate da Pippo Rizzo e dal gruppo dei futuristi siciliani, Amorelli non aderì mai alle formule futuriste accostandosi invece abbastanza precocemente alla sintassi del movimento artistico denominato «Novecento» «con una pittura che, da un lato, sembra voler riprendere nella nettezza geometrica della composizione alcune soluzioni di Casorati e, dall’altro, indulge a una maggiore vivacità cromatica sul modello dell’opera di Carena»2. 

Nel marzo del 1923 veniva, infatti, inaugurata alla «Galleria Pesaro» di Milano una esposizione di sette pittori che, pur provenendo da esperienze artistiche diverse spesso legate alle grandi avanguardie storiche, si ritrovavano nella comune aderenza al generico principio di rappel à l’ordre, attuando cioè in pittura il recupero di temi e modi espressivi della grande tradizione italiana del passato, specie del ‘300 e del primo ‘400. 

Ne nacque un’arte «novecentista», severa e arcaizzante, dalle plastiche forme e 

dai limpidi volumi, dalle luci nette e dai colori compatti, permeata da una sorta di realismo magico, talmente in linea con i dettami della retorica fascista, che, pur proclamando la propria indipendenza, apparve ben presto come arte di regime, arte di Stato. 

L’adesione convinta, anche se a tratti eterodossa, di Amorelli al gruppo, così come quella degli altri novecentisti isolani, durerà pochi anni non superando il limite del decennio, ma negli anni trenta, quando comincerà la sua attività di decoratore parietale per ordine del regime, attingerà motivi e forme proprio dalla poetica di «Novecento». 

Al 1932 risale il primo articolo sulla pittura murale di Mario Sironi, tra i più convinti sostenitori del ritorno alla grande arte italiana e della necessità di creare un’ estetica fascista, cui seguirà nel 1933 la pubblicazione del Manifesto della pittura murale, firmato, oltre che da Sironi, anche da Carlo Carrà e Achille Funi. 

Il regime, rispolverando non a caso una tecnica tradizionale quale 1’affresco, attribuiva alla pittura murale un valore morale e una funzione di propaganda sociale ed educativa, in grado, attraverso figure monumentali e architetture romaneggianti, di condurre le masse al consenso. 

Dopo la decorazione della sede della Triennale di Milano nel 1933, anche in Sicilia si susseguirono esperimenti in tal senso e in quegli anni Amorelli, come Duilio Cambellotti, Arduino Angelucci e altri, fu chiamato ad affrescare spazi pubblici, in particolare 1’Aula Magna del Rettorato (ora Facoltà di Giurisprudenza) e il vestibolo d’ingresso alla palermitana Galleria delle Vittorie dal lato di via Maqueda. 

Mentre l’affresco della sala del Rettorato raffigura un tema della storia passata, l’epopea di Garibaldi a cavallo tra i Mille, i cui gesti enfatizzati come in un melodramma teatrale sono asserviti all’esaltazione delle aspirazioni patriottiche risorgimentali, le pareti della Galleria delle Vittorie celebrano un evento di storia contemporanea, la nascita dell’impero coloniale fascista in Etiopia. 

Lo stesso giorno in cui venne inaugurata la Galleria, il 2 ottobre 1935, Mussolini dichiarava guerra all’Etiopia dal balcone di Palazzo Venezia, auspicando così un novello impero sullo stile di quello dell’antica Roma. TI trionfo venne ufficialmente comunicato dal Duce al popolo italiano la sera del 5 maggio 1936, seguito dalla proclamazione dell’ impero d’Etiopia, esattamente il 9 maggio 1936, probabile termine post quem per la datazione degli affreschi di Alfonso Amorelli alla Galleria delle Vittorie. 

Le immagini raffigurate, allo stato attuale talmente in degrado da risultare . pressoché illeggibili, possono essere ricostruite solo con l’ausilio di alcune foto d’epoca, datate appunto 1936 e appartenenti all’archivio storico fotografico di Dante Cappellani, oggi assemblate negli studi di «Stanze di luce», società addetta alla catalogazione, conservazione e restauro di beni fotografici. II collage fotografico fa scorrere come in una sequenza cinematografica tutti i valori e i miti della retorica fascista, l’esaltazione della patria, della famiglia, del lavoro, la celebrazione della guerra e la «riapparizione dell ‘Impero sui colli fatali di Roma». 

Nell’affresco sulla parete sinistra dell’andito troviamo uomini nudi su magnifici destrieri dalla code e criniere fluenti, che ricordano i cavalli di De Chirico, soldati in trionfo con le insegne imperiali, una Vittoria alata con in mano una serto di alloro pronta ad incoronare il vincitore, e, sullo sfondo, monumenti di Roma, dal Vittoriano, divenuto dopo la prima guerra mondiale tomba del Milite Ignoto e, come tale, Altare della Patria, ad una colonna onoraria, ai resti del colonnato di un antico tempio. Seguono operai a torso nudo dalla muscolatura tesa nello sforzo di spingere un carro armato e ancora il paesaggio roccioso e arido dell’ Abissinia con un etiope che ha ai polsi catene spezzate, nell’intento di far risaltare l’occupazione dell’Etiopia come guerra di liberazione. Sul margine sinistro la scritta Vittorio Veneto funge da ideale collegamento tra la famosa battaglia combattuta tra il 24 ottobre ed il 3 novembre del 1918, che segnò la fine della prima guerra mondiale sul fronte italiano con la disfatta dell’esercito austro-ungarico, e la vittoriosa impresa coloniale operata dal fascismo. 

Sull’affresco di destra momenti di lavoro umano nelle officine, nei campi e nei cantieri navali enfatizzano la fatica degli uomini e degli animali nel supremo sforzo della conquista della natura, del progresso e della civiltà, alternandosi a figure femminili portatrici di ceste, immagini di maternità. La donna dal seno scoperto che tiene in grembo due bambini sembra una riproposizione della Madre Terra, la Saturnia Tellus, uno tra i rilievi più belli dell’Ara Pacis Augustae, eretta in Campo Marzio tra il 13° e il 9° secolo a. C. per celebrare le vittorie di Augusto e la pace portata nell’Impero, e che proprio in quegli anni veniva ristabilita dal governo fascista. 

Il linguaggio di «Novecento» si palesa nel «realismo neomichelangiolesco» dei corpi dei lavoratori, arsi dal sole e quasi imprigionati nelle forme titaniche dell’eroe greco «di un realismo nitido e limpido, esaltato da un tessuto cromatico in cui primeggiano ocre e terre di Siena»3, nella sublimazione del quotidiano. Un muralismo dai toni retorici, celebrativo della mitologia nazionalista e di una romanità di cartapesta, in linea con i valori epico-popolari cari alla mitopoiesi fascista, cui Amorelli, pur mostrando una tecnica consumata, non sembra aderire sentimentalmente. 

Agli inizi degli anni Quaranta Alfonso Amorelli riceve un’altra importante commissione da parte del governo fasci sta, il compito cioè di affrescare gli edifici pubblici e di culto di alcuni borghi rurali costruiti in varie zone dell’isola nell’ambito della vasta attività di colonizzazione, il cosiddetto «assalto al latifondo», operata dal regime per il ripopolamento delle campagne siciliane. 

La politica economica della dittatura, volta a far raggiungere al Paese l’indipendenza dalle importazioni straniere e a ridurre i costi, spingeva i costruttori ad avvalersi di materiali e tecniche costruttive locali abolendo il superfluo specie nelle decorazioni. 

Nel 1940, nasce nel Comune di Trapani il borgo «Amerigo Fazio», su progetto dell’architetto Luigi Epifania, con una chiesetta all’interno dedicata, come già prima la Galleria delle Vittorie, alla «Beata Maria Vergine della Vittoria»4. Nel suo studio sulla colonizzazione del latifondo siciliano Maria Accascina, riguardo all’opera decorati va di Amorelli, cita solo gli affreschi dell’edificio di culto proprio di Borgo Fazio fornendoci una preziosa testimonianza del soggetto raffigurato: «Nella chiesa il candore delle pareti è appena variato dai tagli delle arcate e delle linee delle paraste che ascendono agli oculi e ne ricadono come parati. Solo nell’abside, seguendo la tradizione meridionale, interviene, con la sua nota vivida di colore, un affresco del pittore Amorelli rievocante la Vergine col Bimbo che accetta l’offerta del borgo»5. Purtroppo dell’affresco, distrutto dall’incuria degli uomini, così come l’intero borgo, rimane oggi appena visibile un piccolo brano, raffigurante un uomo affiancato da un cane con esili alberelli stilizzati sullo sfondo, e in alto il piede di un angelo inginocchiato e i terminali delle due ali. 

Nello stesso torno di anni vennero edificati altri piccoli centri, tra cui Borgo Rizza, progettato da Pietro Gramignani nel comune di Siracusa, e Borgo 

Bonsignore, su disegno di Donato Mendalia ad Agrigento, arricchiti dagli affreschi di Amorelli, come ricorda la nipote del pittore Maria Teresa Amorelli: «Appena arrivata a Palermo trovai Fofò impegnato nella preparazione degli affreschi per alcuni borghi rurali, progettati dall’ archi tetto Luigi Epifania, nell’agrigentino, nel trapanese e nel siracusano (Borgo Bonsignore, Borgo Fazio e Borgo Rizzo) e fui molto felice di posare per qualche bozzetto. Il suo tratto era immediato e la mia posa era di breve durata»6. 

A Borgo Bonsignore le pitture che decoravano la casa del Fascio sono del tutto scomparse, rimane invece l’affresco absidale della chiesa, incautamente restaurato nel 1977 da un certo Alfonso Marino, che rappresenta, come già nel centro rurale trapanese, l’omaggio del Borgo alla Vergine. Nel registro inferiore sono, infatti, uomini in atto di riverenza e donne con ceste di frutti sulle spalle o sul capo che richiamano la portatrice dal seno scoperto della Galleria delle Vittorie, mentre in alto la Vergine con il Bambino sono affiancati da due angeli inginocchiati verosimilmente nella posizione dell’angelo di Borgo Fazio di cui rimane solo un frammento. 

A proposito dell’impegno decorativo di quel periodo, lo stesso Amorelli, parecchi decenni dopo, nel suo diario Il tempo vola scrive: «In Sicilia nascevano i borghi rurali. Ricevetti l’incarico di decorarne alcuni. Chiese, case del fascio. Mancava acqua, strade e la luce; ma non gli affreschi ed il fondatore dell’impero a cavallo», accompagnando il suo pensiero con un interessante disegno stilizzato raffigurante in basso un uomo a cavallo con la spada sguainata e in alto una Madonna col Bambino tra due angeli, ovvero la medesima iconografia utilizzata per affrescare le absidi delle chiese dei borghi Fazio e Bonsignore7. 

Nulla, invece, perdura dell’attività decorativa del pittore a Borgo Rizza, vicino Carlentini, ormai abbandonato e distrutto. Fortunatamente parecchi anni fa un hobbista del luogo, appassionato di fotografia, ha voluto immortalare i pochi resti degli affreschi allora visibili. L’immagine mostra una sorta di collage di iconografie amorelliane, in primo piano un uomo all’aratro con due buoi aggiogati, del tutto identico all’analogo soggetto della Galleria delle Vittorie, una madre col figlio e un altro uomo piegato, forse intento a togliere dei massi per agevolare il dissodamento, mentre sullo sfondo si intravedono un acquedotto romano e contadini al lavoro nei campi. Sono scene di vita reale dove uomini e animali condividono l’esistenza quotidiana in una esaltazione dell’etica del lavoro e della famiglia funzionali all’estetica del regime. 

Da quegli inizi Alfonso Amorelli continuerà l’opera di decoratore parietale per tutto l’arco della sua esistenza sia in case private che in luoghi pubblici, ma di questa attività purtroppo, a causa della demolizione degli edifici palermitani Liberty e decò in alcuni casi e dell’opera di ammodernamento in altri, come l’Extrabar Olimpia, ben poco ci rimane. 

Tra gli affreschi ancora godibili, anche se di alcuni decenni più tardi rispetto ai dipinti fascisti, si conservano quelli eseguiti per alcuni padiglioni della Fiera del Mediterraneo, il pannello dell’Albergo Mediterraneo in via Rosolino Pilo e il fregio recentemente restaurato dell’ippodromo di Palermo. Al realismo lirico degli anni Trenta si sostituisce quasi sempre in queste ultime opere murali, così come in quelle coeve su cavalletto e nei disegni, una vena ironica e decorativa che si sostanzia di una stilizzazione cristallina e di colori brillanti, programmaticamente disimpegnata e avulsa dalle ideologie e dalle diatribe del tempo e di segno del tutto diverso rispetto alla decorazione commissionata dal regime. 

