“Le Roi se meurt” di Ionesco 

«Un jour j’ai demandé à ma mère: “Nous allons tous mourir? Dis-moi la verité”. Elle m’a dit: “Oui”. Je devais avoir quattre ans, cinq ans, j’étais assis par terre, elle était debout devant moi. Je la vois encore. Elle tenait ses mains derrière son dos. Elle était appuyée contre le mur. Quand elle m’a vu sangloter – parce que tout d’un coup je me suis mis à pleurer – elle m’a regardé, désarmée, impuisante. J’ai eu très peur» (1). 

Ionesco ha sempre tenuto in grande considerazione, fin dalle sue prime pièces, il tema della morte; anzi, esso ha costituito un elemento essenziale del suo discorso. Già ne La Cantatrice chauve, in mezzo a tanto conformismo piccolo-borghese, la notizia della morte di Bobby Watson vuole ricordare un ben altro conformismo: quello della morte livellatrice di tutto e di tutti, mentre ne La Leçon la morte è una conseguenza dei soprusi e delle violenze. Così, ne Les Chaises i due vecchi si uccidono per colmare il vuoto prodotto loro dalla solitudine e, per questo, raggiungere gli altri «invisibili». Jean di La Soif et la faim, con la morte tende verso una vita migliore. Da ciò si spiega il suo continuo sognare in cerca di un paradiso dove finalmente sia superata la morte. Ancora, troviamo una continua contrapposizione di vita e di morte in L’avenir est dans les oeufs ou Il faut de tout pour faire un monde. Più propriamente, Bérenger di Tueur sans gages si renderà conto che la morte incombe su ciascuno di noi, e un altro protagonista, Edouard, ricorderà la «verità elementare» che «noi dobbiamo tutti morire». In un’altra pièce del 1963, Le pieton de l’air, amore e morte sono ancora i temi contrastanti. Il sentimento dell’amore è ostacolato dalla consapevolezza che la morte annulla e cancella ogni cosa (2). 

Le Roi se meurt è l’opera in cui Ionesco sviluppa più che in ogni altra sua pièce il tema della morte e, di conseguenza, l’impotenza dell’uomo dinanzi a questa realtà che spesso viene sottovalutata e, addirittura, dimenticata. 

Questo re che muore è l’uomo resosi finalmente consapevole del proprio destino. Ma all’inizio insiste a non dare peso a tutto ciò, e solo quando comincia a impossessarsi di lui il senso della morte, e l’idea che tutto è effimero e passeggero, allora capirà che è inutile ribellarsi e che la morte, quando viene, non chiederà mai il permesso. 

«MARGHERITE – Ce n’est pas la peine. Elle est irréversible»(3). 

L’uomo che fino ad allora non aveva mostrato alcuna incertezza, adesso, tutto d’un tratto, vede crollare dinanzi a sé il mondo di cartapesta che s’era costruito, e vuole crearsi un varco per uscire da quella morsa che è l’idea ossessionante della morte, vicolo cieco faticoso per chi si accinge adimboccarlo. Alcuni uomini, magari, si arrenderanno sfiduciati a questa triste realtà, altri si rivolgeranno a Dio come ultima salvezza, altri ancora tenteranno di dare, a riprese, una ben più salutare soluzione ai loro problemi. Di questi ultimi è Eugenio Ionesco che con coraggio spinge in avanti la sua ricerca, tenendo presenti la condizione umana e la futilità del nostro destino. 

Eugenio Ionesco, a partire dalle ultime pièces (Tueur sans gages, Rhinocéros), abbandona il teatro di scavo che poneva la sua riuscita esclusivamente nelle risorse del linguaggio, e si dà ad un teatro a messaggio, rivolto prima di tutto a se stesso e, di riflesso, agli altri in quanto suoi simili. Le Roi se meurt è l’amara constatazione della morte dell’uomo, di ogni uomo che erroneamente ha posto la sua speranza nella vita. 

«MARGHERlTE – C’est du temps perdu. Espérer, espérer! (Elle hausse les épaules). Ils n’ont que ça à la bouche et la larme à l’oeil. Quelles moeurs» (4). 

Ma è anche un inno alla vita, quella degna di essere vissuta nella piena consapevolezza delle nostre capacità, in vista di un bene che vada al di là della stessa morte. Perché, allora, Ionesco, ha scritto questa pièce? 

Sentiamolo: 

«Je suis parti d’une angoisse… Cette angoisse était très simple, 
très claire. Elle a été ressentie d’une façon moins irrationelle, 
moins viscérale, c’est-à-dire plus logique, plus à la surface de 
la conscience [ … I Je venais d’etre malade et j’avais eu très
peur» (5). 

Ionesco esprime il timore e lo stato d’animo di chi sta male e si trova fra la vita e la morte. Il tempo che passa, inawertito e impassibile, acuisce ancor più il disagio e travolge a poco a poco ogni speranza e ogni desiderio. È allora che l’uomo riconosce i suoi linliti e cade nell’angoscia. A ragione, G. Dumar dice: -C’est cette angoisse fondamentale, existentielle, qui fait tout les sujet du Roi se meurt”. Jamais Ionesco n’est allé si loin dans la description de l’ètre – par – la – mort, tel qu’il haute la philosophie pessimiste de Schopenhauer à Sartre» (6). Ed è questa, in effetti, la constatazione che un lettore attento farebbe, se tenesse in considerazione soltanto “Le Roi se meurt”: una conclusione sconsolante e logica che è di chi arbitrariamente fa scadere tutto l’essere dell’uomo nell’ “essere – per – il – mondo” che è “essere – per – la – morte”. Non così è per Ionesco che – come abbiamo detto – non solo non ha cessato mai di ricercare Dio, ma fa pensare nei suoi ultimi scritti (La quete intermittente, Maxmilian Kolbe) ad una concezione più rasserenante della vita. 

Il protagonista di Le roi se meurt è un esemplare dell’uomo contemporaneo. Se nel passato poteva contare su certi valori che serenamente gli facevano accettare persino la morte, ora l’uomo da un canto sa che non può contrastarla, dall’altro non vorrebbe staccarsi dal mondo perché in esso ha riposto ogni bene. Perciò si divincola e piange come un fanciullo che non vuole staccarsi dalla madre. 

«LE ROI – Un enfant ! Un enfant ! Alors, je recommence ! Je veux 
recommencer. (A Marie.) Je veux etre un bébé, tu seras ma mère. Alors, 
on ne viendra pas me chercher. Je ne sais pas lire, je ne sais pas écrire, je 
ne sais pas compter. Qu’on me mène à l’école avec des petits camarades. 
Combien font deux et deux? (7). 

La consapevolezza della morte fa scoprire la vera essenza della vita. La scopre, avanti negli anni, Bérenger I, ma può capitare a qualsiasi uomo che arriva alla vecchiaia senza essersi ancora rassegnato all’idea della morte. Bérenger si paragonerà ad uno scolaro che ha dimenticato di fare i compiti. E solo prossimo alla morte è portato a meditare sulla sua condizione e a ricercare il bene che gli dia la pace sperata anche dopo la morte. Il “malessere spirituale” di Bérenger è quello stesso di Ionesco che col passare degli anni accentuerà ancora di più il bisogno di una certezza propria di chi non ha paura di niente. nemmeno della morte. 

A) La struttura di Le roi se meurt – A ben guardare, la pièce è tutto un insieme lineare che si svolge dinanzi allo spettatore senza divisione alcuna in atti e in scene. Per di più, il tempo e il luogo sono imprecisati. Si tratta di un regno di cui non sappiamo niente o, meglio, sappiamo solo che è in decadenza e al suo re, Bérenger I, è stata decretata la morte. 

Così come stanno le cose, sembrerebbe a prima vista un teatro senza teatro, dove tutto è previsto, persino la morte che avverrà a fine spettacolo. 

«MARGHERITE – Tu vas mourir dans une heure et demie, tu vas mourir à la fin du spectacle» (8). 

Il tempo della morte coincide con la durata dello spettacolo, e questo agli occhi dello spettatore sa di una “cerimonia” (9), che consiste nel denudamento fisico e spirituale di Bérenger, dalla sua entrata in palcoscenico fino alla calata del sipario. Una cerimonia ben preparata e anticipata dai segni del degrado: polvere e mozziconi di sigarette dappertutto, mancanza di generi di prima necessità (la mucca non dà più latte), non funzionano i termosifoni, le pareti sono crepate, e il sole non vuole più scaldare. 

Tutti i personaggi sono al corrente di ciò che sta avvenendo, solo il Re ha tutta l’aria di non voler capire, e insiste. Più tardi si renderà conto che deve rassegnarsi, perché la morte è «irreversibile» e non guarda in faccia a nessuno. A guisa di un condannato, la cui esecuzione è stata già annunciata, entra in scena a piedi nudi. 

«MARGHERITE – Qu’ il attrape froid ou non, cela n’a pas 

d’importance. C’est tout simplement une mauvaise habitude» (10). 

Per un verso, Bérenger non vuole accettare la realtà delle cose, e si ribella, dando ordini ora al Medico ora alla Guardia, per un altro, vero che è sostenuto nella sua intransigenza dalla Regina Maria, ma è anche vero che fa difficoltà a seguire nel suo parlare Margherita, perché sa che dice una verità che vorrebbe taciuta. Bérenger non ha il coraggio di riconoscere la sua condizione perchè la vanità glielo impedisce. Ma la morte non sta al gioco e al pettegolezzo, e la Regina Margherita rompe ogni indugio: «Ju vas mourir dans une heure vingt -cinq minutes» (11). 

La “cerimonia” è nel pieno del suo svolgimento. Bérenger, impotente, vorrebbe reagire, ma la sua detronizzazione è già in atto. Egli urla e chiede aiuto: nessuno lo soccorre. Solo in lontananza sente reco delle sue grida, il vuoto della solitudine lo circonda. Vorrebbe ancora tempo, come se quello vissuto non gli fosse bastato. 

«LE ROI – Je suis comme un écolier qui se présente à l’examen 
sans avair fait ses devoirs. Sans avoir préparé sa leçon … » (12). 

Finalmente, dopo tanto dibattersi, riconosce che nessuna medicina può lenirgli il dolore. E niente più gli dice la Regina Maria. Nonostante tutto, si rifiuta ancora, ha dei ripensamenti, poi comincia a rassegnarsi. Allora, metterà da parte il suo egoismo, e guarderà agli altri: s’interesserà, cosa che non aveva fatto mai, di Giulietta, e scoprirà gli affetti più nobili. 

Luci ed ombre si addensano nella mente di Bérenger I: il ricordo dei giorni belli, quelli dell’amore e del potere, l’ossessionante presenza della morte che annulla e accomuna a tutti i morti nel tempo. E, ancora, il ricordo di un gatto tutto rosso che gli fa dimenticare la solennità del momento. Per gli altri, oramai, Bérenger è morto e, pertanto, parlano di lui al passato, mentre il cuore lo tiene ancora legato a questa terra, quasi a non volersene staccare. 

«LE MÉDECIN – En effet. Un coeur fou. Vous entendez? 
(On entend les battements affolés du coeur du Roi). ça part, ça 
va très vite, ça ralentit, ça part de nouveau à toute allure» (13). 

Ma Bérenger non riconosce nessuno, è come se fosse fuori di sé, vorrebbe accanto tutti gli altri che intanto ad uno ad uno escono di scena. Gli rimarrà vicino Margherita che lo guiderà là dove «il cuore non ha più bisogno di battere». 

L’uomo, il re che muore, è qui, con tutta la sua misera umanità, in questo graduale spogliarsi che lo stesso Ionesco così riassume: «Peur, désir de survivre, tristesse, nostalgie, souvenirs, et puis résignation» (14). Strutturalmente lo svolgersi dell’azione è lineare, ma Bérenger è colto da un rivolgimento interiore così repentino, anche se segue diverse fasi prima di arrivare al culmine, che lascia disorientati. Questa di Le roi se meurt è una drammaticità che non è affidata – come nelle tragedie tradizionali all’evolversi delle azioni, secondo cui lo spettatore o il lettore poteva prefigurarsi un finale più o meno imminente o, per lo meno, quello che sarebbe potuto verificarsi. Qui non c’è niente da prevedere, perché – come dice il titolo – tutto è previsto: Bérenger ci vuole poco e muore. la drammaticità è affidata al linguaggio, alle botte e risposte dei personaggi che in un modo o in un altro concorrono tutti al denudamento del Re (15). 

E, poi, negli alti e bassi di questo Re, ora tormentato ma risoluto, ora più disponibile e non per questo meno accanito di prima a non voler cedere il trono. 

«LE MÉDECIN, regardant sa montre – Il se met en retard . . . 
Il retoume. 
MARGHERITE – Ce n’est rien. Ne vous inquiétez pas, monsieur le 
Docteur, monsieur le Bourreau. Ces retours, ces tours et ces 
détours… c’était prévu, c’est dans le programme. […] 
LE ROI – Je pourrais décider de ne pas mourir » (16). 

Sono gli alti e bassi di una coscienza sconvolta, di stati d’animo che non hanno ancora trovato un equilibrio interiore capace di dargli quella serenità propria di chi è consapevole di ciò che lo attende. E questo modo di procedere fatto di rallentamenti e di accelerazioni – dicevo sopra – affida ogni teatralità al linguaggio che utilizza tutte le sue risorse possibili (17). 

Bérenger vive un momento particolarmente patetico della sua vita; Ionesco lo sa bene, e per questo ora ricorre all’ironia, ora ai livelli alti della poesia, ora al comico, con una forte carica di umorismo, anche se si tratta di una comicità disarmata, perché è nella stessa natura dell’uomo. Questi registri fanno comodo a Ionesco per un doppio motivo: per un verso gli consentono di verificare e mettere in atto la sua drammaturgia, per un altro gli permettono di esprimere tutto ciò che si porta dentro e di calarsi nell’uomo. Dice a proposito: «Je déshabille l’homme de l’inhumanité de sa classe, de sa race, de sa condition bourgeoise ou autre […] Je suis tous les autres dans ce qu’ils ont d’humain» (18). Per Ionesco, fare teatro non è stendere al sole i panni degli altri, innanzitutto è stendere quelli suoi che, poi, coincidono con quelli degli altri. Bérenger è Ionesco, è l’uomo in genere che prima o dopo si viene a trovare dinanzi all’ineluttabilità della morte. 

Uno dei tanti pregi del teatro dell’assurdo è quello di avere riscoperto il tema della morte che ora sta divenendo di moda un po’ in tutte le letterature. Basti pensare, in Italia, a Leonardo Sciascia (Il Cavaliere e la morte) o a Nello Sàito (Com’è bello morire). Ma, mentre Beckett, ossessionato com’è dall’idea della morte, si limita ad affermare solo il non-essere (19), Ionesco va sino in fondo nella sua ricerca, 

MARGHERITA – Non è niente. Non vi inquietate, signor dottore, signor Carnefice. Questi ritorni, questi giri e rigiri … Era previsto, è nel programma. 

IL RE – Potrei decidere di non morire». 

arrivando, a dire che la vita è bella e vale veramente la pena di viverla, da uomini, si capisce, dando importanza a tutto ciò che ci circonda. Vivendo la vita a misura d’uomo, il mondo apparirà ancora più bello, e la morte non farà più paura. 

B) I personaggi – Il teatro moderno si serve di pochi personaggi. E, ancora, più che dei veri e propri personaggi, utilizza dei tipi capaci di rappresentare l’uomo nel suo universale piuttosto che nel suo particolare. 

Ionesco, dovendosi interessare di un re e di un regno in rovina, limita i personaggi a sei: il Re Bérenger I, la Regina Margherita, la Regina Maria, il Medico, Giulietta (la donna delle pulizie e infermiera) la Guardia. Nell’economia di Le roi se meurt (il tutto si svolge, su una scena che rimane invariata per tutta la durata dello spettacolo), i personaggi menzionati costituiscono la corte, ma anche – come è stato già detto da altri (20) – la vita privata e pubblica di Bérenger, di questo Re che è l’uomo qualunque, 

mentre gli altri protagonisti sono gli uomini in generale che esplicano le diverse attività della vita sociale. 

Bérenger è un uomo dei nostri giorni che, preso dalla materialità della vita, ha dimenticato che col passare del tempo passiamo anche noi e moriamo. E, nonostante gli venga ricordato, fa finta che tutto sia nella normalità, come se niente fosse («Bonjour, Marie, Bonjour, Margherite. Toujours là? Je veux dire, tu es déjà là! Comment ça va? Moi, ça ne va pas! Je ne sais pas très bien ce que j’ai, mes membres sont un peu engourdis, j’ai eu du mal à me lever, j’ai mal aux pieds! Je vais changer de pantoufles. J’ai peut – étre grandi! J’ai mal dormi …» (21). Mentre, imperterrito, il tempo opera sulle cose e sulle persone. Bérenger è l’uomo del nostro tempo che si vede crollare il mondo addosso perché non vuole riconoscere i suoi limiti e insiste a riporre su di sé ogni speranza. L’edonismo crea un grande vuoto che solo in extremis viene avvertito: allora l’uomo scopre di essere miserevole, e grida, invoca aiuto, palesa a tutti la sua angoscia. Per questo, Le Roi se meurt (22) è un’opera umanissima, degna di grande rispetto. Come vada la cosa, – è inutile dirlo – Bérenger rimane morbosamente attaccato a questa esistenza terrena, e lui, egocentrico ed egoista, ha sciolto un bell’inno alla vita. 

Margherita e il Medico rappresentano quei tipi che dinanzi alla realtà non solo non la nascondono, ma fanno di tutto perché venga dagli altri riconosciuta e accettata. Essi sono quelli che obiettivamente avvertono per primi le reali condizioni di salute del Re e le accettano senza alcuna tergiversazione, assumendosi l’incarico di guidare fino alle soglie della morte Bérenger. 

Margherita è dotata di una forte carica di intuito ed è psicologicamente ferrata: rappresenta la ragione e, perciò, rimane inflessibile dinanzi alle incertezze e alle debolezze sentimentali della Regina Maria. Anzi è risoluta, e vuole che gli altri non la disturbino nella sua azione di persuasione. 

«MARGHERITE – Rire ou pleurer: c’est tout ce qu’elle sait faire. (A JULIETTE) Qu’elle vienne tout de suite. Allez me la chercher» (23). 

È la prima sposa del re Bérenger I, ci sottolinea Ionesco: e, in effetti, è un personaggio intransigente che ubbidisce aUe leggi eterne, giustizia che niente affida al caso, incorruttibile e leale con se stessa e con gli altri. Essa, che potrebbe apparire come una fredda annunciatrice della morte, incarna l’amore spirituale ed è colei che apre alla vita Bérenger, impersonando la voce della coscienza che bussa con insistenza, quella voce che spesso è lasciata inascoltata, presi come si è dalle lordure e dalle miserie umane. 

Maria, al contrario, rappresenta l’amore carnale e l’attaccamento alla vita, perciò, non vuole accettare l’idea che il Re deve morire, e farebbe di tutto se lo potesse. Sicché Margherita la mette a tacere e se ne serve per raggiungere il suo scopo. 

«MARIE – Pardonne – moi, Majesté, ce ne pas ma faute»(24). 
In fondo, Maria è l’alter ego di Bérenger; ama pienamente questa esistenza e la vorrebbe vivere intensamente, ma l’amore carnale è effimero e non regge al denudamento del Re. «Ce ne fut qu’une courte promenade dans une allée fleurie, 
une promesse non tenue, un sourire qui s’est refermé» (25). 

Ciò la rende patetica, e la sua bellezza Ci dice ben poco, non essendo ravvivata da nobili sentimenti. per questo c’è in lei un’intima sofferenza, una commozione rappresa che diviene anch’essa un inno alla vita. 

Il Medico, che è anche chirurgo, boia, batteriologo e astrologo, è un personaggio che, per le sue attività, occupa un posto di rilievo nella vita privata del Re. È il sapiente della corte e, come tutti i maghi e gli astrologi dei tempi passati, è tenuto in grande considerazione nella corte. Egli legge nel gran libro della natura, ma la scienza lo rende freddo e calcolatore, sicché laddove Margherita agisce per convinzione e secondo ragione, egli opera con distacco professionale, insensibile ai sentimenti e alla morte, visto che per il momento :~on è lui l’interessato. Perciò, è un personaggio ridicolo, caricaturale e rispecchia quanti goffamenti, e per tornaconto, si appoggiano al potere emergente. Sarà Margherita a spingerlo perchè segna una linea di condotta adeguata al caso. Ionesco lo tratta male. In effetti, è uno di quelli che viene considerato esclusivamente per la carica che occupa, ma non sarà mai stimato. Nemmeno dagli umili che rimangono indifferenti dinanzi a lui. 

Giulietta, “donna di servizio e infermiera”, è una di questi. Affabile e servizievole fin dalla sua entrata in scena, tale rimane sino all’ultimo dinanzi al Re. Come tutte le persone semplici, non si renderà bene conto di ciò che sta avvenendo, e agirà e parlerà sempre in funzione degli altri, anche se con umiltà rinfaccia gli abusi e i soprusi, e rivendica giustizia. Non si ribella, anzi segue con palese commozione lo sfogliamento di Bérenger. 

«JULIETTE – Nous sommes là. près de vous, nous resterons là» (26). 

Ma non così è la Guardia, portavoce della corte, grossolana e superficiale. È semplicemente un ripetitore degli ordini altrui e non palesa un minimo di umanità. Come il Medico, viene trattata in malo modo dalI’autore; impersona l’ufficialità fredda e ridicola, certi organi di informazione che dicono e si contraddicono, secondo l’aria che tira. E come alcuni cronisti, il cui compito finisce col vendere fumo, la Guardia è la cassa di risonanza della corte e fa da tramite fra questa e il popolo, risultando veramente banale. 

Questi i personaggi. Se consideriamo che rappresentano un regno, diciamo che sono pochi. Vero che si chiamano in causa ministri. ingegneri, l’armata, il popolo, a cui si rivolgerà sempre la Guardia. «spécialistes du gouvemement», bambini, ma è anche vero che nessuno di questi entrerà mai in scena. A Ionesco, e in generale ai drammaturghi moderni non interessano i fatti di questi o di quell’altro, non ha più alcuna importanza il particolare. a cui si ispirava il teatro tradizionale, dove la scena si riempiva di personaggi piccoli e grandi e si dava l’impressione di un gran movimento(27). Adesso, quello che conta è rappresentare l’universale, come il tema della morte; che poi si tratti di Bérenger o di un altro, non cambia nulla (28). 