Nella sua autobiografia Il tempo vola scritta negli ultimi anni di vita, tra disegni e brevi riflessioni, Amorelli dedica una pagina alla figura del Duce riproducendolo con una enorme ciste sulla testa calva e annotando: «Mussolini venne ad inaugurare la Quadriennale romana. La grossa ciste sulla testa rapata, mi ridimensionò il mito Benito»8. L’avversione che l’artista, per «istintivo convincimento», professò sempre nei confronti della «verbosità confusionaria» spiega la mancata adesione sentimentale, l’ estraneità nei confronti della retorica fascista, che nulla toglie, comunque, al valore intrinseco storico e artistico della sua pittura di propaganda. 

Appare, dunque, imprescindibile l’immediato restauro degli affreschi della Galleria delle Vittorie che, insieme all’inedita produzione dei borghi rurali, costituiscono un documento di storia e d’arte, testimonianza di un evento fatidico del nostro recente passato nazionale e pagina essenziale per la comprensione della biografia artistica del pittore Amorelli che, purtroppo, il passare del tempo e la distrazione degli uomini rischiano di stracciare per sempre. 

Isabella Barcellona

NOTE 

1 Per una bibliografia esaustiva su Alfonso Amorelli cfr.: Amorelli, a cura di A. M. Schmidt, catalogo della mostra, Palazzo Steri, Palermo, 14 febbraio – 8 marzo 1997; Alfonso Amorelli, a cura di A. Schmidt, Roma, 2002. 
2 S. Troisi, Amorelli, Alfonso, in La pittura in Italia, Il Novecento / I, 1900-1945, tomo secondo, Milano 1992, p. 733. 
3 A. M. Ruta, C’era una volta la Galleria delle Vittorie. Palermo, città senza memoria, in «Palermo», gennaio 1993, pp. 42-43. 
4 La notizia si evince da un manoscritto redatto nel febbraio del 1947 da Salvator Ballo Guercio «Episcopus Mazarien» e attualmente depositato presso l’archivio della Curia Episcopale di Mazara del Vallo. 
5 M. Accascina, La colonizzazione del latifondo siciliano. I borghi di Sicilia, estratto della rivista «Architettura», fasc. maggio 1941 – XIX – Annata XX. 
6 M. T. Amorelli, Lo zio Fofò, in Amorelli ... , p. 29. 
7 A. Amorelli, Il tempo vola, Roma, 1970. 
8 Ibidem  

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 25-30.




Riflessioni sull’opera poetica di Artur Rimbaud 

La poesia moderna e tutte le poetiche in generale, pure appoggiandosi all’idealismo kantiano, attuano una ricerca all’interno della ragione umana. 

Gli studi dello strutturalismo e della linguistica moderna con la teoria della semantica e della semiologia, ma anche della filosofia e della psicologia, sollevano la poesia al rango delle scienze umane più alte e sofisticate nonché stimolanti. 

La poesia che punta sul significato del significato, secondo l’insegnamento del De Saussure, deriva dalla poetica di Mallarmée di Rimbaud, quel pazzo scatenato e ostinato a cogliere con una critica radicale le relazioni tra parola e mondo, l’uomo e il suo destino, la parola essenziale e significativa per le sue speranze avveniristiche, sempre minacciate. Ecco che il linguaggio che non riesce a sciogliere la contingente umana, e non ne vuole far parte, si interiorizza, si fa difficile per esplicitare ciò che è altro dal mondo esterno e diventa rivelazione, creazione. Il je suis un autre di Rimbaud sta alla base di questa ricerca per un ritorno alla sorgente ontologica, anteriore all’uomo stesso, anteriore al battesimo, quando il terrore dell’inferno non era preda della malizia umana. Tra la parola e il mondo corrono abissi di infrastrutture inquinanti per cui la parola ritrova il suo alveo d’amore primordiale con le analogie da decifrare nel profondo inconscio, per attingere il linguaggio in una forma comprensibile con quel tanto di chiarezza ascetica. 

La società brutale e superficiale ha ridotto la nostra identità ad una finzione, la poesia non può aderire ad essa, anzi deve essere rivelazione di questa finzione nel senso di ri-levare, togliere i veli della maja con intuizione spesso profetica sul tagliente filo del silenzio del mitico vate. 

Se la Parola – era in principio – può anche condurci alla fine con le conseguenze facilmente intuibili: una civiltà dalla parola svalutata e menzognera è dopo la parola, ha perduto il Verbo; la verità della parola non è più qui. «Io sono un altro», dice Rimbaud perché vuole dare forma e sostanza alla propria raison d’être. 

La poesia non è commento, è l’essenza dell’essere che viene ad essere; riesce a prolungare la sua eco all’infinito; solo le poesie deboli, incapaci di penetrare il mistero dell’uomo, non si espandono e muoiono nel loro significato già scontato. Non si tratta di rivelare dati occulti o stregoneschi (come dice chi non sa captare il linguaggio dell’inconscio), ma riuscire a trarre da sé la melodia che viene ad abitare il poeta, la parola adatta a significarla, ri-velazione di una presenza reale. Per Platone il rapsodo è un posseduto dal dio, il daimon che entra nell’artista dominandolo, oltrepassando i confini della sua persona. Il mistero della creazione poetica e artistica è in questa ricezione vitale, sempre sofferenza dal momento ispirativo alle infime ragioni della morte! Sfida e lotta con la Creazione è quella di Giacobbe con Dio; come la sfida della poesia è data dalla sinfonia interiore, così l’arte di Michelangelo ha potuto riversarsi nella Cappella Sistina. «Dio, l’altro artigiano», disse Picasso; in effetti, se il modernismo non sperimenta più Dio come competitore, non può che lottare con l’ombra di se stesso: donchisciotti alla sbarra di un mulino senza vento. 

La lotta di Rimbaud con Dio è stata eroica, dallo scoramento più profondo alla grandiosa intuizione cosmica; scrive: «Perché Cristo non mi aiuta dando alla mia anima nobiltà e libertà» e piange sulla corruttibilità del mondo che ha perduto il Vangelo, e dice: «aspetto Dio con ingordigia». 

L’espressione lirica di Rimbaud nasce sfida come linguaggio privilegiato sulle orme di Mallarmée di Baudelaire che, saltando sdegnosamente il materialismo contingente e opportunista e l’arrivismo economico intesero chiudersi in una torre d’avorio per purificare il linguaggio dalle devastanti infiltrazioni e rifugiarsi in un ideale assoluto nella réerie o imagination, detta “fantasia” da Croce per l’impossibilità di poter cambiare il mondo reale; tentativo operato da Rimbaud fin tanto che la sua giovanile esperienza gli ha suggerito, dopodiché è prevalso l’orrore e il conseguente – cattivo sangue – l’ha portato ad immergersi in quell’orrore. 

Rimbaud era maturato in fretta, dai sedici ai ventitrè anni la sua produzione poetica, poi il crollo delle sue speranze e l’abbandono definitivo dalla scena letteraria. Era maturato in fretta con la frequentazione intensa di lirici latini e greci, francesi, inglesi. La poesia per Rimbaud non deve seguire, ma precedere l’azione, secondo l’indicazione dell’antico vate, per modificare il progresso dalle sue strutture, e farsi carico del dolore degli uomini miti. Purtroppo, il poeta sperimenta solo indifferenza e delusione; il Bateau ivre, dopo avere scoperto oceani immensi, arcobaleni fioriti, affonda in una pozzanghera di fango. In questo il poeta ritrova il dolore del bimbo alle prese con la sua barchetta di carta che affonda miseramente, come lui stesso fragile e insicuro, con la nostalgia dell’infanzia, la sua etàdell’oro intravista e persa. 

Une saison en enfer, sua penultima opera, trae dalla prosa evangelica di Betsaide la sua drammaticità Gesù il divino Maestro, non può restare a lungo in questo luogo di perdizione, di dannati, bisogna uscirne, è pericoloso, tutto diventa cattivo; liberarsi del mondo diventa per Rimbaud liberarsi della Croce per sentirsi libero. Ma quale libertà Quella degli infelici, tanto vale vivere tra gli infelici, i semplici, lui angelo decaduto, fuori di ogni convenzione. Disprezzo e carità diventano il suo credo, il suo biglietto valido per accedere ad un posto in cima alla scala angelica di valori, quelli dello Spirito. Rimbaud è molto convinto di ciò il resto è un fuggire continuo, per finire tra i figli di Cam per ritrovare solo in Africa la propria natura primitiva. 

Restaurando la propria infanzia, egli identifica una esperienza primordiale, vero negro in rivolta, libero dalla civiltà corrotta e dal linguaggio immondo di mostruosi sfruttamenti, industriali e commerciali, dove la farsa continua del vivere sarebbe pianto amaro. Non gli è più possibile sottomettervisi ancora, dice, se è chiaro che questa civiltà sarà seguita dallo sterminio del pianeta. Veggenza? Stregoneria poetica? Purtroppo non ebbe la meglio sulla stregoneria politica che doveva coinvolgere con i suoi tentacoli tutto il mondo occidentale; non potè assistere a quest’altro sfacelo, la sua chiave esoterica indebolita dal male, anziché aprirsi a possibilità polemiche, si rinchiuse definitivamente in un sepolcro di rinuncia. Implora il coraggio di amare la morte! 

Nel 1980 uscì il libro di Giovanni Testori Conversazione con la morte in cui l’Autore si pone dei quesiti in parallelo a Une saison en enfer di Rimbaud, poeta che finora è stato interpretato in una chiave sbagliata. Testori, per altro quasi dimenticato perché scomodo con le sue teorie spiritualistiche, dice di Rimbaud: «è l’ultimo grande poeta profeta che abbia parlato all’uomo. E non è un caso che egli, proprio nell’ultimo capitolo del suo poema abbia ritrovato le parole della Bibbia e che le abbia messe in corsivo come sigillo al suo grido di rivolta e di dolore». 

Degli amori menzogneri di cui finalmente può ridere, Rimbaud lancia un grido di gioia perché dice, finalmente potrà possedere la verità in un’anima e in un corpo. Ora questo grido bisogna intenderlo nell’unica chiave che gli dà senso: la chiave religiosa. Rimbaud aveva già capito tutto in anticipo e, per questo, Testori lo chiama profeta. È stato Dio che lo ha illuminato, riferisce Testori, ed è fuori di dubbio che anche le Illuminations rimbaudiane abbiano avuto lo stesso mittente. Dopo aver toccato il fondo si intravede per lui l’antica sfida che qualcuno seppe leggere nei Fiori del male di Baudelaire: tirarsi un colpo di rivoltella, o fare un giusto ritorno ai valori umani. 

È questa la condanna e la svolta richiesta dall’anonimato della vita di questo ultimo scorcio del XX secolo, 

dove l’alienazione illude di risolvere ogni problema in permissività e violenza. Anche della Ragione e dell’Intelligenza abbiamo finito col servircene più male che bene, approdando purtroppo aridamente alla «illuminata demenza della Ragione», afferma sempre Testori. 

Tremiamo. Il “Viaggio in Paradiso”, descritto in Conversazione con la morte, gareggia con la Saison en enfer: i fiori del male scompaiono nel “popolo di nebbia” testoriano. Solo il Mostro, lei, la Ragione, ansima, rugge, compie stragi e ne compirà più avanti, «infinite nascite orrende / infiniti orridi genocidi / per poter salire là/ dove siede l’ombra del Perduto, / il suo vuoto: / la meta della Bestia è il suo trono». L’Apocalisse si profila all’uomo del XX secolo cosìcome il Battista avvertìnel deserto: «Se voi vincerete la Bestia, il vuoto si riempirà». 

Da questo disagio, il male potrà dissolversi e lo Spirito trionfare, tornare al primitivo splendore innocente nel grembo materno. Come Rimbaud, dice Testori della morte: «Non bisogna averne paura, se voi provaste a chiamarla prima sottovoce, quindi portando la bocca sulle sue orecchie, più sottovoce ancora; se voi le sussurraste Madre, anzi Mamma, così Mamma! Che musica dolce, ondulante, quasi una nevicata sommessa ed infinita, quasi una lontanissima piva dei Natali che abbiamo distrutto, ucciso, sepolto… È un esercizio d’amore, l’unico che arrivato dove sono posso insegnarvi. Quella emme che mormora e bela, quella su cui ci si può distendere sempre, in ogni ora, dopo ogni gesto, perfino dopo un delitto; poi, due mormorii che la seguono, uno dentro l’altro, uno sull’altro come il gesto che ci cullava bambini e non avevamo ancora capito, ancora eravamo illusi di non aver capito che quelle mani ci stringevano per consegnarci a una resa». 