I personaggi, una volta che Bérenger è entrato nell’ordine di idee inculcategli da Margherita e il Medico. scompariranno ad uno ad uno. È il dominio della morte che stavolta ha reciso il filo della vita del Re: gli altri potranno continuare pure i propri lavori, con la consapevolezza, però, che la presa di coscienza di Bérenger abbia lasciato in tutti un solco profondo. 

Salvatore Vecchio 

1) C. Bonnefoy, Entratiens avec Ionesco, Paris, Belfond, 1966, pag. 12: «Domandai un giorno a mia madre: “Moriremo tutti? Dimmi la verità”. Mi rispose: “sì”. Dovevo avere quattro, cinque anni, ero seduto a terra, lei era in piedi, davanti a me. La vedo ancora. Teneva le mani dietro la schiena ed era appoggiata al muro. Vedendomi singhiozzare – perché d’un tratto mi misi a piangere – perplessa, mi guardò, senza poter fare altro. Ebbi molta paura». 
2) Ionesco precisa: «Tout est permis au théatre: incarner des personnages, mais aussi materialiser des angoisses, des présences intérieures» (E. Ionesco, Notes et contre-notes, Paris, Gallimard, 1966, pag. 63). 
3) E. lonesco, Le Roi se meurt (a cura di C. Audry), Paris, N.C.L., 1968, pag. 32: «MARGHERITA – È inutile darsi da fare, essa, [la morte] è irreversibile». 
4) lvi, pag. 34: «MARGHERITA – È tempo perduto. Sperare, sperare! (Alza le spalle). Non hanno che questo in bocca e la lacrima all’occhio, che abitudine!». 
5) C. Bonnefoy, op. cit., pag. 90: .Sono partito da un’angoscia. Quest’angoscia era molto semplice e chiara. Essa era scaturita da qualcosa di meno irrazionale, di meno viscerale, cioè, di più logico, qualcosa più alla superficie della coscienza […] Ero stato ammalato ed avevo avuto molta paura». 
6) G. Dumar, Frère, il faut mourir – Le Roi se meurt – Odéon, in “Le Nouvel Observateur”, 6 Dic. 1976, pag. 103: «È quest’angoscia fondamentale, esistenziale, che fa da soggetto al “Le roi se meurt”. Mai come adesso Ionesco è andato così lontano nella descrizione dell’essere – per – la morte, come la descrive la filosofia pessimista, da Schopenhauer a Sartre». 
7) E. Ionesco, Le Roi se meurt, ed. cit. pag.: 96 «IL RE – Un fanciullo! Un fanciullo! Allora ricomincio. Voglio ricominciare.(A Maria) Voglio essere un bebè tu sarai mia madre. Allora, non verranno mica a prendermi. Non so leggere. non so scrivere, non so contare. Mi si porti a scuola tra compagnetti. Quanto fanno due e due?» 
8) Ivi, pag. 58: «Morirai tra un’ora e mezza, morirai alla fine dello spettacolo». 
9) Non a caso, inizialmente, Le Roi se meurt era stato intitolato: «La Cérémonie». 
10) Ivi, pag. 50: «Che prenda freddo o no, non ha importanza. È semplicemente una cattiva abitudine».
11) Ivi, pag. 74: «Morirai tra un’ora e venticinque minuti». 
12) Ivi, pag. 81: «IL RE – Sono come uno scolaro che si presenta all’esame senza aver fatto i compiti. Senza aver preparato la lezione “…». 
13) Ivi, pag. 146: «IL MEDICO – Infatti. Un cuore folle. Sentite? (Si sentono i battiti impazziti del cuore del Re). Parte, va molto forte, rallenta, va di nuovo a tutta velocità». 
14) “Le Monde”, 19 dico 1962, pag. 14. Proprio qualche giorno dopo la prima rappresentazione al Théàtre de l’Alliance française di Parigi 15 dic. 1962, conversando con Claude Sarraute.
15) Cfr. M. Esslin, Le Théàtre de l’Absurde, Paris, éd. Buchet – Chastel, 1963. Vedi anche AA.VV., Les critiques de notre temps et lonesco, Paris, éd. Garnier, 1973, pagg. 149-153. 
16) E. Ionesco, Le Roi se meurt, ed. cit., pag. 133: «IL MEDICO, guardando il suo orologio. Sta tardando . .. Ritorna. 
17) B. Gros, Le Roi se meurt Ionesco, Paris, Hatier, 1976, pagg. 60-62. 
18) E. lonesco, Journal en miettes, Paris, Mercure de France, 1967, pagg. 26-27: «Io spoglio l’uomo dell’inumanità della sua classe, della sua razza, della sua condizione borghese o d’altro (…) lo sono tutti gli altri in ciò che hanno d’umano». 
19) S. Beckett, Fin de partie, Paris, Les Editions de Minuit, 1957, pag. 109: «Je me dis que la terre s’est éteinte, quoique je ne l’aie jamais vue allumée. (Un temps.) ça va tout seuI. (Un temps.) Quand je tomberai je pleurerai de bonheur».
20) Cfr. C. Audry nella Notice premessa a Le roi se meurt (testo che abbiamo utilizzato per le citazioni). pagg. 23-25. Vedi anche B. Gros, cit. 
21) Ivi, pag. 50-51: «Buongiorno, Maria, Buongiorno, Margherita. Ancora qui? Voglio dire, tu sei già qui! Come va? lo, niente affattol Non so perfettamente bene cosa ho, i miei arti sono un po’ intorpiditi, faccio fatica ad alzarmi, ho male ai piedi! Vado a cambiare le pantofole. Può darsi che sia cresciuto! Ho dormito male …». 
22) J. J. Goutier in un articolo sul “Figaro· del 16 ottobre 1955 aveva definito Ionesco ‘un burbone, un mistificatore, pertanto un fumista., ma poco dopo la replica di Le roi se meurt del 1966, così scrisse sempre sul “Figaro” del 7 dicembre 1966: «Sì, lo dico e lo ripeto, Le Roi se meurt è un dramma umano, denso, composito, scritto, di una grande poesia; è un’opera straziante. E anche buffa. È una tragicommedia scespiriana». 
23) E. Ionesco, Le Roi se meurt. op. cit., pag. 33: «MARGHERITA – Ridere o piangere: è tutto ciò che [Maria] sa fare. (A Giulietta.) Che venga subito. Andatemela a chiamare». 
24) lvi, pag. 73: «Perdonami, Maiestà, non è colpa mia». 
25) Ivi, pag. 91: «Non fu che una breve passeggiata in un viale fiorito, una promessa non mantenuta, un sorriso che si è richiuso». 
26) lvi, pag. 155: «Sono qui, vicino a voi, non vi abbandonerò». 
27) S. Doubrovsky, Le rire de Ionesco, in “Nouvelle Revue Française”, 10 febbraio 1960. 
28) E. Ionesco, Notes et contre-notes, op. cit. pag. 305: «Aspetto che la bellezza venga un giorno ad illuminare, a rendere trasparenti i muri sordidi della mia prigione quotidiana. Le mie catene sono la bruttura, la tristezza, la miseria, la vecchiaia e la morte. Quale rivolgimento potrebbe liberarmene?».

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 41-53.




Le Pagine ritrovate di Pirandello

Sono trascorsi ormai settantacinque anni dalla morte di Luigi Pirandello e sembrava ai compilatori dell’Opera omnia che tutto fosse stato già raccolto e pubblicato, e che tutto fosse stato detto sull’uomo e sull’autore; a sconfessare questa certezza è Piero Meli, ricercatore attento e scrupoloso che ha regalato ai lettori e agli studiosi un volume (P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia ed., 2010) denso di notizie e di novità editoriali. Il merito di Piero Meli è grande e dobbiamo essergli grati, perché con la nuova pubblicazione offre «scritti sconosciuti o dimenticati », come scrive nella nota introduttiva, mettendo in luce ancora di più la figura e l’opera dell’Agrigentino.

Il volume è bene strutturato e ricco – come dicevamo – di notizie e di novità che aprono il lettore alla conoscenza di giornali, riviste e personaggi, ed offre un ampio spaccato del mondo letterario e culturale tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Occorre leggerlo per rendercene conto e cogliere gli aspetti più salienti e nuovi; per questo, ci accingiamo a farlo con molta attenzione e tanta stima per lo studioso che, con questa sua fatica, dà a tutti l’opportunità di avvicinarsi meglio a Pirandello che non smette di far parlare di sé. Ed è a questo proposito che, dopo aver motivato il suo lavoro, Meli scrive:

«…non pare proprio che il caso Pirandello sia archiviato. Tutt’altro. C’è ancora molto da dire. E alcuni di questi scritti ne assicurano le premesse, aprendo altre questioni e ponendo interrogativi di natura metodologica, mai posti prima d’ora, sulla presunta lezione definitiva di alcune novelle pirandelliane ».

Ad apertura di libro, c’è una rivelatrice intervista-confessione rilasciata da Pirandello ad Eugenio Giovannetti che la pubblica nel 19281. Si precisa che ogni “pezzo” riportato è ampiamente introdotto e commentato dal ricercatore che chiarisce, confronta e annota aspetti che altrimenti al comune lettore potrebbero dire poco e invece aggiungono tessere molto importanti per la comprensione del mosaico Pirandello.

In quest’intervista Pirandello rivela il suo primo amore e parla di una fanciulla di nome Elvira non riportato dai suoi biografi. Ma è possibile? – si chiede Meli. – Si tratta di una bugia o di una verità detta «in un momento di sincerità»? Se lo chiede lo studioso, ce lo chiediamo anche noi. Eppure è Pirandello che lo dice, cosa che prima non aveva svelato a nessuno. Lo dice, magari, inventando, da artista qual era, o anche in vista della conclusione a cui voleva arrivare

Pirandello parla di nozze infantili di cui aveva già teorizzato Freud2, ma egli si riferisce ad un uso riportato da Marco Polo, e che era presso i Tartari, di sposare i loro fanciulli morti e, dopo aver ripreso il passo, alludendo e intravedendo in essi i crisantemi e i loro svariati colori, ne parla da poeta con voce sommessa ma chiara, come acqua di sorgiva.

«Hanno tutti un bel capo rotondo; taluni hanno riccioli tenerissimi, d’un color biondo croceo, altri fulvi e lievemente irsuti, altri candidissimi e morbidi come neve pur mò caduta. Ve n’ha una schiera che ha i capelli colore amaranto, indimenticabili: un’altra che ha sulle chiome lo splendore mesto dei giacinti. Tutti, del resto, nella loro smagliante bellezza, hanno un qualcosa di chiuso e di triste…»

Poi ricorda un sogno avuto da piccolo, ove amore e morte, impersonati da due crisantemi, vanno a braccetto, amandosi «sino a diventarne pazzi»:

«Ho sognato che due di questi fiori così composti nella loro malinconia, si amassero sino a diventare pazzi e ad accapigliarsi comicamente nella loro spasmodica passione. »

E conclude:

«Chi sa che il mio amore e la mia arte non sieno nati da quel primo sogno? Che tutta la mia arte non sia altro che un’orgia di crisantemi impazziti?3»

Effettivamente questa è una chiave di lettura della sua opera. Pirandello se lo chiede dubbioso, quasi nel timore di sbagliare, ma è nel vero, anche se nell’euforia della sua creatività si farà prendere la mano da un raziocinio che tende ad offuscare la sua parte migliore. C’è nei suoi scritti un tendere verso la vita e un accettarla che fanno a pugni con le contrarietà di ogni giorno, sicché la malinconia s’impossessa di lui e sembra non lasciargli scampo. L’umorismo, a cui ricorre, è un modo come un altro per superare questo stato di cose e vivere anche nella consapevolezza della “pena di vivere così”4.

Continuiamo la nostra lettura. Troviamo una scena di Vestire gli ignudi che, ancora inedita, Pirandello mandò, dietro invito e per la rivista “Le opere e i giorni”, all’amico Mario Maria Martini, a sua volta apparsa nel giugno del 1922, mentre l’intera commedia verrà pubblicata dai fratelli Bemporad nel 1923. Quest’anteprima di pubblicazione non era stata mai notata e, pur avendo la sua importanza, nessuno l’aveva mai citata.

La scena pubblicata sicuramente sarà di aiuto agli studiosi e ai filologi che vogliono rendersi meglio conto del modo di procedere di Pirandello per entrare nel vivo della sua arte. A un confronto sommario, nell’edizione fiorentina la scena subisce tante modifiche. Aggiunge o varia le didascalie, dà più cadenza al dialogo, ripete più volte certe parole, cambia anche la punteggiatura e ritocca qua e là il dialogo. Lo fa per rendere più esplicito il discorso, in funzione dialogica piuttosto che per ragioni stilistiche. Tutte queste sono modifiche non marginali, volte a dare maggiore resa e armonia al tutto per una buona riuscita della commedia. Scrive Meli:

«La scena […] presenta moltissime varianti anche dal punto di vista scenico, espressivo (punti esclamativi, puntini di sospensione, ecc.), didascalie comprese. Interessante dunque il confronto tra la stesura iniziale e quella finale. C’è da considerare tuttavia in questi casi che ritocchi e modifiche molto spesso obbediscono più a ragioni di resa scenica, insomma teatrali, che non a quelle artistico-espressive».

Sono affermazioni che condividiamo, in quanto colgono nel segno il drammaturgo che, coniugando vitaarte, doveva certamente sacrificare qualcosa per aderire il più possibile alla realtà e lo faceva con molta convinzione e coerenza.

Apparentemente divertente, ma dal punto di vista umano molto misera e triste, è la vicenda dell’accusa di plagio che Adelaide Bernardini-Capuana rivolse a Pirandello. Si tratta di una pagina di cronaca che per le persone che coinvolse acquistò importanza letteraria e risonanza nazionale, ed è strano che sia sfuggita ai biografi, sempre pronti a riportare persino le più insignificanti minuzie.

La vicenda prende lo spunto dalla prima rappresentazione di Vestire gli ignudi, avvenuta il 14 novembre del 1922 al Teatro Quirino di Roma per la Compagnia di Maria Melato. Una rappresentazione come tutte le altre, se non fosse stato per la Bernardini-Capuana che, in una lettera pubblicata sul “Giornale d’Italia” il 21 dello stesso mese, rivendicò al marito la paternità della trama! Pirandello non si scompose più di tanto e, in un’intervista fattagli da un giornalista di “Epoca” il 22 novembre, dirà che aveva utilizzato un fatto realmente accaduto a cui ogni artista può sempre accostarsi per farlo «una pura creazione della fantasia».

Pirandello si comportò da signore qual era, limitandosi a dire questo, e l’accusa ebbe la sua ricaduta sulla Bernardini, avendola messa in cattiva luce, visto che era stata proprio lei la protagonista di quel fatto di cronaca. In una lettera a Pietro Mastri del 15 febbraio 1903, così egli commentava la relazione tra Capuana e la Bernardini:«Ah, caro Pirro, che commediaccia buffa e atroce è questa vita nostra!5»

Non c’è alcuna malignità, ma l’amara constatazione che la vita riserva sempre brutti scherzi, buoni solo ad essere rappresentati e da cui è difficile spesso potere uscire.

Piero Meli documenta con una serie di scritti questa “Accusa di plagio”. Poi aggiunge: «Probabilmente il gesto della vedova era carico di velati risentimenti contro Pirandello, col quale i rapporti non dovevano essere buoni». A ragione, perché a leggere gli scritti riportati ci si rende conto di certi risvolti impensati e impensabili per chi non è addentro a certe situazioni. Per questo, l’invito alla lettura è d’obbligo.

Interessanti sono le notizie fuori mano che il libro fornisce e riguardano scrittori che qui rivivono e periodici introvabili, persino nelle biblioteche. È il caso di Giuseppe Federico-Pipitone (1860-1940), scrittore palermitano dai multiformi interessi, fondatore de “Il Momento” e, nel 1889, della “Rassegna Siciliana di Storia, Letteratura e Arte”, in cui sono presenti due recensioni e un componimento poetico di Pirandello che, pur lavorando a Roma, non perse mai di vista la sua Isola e non interruppe i contatti con la sua gente. Questi contatti e le riviste servivano a Pirandello per anticipare ai lettori le sue opere e per pubblicizzarle, come risulta nei fascicoli di questa rivista e nelle altre citate.

Le recensioni riguardano un libro di Andrea Maurici, Note critiche, ed una raccolta di versi (Canti e prose ritmiche) di Eugenio Colosi. Entrambe le pubblicazioni danno a Pirandello lo spunto per affrontare temi letterari di attualità in quello scorcio di fine secolo. Lo annota bene Meli, quando scrive che il libro di Colosi «dà spunto, da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi dà pretesto per un’ironica e personalissima divagazione sulla prosa ritmica… Una ragione in più per ripubblicarla6». Ne risulta un Pirandello molto informato che seguiva da vicino le novità librarie e la letteratura nei suoi sviluppi, non solo quella italiana ottocentesca e contemporanea, ma anche quella straniera, soprattutto tedesca.

Pirandello trova utili gli spunti offerti da Maurici con i suoi saggi e dimostra di conoscere le ricerche che allora stavano destando interesse e curiosità presso gli addetti ai lavori. Non a caso ricorda l’opera, allora molto letta, sui primi sviluppi della poesia siciliana di Adolfo Gaspary (La scuola poetica siciliana del secolo XIII del 1882) che coinvolse nel dibattito autorevoli studiosi siciliani, come Francesco Paolo Perez, Giovanni Di Giovanni e Salvo di Pietragarzili, con il risultato di aver dato un’impronta decisiva alla conoscenza e all’influenza di quella scuola sulla futura poesia italiana.

Ritornando alla recensione dedicata al libro di Colosi, Pirandello non si sofferma tanto sul contenuto e su quella poesia (si limita a citare qualche titolo, ma non va oltre), piuttosto s’allinea con quanti sono contrari ad estendere alla prosa l’appellativo di poesia, anche se ritmata e condita qua e là di orpelli che le danno sembianze poetiche. Egli guarda al passato con l’occhio del moderno e lo accetta, ricordando i classici (specialmente Leopardi e Baudelaire) che in questo furono maestri, non condivide l’opinione di Walt Whitman e rifiuta ogni forma di raffazzonamento e di improvvisazione.

Il componimento riportato nella “Rassegna” è “La pioggia benefica”, di cui Piero Meli pubblica anche la versione che si legge in Mal giocondo (Palermo, 1889) che presenta differenze, a partire dall’inizio, e un cambiamento di gusto da parte del poeta. Stupisce, perciò, il fatto che questa redazione non sia stata riportata nel volume di Lo Vecchio-Musti, Saggi, poesie e scritti varii (1993). È da pensare che il componimento non sia stato letto, e questo spiega la ragione per cui è stato solo citato. Se così è, non è certo una bella cosa, perché le varianti dicono molto. Senza volerci dilungare, esse registrano molti ritocchi grafici che rompono col vecchio modo di scrivere, una punteggiatura più attenta e un verso sicuro, reso più armonico per una maggiore attenzione al ritmo interno. Si leggano, ad esempio, questi versi della terza stanza (il testo del volume è tutto un unicum e non ha capoversi)7:

…È buio ancora. Nera, sotto la grave ombra, e indecisa però l’immensa e fertile pianura si rappresenta al guardo. A grado a grado cresce il chiaror de l’alba e lentamente già le cose cominciano de l’ombra a esprimersi: là i monti alti, lontani; qua li arbor più superbi …

e si confrontino con quelli che leggiamo in Mal giocondo:

…È bujo ancora. Nero, sotto la fresca ombra, e indeciso però già il pian si rappresenta al guardo. Cresce il chiaror de l’alba, e lentamente cominciano ad imbeversi di lui le cose: ecco, tra rosei vapori, là i monti, quasi monstri in sonno accolti, qua gli alberi più grandi. …

Rispetto a questi versi, quelli riportati in rivista presentano alcune varianti radicali e altri interventi, piccole cesellature che imprimono una maggiore resa concettuale e poetica. Si noti come scorrono bene i versi « già le cose cominciano de l’ombra / a esprimersi: là i monti alti, lontani», e come dal punto di vista fonico arrivano ingentiliti all’orecchio; poi, quell’«imbeversi di lui» stona nell’insieme! Ma rimandiamo alla lettura e al confronto dei testi, perché il lettore possa rendersene conto e valutare, senza lasciarsi sfuggire l’attacco iniziale che sembra riportarci a quelli della poesia bucolica dei nostri antichi poeti.

La rivista a cui Pirandello collaborò più assiduamente in questo periodo è “Roma letteraria”8, a cominciare dal 1893 fino al 1900. È un Pirandello molto attivo e culturalmente impegnato: segue le novità librarie (poesia, critica, narrativa), scrive poesie e le pubblica insieme con le novelle che subiscono sempre varianti e ritocchi. È un Pirandello che ancora, seppure affermato come scrittore e poeta, cerca una via sua fino a quando non la troverà definitivamente nel teatro. Scrive saggi e recensioni, alcuni più riusciti, altri meno, su autori affermati e non (Chiarini, Tommaseo, Flamini, Mantica, Boner). A proposito della recensione del libro di Giuseppe Chiarini, leggiamo:

«A ben vedere, più che “importante”, l’articolo- recensione del Pirandello è assai modesto. Non più di un mero riassunto del libro del Chiarini, intercalato qua e là da qualche nota personale. […] Di tanto in tanto poi, per risollevare il tono piatto dello scritto, ricorre a fumogeni di marca tedesca. […] Nient’altro. Bruttissima poi quanto inopportuna la chiusa dell’articolo; da principiante; segno evidente d’insoddisfazione dell’autore stesso per il suo scritto.9»

Lo studioso non limita la sua azione alla sola scoperta, ma la valuta e s’esprime con competenza, offrendo il tutto agli altri, quasi ad invogliarli a fare lo stesso. Per questo, appronta un elenco degli scritti di Pirandello apparsi in questa rivista, ad uso e consumo degli studiosi, e ripubblica un racconto, rimasto sconosciuto, e due recensioni, quella su Mantica e l’altra su Boner. È evidente che la scelta è limitata per ragioni di spazio, ma è lo stesso interessante oltre che indovinata.