Ancora ci fremono dentro le parole profetiche di Testori quando, con quella genialità che gli è propria e che dopo Rimbaud non s’era piùavuto modo di ritrovare, confessava: «L’uomo non può essere tutto imprigionato dentro la materia del suo corpo mortale. Il corpo è il supporto che regge l’anima; quando si cerca di soffocarla il corpo o meglio la Ragione non ha più pace, si ammala ed escogita nefandezze; ma se prima o poi l’anima rompe la pressa che la serra tenderà a rivelare il suo mistero eterno, quindi a profetizzare sulla nostra cecità». 

Cos’è che angosciosamente preme in noi se non uno spasmodico desiderio di verità Gli scettici chiusi nella loro mentalità frontale senza una forte volontà di uscirne, mai potranno addivenire alle bellezze dischiuse ed infinite dell’anima soave. La disperazione delle Illuminazioni, profusa da Rimbaud, traccia l’inquietudine dei giovani moderni. 

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 33-36.




Omaggio a Jacques Maritain 

Formulare un omaggio ad un filosofo dal pensiero ricco e vitale come Jacques Maritain ci sembra doveroso per approfondire la sua opera più serenamente che nel passato. 

Un anno dopo la sua morte avvenuta nel 1972, si aprì ad Ancona un convegno di studi organizzato dall’Istituto Internazionale francese “Jacques Maritain” che fece convergere su di lui !’interesse degli studiosi italiani in un clima di rinnovato fervore. Da allora si sono succeduti altri convegni e seminari a Brescia, a Milano, a Venezia, ecc. Si sono così moltiplicati saggi e monografie che testimoniano l’esigenza di porre tutta l’opera maritainiana a nuova verifica per cogliere nella più giusta dimensione le note peculiari del suo pensiero definito tomista. 

Questa definizione aveva dato adito alla critica di relegare il pensiero di Maritain come sorpassato conseIVatore, ma alla luce dei nuovi studi si è chiarito come invece fosse sì di derivazione tomista, ma con una carica esistenziale e innovatrice di grande attualità. In tutti i periodi della sua vita questa carica vitale è stata la caratteristica ben precisa del suo pensiero, anche se talvolta ha cambiato punto di osservazione, come è naturale che avvenga in uno spirito eccezionale aperto alla capacità di analisi e di sintesi, riuscendo a cogliere i diversi aspetti esistenziali dell’uomo e del suo destino. 

È stato prevalentemente contemplativo e, quindi, temperamento di artista, ha saputo immergere la sua conoscenza nei più svariati campi delle aspirazioni del nostro tempo con lo stesso amore della verità e della cultura in quan~o la sua voce diffusa dalle sue molteplici opere ha indagato sia nel campo politico, sia nel campo pedagogico che nel campo artistico con valenze poliedriche universali. Tutto questo in un modo livellato, dove l’uomo schiacciato dall’aridità di una tecnica senz’anima ha perso la sua disponibilità ad inserirsi in una “civiltà dell’amicizia”, secondo una sua felice espressione. Tutto il suo lavoro è improntato a profondo amore per l’uomo moderno alla ricerca incessante dell’essere nella sua, completa eccezione, che dalla conoscenza razionale alla conoscenza artistica possa risalire la via della quiete interiore per un approccio, con Dio. 

Tralasciando i dati strettamente biografici, ci soffermeremo a considerare il suo prezioso insegnamento. D’accordo con Mounier e Péguy, affermava che l’amore basato sul “donarsi” ha perduto questa verità, tanto che anche l’intelligenza ha finito per diventare una proprietà massificata e ciò a causa di molte disgrazie umane. È necessario quindi rifare “la rinascenza”, ossia gettare le premesse per un nuovo rinascimento spirituale dell’umanità. L’opera più nota di Jacques Maritain ‘Umanesimo Integrale’ è impostata sul concetto del ritorno dell’uomo all’uomo, dell’uomo che sente di appartenere intimamente al mondo dello spirito con atteggiamento critico e costruttivo per edificare, non per distruggere, con l’adesione non costruttiva al mondo del lavoro e dell’arte, senza di che si incappa inesorabilmente nella follia. Tanto è vero che i fautori del nichilismo puro hanno tutti terminato la loro vita o col suicidio o con la demenza totale. 

In ‘Umanesimo Integrale’ calca la mano e l’accento sul fatto che l’uomo, nella sua limitante condizione umana, deve essere sì aperto al dialogo col mondo, ma nello stesso tempo ha bisogno della grazia divina per superare le sue contraddizioni e ritrovarsi coerente con la norma morale di una società civile. Così la storia è animata da un movimento orizzontale che porta l’umanità ad una sempre più completa realizzazione mediante il lavoro e la cultura, e da un movimento verticale per cui il singolo trascende la società per immergersi nella contemplazione della verità e della bellezza. Questa, in fondo, è la concezione di S. Paolo cui Maritain si ispira e che svilupperà poi con la filosofia di S. Tommaso. È il concetto di personalismo: Maritain è infatti il prosecutore non scolastico della filosofia tomista per il carattere di esistenzialità del suo pensiero. L’esistenzialità dell’essere non può trovare appagamento se non nella misura in cui supera la sua condizione storica, mentre la saggezza gli offre il salto della qualità sulla quantità. La mancanza della qualità determina le crisi delle società. 

Sono questi i temi fondamentali che Maritain ha svolto durante il ritiro di Tolosa, che hanno indotto molti studiosi a rivedere le loro posizioni polemiche e la loro conseguente scoperta sui rapporti tra la vita attiva e la vita contemplativa. Tra l’azione politica e l’azione religiosa correlata c’è tutto Maritain. 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 55-56




La traduzione nel Medioevo a Palermo e a Toledo 

Riassunto – In questo saggio vengono studiate le condizioni ambientali che nel Duecento resero possibile l’esistenza, nel Mezzogiorno italiano e nella Spagna centrale, di due centri culturali conosciuti rispettivamente come la Magna Curia e la ,Escuela de Traductores de Toledo 

A capo di essi spiccano due sovrani eccezionali e quasi coevi: l’imperatore Federico Il e il re Alfonso X el Sabio. Entrambi, ma soprattutto il re toledano, devono essere considerati come nesso imprescindibile tra la cultura orientale e quella occidentale, poiché fecero tradurre dal greco e dall’arabo molti testi scientifici orientali, che gli eruditi europei non avrebbero forse potuto conoscere. 

Si studiano anche i procedimenti che erano seguiti, sia alla corte siciliana sia nelle diverse tappe dei lavori della corte toledana, dai diversi gruppi di traduttori formati da savi appartenenti a tre etnie storicamente irriconciliabili musulmani, ebrei e cristiani – che realizzavano simultaneamente le traduzioni in latino o in volgare (Angeles Arce*). 

Il secolo XIIl nell’Occidente latino ebbe la fortuna di conoscere due sovrani eccezionali, ambedue promotori di un mondo culturale senza pari nel Medioevo’, eredi e continuatori di un iter anteriormente tracciato, che raggiungeranno il loro auge in una sorta di «Dispotismo illuminato» del Duecento: Federico II di Sicilia e Alfonso X di Castiglia, diretti responsabili rispettivamente della Magna Curia2 e della Escuela de Traductores de Toledo3. Entrambe le sedi, ma soprattutto quella toledana, devono essere considerate come un ponte imprescindibile tra la cultura orientale e quella oçcidentale poiché, grazie alle traduzioni da esse realizzate – dal greco e dall’arabo in latino o in volgare -, molti eruditi europei presero contatto con quei testi fondamentali della filosofia, dell’astronomia, della matematica, dell’alchimia o della medicina che la maggior parte di loro non potevano conoscere, e forse non avrebbero mai conosciuto. Inoltre, esercitando la funzione di ponte culturale con l’Europa medievale, le scuole siciliana e toledana inaugurano i primi movimenti letterari dei loro rispettivi Paesi: la lirica da parte di Federico II e la prosa grazie alla penna di Alfonso X. Questo conferma che lo sviluppo o il consolidamento delle letterature volgari si verificò proprio nei luoghi dove fu maggiore l’interazione fra culture e lingue diverse. 

È molto probabile che questi monarchi, pur appartenendo alla stessa stirpe familiare degli Hohenstaufen – Alfonso era figlio di Beatrice di Svevia, cugina di Federico II e ambedue nipoti di Federico I «Barbarossa» (1152-1190) -, non si siano mai conosciuti: sembra strano, però, che non abbiano neppure avuto notizie l’uno dell’altro, dato che la differenza cronologicamente esistente fra loro era di poco più di vent’anni. Se consideriamo, invece, i numerosi punti di contatto delle loro condizioni ambientali e la somiglianza culturale delle loro corti, è evidente che si possono studiare non solo come semplici coincidenze casuali, ma si devono invece studiare insieme e comparativamente per poter chiarire meglio alcuni aspetti particolari inerenti ad esse aspirante frustrato alla corona imperiale tedesca (1256) dopo la morte di Guglielmo d’Olanda5. 

Sono conosciute le vicende storiche del rapporto plurisecolare tra la Sicilia e la Spagna. Ci basti ricordare solo tre esempi: Tucidide afferma che i Sicani, primi abitanti dell’Isola, procedevano dalle coste orientali della penisola iberica; d’altra parte, è stata messa in evidenza la somiglianza, dal punto di vista linguistico, tra alcuni suoni dell’Italia meridionale con certi elementi dei dialetti iberici orientali, il che potrebbe provare che la colonizzazione romana della Spagna si è potuta portare a termine con abitanti suditalici; ed in terzo luogo, c’è un fatto che mi sembra interessante ricordare: la Spagna e la Sicilia furono le due uniche zone di tutta l’Europa in cui gli Arabi si stabilirono a lungo e da cui irradiarono la loro cultura. 

Dal secolo XII in poi sono vari i centri culturali che primeggiano nel Regno di Castiglia e di Aragona: Tarazona, Siviglia, Murcia, Barcellona, Toledo, Segovia, Saragozza o Huesca, mentre nell’Italia meridionale – dove la corte era itinerante – prevalgono Messina, Palermo, Capua – con un centro di studi di retorica – e Napoli, sede quest’ultima, dal 1224, di un’università di fondazione regia conosciuta come «Studio generale» e istituita – secondo quanto si legge nel decreto di fondazione – «perché chi aveva fame e sete di sapienza trovasse da saziarsi nel regno»6. 

Tuttavia, tra tutte le sedi citate soltanto Toledo e Palermo – considerata questa da Pietro da Eboli quale dotata trilinguis7 – saranno reputate, sotto i loro rispettivi monarchi, come sedi di un enciclopedismo medievale tanto nell’ambito letterario quanto in quello scientifico. 

Ciò nonostante, l’islamizzazione in ambedue le corti era molto diversa. Infatti, il re Alfonso, toledano di nascita e cristiano, non poteva condividere i costumi arabi che avevano cominciato a proliferare nella corte siciliana, soprattutto durante il regno di Ruggiero II, nonno materno di Federico. Questo monarca (1097-1157), educato in ambiente greco, aveva organizzato una corte con eunuchi, con harem, con monete datate secondo l’egira e con invocazioni ad Allah, e dove non mancava nemmeno un’accademia di savi di varia provenienza. In seguito, anche se il nipote sopprimerà alcune di queste abitudini orientali, avrà sempre presente il ricordo giovanile di una Palermo dall’aspetto orientale in cui confluivano influssi normanni insieme a quelli latini, greci, bizantini o musulmani. Inoltre, peculiari circostanze storiche fecero sì che la struttura di queste due corti medievali e l’etnia dei loro rispettivi seguiti fossero piuttosto diverse. 

Questa corte meridionale, crocevia delle lingue medievali, considerata una delle più raffinate e la meno feudale di tutta l’Europa, fece della Sicilia il primo stato moderno del continente, tanto per la sua organizzazione burocratica quanto per le pretese assolutistiche della corona; senza dimenticare che, dal punto di vista letterario, alcuni credono che «fuori di essa si può ben dire, senza timore di peccare contro la storia, che tutta la nostra storia letteraria avrebbe avuto un corso differente (cfr. Folena, p. 273). 