Il racconto, dedicato al Natale, fu scoperto da Meli e pubblicato su “La Sicilia” del 19 dicembre 2000. Trascriviamo questa notizia del ritrovamento, riportata nel libro, perché altri, appena un anno dopo, se ne appropriarono indebitamente10, senza rendere merito a chi queste ricerche porta avanti da decenni con tanta passione e dedizione.

“Natale al polo” è il titolo del racconto, pubblicato nel dicembre del 1897. Nella sua brevità, è una riuscita prova di scrittura, dove Pirandello, al racconto vero e proprio abbina annotazioni di viaggio dei vari esploratori e affianca considerazioni che già fanno intravedere la pensosità e la profondità di sentire del futuro scrittore.

È un racconto di una delicata malinconia che accomuna quanti vivono il giorno del Santo Natale lontano dalla propria casa e dai parenti più cari con cui si è, di solito, insieme. È il sentimento che predomina nello scritto, anzi aleggia e s’impossessa dello stesso scrittore che, come gli esploratori polari, si sente sradicato da tutto perché gli manca la sua Sicilia, sempre ricordata e portata nel cuore, quella delle zampogne che con il loro suono invadono i paesi. Leggiamo:

«Se nel cuore vostro ha nido il sentimento di questa notte di Natale, così tenero nell’arcana sua malinconia; se la vostra anima sa levarsi su candide ali a intenderne la dolce e universal poesia […], udite: c’è una nave lassù, che sembra un bianco enorme fantasma con le braccia protese verso l’immensa cupola del firmamento, ch’avvolge silenziosamente il grande e squallido deserto di  ghiaccio, in mezzo a cui la nave è rimasta prigioniera. Guizzano per lo spazio, come spiriti inquieti, le stelle cadenti, mentre dalle cupe dentellature fantastiche degli ammassi di ghiaccio all’orizzonte emergon vividi gli astri nel giro dell’interminabile notte polare. 11»

Lo scrittore immagina, e con la fantasia va tra i ghiacciai del Polo. Qui uomini impossibilitati ad agire innalzano canti natalizi, i più noti, e li fanno risuonare per l’aria, glorificando il Natale. Lo scrittore è con loro e, nella dolce semplicità del canto di Joseph Mohr (“Silente notte, Santa notte…), eleva una preghiera, perché davvero «la chiusa è una preghiera. Anzi. Una diretta invocazione a Gesù. Magia del Natale, in un personaggio in cerca di autore.12»

Ritornando alle recensioni ripubblicate, la prima riguarda Edoardo Giacomo Boner (1864-1908), messinese, l’altra Giuseppe Mantica, reggino, entrambi poeti e scrittori, di cui Meli fornisce notizie biobibliografiche molto utili per conoscerli e apprezzarli.

Pirandello aveva molta stima dei due e scrive senza forzature queste recensioni (a differenza di altre – come quella per Adelaide Bernardini o per lo stesso Eugenio Colosi -) nelle quali palesa tutto il suo compiacimento, perché quei libri parlano al cuore, aprendo ai sentimenti, e si fanno leggere per l’arte dei loro autori.

Di Musa crociata di Boner Pirandello apprezza lo slancio poetico e sociale, la sincerità dell’ispirazione e la bontà d’animo che spingono il poeta messinese non solo a schierarsi dalla parte dei rivoltosi Candiotti, ma anche a lanciare una “crociata” poetica a loro favore e, novello Pietro l’Eremita, a battersi per dare realtà al loro sogno. Come tanti altri, Pirandello risponde all’invito («Guidami, o poeta, io son con te!»), volendo così riconoscere la nobiltà di gesto e l’afflato lirico di quella poesia, come tiene a precisare lo stesso Meli:

«Un modo come un altro per esprimere parole misurate e levigate, quanto emozioni indicibili e incancellabili che, alla lettura dei versi, tornano insieme con “la voce calda e piena d’anima” del poeta peloritano.13»

E Pirandello, senza spendere tante parole, rimanda ai versi, riportando tre sonetti, perché il lettore possa verificare da sé la solidarietà, la liberalità e l’idealità che ne sono alla base e gustarne il fascino. Le parole dicono poco dinanzi ad una poesia che direttamente parla al cuore e sprigiona sentimenti da vivere piuttosto che da dire.

La recensione dedicata al libro di Mantica: A me i bimbi! è un riconoscimento che con animo sincero Pirandello tributa all’amico poeta, capace di esprimere nei suoi versi, anche con fine umorismo, ciò che ha dentro e di rivolgersi, cosa non facile, ai bimbi. Pirandello legge uno per uno i dieci componimenti che costituiscono il libro e si sofferma su di essi, evidenziando di volta in volta come l’autore sappia sdoppiarsi per parlare, in modo comprensibile e piano, con lo stesso linguaggio dei piccoli e calarsi in essi, senza stancarli e annoiarli. Ad un certo punto chiama ancora in causa il lettore, perché possa gustare il bello di questa poesia che, seppure rivolta ai bambini, ha sempre qualcosa da dire, anzi, usando lo stesso verso del poeta, «qualcosa da imparar sempre ci scappa».

Amico di Mantica, Pirandello non eccede in lodi esagerate (allo stesso modo tratta Boner), e si mantiene nel solco del libro, anzi auspica sia letto per avere la conferma a quanto ha afermato. Eppure un occhio di riguardo per l’amico ce l’ha, a chiusura, quando, nel sollecitarlo a pubblicare, porta a conoscenza del lettore il libro in preparazione Rime gaje, «attese con viva impazienza da quanti amano la buona poesia». Un modo fine e garbato per dirgli la sua stima e l’amicizia.

Pagine ritrovate conclude con tre novelle pubblicate in “Grandi firme” e con “Minime. Segnalazioni bibliografiche”. Le ultime sono vere e proprie “segnalazioni” ed hanno importanza per gli spunti e le notizie che biografi e bibliografi possono trovare utili, ma le tre novelle (“Idee funebri e gaie di Luigi Pirandello. I pensionati della memoria”, apparsa nel fascicolo 9 del 1° novembre 1924, “Come gemelle”, nel fascicolo 16 del 16 febbraio 1925, e “Zuccarello, distinto melodista”, apparso nel numero 39 del 1° febbraio 1926) sono motivo di studio, perché offrono una redazione diversa da quella riportata nei Meridiani Mondadori.

Piero Meli, riproponendo queste novelle, offre date e notizie, frutto meticoloso di assidua ricerca, e dà lo spunto a studiosi e filologi per un serio studio che possa portarli ad una maggiore conoscenza del modo di procedere di Pirandello e della sua arte, e a stabilire quali effettivamente siano le ultime redazioni, al fine di potere approntare una riedizione di quella collana, stavolta definitiva e fedele al volere dell’Autore. Ad un sommario confronto di queste novelle con quelle riportate nell’edizione mondadoriana, sono evidenti le tante varianti di cui parla Meli e tante sono le considerazioni e conclusioni a cui perviene, quasi ad aprire un tavolo di lavoro e di confronto con gli studiosi. Ma avverte che è:

«Un lavoro non facile, perché a nostro avviso Pirandello non sempre operava correzioni, modifiche e ritocchi avendo ben presenti tutte quante le precedenti redazioni d’una sua novella; basti pensare che la revisione di Zuccarello, distinto melodista per “Le grandi firme” la farà in treno nel dicembre del 192514.»

Rimandiamo queste Pagine ritrovate al lettore che di certo apprezzerà il lavoro certosino del Nostro, la padronanza delle conoscenze, la puntualità delle informazioni, l’esposizione chiara e sicura, e lo ringrazierà per avergli dato l’opportunità di conoscere aspetti nuovi dell’uomo e artista Pirandello. Ed è quanto di meglio uno studioso possa ricevere.

Salvatore Vecchio

Note

1 E. Giovannetti, Quand’amai la prima volta. Confessioni dei più illustri contemporanei, Milano, Treves, 1928;
2 Pirandello cita Freud perché è Giovannetti a riferirlo; il Nostro conobbe indirettamente, tramite la lettura di A.Binet e altre sue frequentazioni, gli studi sulla psicanalisi, ma ne fu vicino per il lavoro di introspezione che faceva in tutta la sua opera.
3 P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, cit., pagg., 14-15.
4 Si veda S. Vecchio, Pirandello, Saggi sul teatro, Roma, Eiles, 2010.
5 P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, cit., pag. 43.
6 Ivi, pag. 64.
7 Ivi, pagg., 73-74.
8 Fondata e diretta da Vincenzo Boccafurni nel 1893, si pubblicò fino al 1922. Boccafurni fu un intellettuale e poeta, molto vicino al Pascoli e a tanti scrittori del suo tempo.
9 P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, cit., pag. 79.
10 Ivi, pag. 93.
11 Ivi, pag. 115.
10 Ivi, nota pag. 86.
11 Ivi, pag. 87.
12 Ivi, pag. 86. 
13 Ivi, pag. 93.
14 Ivi, pag. 115.

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 23-29.




 La poesia popolare siciliana   

La poesia popolare è un aspetto e un mezzo della cultura d’un popolo attraverso cui egli manifesta e trasmette il suo animo. Oggi lo studioso si trova dinanzi ad un campo aperto e non del tutto conosciuto. D’altronde, lo studio delle tradizioni popolari si è sviluppato a partire dal XIX secolo, quando cominciavano ad essere scientificamente riconosciute le scienze umane, in cui rientrano l’antropologia, l’etnografia, la demopsicologia e la demologia. 

I primi studi e raccolte di poesia popolare risalgono agli inizi dell’Ottocento (lo stesso Leopardi pubblicò nello Zibaldone alcune canzonette recanatesi), ma quelli che subito acquistarono rilievo sono: Saggio di canti popolari della provincia di Marittima e di Campagna (1830) di P. E. Visconti e Canti popolari toscani corsi illirici greci (1841) di N. Tommaseo. Gli autori, che sorsero un po’ dovunque nelle regioni d’Italia1, furono influenzati dalle istanze romantiche, tendenti a rivolgersi e a valorizzare il popolo e a ciò che sapeva di popolare. 

Una questione aperta e dibattuta, a proposito della poesia popolare, consiste nel fatto se si debba ritenere o non un derivato da quella colta. Molti studiosi sono portati a ritenerlo. Ma, come già aveva intuito Giuseppe Pitrè, va tenuto presente un distinguo; cioè, tanta parte di poesia viene dal popolo; altra, ma in minima quantità, è di derivazione colta o semicolta (lo si nota da come è gestita la parola e dalla struttura del verso più elaborata), assorbita dal popolo e con diverse varianti elaborata e tramandata. 

La poesia popolare nasce da un fatto di cultura, insito nelle condizioni di vita del popolo, che subisce influssi e richiami degli eventi verificatisi. Ma quello che qui si vuole sottolineare è che l’evento storico, il fatto di cronaca o la realtà di ogni giorno, che è pure storia vissuta, vengono filtrati dal sentimento che, interiorizzandoli, li elabora in senso lirico. Questo giustifica il canto, sicché tanta parte della poesia popolare non si giustifica se non con il canto, che è l’espressione più naturale per esprimere gli stati d’animo. Va detto anche che la parola nella poesia popolare gioca un ruolo importante, perché spesso ricorre ai doppi sensi e al figurato che la carica di significati diversi. Questa poesia ci fa veramente conoscere l’indole del popolo, che, in fondo, è docile, nonostante l’accanirsi delle vicissitudini ed una politica che spesso non risolve i suoi problemi e la rende restìa e ribelle. 

I canti popolari siciliani, di solito, sono costituiti da strambotti, distici, stornelli, mottetti, serenate, canzoni, canti di circostanza, storie sacre e profane, filastrocche, ninne-nanne ed altro. I loro contenuti sono vari (di amore o di rabbia, epico-lirici, religiosi, storici, agresti, e in ogni caso partecipano lo stato d’animo e il vissuto del poeta. 

«Cu’ voli puisia vegna ‘n Sicilia 
Ca porta la bannera di vittoria 
Li so’ nnimici nn’avirannu ‘nvidia 
Ca Diu ci desi ad idda tanta gloria 
Canti canzuni n’avi centu milia 
E lu po’ diri cu grannizza e boria 
Evviva, evviva sempri la Sicilia 
La terra di l’amuri e di la gloria2». 

Qual è la motivazione di tanta poesia? Senza dubbio, essa va ricercata nel dolore e, perciò, nel bisogno di un riscatto che, al momento, trova solo nella parola e nel canto lo strumento idoneo. Sicché, anche il motivo più spesso ricorrente, quello dell’amore, canta amarezze e difficoltà d’ogni sorta, e lo stesso amore non può concretarsi, perché uno dei due innamorati manca di dote e non ottiene il consenso dei genitori. 

«Bedda, pi’ amari a tia li me nun vonnu, 
ni la me casa cci ha statu lu ‘mpernu3». 

Nonostante tutto, l’innamorato spererà e insisterà, perché possa realizzarsi il suo sogno d’amore: 

«Vinni a cantari ‘cca e lu fici apposta, 
pi’ vidiri si to’ ma’ cala la testa4». 
A volte l’innamorato dimentica o, meglio, accantona ogni angustia per esternare il suo sentimento, e allora esalta la bellezza della sua donna ricorrendo ad immagini della natura: 

«Vaju di notti comu va la luna, 
Vaju circannu a tia, stilla Diana. 
Bedda, ca si’ cchiù bedda di ‘na parma, 
‘nzoccu ti metti a lu pettu t’adurna5». 

Si noti il riferimento letterario «stilla», al posto di stidda, ma pure «Diana» è un’acquisizione dotta, anche se riscontrabile nella terminologia popolare, contadina e marinara. L’immagine è bella; l’innamorato è come chi, annaspando nel buio, cerca la luce, sicuro di trovare appagamento. 

In altri componimenti, l’amante esprime il suo amore e, al tempo stesso, vuole esserne rassicurato 

(«Bedda, li to’ biddizzi li prutennu», canta il poeta), perché teme la concorrenza e s’ingelosisce. 
«Bedda, li to’ biddizzi li prutennu, 
e si ad antru li duni, mi nni lagnu; 
siddu li duni a quarchi strafazzeri, 
si li va ‘ ccancia pi’ un pezzu di pani. 
Dunali a mia ca sugnu arginteri; 
iu ti li fermu e ti portu li ciavi, 
e ti li nesciu a li festi sulleni: 
Mezzaustu, Suttemmiru e Natali6». 

Spesso l’amore s’accompagna al tempo della raccolta che, alleviando le fatiche, fa sperare bene per meglio vivere e accettare la vita. 

«Bedda mia, 
lu tempu vinni di cogghiri racina; 
lu viddanu s’incammina, 
nni la vigna si ‘nni va. 
Lu poviru la spremi 
e la metti ‘ ntra li vutti. 
Bedda mia, 
cuntenti tutti, 
quannu poi si vivirà7. 

Il tempo della raccolta infonde un senso di gioia: è il momento in cui il contadino vede concretati i suoi sacrifici. Nei suoi movimenti, negli ampi gesti che l’accompagnano c’è piena accettazione della vita, ma anche sincera riconoscenza della divinità, che fa pensare ai ringraziamenti e alle propizi azioni degli antichi pagani. Ne sono chiaro esempio le feste che si facevano a raccolto com-plessivo avvenuto (e che tuttora nelle nostre contrade si fanno), oppure i canti che per le varie occasioni si cantavano, come quelli della mietitura o quelli dell’aia, che con varianti più o meno vistose sono presenti dovunque in Sicilia. Nella poesia popolare questo intreccio di sacro e di profano è abbastanza presente. Assillata dai bisogni, la povera gente si rivolge a Dio o ai Santi per risolvere i conflitti o per essere tutelata e aiutata («Duna a tutti la saluti, / a li figghi e a li niputi, / e pi’ nantri piccatura, / tu ci preghi a lu Signuri. / Tanti genti fannu guerra / ni li posti di ‘sta terra, / astutati ‘sti furnaci, / o Riggina di la paci8», ma anche per scongiurare malanni o allontanare da sé eventuali malocchi di chi la vuole male: 

«Iu mi curcu pi’ durmiri 
‘nni stu sonnu pozzu muriri, 
e si ‘un aju ‘u cumpissuri 
mi cumpessu cu vu’, miu Signuri. 
Tri stizzi di sangu di Gesù, 
tri fila di capiddi di Maria, 
attaccati e liati manu, vucca e cori 
a cu’ mali a mia voli9». 
Di qui alla maledizione il passo è breve: 
«Cu’ voli mali a mia: scippati l’occi, 
du puntareddi appizzati a li gricci. 
Cci nn’addisiddu cimici e pidocci, 
quantu frummentu cc’è, favi e linticci10». 

Al poeta popolare non sfuggono i fatti storici, lontani o più recenti, in cui esalta il sentimento collettivo nazionale che per poco fa dimenticare la miseria. Come in questa ottava, riferita ai Vespri, in cui lo sfogo e la rabbia per i maltrattamenti subìti sono forti. 

«Nun v’azzardati a vèniri ‘n Sicilia, 
ch’hannu juratu salarvi li coria; 
e sempri ca virriti ‘ntra Sicilia, 
la Francia sunirà sempri martoria. 
Oggi, a cu’ dici Chichiri ‘n Sicilia, 
si cci tagghia lu coddu pri so’ gloria; 
e quannu si dirà: qui fu Sicilia, 
finirà di la Francia la memoria11». 

Il popolo siciliano, come fu passivo nel subire le peggiori angherie dai propri sovrani e dai signori locali, mai sopportò quelle infertegli dai dominatori stranieri. Si nota, ad esempio, da un componimento che risale al 1866, In piena dominazione piemontese. 

«Lu tempu è fattu niuru, 
vinniru arre’ li lutti: 
comu si pò risistiri? 
Hamu a tinìri tutti? .. 
Sentu friscura d’ariu, 
lu celu è picurinu; 
‘nca cc’è spiranza, populi, 
la burrasca è vicinu12!» 

C’era chi esaltava ancora la passeggiata garibaldina in Sicilia, ma altri lamentavano una spoliazione mai vista fino allora e parlavano di «granni tradimentu», auspicando tempi migliori. È, in fondo, ciò che Verga denuncia nella novella «Libertà», da leggere per comprendere meglio, fuori dell’ alone pubblicistico piemontese purtroppo ancora forte, la vera realtà della Sicilia e del Meridione in quegli anni. 

Anche le «storie» sacre, che si rifanno alle vite dei Santi o ai miracoli, e i fatti di cronaca (le «storie» profane) sono ben recepiti dal popolo che li fa argomento di discussione e di canto. Basti citare l’opera meritoria che svolsero (e che ancora, ma in minor misura nell’interno dell’ isola, svolgono) i cantastorie, per renderci conto di come il popolo sapeva fare propri i fatti e parteggiare per i protagonisti che, pure essi deboli, s’imponevano ed emergevano per i sentimenti di cui si fanno portatori. È il caso della «storia» della «Baronessa di Carini», abbastanza nota, o quella, me-no conosciuta, ma altrettanto coinvolgente, di «Scibilia nobili». 

È, questa, la «storia» di una giovane donna del trapanese che, rapita e portata a Tunisi dai pirati barbareschi, non viene riscattata dai genitori, perché, essendosi unita ad un giovane cavaliere senza il loro consenso, dicevano essere stati disonorati. A vuoto cadono le suppliche e le preghiere, i genitori saranno sordi ad ogni richiesta: e preferirono perdere una figlia, anziché l’oro del riscatto. Alla donna il bene le verrà dal giovane che non esiterà a rispondere: «Megghiu perdiri tant’oru / ca ‘n’amanti ‘un l’asciu cchiu!13» E la donna gli rimarrà molto obbligata e fedele; mentre per i parenti, che di lì a poco moriranno uno dopo l’altro, vestirà di rosso, per lo sposo indosserà per sempre un abito nero. 

Una «storia» che affascina, ben congegnata e costruita nelle parti che la compongono, ricca di annotazioni psicologiche e, soprattutto, rivelatrice d’un carattere forte che non s’abbatte facilmente e, anzi, resiste e trova il coraggio di reagire. 

«Lu me latti è biancu, bianchissimu, / sulu è dignu a li cristiani14». Così risponde ai corsari, che le dicono di dare il suo latte ai cani. Sono versi che rimangono impressi per la loro spontaneità, di una bellezza che tocca il cuore e lega per sempre a questa nobile figura di donna. 

Insieme con queste «storie» si diffondono anche le «storie» epiche. Il popolo vi è attratto per le figure emergenti, portatrici sempre di nobili ideali. È il caso della Storia di Fioravante e Rizzeri15, di cui riportiamo questi versi: 

(Madre) – Comu fu? Chi cosa ha statu? 
(Fioravanti) – Vaju a la morti ‘mmenzu 
a tanti genti, 
Strittuliatu ‘ntra sta surdatìa, 
Pi ‘n esseri di Cristu ubbidienti, 
Haju offisu a lu figghiu di Maria. 
Vaju a la morti e patirò turmenti, 
Accussì voli la furtuna mia. 
A vu’, matri, ‘un v’arraccumannu nenti, 
Matri, v’arraccumannu l’arma mia!’ 
(Madre) – Figghiu di lu mè cori e l’arma mia, 
Figghiu di lu mè cori e lu mè ciatu, 
Strittuliatu ‘ntra sta surdatìa: 
Stu corpu tantu beddu ‘ndilicatu! 
Sciugghitimillu pi ordini mia, 
Quantu sentu la cosa comu ha statu16! 

Come il popolo non poteva non apprezzare la lealtà di Fioravante e non partecipare nel contempo al dolore della madre che tutto tenterà per salvare il figlio? 
Altri motivi di canto sono dati dalle ninne-nanne e dalle filastrocche. Anche qui, nell’apparente semplicità del dettato, c’è una sottesa denuncia degli squilibri sociali e un
desiderio di migliorare la propria condizione, come in Alavò, per esempio, o in Chiovi, chiovi, chiovi, in cui la denuncia diventa satira che mette in ridicolo il barone,
laddove recita: «affaccia lu baruni / cu’ i causi a pinnuluni17». 
Chi può, spesso non spende nemmeno per il necessario, mentre chi vive in ristrettezze, tiene molto alla propria dignità e alla decenza. 