Pur avendo seguito in un primo momento l’esempio della diffusa poesia provenzale, Federico II cominciò a patrocinare, verso il terzo decennio del Duecento, una scuola poetica che presenta la novità di non essere formata da trovatori, bensì da funzionari della Cancelleria. Il monarca, infatti, si circondò di un’elite politica che comprendeva burocrati, nobili, notai e personalità della corte che, per di più, scrivevano poesia in volgare come evasione dai problemi quotidiani. Tutti quanti, tanto i poeti o i giuristi provenienti dalla Penisola – come Pier della Vigna, Giacomino Pugliese, Goffredo da Benevento, Taddeo da Sessa, Percivalle Doria o Tommaso Gaeta -, quanto quelli provenienti dall’Isola come Stefano Protonotaro, Tommaso di Sasso o Iacopo da Lentini, formavano parte di una istituzione conosciuta come Magna Curia, una sorte, in senso lato, di governo o di amministrazione centrale. ‘Questo è proprio ciò che li distinguerà dal resto dei poeti dell’Occitania. Il poeta di questa prima scuola – chiamata da Dante, come è risaputo, «siciliana»8- è un uomo colto che scrive per il piacere della poesia, di una poesia pensata per essere letta individualmente e non per essere recitata con musica; si oppone così a quella dei trovatori professionisti, a volte semplici giullari ansiosi d’onori e inclini all’adulazione9. 

Non è il caso di soffermarci ulteriormente sulle caratteristiche di questa scuola o delle diverse scholae o sezioni che formavano la Magna Curia. Pur riconoscendone le indiscutibili innovazioni metriche e linguistiche nell’ambito letterario, è mia intenzione ora occuparmi dell’altra attività cortigiana, svolta a Palermo, che la ricollega a Toledo: le traduzioni dalle lingue orientali. 

È noto che intorno a Federico II, che sapeva leggere e scrivere, si sviluppò un’esuberante vita intellettuale giacché, secondo il Salimbene, il monarca stesso parlava, o almeno conosceva, parecchie lingue: il tedesco paterno e il francese normanno di sua madre Costanza d’Altavilla10, oltre al latino – conosciuto a scuola e identificato con la grammatica -, 1il greco11, l’arabo12 e un incipiente volgare italiano identificato nel dialetto apulo-siciliano. La conoscenza di queste lingue ampliava l’interesse del monarca e del suo circolo per le scienze e la filosofia, materie sulle quali, in maggior misura, verteranno le traduzioni «siciliane», mentre in area bizantina i traduttori dal greco di origine italiana, come Giacomo Veneto, Burgundione Pisano, Ugo Eteriano o Stefano da Pisa, si occupavano di testi religiosi o teologi. L’imperatore accoglieva nel suo cenacolo di generoso mecenate poeti, filosofi, matematici o giuristi e concedeva loro protezione in cambio di incondizionati servizi politici13. 

Tuttavia, possiamo segnalare qualche differenza nelle preoccupazioni dei due protagonisti: mentre Alfonso X vedeva tutte queste scienze «non come un lusso ma come un bisogno nazionale» che coltivava «a casa con i dotti peninsulari», per l’imperatore italiano – denominato il Sultano di Occidente -, la curiosità scientifica era un elemento del suo prestigio imperiale e della sua possente personalità e gli permetteva di intrattenere una corrispondenza con i savi e, soprattutto, con i sultani o califfi dello Yemen, dell’Egitto, del Marocco e con monarchi come il Saladino14. 

In questo senso, i contatti tra la Sicilia di Federico e l’Oriente sono molto più saldi di quelli della Castiglia di Alfonso. Ma solo in questo senso, perché senza mettere in dubbio, naturalmente, l’interesse dell’imperatore per la cultura, non sembrano del tutto esatte le parole del Folena quando afferma che «l’orizzonte apertissimo della cultura del tempo di Federico II era senza precedenti di uguale vastità nel Medioevo per incontro e contemporaneità di esperienze diverse» (Folena, p. 294). Le sue affermazioni si potrebbero ribattere, almeno, in due punti: in primo luogo perché un altro rinascimento culturale, forse molto più importante, era esistito mezzo secolo prima15 intorno alle figure di Ruggiero II (1105-1154) e Guglielmo I (1154-1166), nonno e zio di Federico; e d’altra parte – e in questo è necessario insistere -, perché molti dei savi e dei traduttori che lavorarono presso Federico avevano lavorato e perfezionato prima i loro studi a Toledo, riconoscendo con questo il primato indiscutibile della città spagnola, almeno nel campo delle traduzioni dall’arabo. 

Le prime versioni insulari vertevano su temi filosofici e scientifici, sulle orme di quelle toledane (cfr. Millas) ma, a differenza di queste, come si è visto, furono opera di collaboratori della Magna Curia che erano dei personaggi legati alla burocrazia di corte. E proprio a questa appartengono i primi traduttori di cui si hanno notizie16 tra i quali Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania e Primo ministro di Guglielmo I, a cui portò come regalo da Tessalonica un manoscritto in arabo della Syntaxis mathematica di Tolomeo, conosciuta come l’Almagestum. Tradusse nel 1156 dal greco in latino il IV libro delle Metereologiche di Aristotele, e anche i dialoghi platonici Menone e Fedone; in collaborazione poi con l’ammiraglio siciliano Eugenio da Palermo, tradusse verso il 1160 – questa volta dall’arabo – il famoso trattato di astronomia tolemaico, di cui esisteva già una versione anonima in ebraico. 

Eugenio da Palermo, grande conoscitore dell’arabo, verso il 1150 fece una versione in latino, ora da solo, dell’Ottica tolemaica ed è grazie al suo sforzo che quest’opera è giunta fino a noi – solo i libri Il e V -, giacché sono andati perduti tanto l’originale greco quanto la versione araba posteriore17. 

Tuttavia, un fatto prova che i lavori realizzati a Palermo non avevano, purtroppo, una grande diffusione nel mondo cristiano medievale: i testi tradotti più di una volta in modo indipendente dimostrano che fra i traduttori siciliani e i toledani – senza dimenticare anche i constantinopolitani – non c’era una fluida comunicazione o informazione. Un esempio tra i tanti: appena una quindicina d’anni dopo la traduzione siciliana dell’Almagestum tolemaico, un importante traduttore dell’Italia settentrionale, 

Gerardo da Cremona, fece una nuova versione del libro alla corte toledana, ignorando, forse, quella realizzata anteriormente in Sicilia dai suoi compatrioti Eugenio da Palermo e l’Aristippo. Anche se l’opera dell’astronomo di Alessandria era stata tradotta in arabo nel secolo IX e più tardi in ebraico da ebrei spagnoli, la versione latina che si diffonderà per tutto l’occidente – fino alla sua definitiva pubblicazione a Venezia nel 1515 e prima dell’edizione principe dell’originale greco fatta a Basilea nel 1538, è dovuta proprio a quest’italiano noto come il Cremonensis18. 

Infatti Gerardo da Cremona (1114-1187), che arrivò alla corte castigliana intorno al 1157 – un secolo prima di Alfonso X el Sabio – con l’unica intenzione di conoscere e divulgare l’Almagestum, prolungò per tre decenni il soggiorno a Toledo lavorando come uno dei tanti studiosi assidui della scuola castigliana19. Dopo aver approfondito lo studio dell’arabo, fu immenso il sapere che scoprì in quei testi arabi, ancora non conosciuti dalla cultura occidentale. Gerardo attinse alla più vasta materia per le sue fedelissime traduzioni in latino, che dotò di una terminologia più precisa e un linguaggio tecnico nuovo nel campo dell’algebra, aritmetica, medicina, astrologia, geomanzia o alchimia. Tradusse circa ottanta trattati20, numero che fa pensare alla possibilità che l’italiano sia stato il direttore di un gruppo specifico di traduttori – socii – tra i quali collaboravano sia ebrei che «mozarabes)), cioè cittadini della Penisola Iberica che rimasero fedeli alla religione cristiana anche se assunsero come propri i caratteri della civiltà araba. 

È inoltre vero che se in Europa nel secolo XII esistevano altre scuole episcopali di prestigio, tutte erano d’accordo nel conferire a Toledo il primato nell’islamizzazione del mondo occidentale. Questa è la causa per la quale molti eruditi europei frequentarono questa ed altre scuole spagnole dove ampliavano i loro studi ed erano in grado di realizzare posteriormente diverse traduzioni. Tra questi studiosi «stranieri» che viaggiano in Spagna si possono ricordare i nome dell’italiano Platone 

 

di Tivoli21 , il fiammingo Rodolfo di Bruges, il tedesco Ermanno di Carinzia – noto a Toledo come Herman el Dalmata o el Aleman e traduttore del Corano e di altri testi dottrinali arabi – o studiosi inglesi come Alfredo Sareshell22, Roberto di Chester – presente anche nella scuola salernitana verso il 1150 -, Daniele di Morley che nell’ultimo quarto del secolo XII si occupa di astrologia, ed il filosofo Adelardo di Bath, al quale viene attribuita – come anche a Fibonacci Pisano – l’introduzione in Europa delle cifre arabe23. 

Un caso peculiare di presenza nelle due sedi mediterranee come traduttore e autore originale è rappresentato dallo scozzese Michele Scoto (1175-1236), una delle personalità più ammirate da Federico24. La sua carriera cominciò a Toledo nel 1217, dove in stretta collaborazione con l’ebreo «Abuteus levita», finì la traduzione – anche se restò inedita al pari del testo arabo – del libro di astronomia di al-Bitruji25. Completò anche le traduzioni di Avicenna – così era noto il medico persiano Ibn Sina – e di Aristotele sugli animali, e fece conoscere in Europa i commenti sulla filosofia aristotelica di autori ispanoarabi come Avempace, Averroè, Abentofail o Maimonide, importanti collaboratori alla corte toledana prima dell’arrivo di Alfonso di Castiglia. Lo scozzese lasciò Toledo in data imprecisata e fra il 1220 e il 1224 arrivò in Italia; dopo aver frequentato i circoli papali in epoca di tregua fra Santa Sede e Impero (1124-1227), si trasferì a Pisa e poi alla corte federiciana portando con sé il sapere acquisito in Spagna. Accettò allora l’incarico di astrologo26 e matematico di camera nella corte di Federico Il dove restò fino alla morte nel 1236. Incontrò in Sicilia altri uomini di cultura non soltanto italiani – come Aldobrandino da Siena, Leonardo Fibonacci da Pisa27 o Percivalle Doria -, ma anche di altre nazionalità come il musulmano Moamyn28 , gli ebrei Giacobbe Anatoli29 e Yehudad ben .Shelomo Koben, il provenzale Aimeric de Peguilhan – trovatore occitano che dedica una canzone da crociata all’Imperatore -, il poeta normannò Enrico di Avranches, che verso il 1236 dedica vari poemi arguti a Federico, e perfino due personaggi legati alla curia pontificia i cui nomi latinizzati evocano la loro origine iberica: il Magister Dominicus30 e Petrus Hispanus, futurò papa Giovanni XXI nel 127631. Queste due ultime figure ci possono servire per introdurci nella Spagna coetanea, sebbene prima è necessario fare una breve precisazione sul metodo di traduzione seguito dagli uomini che lavoravano a Palermo. 

Anche se non si hanno notizie sicure al riguardo, qualcosa si può ricostruire dalle osservazioni critiche di un eminente scienziato inglese, Ruggero Bacone (1220-1292), che distingue fra un «tecnico professionale» e un «commentatore» del testo. Occorre, dice, non soltanto conoscere le lingue ma avere una completa padronanza della materia su cui verte 1’opera tradotta; non condivide, inoltre, la metodologia verbum de verbo cioè, letterale – perché serve solo a mascherare l’ignoranza dei traduttori. Ruggero non esita a criticare il pessimo lavoro «meccanico» di due personalità come Gerardo da Cremona o Michele Scoto, e con le sue critiche anticipa quelle delle teorie umanistiche della traduzione. 

Per sommi capi, la traduzione medievale – che seguiva non una ma diverse metodologie e distingueva la versione ad verbum da quella ad sensum – partiva da un canovaccio parola per parola, a volte orale, a volte scritto a modo di glossa nell’interlinea del testo greco o arabo originale. Non era considerato «traduttore» chi faceva questa prima bozza, ma colui che la trascriveva, potendo accadere persino, che il cosidetto «traduttore» – interpres – non conoscesse addirittura la lingua di partenza. 

Tuttavia Ruggero Bacone, che non era traduttore ma usufruiva delle versioni altrui come lettore e studioso, criticò duramente il letteralismo, anche se lo giustificò in due casi: quando le lingue di partenza e di arrivo erano assai diverse, o per motivi «scientifici», cioè quando la materia era molto complicata e conveniva restare il più possibile vicino all’originale per fare poi una glossa o un commento. 

Fatta la precisazione sulle tecniche seguite dai traduttori a Palermo, cambiamo di sede mediterranea. Abbiamo già ricordato che il favoloso mondo culturale di Toledo non era cominciato nell’epoca di Alfonso X di Castiglia, ma alcuni decenni prima durante il regno di suo padre Ferdinando III, detto il Santo (1199 – 1252), coevo dell’imperatore Federico. Pertanto nel secolo e mezzo durante il quale si porta a termine l’ingente lavoro di traduzione della scuola toledana (1130-1287) si può parlare di tre periodi: epoca raimondiana [1130-1187), epoca di transizione (1187-1252) ed epoca alfonsina (1252-1287)32 . 

Gli avvenimenti storici influirono decisamente sul funzionamento della scuola. Toledo, capitale nel 1035 di un importante «Reino de Taifas», fu recuperata da Alfonso VI nel 1085. I cristiani dimostrarono in questo caso la loro intelligenza e cultura rispettando e facendo tesoro dei numerosi manoscritti che si trovavano nelle biblioteche della città33. In questo modo la cultura araba e quella latino-cristiana si fusero, ma grazie a un elemento agglutinante costituito dagli ebrei, i quali oltre ad essere economicamente importanti, in genere erano anche dotti e colti. In numero maggiore che a Palermo, questi ebrei «spagnoli» che fuggivano dall’intolleranza almohade, collegarono due etnie, storicamente nemiche irreconciliabili, che di sicuro non si sarebbero mai affratellate senza il loro tramite34. 

31 Con il nome Petrus Hispanus (1220-1277) si conosceva questo erudito di Lisbona, autore di un manuale di dialettica intitolato Summulae logicales e commentatore di opere mediche di Ippocrate e di Galeno tra altri. È difficile assicurare i suoi rapporti con la corte federiciana prima della morte dell’imperatore ma, come medico di Gregorio X, non bisogna dimenticare il suo interesse per la medicina nel campo delle scienze della natura e del corpo: il suo nome appare negli studi sul piacere provato nei rapporti sessuali o in un esperimento legato alla magia per guarire l’impotenza maschile. La figura serve anche a provare che i rapporti tra la curia pontificia e la federiciana esistevano ed erano più intensi di quanto si credeva. 

La città castigliana era una sede ideale per questo tipo di lavoro di traduzione: disponeva di abbondanti testi orientali, di eruditi che conoscevano le lingue da tradurre, anche se non sempre dominavano le materie che traducevano, e non mancavano i mecenati protettori della cultura e del sapere ecumenici. Il primo di questi benefattori risale alla prima metà del secolo XII: l’arcivescovo don Raimondo35 che sarà il promotore della cosiddetta Accademia, Collegio o Scuola di Traduttori di Toledo. Il personaggio che diede nome all’epoca raimondiana controllò le numerose versioni dall’arabo al latino dovute alla collaborazione tra Domenico Gundisalvo, arcidiacono di Cuéllar36 e il «Magister Iohannes», – così era noto l’ebreo converso Giovanni Hispanus, vescovo di Segorbe37 -, ambedue coevi del Cremonensis. 

Don Raimondo, inoltre, realizzò a Toledo grandi riforme urbanistiche e prese parte al Consiglio e alla Cancelleria reale, funzioni che lo collegano direttamente con i poeti aulici della Magna Curia siciliana. Purtroppo, anche se importante, la sua dedizione al «Colegio de Traductores» non può essere paragonabile a quella di Alfonso X, la quale caratterizzerà l’ultima tappa della scuola toledana. Non ci sono rimaste notizie sicure sugli interventi più o meno personali dell’arcivescovo nei lavori di traduzione, ma nel 1152, dopo la sua morte, la scuola continuò la sua attività culturale, sebbene il successore don Giovanni – vescovo dal 1151 al 1166 – trasferisse 

le attività di traduzione all’interno della cattedrale [cfr. Hernandez]. 

Al contrario, la figura di Alfonso X sarà sempre presente nei gruppi di traduttori fino a quando il re non si dovette occupare dei problemi di politica interna – dal 260 al 127038 -; si interruppero quasi le attività scientifiche della «Escuela de Traductores» le quali spariranno definitivamente con Sancho IV, pochi anni dopo la morte di Alfonso. 

Nei quasi sette decenni considerati di transizione (1187-1252) fra le due tappe auree della scuola toledana, non sono molte le traduzioni39 né i traduttori importanti ad eccezione di tre nomi: il già nominato Michele Scoto che si trovò nel 1217 a Toledo e verso il 1228 in Sicilia; il medico e canonico Marco da Toledo che tra il 1191 e il 1234 tradusse dall’arabo in latino testi di biologia e medicina e, infine, il tedesco Hermann Dalmata che, oltre a vivere anche lui in ambedue le corti40, fu il precursore a Toledo delle traduzioni in castigliano adoperando un testo ebraico. Ci avviciniamo così all’epoca alfonsina, ultimo e più importante periodo della scuola toledana. 

Pervenuto al trono di Castiglia nel 1252, Alfonso X continuerà la tradizione precedente consolidatasi nel centro di traduzione. Nella sua epoca di infante, per iniziativa propria, aveva già fatto tradurre dall’arabo in castigliano il Lapidario (1250) – trattato su minerali e pietre preziose – e dal sanscrito il Libro de Calila e Dimna (1251 – 1252), famosa collana di favole indiane. Come re dovette far coincidere le preoccupazioni politiche proprie della corona con una maggior cura nei riguardi dei diversi gruppi di traduttori i quali, anche se con tecniche ereditate, pare seguissero un procedimento molto più complesso e perfezionato di quello usato dai traduttori della scuola con sede a Palermo. 

Se non sappiamo di sicuro come si realizzassero in Sicilia le traduzioni, sappiamo, però, come venivano elaborate alla corte toledana41. Era necessario un gruppo di varie persone in cui erano presenti un ulema musulmano, un dragomanno «mudéjap – nome con cui erano conosciuti in Spagna i maomettani rimasti fedeli alla loro religione dopo la «Reconquista» cristiana – e un rabbino ebreo che, a voce alta, traduceva il testo originale greco, arabo o ebraico in volgare castigliano, affinché simultaneamente un chierico e un erudito cristiano lo traducesse in latino. Con il tempo, questo curioso procedimento di «traduzione simultanea» subì qualche trasformazione quando il monarca, che partecipava sempre più attivamente ai lavori del gruppo [cfr. Solalinde], decise che le traduzioni fossero fatte sempre in castigliano e, a volte, in altre lingue volgari europee, come il francese. 

Questo desiderio del re di volgarizzare in castigliano i testi potrebbe essere attribuibile a diversi fattori: da una parte, a una volontà chiaramente didattica, dato che molti dei suoi sudditi ignoravano il latino, mentre il castigliano era conosciuto da tutti nei diversi ceti sociali42; e dall’altra ai consigli o suggerimenti dei collaboratori ebrei, più importanti numericamente, che sentivano il latino come una lingua legata alla liturgia cristiana e, come è logico, preferivano non adoperarla. 

Tuttavia, anche se con gli anni il procedimento venne semplificato e perfezionato, il lavoro di gruppo continuava ad essere imprescindibile: un musulmano o un ebreo, conoscitore dell’arabo o del greco, faceva la prima versione orale e volgarizzata del testo; poi l’erudito cristiano aveva il compito di dare a questa lingua castigliana, piena di scorrettezze, uno stile più o meno letterario o, per lo meno, leggibile. I testi e le miniature che illustrano i codici alfonsini ci mostrano con esattezza come il monarca spagnolo controllasse personalmente i lavori di questo gruppo di specialisti, che veniva completato con un correttore – «emendador -, con un compendiatore – «capitulador – e con un glossatore – «glosador – prima di arrivare in mano al copista che lo avrebbe convertito in lingua scritta}}. 

 

Questa premura del re faceva si che la versione definitiva fosse sempre più perfetta possibile43, prestando un’attenzione speciale alla correzione linguistica, sia che si trattasse di traduzioni quanto di opere originali del monarca. 

A questo punto ci possiamo fare una domanda: chi faceva parte a Toledo di questi gruppi di lavoro? Clara Foz assicura che, tra cristiani ed ebrei, erano appena undici gli studiosi nel secolo XII – cinque spagnoli e sei stranieri – di fronte ai quindici – dieci spagnoli e cinque di altre nazionalità – nel secolo seguente. Sebbene il numero di spagnoli fosse superiore, sembra che fosse loro riservata la funzione di semplici collaboratori degli ebrei, questi ultimi veri responsabili delle traduzioni definitive. Fra i traduttori cristiani si possono dare i nomi di Alvaro da Oviedo, Garci Pérez da Toledo, il Magister Bernardus, e alcuni italiani come Thebaldis da Parma, Giovanni da Messina, Giovanni da Cremona o Bonaventura da Siena, i quali, generalmente, lavoravano su testi previamente già tradotti in volgare. I traduttori ispano-ebrei sono più numerosi e anche più importanti anche se, a volte, i nomi ispanizzati si 

confondono. Il re Alfonso apprezzava in modo speciale Judah ben Mose (Mosca il Minore), Isaac Ibn Cid (Rabiçag), Xosse Alfaqui, Samuel ha-Levi Abulafia e Abraham alHakim, noto come Abraham da Toledo. 

Proprio con questo nome avrà luogo una delle più importanti collaborazioni tra la Spagna e l’Italia nel Medioevo. Infatti, verso la metà del Duecento, il medico ebreo Abraham da Toledo tradusse in castigliano Il libro della Scala di Mahoma dell’autore arabo di Murcia Ibn Arabi (11641240). Alfonso X, considerando l’importanza capitale della diffusione dell’opera araba, ne ordinò simultaneamente una versione latina e un’altra francese. Quest’incarico sarà portato a termine nel 1264 dall’italiano Bonaventura da Siena, il quale, arrivato nel 1260 a Toledo con l’ambasciata guelfa di Brunetto Latini, rimase come notaio e traduttore presso la corte alfonsina. Probabilmente una delle sue versioni, quella latina o quella francese, forse addirittura portata a Firenze dal Latini al suo ritorno dall’ambasceria, poté essere conosciuta da Dante ancor prima di scrivere o di immaginare topograficamente la Commedia. L’ipotesi è quanto meno stimolante per gli studi di letteratura comparata: si tratterebbe, senza dubbio, del più importante contributo della scuola toledana alla letteratura italiana, e alla cultura europea, nell’area di tutto il Medioevo cristiano44. 

A modo di riassunto finale, possiamo indicare le differenze tra i due periodi più importanti della scuola spagnola: il latino, adoperato nella prima epoca raimondiana, era idoneo per testi filosofici o di tematica varia in mano a traduttori più «internazionali», mentre nell’epoca alfonsina il volgare castigliano diventò la lingua più adatta per la prosa della storia, per le leggi o per questioni scientifiche45; raggiunse così, attraverso l’impulso del monarca, la categoria di lingua ufficiale, rango che fino allora aveva avuto soltanto il latino46. 

Toledo divenne, quindi, il punto d’incontro di tre culture diverse, e tre comunità etniche e religiose – storicamente inconciliabili – riuscirono a creare con la loro simbiosi e il loro lavoro in comune, un sapere islamico su base spagnola in un momento in cui cominciava in oriente la decadenza del mondo arabo. E la lingua che avevano in comune questi tre nuclei sociali, così diversi fra loro, era il castigliano accettato da tutti e tre con una grande dose di tolleranza. 

Finora sono state messe in evidenza le disparità tra queste due corti in molti dei campi in esse coltivati. Mi sembra, però conveniente, a modo di conclusione, ricordare anche le grandi somiglianze tra i loro rispettivi artefici, e non soltanto nell’ambito delle traduzioni. Infatti, sia Federico II sia Alfonso X avevano un’enorme devozione per l’astronomia e l’astrologia, interesse che fece sì che la leggenda accusasse entrambi di superstizione che altro non era che la credenza nell’oroscopo -, e perfino di empietà e irreligiosità, accusa ben più grave dovuta forse alla smisurata ansia di sapere che animava l’uno e l’altro, certamente incompresa dai loro contemporanei. 

Dopo quanto si è esposto, potremmo concludere con le parole di un grande medievalista spagnolo, Ram6n Menéndez Pidal, il quale afferma che «las vidas paralelas de los dos soberanos dicen que Palermo y Toledo, Sicilia y Espana, ofrecen en el siglo XlI y comienzos del XlII condiciones de vida espiritual muy semejantes, y relaciones directas capaces de determinar la aparici6n de fenomenos equiparables, fen6menos que es necesario estudiar a la vez, pues mutuamente se esclarecen». 