I motivi che danno contenuto alla poesia popolare sono tanti e tali da restare meravigliati. Ecco questa ottava, per esempio: 

«Masculiddu piruzzu d’oru 
dunni camina nasci lu violu; 
masculiddu piruzzu d’argentu, 
dunni camina ci nasci ‘u frummentu; 
masculiddu piruzzu d’addauru 
fa lu fruttu e fa lu ciavuru. 
Fimminazza piruzzu di chiuppu, 
‘un fa né ciauru e né fruttu18». 
da “Spiragli”, 2009, Saggi 
Si era in un periodo in cui il maschio aveva la preminenza; era lui a lavorare e a contribuire al mantenimento della famiglia. Perciò è esaltato, a differenza della donna
che spesso era di peso e si dava in sposa ancora in giovane età per contenere il bilancio familiare. 

Ancora: 

«’D pinu Saru mi purta’ a la Ciana, 
mancu mi detti ‘na ‘rrappa di racina. 
Cci firriavu di la tramuntana, 
mi nni cugghivu na fiscina cina19». 

In tempo di ristrettezze non erano rispettate nemmeno le buone creanze. Lo zio Rosario non offre niente, nemmeno un raspo d’uva, che il terreno generosamente gli dà, e alla faccia della taccagneria se la fa rubare. Per la gran parte del popolo era la fame, e la fame non tiene conto delle buone intenzioni. E, allora, ecco questa sestina: 

«Amici, a tutti quanti vogghiu beni, 
sintiti ca vi cuntu la raggiuni. 
Si fussi riccu, cunzassi li ceni 
e cummitassi tutti li pirsuni; 
ma haju lu cori me cinu di peni, 
ca mi sta abbianchiannu lu muluni20». 

La vita sembra sia registrata nei suoi palpiti, nelle aspirazioni, nei bisogni, nelle gioie del momento e persino nelle considerazioni esistenziali, di cui ad un certo punto il poeta si fa carico e ne sente il peso. Si era in tempi veramente duri, eppure si diceva – come si può notare – di tutto. La realtà è che la diffusione era orale, e la gente parlava, nonostante la chiusura delle classi sociali elevate; parlava e sfogava, se non altro, per scaricare le tensioni e condividere con gli altri il disagio di quella condizione, a differenza di oggi che, presi da una vita frenetica e stressante, non si riesce a comunicare e, più che mai, ci si chiude nel silenzio, bombardati come si è da mezzi di informazione sempre più sofisticati. Così non era un tempo quando, pur nella miseria e negli stenti, la gente si riuniva nelle case o all’aperto, e comunicava e si divertiva. Anche nei campi la vita era vissuta in modo diverso; non c’era ancora la meccanizzazione e gruppi di contadini jumatara sfidavano i duri lavori stagionali, parlando e cantando, e nel loro parlare e cantare c’era un dolore sotteso, non dovuto a rassegnazione, bensì alla constatazione dell’impari lotta, spesso sotterranea, che erano chiamati a sostenere con i padroni. Era nella mentalità dei nobili e dei ricchi feudatari che essi, i contadini, dovevano continuare a vivere la vita di sempre per sostenere l’economia del paese e per mantenere invariato l’ordine pubblico. Derivano di qui il dolore e la rabbia, di cui dicevamo. 

Se è vero che la povera gente era maltrattata e mancava di tutto, essa continuava a vivere la vita di sempre nella speranza, attaccata, com’era, ai valori dei padri. Ora l’uomo non ha fiducia in niente, è isolato, non è più nel disagio come prima, ma vive un malessere esistenziale ben più grande e insopportabile. E di questo deve essere consapevole e se vuole riprendersi ciò che gli appartiene, ha bisogno di recuperare, o ricrearsi, quei valori che gli facciano accettare ed amare la vita. 

Salvatore Vecchio

NOTE 

 
1 In Sicilia: Canti popolari siciliani di L. Vigo, che risale al 1857 (II ed. 1874) e, in aggiunta alla raccolta del Vigo, Canti popolari siciliani di S. Salomone-Marino (1867). In seguito, la ricerca acquistò maggiore prestigio con G. Pitrè, Canti popolari siciliani, 1870-’71 (II ed. 1891), i suoi Studi di poesia popolare (1972) e Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano (1889), ripubblicati nell’Edizione nazionale delle opere di Pitrè e Salomone Marino (Ila Palma) e, con C. Avolio, Canti popolari di Noto (1875). In seguito la ricerca e lo studio delle tradizioni popolari furono continuati da G. Cocchiara, Popolo e canti della Sicilia d’oggi (1923), Storia del folklore in Europa (1952) e altre opere che lo fecero conoscere in Italia e nel mondo. 
2 «Chi vuole poesia venga in Sicilia / che ha la bandiera della vittoria. / I suoi nemici ne avranno invidia, / ché Dio le diede tanta gloria. / Canti e canzoni ne ha in abbondanza / e lo può dire a gran voce e boria. / Evviva, evviva sempre la Sicilia, / la terra dell’amore e della gloria» (G. Cocchiara, Popolo e canti della Sicilia d’oggi, Palermo, Sandron, 1923). 
3 «Bella, ch’io ami te i miei non vogliono, / nella mia casa c’è stato l’inferno». 
4 «Bella, vengo a cantare qui e lo faccio apposta, / per vedere se tua madre cala la testa». 
5 «Vado di notte come va la luna, / vado cercando te, stella Diana. / Bella, e sei più bella di una palma, / ciò che al petto metti tutto t’adorna». 
6 «Bella, le tue bellezze le pretendo, / e se le dai ad un altro, io m’offendo; / se le da’ a qualche faccendiere, / va a barattarle per un pezzo di pane. / Dalle a me, che sono argentiere; io le chiudo e porto la chiave, / le prenderò nelle feste solenni: Mezzo Agosto, Settembre e Natale» (È un’ottava che proviene da Palma di Montechiaro, che celebra la festività della Madonna del Rosa-rio, patrona della città, 1’8 settembre). 
7 «Bella mia, / tempo è della vendemmia; / il villano s’incammina, / nella vigna se ne va. / Il povero l’uva spreme / e la mette nelle botti. / Bella mia, contenti tutti, / quando poi si berrà». 
8 «Dai a tutti la salute, / ai figli e ai nipoti, / e per noi peccatori, / pregaci il Signore. / Tante genti sono in guerra / in ogni parte della terra, / spegnete queste fornaci, / o Regina della pace». 
9 «Mi corico per dormire, / nel sonno posso morire, / e se non ho un confessore, / mi confesso con Voi, mio Signore. // Tre gocce di sangue di Gesù, / tre fili di capelli di Maria, / attaccate e legate mani, bocca e cuore / a chi male mi vuole». 
10 «A chi mi vuole male: cavate gli occhi, / conficcate due punteruoli nelle orecchie / gli auguro cimici e pidocchi, /tanti quanto frumento c’è, fave e lenticchie». 
11 «Non v’azzardate a venire in Sicilia: / hanno giurato di farvi le cuoia; / e ogni volta che verrete in Sicilia, / la Francia suonerà sempre a martorio. / Oggi, a chi dice Chichiri in Sicilia, / gli si taglia il collo per sua gloria; / e quando si dirà: qui fu Sicilia, / finirà della Francia la memoria». 
12 «II tempo è fatto nero, / siamo di nuovo ai lutti: / come si può resistere? / Dobbiamo sopportare tutti? .. // Sento frescura d’aria, / il cielo è pecorino; / perché c’è speranza, popolo, / la burrasca è vicina». 
13 «Meglio perdere tanto oro, / ché un amante non lo trovo più». 
14 «II mio latte è bianco, bianchissimo, / è solo degno dei cristiani». 
15 Si trova in G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, cit. 
16 (Madre) – Come fu? Cosa è stato? / … / (Fioravante) – Vado a morte in mezzo a tanta gente, / stretto tra la saltataglia, / per non essere ubbidiente a Cristo, / ho offeso il figlio di Maria. / Vado a morte e patirò tormenti, / così vuole la fortuna mia. / A voi, madre, non raccomando niente, / madre, vi raccomando l’anima mia! // (Madre) – Figlio del mio cuore e anima mia, / figlio del mio cuore e fiato mio, / stretto tra questa soldataglia: / corpo tanto bello e molto fine! / Liberatelo per ordine mio, / voglio sentire il fatto come è stato! 
17 « … S’ affaccia il barone / con i calzoni che gli vanno giù». 
18 «Maschietto, piedino d’oro, / dove cammina nasce un viottolo; / maschietto, piedino d’argento, / dove cammina nasce frumento; / maschietto, piedino d’alloro, / fa frutto e anche odore. / Femminaccia, piedino di pioppo, / non fa odore e nemmeno frutto». 
19 «Zio Rosario mi portò alla Chiana, / manco m’ha dato un raspo d’uva! / Vi andai da tramontana, e ne ho raccolto una cesta piena». 
20 «Amici, a tutti voglio bene, / sentite che vi dico la ragione. / S’io fossi ricco, imbandirei cene / e inviterei tutti quanti; / ma ho il cuore tanto afflitto / che mi si stanno imbiancando i capelli». 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 11-16.




La poesia arabo-siciliana nel Medioevo 

Ci volle la venuta degli Arabi per far risvegliare la Sicilia dal sonno socioculturale in cui era caduta all’indomani della definitiva conquista da parte di Roma nel 209 a. C. Non dico che essa riprenderà l’antico splendore greco, ma per lo meno uscirà da quel torpore durato quasi otto secoli! Nel caos in cui era venuta a trovarsi, contesa com’era da Barbari e Bizantini, il diffondersi dei monasteri e l’opera dei monaci, soprattutto quella dei basiliani intorno all’VIII secolo, instaurarono un clima culturale molto ricco, ma furono gli Arabi a mettere ordine in Sicilia, ad aprirla all’ agricoltura e ai commerci e ad un nuovo clima di cultura, che ebbe le sue fasi migliori sotto i Kalbiti e i Normanni1. 

Gli Arabi, dopo un primo periodo di euforia religiosa e di intolleranza nei confronti dei miscredenti, abbandonarono la loro iniziale bellicosità, cercarono nuovi spazi e li trovarono un po’ dappertutto, in Spagna come in Sicilia e in terra d’Oriente. Specie laddove le popolazioni credevano in un solo Dio, essi si mostrarono subito tolleranti, perché in Sicilia nell’aprile dell’827 sbarcarono, insieme con le armi, il Corano e il diritto islamico, e i condottieri, a partire da Asad ibn al-Furàt, furono più abili conoscitori di diritto e teologi che guerrieri2. Questa predisposizione permise loro di crearsi attorno un clima di accettazione e di convivenza che garantì relativa pace. Perciò, la prima cosa a cui gli Arabi pensarono furono le moschee, che sorsero nel più breve tempo un po’ dovunque, ed esse divennero luoghi di preghiera e scuole, idonee ad interpretare il loro testo sacro e a diffonderne gli insegnamenti. 