Angeles Arce 

NOTA BIBLIOGRAFICA 
•• Segnalo in primo luogo i volumi generali a cui posteriormente farò riferimento con le sigle corrispondenti: 
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* Note
(*) Angeles Arce è docente di Letteratura al Dipartimento di Filologia Italiana dell’Università Complutense di Madrid. Si occupa di letteratura comparata ispano-italiana e di diversi aspetti della cultura settecentesca. 
l Senza dimenticare Costantinopoli, che fu nel secolo XII un importante centro di traduzione a scopo fondamentalmente apologetico o polemico-religioso, in questa sede farò riferimento soltanto ai due centri stabiliti nel Mediterraneo occidentale. 
2 Il termine Magna Curia. o quello di Magna imperialis curia. faceva coincidere, in un ampio spettro, sia il tribunale di corte e tesoreria. sia il palatium o residenza reale dove familiari, funzionari, consiglieri o collaboratori accompagnavano il monarca, e tra questi, anche poeti intellettuali (cfr. Kolzer). 
3 Anche se risulta comoda la denominazione di «escuela. per questa attività di traduzione che si verifica nei secoli XII e XIII. è necessario fare ulteriori chiarimenti giacché il termine può risultare ambiguo e poco preciso per una mentalità attuale (cfr. Foz).
Federico II (1194-1250) – duca di Svevia, Imperatore del Sacro Romano Impero e Re delle Due Sicilie e di Gerusalemme4 -, è di alcuni anni anteriore ad Alfonso X el Sabio (1221-1284), re di Castiglia e Leòn dal 1252 ed 
4 Per la parte storica e biografica cfr. Kantorowicz, Manselli, Pepe e Morghen. 
5 Le pretese al trono imperiale di Alfonso si basavano sui diritti del nonno materno. duca di Svevia. che era stato riconosciuto come imperatore della Germania (cfr. tra altri Ballesteros e. più recente. D’Agostino; malgrado il promettente titolo. è privo d’interesse l’articolo di Montes). 
6 Conviene non dimenticare che lo stesso Federico II fece istituire alla Schola Salernitana la prima cattedra europea di anatomia. in cui si sperimentava su cadaveri umani quando ancora a Bologna era proibita la dissezione. Purtroppo, questa scuola medica. che raggiunse fin dai suoi inizi fama internazionale, si trasformò all’epoca di Federico II in un istituto superiore di importanza più locale (Cfr. Morpurgo). 
7 Conosciuto anche come poeta laudatorio di Enrico VI e Federico Barbarossa, è autore di un trattato medico-biologico, De balneis Puteolanis, sull’efficacia dei bagni termali di Pozzuoli.
8 De vulgari eloquentia, 1. I. cap. 12. L’idea di primazia della scuola fu ripetuta da Petrarca nel Triumphus Cupidinis (IV, 33). 
9 Senza dimenticare gli studi «classici» su questo periodo del Folena, Contini o Monteverdi e la ricca bibliografia di Roncaglia; rimando anche ai lavori di Elwert, Brugnolo e Antonelli. 
10 Per questo tema cfr. Ribezzo e Rizzo. 
11 Cfr. Borsari, Collura o Cavallo. 
12 Cfr. Gabrielli, Pagliara, Tramontana e Ahmad.L’Italia del Duecento era divisa, approssimativamente, in tre ampie zone geografiche e linguistiche. Nel Nord esistevano numerose corti feudali, economicamente ricche, la cui lingua di cultura presentava alcune caratteristiche comuni con il francese o il provenzale. Nell’Italia centrale era presente la Chiesa cattolica e la sua lingua ufficiale si avvicinava alquanto ai caratteri linguistici del neolatino orientale, quando ormai il popolo non usava più il latino. Nel Mezzogiorno c’era poi un’unica corte normanna, solidamente centralista anche se mobile, in cui coesistevano il greco, l’arabo, il latino e, in minor grado, l’ebraico.
13 Un’allusione a ciò si può leggere nel Novellino, XXI. Federico Il è anche il protagonista in altre sette novelle della raccolta: Il, XXII, XXIIl, XXIV, LIX, XC e C. 
14 È probabile che questo sia un discendente del gran Saladino (l137 – 1193), noto nel mondo occidentale per la sua giustizia e benignità, per cui si converti in un personaggio abituale delle letterature romanze anche se visto con delle ottiche diverse. In Italia, per esempio. il Saladino appare legato al tema della tolleranza religiosa e dell’astuzia (Novellino, XXV e LXXlIl, – anche la LI dell’edizione del Borghini del 1572 -; Dante, Convivio IV, XI, 14 e anche Inferno, IV, 129; Boccaccio, Decameron 1,3 e X,9). La Francia lo associa ad un atteggiamento epico-cavalleresco che fa dire ad Americo Castro che il Saladino francese ha più di francese che di Saladino (Hacia Cervantes, Madrid, Taurus, 1960). E finalmente, la Spagna lo associa non al tema religioso, bensì a una condotta morale: nella Gran Conquista de Ultramar – modello di prosa storico-narrativa della fine del Duecento, anche se la prima stampa è del 1503 -; in due novelle – la XXV e la L – di El Conde Lucanor (1335) del nipote di Alfonso X l’infante Don Juan Manuel (1282 1348), e già all’inizio del Quattrocento, nella cronaca intitolata Mar de Historias di Fernan Pérez de Gusman (1376-1460). 
15 Questa tesi è difesa da Abulafia che ribatte in certo modo le teorie classiche di Haskins. 
16 Seguo le informazioni che dà Ramon Menéndez Pidal.
17 Un secolo dopo sembra che un certo Johanes de Dumpno, figlio di Philippus, tradusse dall’arabo in latino i canoni delle tavole planetarie come Muqtabis (1262). il cui manoscritto si conserva nella Biblioteca Nazionale di Madrid (ms. 10023). 
18 Questo fatto sembra doppiamente significativo perché serve anche a dimostrare che quando uno studioso italiano voleva aggiornarsi sulla cultura arabo-bizantina, non partiva per Bisanzio o per l’Egitto – che avevano scambi e rapporti con le repubbliche di Venezia o di Genova – e non andava nemmeno in Sicilia, bensì s’indirizzava verso Toledo, città dalla quale certamente aveva puntuali notizie. 
19 Nei documenti della cattedrale toledana compare come «Girardus dictus magister» tra gli anni 1174 e 1176. 
20 Fra le traduzioni, quella del libro De proprietatibus di Ibn al Jazzar o il De physicis ligaturis di Qusta ibn Luga – che legava la magia alla medicina -, nove trattati medici di Galeno – disponibili per la prima volta in latino -, o importanti opere arabe di medicina come il Canone di Avicenna, il Breviarium di Serapione o la Chirurgia di Albucasis. In collaborazione con Giovanni di Siviglia, Gerardo tradusse un compendio astronomico di alFarghani, che Alfonso terrà in gran considerazione.
21 Traduttore, verso il 1136, delle tavole planetarie di al-Battani, anche se se ne conoscono soltanto i canoni. 
22 Fu il primo commentatore delle Meteorologiche di Aristotele e, considerando che il testo era incompleto, vi aggiunse tre capitoli suoi originali che si pubblicano sempre insieme al testo aristotelico. . 
23 Adelardo tradusse le tavole di al-Khwartzmi, in cui si basa tutta la tradizione planetaria occidentale, ed è autore originale del De avibus tractatus, un vero trattato sulla falconeria che tanto piaceva a Federico. 
24 Su Michael Scotus cfr. Haskins, Manselli, Burnett o Gil. 
25 Famoso astronomo ispanoarabo, noto alla corte cristiana come Alpetragius, la cui opera De Sphaera contribuì alla diffusione del sistema cosmografico aristotelico di fronte al tolemaico (citato da Dante nel Conv., III, 2,5). 
26 La sua fama di astrologo e indovino si estese per tutto il Medioevo giacchè i tre libri del Liber introductorius – non stampato fmo al 1477 a Venezia – sono una specie di enciclopedia del pensiero astrologico dell’epoca federiciana, con importanti contributi anche nel campo dell’alchimia e della magia (Dante include lo Scoto nell’Inferno; XX, vv. 115-117). 
27 Considerato come il primo grande matematico dell’Occidente latino è autore del Liber quadratorum e del Liber abaci, la cui edizione del 1228 è dedicata proprio allo Scoto. Il Fibonacci sembra aver introdotto in Occidente lo zero e la numerazione arabica. 
28 Il suo famoso libro sulla caccia fu tradotto come De scientia venandi dal maestro Teodoro di Antiochia, un cristiano giacobita che successe a Scoto presso l’imperatore. Il testo latino corretto, a quanto sembra, dallo stesso Federico fu saccheggiato dal monarca con altre opere dello stesso argomento del suo De arte venandi cum avibus. 
29 G. Anatoli si trovava a Napoli intorno al 1230 e tradusse in ebraico il compendio astronomico di al-Farghani e l’Almagestum tolemaico (cfr. Colafemmina). Sugli Ebrei e l’Italia, cfr. Sinat, Milano e Sterno 
30 Dominicus o Santo Domingo de Gusman (1170-1221), fondatore dell'”orden de predicadores’ quando l’ordine di San Francesco era ancora in gestazione, rappresenta la lotta “pacifica» contro l’eresia di fronte alla “moda» delle crociate.
32 Questa cronologia viene fissata da José S. Gil., p. 17. 
33 Anche se antico è interessante il saggio di J. Pérez de Guzmàn. Cfr. anche Millàa. 
34 Sugli ebrei presso la corte alfonsina si possono consultare Castro, Romano, Leon Tello e Gil. Nell’ambito italiano si può tener presente lo Stern e Milano. 
35 Si tratta di Raimundo de Salvetat, originario della Guascogna, vescovo di Osma nel 1109 e arcivescovo di Toledo dal 1126 al 1152 (cfr. Gil pp. 19-52). 
36 In un latino letterario il Gundisalvo o Gundissalinus tradusse diverse parti dell’enciclopedia filosofica di Avicenna e «corresse» la traduzione di un’opera scientifica di al-Farabi fatta poco prima da Gerardo da Cremona. La sua versione de Il libro degli allumi e dei sali fornisce il materiale per i posteriori lavori d’alchimia o magia scientifica (cfr. Gil, pp. 3843, e anche Garcia Fayos). 
37 Questo Iohannes Avendehut è uno dei più importanti intellettuali del momento e traduttore in latino, tra il 1130 e 1180, di libri su astrologia, astronomia, filosofia, medicina e matematica (cfr. Gil pp. 30-38 e anche Rivera Recio). 
38 Alfonso X dovette affrontare. tra l’altro, l’avanzata della «Reconquista» per l’Andalusia fino a Cadice. la pacificazione di Murcia – aiutato dal suocero Giacomo I d’Aragona noto come «el Conquistador» -. la questione del Portogallo e anche un altro fatto che ancora una volta lo avvicina a Federico II: il pretendere nel 1257 la corona del Sacro Romano Impero, come nipote per parte materna dell’ultimo imperatore germanico prima del Grande Interregno (1250-1273). Proprio per questo motivo venne a Toledo nel 1260 Brunetto Latini. come ambasciatore dei guelfi fiorentini. 
39 Verso il 1231 sembra sia stato tradotto in latino il trattato astronomico di al-Zarqalluh da Guglielmo l’Inglese e da Yehudah ben Moshé che ebbe rapporti epistolari con filosofi della corte federiciana (cfr. Millas). 
40 Si sa che Hermannus Teutonicus lavorò a Toledo e, tra il 1240 e il 1256, partì per Napoli al servizio di Manfredi fino al 1266, quando ritornò al regno di Castiglia dove fu vescovo di Astorga fino al 1272 (cfr. Gil. pp. 52-56).

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 9-27.

 




Pace e pacifismo nell’età augustea 

La storia dell’ antica Roma, già a partire dalle sue origini, fu una storia di avvenimenti bellici. 

La guerra costituì la cifra identificativa della società romana, lo status belli, pressocchè permanente, costringeva continuamente ogni cittadino valido ad indossare le armi per la conservazione di Roma. Il legame indissolubile tra il civis romanus e lo Stato faceva quindi del campo di battaglia il momento per eccellenza in cui dimostrare la propria virtus. La storia degli antichi romani fu intessuta di episodi di coraggio militare e di devozione verso la patria: Orazio Codite, Muzio Scevola, Attilio Regolo solo per citarne alcuni, tutti attestanti il fatto che per l’antico romano fosse “dulce et decorum pro patria mori1”. Le prime guerre combattute dai romani furono di difesa, esse furono causate dalla pressione esterna e dal desiderio dei romani di conservare la propria identità, poi si aggiunsero le mire espansionistiche ed imperialiste: dalla data della mitica fondazione (753 a. C.) alla fine del II secolo a. C. Roma, di guerra in guerra, di vittoria in vittoria, diventò la “caput mundi”. Ma già nell’ultimo scorcio del II secolo a.C. la situazione si modificò: a contatto con le mollezze dell ‘Oriente e con il “Bello” dei greci, i romani cominciarono ad amare il benessere, il lusso ed a sentire la guerra come qualcosa di estraneo. Ad acuire questa situazione fu, nel corso del I secolo a.C. l’aggiungersi di guerre civili a quelle esterne, le guerre fratricide spinsero infatti la maggior parte dei romani a deprecare la guerra e ad anelare la pace. Nell’ incipit del De rerum natura Lucrezio chiede a Venere di fungere da intermediaria fra il mondo umano ed il dio della guerra, Marte, perchè soltanto la “genetrix Aeneadum” avrebbe potuto procurare ai romani una pace serena. Ma fu soprattutto nell’ultimo scorcio di repubblica che gli intellettuali, interpretando il comune malcontento, sottolinearono il loro distacco dallo Stato e vagheggiarono paradisi di pace. Virgilio, nell’ ecloga I, trasferisce nel microcosmo bucolico il dramma delle guerre civili, l’impius miles e il barbarus entrano in possesso delle altrui terre ben coltivate: “ecco fino a qual punto la discordia civile ha spinto i miseri cittadini2” . Analogamente Orazio, nell’ epodo VII, definisce i cittadini “sce1esti”, perchè ancora una volta corrono ad indossare le armi e sposano la causa della guerra fratricida. Dall’impossibilità di realizzare una serena pax nell’Urbs, emerge un diffuso desiderio di fuga, di necessità di rinnovamento e di una palingenesi. Nell’epodo delle “isole fortunate”, Orazio invita la pars melior dei cittadini ad una fuga dal reale, ad una sorta di esilio volontario collettivo nelle isole dei beati. Il messaggio di Orazio è cupamente pessimista (altera iam teritur bellis civili bus aetas3), il repubblicano deluso non vede alcuno spiraglio di speranza attorno a sé e fa una proposta disperata: fuggire via dalla patria per raggiungere le terre incontaminate dove è perenne l’età dell’oro. Più ottimista è Virgilio nella quarta egloga in cui si profetizza la nascita di un puer messianico che avrebbe riportato in Italia la pace e l’età dell’oro. Questo utopico ritorno dell’età dell’oro, (iam redeunt Saturnia regna), motivo topico nella letteratura di quei tempi, e la profetica annunciazione della venuta di 

1 – Orazio, Carmina, libro III, 2, v. 13. 

2 – Virgilio, Ecloga I, vv. 71-72. 

3 – Orazio, Epodo XVI, v. 1

un nuovo “magnus ordo saeclorum4” riflette la speranza di pace (poi disattesa) riposta nell’ accordo di Brindisi e la fiducia nella possibilità di riscatto da una situazione di corruzione e di guerra. 

Tale fiducia si trasformò in un dato di fatto dopo la vittoria aziaca. Il princeps Ottaviano Augusto si propose ai cittadini come il restauratore di antichi valori etico-religiosi e come colui che aveva saputo mettere fine al “furor” delle guerre civili ed aveva realizzato la “pax parta victoriis”. Lo stesso Augusto nelle Res gestae, si vantò di avere chiuso per ben tre volte il tempio di Giano Quirino che “prima che io nascessi dalla fondazione di Roma, rimase chiuso due volte in tutto5”. La pax augustea divenne uno slogan politico di cui si fecero interpreti in maniera particolare, gli intellettuali del circolo mecenaziano. Augusto, infatti, ben consapevole dell’importanza delle lettere al fine di orientare la mentalità e di creare intorno a sé consenso, cercò in ogni modo di garantire una produzione letteraria in sintonia con l’ideologia dominante. C’è da dire che questo non gli costò grandi sforzi, visto che il suo programma di restaurazione morale e di generale pacificazione era molto gradito ai romani, desiderosi solo di uscire dall’epoca delle guerre civili. Quella di Virgilio o di Orazio non fu però piaggeria, ma reale e sentita condivisione di un programma. Nell’ Eneide virgiliana la pax augustea è intesa come punto di arrivo di un doloroso6, ma necessario, periodo di guerra, termine fatale voluto dal destino, secondo la solenne formulazione di Anchise nel libro VI dell’ Eneide:”regere imperio populos….. pacique imponere morem7″. Nel libro I dell’ Eneide è Giove in persona a profetizzare la missione di Roma e la venuta di uno “Iulius” grazie al quale cesseranno le guerre:”posate allor le guerre, il fiero tempo s’addolcirà: la Fè candida e Vesta, Quirino col fratel Remo daranno leggi, saran con ferrei serrami chiuse le dure porte della Guerra; dentro il Furor bieco, assiso sopra l’armi crudeli e avvinto a tergo da cento bronzei ceppi, orribilmente fremerà con la bocca sanguinosa8″. Efficace ed icastica è questa immagine del Furor, personificazione della guerra, incatenato e rabbioso su cui vince la Pax voluta dal princeps Augusto. Nella rassegna degli eroi del libro VI, Virgilio paragona Augusto a Saturno, la lunga pace e la grande prosperità del principato augusteo appaiono agli occhi del poeta la realizzazione di quell’età dell’oro di cui si vagheggiava il ritorno nell’ecloga IV. Augusto è quindi il rifondatore dell’aurea aetas, in questa immagine leggendaria si cela tutta l’ammirazione di Virgilio per il principe: “Questo è l’uomo che ti senti promettere, l’Augusto Cesare, figlio del Divo, che fonderà di nuovo il secol d’oro nel Lazio per i campi regnati un tempo da Saturno9” . La celebrazione dell’ impero augusteo 

ricorre ancora nella chiusa del libro VIII. La descrizione dello scudo di Enea del libro suddetto diventa una lezione di storia romana e completa l’esaltazione dell’impero di Augusto che proprio negli episodi e nei personaggi esemplari dell’antichità cerca le sue radici. Al centro del mitico scudo c’è la rappresentazione della battaglia di Azio, l’evento che segna l’ascesa definitiva del grande Augusto, chiudendo il capitolo sanguinoso della storia di Roma e dando inizio ad un lungo periodo di pace. 

4 – Virgilio, Ecloga IV, v. 5. 

5 – Res gestae Augusti, 13. 

6 – Cfr. L. Canali, L’essenza dei romani, Virgilio. 

7 – Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 851-852. 

8 – Virgilio, Eneide, libro I, vv. 291-296. 

9 – Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 791-794. 

Anche nella produzione letteraria “impegnata” di Orazio, ricorrono i motivi 

dell ‘esaltazione della pax e dei miti dell’età augustea. 

La rivendicazione, in più circostanze, della , da parte del poeta venosino, non lascia dubbi che le sue espressioni di stima per il princeps che ricorrono nelle odi ci vili e nel Carmen speculare nascano da una sincera ammirazione per l’ uomo, a cui va ascritto a merito il ristabilimento della pace e lo sforzo di rendere migliore la società romana. Esemplificativa, a tal proposito, è l’ode XV del libro, IV testo in cui sono presenti tutti i temi che furono al centro dell ‘ ideologia del principato: la maestà dell’ impero, il ritorno alle virtù degli antichi, la rifondazione morale, la pace interna ed esterna: “tua, Caesar, aetas …. vacuum duellis Ianum Quirini clausit10”. Il poeta ormai è libero dall ‘angoscia e dalle apprensioni per la res publica e come l’ara pacis augustae che si stava proprio allora erigendo, anche questo carme è un “monumento” riconoscente alla pace. Anche se in alcuni passi Orazio cede alle convenzioni ed alle “menzogne11” del regime, non si può negare che il poeta esprima sentitamente la certezza che la pace instaurata da Augusto sarà garanzia di potenza e gloria imperitura per Roma. Il tema ricorre ancora nel Carmen speculare che, più che come inno religioso, va letto in chiave politica, come adesione totale al programma politico di Augusto ed alla pax da lui ristabilita. L’auspicio virgiliano del ritorno dell ‘età dell ‘oro per Orazio si è adesso concretizzato, l’età augustea ha portato “Fede e Pace e Onore, il Pudor prisco e la Virtù negletta12”. Augusto viene dipinto come colui che ha ristabilito la pace interna e che difende Roma dai nemici esterni: “già per mare e per terra teme il Medo la sua man e le latine scuri; già Sciti ed Indi pur testé ribelli, chiedono leggi”. Agli occhi del poeta venosino, indubbiamente, l’effetto più positivo che l’avvento del princeps aveva recato a Roma, dopo tanti anni di guerre civili, era la pace. Essa era per Orazio il presupposto necessario perché il mondo fatto di sereni campi e cristallini ruscelli potesse sussistere. Il tema dell’ aspirazione alla pax, pur se con toni e finalità diverse, ritorna anche nella produzione elegiaca di età augustea. L’elegiaco Tibullo, poco favorevole ad Augusto, esprime una sentita deprecazione delle guerre e degli impegni militari, la guerra gli appare come una sventura terribile e senza rimedio: “quis fuit horrendos primus qui protulit enses?13”. Il poeta vagheggia nei suoi versi una vita modesta e serena (me mea paupertas vita traducat inerti), vita di cui la violenza della guerra è la negazione. Quello espresso da Tibullo è un pacifismo agreste, egli celebra la Candida Pax dei campi, l’unica a consentire la serenità della vita e la realizzazione del sogno d’amore. Pur non essendo allineato alla politica augustea, Tibullo esprime opportunamente le istanze di pace e di serenità proprie di quel periodo, alle quali va aggiunto un influsso ineludibile della tradizione epicurea. La stessa vocazione alla pace ricorre nei versi dell’elegiaco Properzio, interamente occupato nella propria vita sentimentale, che lo porta al ripudio di ogni impegno militare. In entrambi gli elegiaci si riscontra l’attacco nei confronti della guerra considerata come mezzo per arricchirsi: “divitis hoc vitium est auri14”, afferma Tibullo, e analogamente per Properzio è l’invisum aurum la molla che spinge i milites ad 

10 – Orazio, Carmina, libro IV, 15, vv. 8-9. 

11 – Cfr. Mocchino in Odi ed Epodi, Milano, 1942. 

12 – Orazio, Carmen saeculare, vv. 53-56. 

13 – Tibullo, Elegie, libro I, 10, v. 1. 

14 – Tibullo, Elegie, libro I, 10, v. 7.

imbracciare le armi. Properzio spoglia delle motivazioni ideali la spinta alla guerra, svelandone la vera matrice: l’avaritia. Egli si sente invece vocato all’amore, alla pace, il suo ideale di vita lo porta a deprecare qualsiasi forma di bellicismo: “pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes: stant mihi cum domina proelia dura mea15”. Pur facendo parte dell’ entourage augusteo il poeta non canta i valori che la propaganda ufficiale voleva vedere esaltati, perchè gli manca una coscienza civile. Ma, come in tutti gli altri intellettuali di quell’ epoca, ricorre anche nella sua produzione letteraria il motivo della pax. 

Un motivo topico che, con caratteristiche e toni di versi, costituì senz’ altro la palese espressione di una pressante e comunemente diffusa istanza. 

Anna Maria Angileri 

15 – Properzio, Elegie, libro III, 5, vv. 1-2.




Tomasi di Lampedusa: lezioni inglesi 

«Fra il novembre 1953 e la primavera del 1955 Lampedusa percorse a piccolissime tappe tutto lo svolgimento storico della letteratura 

inglese, cominciando proprio dai poemi anglosassoni e giungendo a Eliot e a Fry. Non so come procedesse per assicurarsi delle date e di altre nozioni spicciole, né quanti libri riprendesse in mano per rinfrescare la propria memoria; certo si aiutava con qualche manuale, forse sfogliava o rileggeva qualche testo. Ma nelle pagine che scriveva c’era ben poco di manualistico: tutto era sostenuto da una miracolosa memoria di quasi mezzo secolo di letture, e ravvivato dall’intelligenza.1» 

Così racconta Francesco Orlando, allora giovane intellettuale palermitano alla ristretta corte letteraria del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 

Gli appunti delle lezioni di letteratura inglese e poi francese, rivolte quasi esclusivamente allo stesso Orlando e a Gioacchino Lanza, suo futuro figlio adottivo, costituiscono una parte fondamentale della biografia letteraria di Tomasi di Lampedusa: quelle sue personalissime conversazioni rivelano passioni, approcci, giudizi che certo fanno luce sulla complessità dell’uomo e dello scrittore. 

Ancora Orlando, nel suo vibrante Ricordo di Lampedusa scritto nel 1963, a cinque anni dalla morte di Tomasi, si sofferma sulla funzione consolatoria che la letteratura doveva avere per quel gentiluomo riservato e incline alla malinconia: «la letteratura era stata ed era la grande occupazione di questo nobile che non so quali traversie patrimoniali avevano avulso tanto da ogni mondanità quanto da ogni funzione pratica, e che era ridotto a vivere isolato senz’altro lusso che le ingenti spese per libri, soprattutto per le adorate e sempre maneggiate Pléades francesi.2» 

E i libri, esseri viventi nella grande casa di via Butera, dove ebbero luogo le lezioni di letteratura, si animarono di nuova vita, e il principe scrisse fitte pagine di appunti e parlò di centinaia di opere letterarie e di autori, impegnandosi in un faticoso e colossale esercizio di metodo e di memoria per l’incanto di quei giovani allievi privilegiati che ne avrebbero fatto tesoro per la vita. Per prime furono le lezioni inglesi. 

Lampedusa aveva una speciale predilezione per la letteratura e la cultura inglesi. Moltissimi i suoi soggiorni in Inghilterra già dalla metà degli anni ’20, in coincidenza con il periodo in cui suo zio Pietro Tomasi marchese di Torretta fu ambasciatore a Londra. E soprattutto a Londra, città amata, egli poteva passeggiare ritrovandovi le pagine di Johnson e di Dickens; in questa metropoli reale e letteraria, a testimonianza del cugino Lucio Piccolo, si sentiva veramente libero e a suo agio, il fisico ormai appesantito persino più agile mentre saliva al volo su un autobus londinese3. 

Il corso di Letteratura inglese fu diviso in cinque parti. Quasi tutta la prima parte fu occupata da Shakespeare e vennero commentati i sonetti e le opere teatrali, e via via, seguendo una coerente progressione cronologica si giunse agli scrittori del XX secolo, Joyce, Woolf, Greene; le lezioni su T. S. Eliot, che Lampedusa considerava “il più grande poeta contemporaneo”, furono le uniche a cui venisse ammesso, una sola volta, un pubblichetto che rasentava le dieci persone4. Erano 15-20 fogli manoscritti per lezione che l’autore dichiarava di provvedere a distruggere dopo ogni incontro, e ritrovati raccolti in vari blocchi alla morte dello scrittore, per essere pubblicati dopo traverse vicende soltanto nel 19915. 

Quello di Lampedusa era un modo di procedere che, come osserverà più tardi Orlando6, si accostava al metodo biografico di Sainte-Beuve, e dunque alla grande scoperta ottocentesca, dal romanticismo al positivismo, che la letteratura dovesse sganciarsi da canoni classici eterni, per essere indagata nelle relazioni tra opere, società e autore, inteso quest’ultimo nell’aspetto più privato di persona. Prospettiva che venne puntualmente rovesciata dalla rivendicazione novecentesca dell’autonomia della letteratura, la premessa cioè che un testo non sia mai riducibile ad una determinata realtà fattuale o autoriale, ma che venga percepito come opera d’arte a sé. 

Tomasi di Lampedusa apparteneva ad una categoria di intellettuali solitari e indipendenti, e perseverò contro corrente nel suo biografismo ottocentesco alla Sainte-Beuve che in Italia lo univa idealmente all’autorevole voce di un suo coetaneo, l’anglista Mario Praz. 

La letteratura diventava così per il futuro autore del Gattopardo una sorta di “diaristica cifrata7”, un mondo riconosciuto come proprio, poiché egli possedeva un «senso impareggiabilmente euforico e quasi tonico della letteratura8», fonte perenne di curiosità gioia e divertimento, e pure di lacrime che nascono dalla bellezza, come ebbe a dire a proposito della lettura di Lycidas di Milton. 

La straordinaria familiarità di Tomasi con gli scrittori inglesi rafforzava in lui la percezione di una corrispondenza spirituale che doveva poi affacciarsi alle pagine del Gattopardo, nell’aristocratico distacco di don Fabrizio Salina: una solida visione del mondo permeata di sottile ironia e pronta a sfociare in un tragico disincanto. Come l’inclinazione a rivolgere un amaro sorriso di scherno verso le vittime che spesso accompagna la figura perdente dell’underdog (uno dei temi fondamentali della letteratura inglese) che compare da Shakespeare a Swift a Dickens e in quasi tutti i grandi autori inglesi. 

Un’altra ragione rendeva Lampedusa vicino e in sintonia con il carattere britannico e polemico verso i difetti italiani e siciliani, una ragione che Orlando ha ritenuto nascere da una attitudine politica segretamente classista: 

«Va da sé che la sua ammirazione per il progresso sociale inglese dalla fine del Settecento in poi era quella, sincera, di ogni europeo colto; e si manifestava in modo aperto nelle lezioni (credo specialmente in quelle su Dickens). Ma Lampedusa non poteva non riflettere anche che quella forma di progresso era la sola attraverso la quale potesse conservare prosperità prestigio e soprattutto vitalità la classe sociale che era la sua; e perciò era da deprecare più amaramente la mortale sciatteria della medesima classe sulle terre ed ai tempi dei Borboni, con le conseguenze storiche che ricadevano sulla sua persona.9» 

Nelle lezioni inglesi si apre un vero e proprio dialogo intimo tra le pagine degli autori e la personalità eccentrica di Lampedusa, così che la digressione, una sorta di filosofica confessione, o l’aneddoto biografico diventavano parte dello stile soggettivo del principe. «La prima volta che si legge l’Amleto in inglese è una data10», o la riflessione che se una bomba distruggesse Palermo, la città morirebbe per sempre, senza che la sua esistenza sia testimoniata da un solo decente scrittore; ma Londra sopravviverebbe, immortalata da Dickens, poiché«in qualsiasi brutto alloggio, in qualsiasi recondita viuzza i suoi bizzarri personaggi dovessero recarsi, Dickens vi si era recato. Fortunata città che, insieme a Parigi, ha acquistato il premio supremo: quello di essere scrutata da un genio in ogni suo angoletto.11» 

È qui impossibile persino cercare di riassumere tratti più significativi del lungo percorso di Tomasi all’interno della storia letteraria inglese senza banalizzarne scelte e passaggi. Ma si può almeno riflettere su una categoria artistica che il principe-maestro giudicava di ordine superiore: gli scrittori creatori di mondi, i cosmourghi; tra loro alcuni giganti del canone occidentale: 

«Omero, Shakespeare, Cervantes, la Austen, Fielding, Ariosto, Balzac, Manzoni, Tolstoj, Proust […] I creatori di mondi debbono aver compiuto un’opera vasta, popolosa, omogenea nella varietà avente la facoltà di continuare a vivere indipendentemente dal creatore, rischiarata da una luce tutta sua, arricchita di paesaggi peculiari.12» 

E tra gli inglesi non è difficile immaginare (“ripensateci, chiudete gli occhi”) i paesaggi dei mondi della Austen o di Fielding. Shakespeare sfugge un’appartenenza che sarebbe troppo riduttiva, poiché non un paesaggio caratterizza la sua opera ma molti mondi. E un posto d’onore viene riservato da Tomasi anche a Dickens. 

«Dickens è uno dei più insigni creatori di mondi. E il suo mondo è uno dei più singolari: di esso conosciamo ogni campo, ogni strada, ogni volto. Eppure dobbiamo ogni volta dire a noi stessi che non abbiamo mai alcunché di simile: forse li rivedremo se saremo buoni e andremo in Paradiso. Il regno di Dickens è il realismo magico.13» 

Di Dickens (come del teatro di Shakespeare) Lampedusa ammirava l’arte sublime di fondere humour (insieme alla rifrazione deformante della caricatura) e eeriness, ovvero il senso fantastico del favolistico o del soprannaturale. Così i Pickwick Papers sono un vero capolavoro dickensiano, certamente il più amato dal poliedrico affabulatore delle lezioni inglesi, un’opera che viene considerata unica, un “blocco a parte” nella produzione dello scrittore vittoriano, un modello assoluto («Non esiste in nessuna altra letteratura un libro come Pickwick14»). 

Nei Pickwick Papers Lampedusa vede portata alla perfezione la curiosa e difficile arte del “realismo dis-realizzato”. I Pickwick Papers sono «un racconto di fate senza soprannaturale, un racconto che ha come Genio un vecchio piccolo ometto occhialuto e bonario15». 

È il mondo umano, universale, sorridente e arguto che passa attraverso i viaggi in carrozza per l’Inghilterra di Mr. Pickwick e dei suoi amici Winckle, Tupmann, Snodgrass e Sam Weller, che in particolare Lampedusa ama perché riunisce in sé l’umanità e lo spirito dei più grandi personaggi shakespeariani. E di Shakespeare questo personaggio di Dickens sembra ricordare il Falstaff dell’Enrico IV che memorabilmente viene definito nelle pagine della Letteratura inglese «gemma di Dio sa quanti carati, uno dei tre o quattro massimi personaggi shakespeariani. Adorabile mascalzone, uomo dallo spirito sempre invitto e sempre leggiadro, creazione impareggiabile del più alto humour, ognuno di noi darebbe dieci anni di vita per il privilegio di incontrarti un’ora.16» 

Come sottolinea Gioacchino Lanza Tomasi, un’analisi profonda della personalità letteraria di Lampedusa dovrà riconoscere alcuni modelli più di altri, e certamente «è Dickens più di Stendhal il vero biglietto d’accesso per chi voglia comprendere la singolarità del fenomeno Lampedusa.17» 

Nell’opera letteraria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa affioreranno i tratti della prima maniera dickensiana, quel procedere leggero per accostamenti e bozzetti, il disegno d’insieme che lascia spazio alla caratterizzazione dei personaggi secondari; ma si potrebbe pensare alla scelta del punto di vista di osservatore insieme esterno ed interno della sua Sicilia, isola che aveva sempre cercato nostalgicamente e ironicamente respinto nel corso delle lunghe frequentazioni letterarie di vari decenni. 

Inevitabilmente la lettura delle pagine della Letteratura inglese (come anche della Letteratura francese) conduce il lettore di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a sotterranei paralleli con la scrittura non solo del Gattopardo ma anche dei Racconti, e per chiudere questi brevi appunti vorrei ricordare il bellissimo racconto “La Sirena” (Lighea) nel quale l’affascinante e mitica creatura marina sembra essersi appropriata della magia soprannaturale della canzone di Ariel nella Tempesta di Shakespeare: 

«Sono immortale perché tutte le morti confluiscono in me da quella del merluzzo di dianzi a quella di Zeus, e in me radunate ridiventano vita non più individuale e determinata ma pànica e quindi libera. (… Mi narrava della sua esistenza sotto il mare, dei Tritoni barbuti, delle glauche spelonche, ma mi diceva che anche queste erano fatue apparenze e che la verità era ben più in fondo, nel cieco muto palazzo di acque informi, eterne, senza bagliori, senza sussurri. Una volta mi disse che sarebbe stata assente a lungo, sino alla sera del giorno seguente. “Debbo andare lontano, là dove so che troverò un dono per te.” Ritornò infatti con uno stupendo ramo di corallo purpureo incrostato di conchiglie e muffe marine.18» 

Maria Paola Altese

Note 

1 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pp. 23-24. 
2 F. Orlando, cit., p.15. 
3 D. Gilmour, L’ltimo Gattopardo (1988), Feltrinelli, Milano, 2003, p. 64. 
4 Cfr. F. Orlando, cit. p. 24. 
5 Cfr. G. Lanza Tomasi, premessa a Letteratura inglese, in G. Tomasi di Lampedusa, Opere, Milano, 2004. 
6 Cfr. F. Orlando, Da distanze diverse, Torino, 1996, p. 84-85. 
7 Ivi, cit., p. 85. 
8 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, cit., p. 17 
9 Ivi, cit. p. 35. 
10 Ivi, cit., pag. 25. 
11 G. Tomasi di Lampedusa, in Opere, Letteratura inglese, Mondadori, 2004, p. 1118. 
12 Ivi, cit., pag. 1112. 
13 Ivi, cit., pag. 1113. 
14 Ivi, cit., pag. 1116. 
15 Ivi, cit., pag. 1116. 
16 Ivi, cit., pag. 724. 
17 Ivi, G. Lanza Tomasi, cit. p. 654 
18 G. Tomasi di Lampedusa, “La Sirena” in Opere, cit., pp. 517-518. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 37-40.