Nell’ambito di questo clima in Sicilia fu in rapida ripresa la ·cultura e si sviluppò anche la poesia che, per le condizioni di vita, il nomadismo e la solitudine vissuti nei deserti dagli arabi carovanieri, era stata da sempre praticata, per cui, una volta sopito in Sicilia il rumore delle armi, il ricorso ai versi e alla rima recò un privilegiato diletto a tutti, sia agli emìri che alla gente qualunque. Sfortuna volle che tutto questo patrimonio poetico andasse dimenticato per lungo tempo e in parte perduto con la definitiva cacciata degli Arabi. Resta quel tanto che basta per farci un’idea di quella poesia che, seppure sbiadita, nonostante una consolidata ripetitiva prassi, testimonia una forte vitalità dovuta ai temi e al variegato modo di esprimerli. 

Il merito della riscoperta della poesia arabo-siciliana è di Michele Amari, che, mentre andava riordinando e pubblicando il materiale destinato alla sua monumentale Storia dei Musulmani di Sicilia (1854-1872), diede alle stampe nel 1857 a Lipsia Biblioteca arabo-siciliana. Di lì prese il via Poesia e arte degli Arabi di Spagna e di Sicilia di Adolf von Schack del 1865, mentre Celestino Schiaparelli, discepolo e amico di Amari, pubblicava a Roma nel 1897 il suo Canzoniere di Ibn Hamdis, l’unico arrivatoci completo, perché l’altro, quello di al-Billanubi, ci è pervenuto mutilo, tradotto sempre dallo Schiaparelli, ma non pubblicato fino al 1959, quando Umberto Rizzitano lo inserì nell’edizione curata per conto dell’Università del Cairo. Per la verità, di al-Billanubi è stata curata un’altra edizione, ampliata a 600 versi, dall’iraniano Hilal Nagi nel 19763. 

Di altri poeti conosciamo qualcosa da alcuni estratti dell’opera di Ibn al-Qattà, filologo, letterato e poeta siciliano (si sa che nacque in Sicilia nel 1041 e morì al Cairo nel 1121). L’opera era un’antologia, andata perduta, dal titolo La perla preziosa sui poeti dell’Isola, che riuniva 170 poeti per un ammontare di ben ventimila versi. Si tratta di poeti fioriti sotto i Kalbiti (947-1050), in un periodo tranquillo per la Sicilia. Un estratto è quello fatto da as-Sayrafi (morto nel 1147), curato e tradotto in italiano da Ignazio Di Matteo4, contenente 348 versi di 18 poeti. Dagli arabisti (U. Rizzitano, F. Gabrieli, A. Borruso e altri) il lavoro del Di Matteo è ritenuto meritorio dal lato filologico, ma non da quello critico, perché esagerato nei giudizi. A dire il vero, senza volere invadere il campo dell’ arabistica, tranne il componimento, di at-Tamimi, che fa riferimento alla guerra di conquista normanna, siamo dinanzi a temi e motivi della poesia araba preislamica e di quella neoclassica del periodo abbàside più splendido, che va dal 750 con Abu al- Abbas fino all’850 circa, con i califfi Harun alRashid e al-Ma’mun. Poi il califfato cominciò a perdere la sua unità e fu definitivamente abbattuto dall’invasione mongola del 1258. 

Altro estratto di poeti arabo-siciliani è quello inserito nell’antologia compilata da al-Isfahani (morto nel 1201). Ma tutto questo è ben poco rispetto a quella che sicuramente è stata la poesia arabosiciliana. Ci si auspica un’edizione completa perché il lettore interessato e il cultore di cose siciliane possa farsene un’idea più chiara. 

Abbiamo già detto che i temi sono quelli della poesia araba preislamica e neoc1assica. Basti sfogliare l’estratto di as-Sayrafi fatto da Di Matteo: l’elogio di sé o degli altri, l’amore, la descrizione di luoghi e di giardini, per lo più indeterminati, sul far della primavera, il vino con i suoi pregi e gli effetti che produce, la gnomicità e, ancora, la descrizione di fenomeni atmosferici, come il lampo, o oggetti vari (il liuto, il cero), ma anche l’arancia, la palma, o animali. Non manca il tema del dolore. Mancano gli accenni alla Sicilia, qua e là qualche richiamo storico, per il resto i temi sono ripetitivi e, come fa notare Francesco Gabrieli5, ripresi da altri poeti, spagnoli o orientali; ciò era di norma nella poesia araba di quel tempo. 

Il fatto che nella poesia araba siciliana manchino i richiami alla terra di Sicilia gli studiosi se lo spiegano dicendo che gli antologisti fecero volutamente una cernita, eliminando ciò che potesse far venire meno 1’orgoglio arabo ed essere di elogio anche indiretto ai nemici. Tranne che in qualcuno, solo nel Canzoniere di Ibn Hamdìs (nato tra il 1055/56, morto nel 1133) abbiamo riferimenti chiari di sicilianità. Ciò significa6 che, rimanendo un unicum, non fu toccato da mano estranea. Diversamente non si spiega come tanti altri poeti non fanno cenno alla loro terra, a cui erano certamente legati. 

Ma veniamo ad alcuni esempi che possono aiutarci a comprendere questa poesia che, se per certi aspetti è ridondante, mani eristica, per altri evidenzia una sensibilità artistica sintomo o di un disagio interiore o di una situazione che volge al peggio, come in al-Kalbi7, allusivo eppure profondo per il significato sotteso specie nei primi versi: 

Io conosco le tue colline, ora già misere, 
mentre erano delizia 
nei giorni in cui tu eri 
generoso verso le donne leggiadre, 
nei giorni in cui presso di te v’era 
un paradiso amato di donne 
dal seno benfatto e un inferno di delatori. 

Il poeta vanta la gioia piena della giovinezza, le donne «dal seno ben fatto» (immagine ritornante nei nostri poeti del ‘900, a partire da Cardarelli). Vero, il poeta vanta la sua stirpe ed esagera, eppure s’intravede in questi versi l’inesorabile fugacità del tempo e il tutto che gli va dietro rovinoso. Altrove c’è la perdita di una persona cara, di un figlio o di un fratello, che esprime un sentimento vero, un dolore sofferto che segna l’animo e commuove, allora come ora. Ibn Hamdis piange i cari morti e anche la perdita della sua serva. At-Tamimi8, piangendo il fratello morto, s’accorge che a niente vale la gnomicità di certe sue asserzioni, quando si è dinanzi ad una realtà che non può più essere cambiata. 

La morte non viene a te che all’improvviso: 
sta’ in guardia! 
Questo è il massimo degli avvertimenti. 
Sopporta pazientemente il nocumento 
che ti colpisce, 
in considerazione della sua utilità, 
perché spesso sorge un’utilità dal nocumento. 
[...] Oh, l’unico, la cui perdita io temevo, 
se avesse potuto giovarmi il mio timore per te! 


La poesia arabo-siciliana canta il vino e l’amore, la spensieratezza o il bisogno di dimenticare, o di alleviare la pena della lontananza. AI-Husayn b. Al-Qattà9 in una qasida dice: 

Il vino ci aiuta con la gioia: cessa dunque 
dal montare i giovani cammelli [...] 
E vieni di buon’ora a visitare il vino, 
il cui suono di fermentazione 
s’allontanò dopo altri suoni. 
E Nasr al-Katib10 così lo esalta: 
Un certo vino, puro di colore, fresco, 
fatto venire da lontano, che scaccia le tristezze. 
Se viene annacquato, tu immagini 
che nel suo calice sia penetrata 
una solida pietra preziosa di giacinto. 
E Ibn Hamdis11 sembra fargli eco: 
Vino di colore e odor rosa, mescolato 
all’acqua ti mostra stelle tra raggi di sole. 
Con esso cacciai le cure dell’animo, 
con una bevuta il cui ardore 
serpeggia gentile, quasi inavvertibile. 
L‘argentea mia mano, stringendo il bicchiere, 
ne ritrae le cinque dita dorate. 

Si può notare come i temi siano ritornanti in questa poesia e come i poeti sembrano emularsi a vicenda. E, in effetti, questi poeti spesso erano chiamati a partecipare a gare e a confrontarsi con gli altri per essere meglio accolti tra gli amici del signore e far parte della sua cerchia. Ibn Hamdìs dovette improvvisare versi, sfidato da al-Mùtamid, per diventare suo favorito. Ancora: 

Ecco il vino fresco: le sue bolle 
nel calice sembrano perle. 
Ha il colore del papavero, e di esso nel calice 
pare stendersi un manto. 
Camminavo al bagliore del lampo, 
e le tenebre, al rosseggiar della notte, 
parevano un negro che perdesse sangue 
dal naso12. 

La poesia araba classica e, ovviamente, la poesia arabo-siciliana, è definita barocca. Questa di Ibn Hamdìs, come di tanti altri poeti del periodo, è un esempio di barocchismo; il poeta ricorre ad immagini azzardate, ad artifici e a giuochi di parole che, a leggerli, sorprendono. La ricerca dell’effetto e i richiami sottesi sono una dimostrazione di alchimia della parola. Il lettore, resta stupito, per l’incalzare delle immagini che la parola suscita e presenta in modo imprevisto e gratuito. Il poeta diviene un giocoliere della parola, per raggiungere gli obiettivi sperati, calzanti e impregnati di un forte senso del reale. La tecnica è quella del concettismo, che consiste nell’individuare paragoni e svilupparli (le bolle simili a perle, il colore è quello del papavero, la velatura del vino nel bicchiere è come un manto, il lampo è l’ effetto del vino, l’energia che sprigiona rosseggiante richiama i fumi dell’alcol, e la notte, come un negro, è schiarita dal vino, paragonato al sangue dal naso). 

È tempo di bere per dimenticare: «l’ardore della sua fiamma brucia la tristezza nelle viscere», com’era per i Greci o i Romani, com’è tuttora, per quanti altri nel vino vogliano affogare l’amaro del vivere. Ibn Hamdìs ubbidisce a quello che era un manierismo di moda, ma lo fa con disinvoltura, senza appesantire il verso, a differenza di altri. 

In una poesia così hanno posto anche gli oggetti e gli strumenti, la frutta e, piante e i fiori, gli animali e gli insetti. Tutti offrono occasione di riflessione o lo spunto per aprirsi a un argomento caro al poeta, e tutto è descritto con meticolosa cura (il cero, il liuto, il bicchiere, la spada, l’arancia, la palma, gli anemoni, il cavallo). Ecco come Abu-I-Hasan Alì b. ar-Rahmàn al-Katib13 descrive l’arancia: 

Su, gioisci della tua arancia raccolta: 
è presente la felicità, quando essa è presente. 
Si dia il benvenuto alle guance dei rami, 
e sian benvenute le stelle degli alberi. 
Sembra che il cielo abbia profuso oro fino 
e che la terra ce ne abbia formato 
delle sfere lucenti. 

Ar-Rahmàn al Katib, come altri poeti, Ibn Hamdìs compreso, è attratto da questo frutto per la pienezza che gli è propria, in cui la sfericità e il colore vivo, solare, sono simbiosi di terra e di cielo. Nel suo componimento Ibn Hamdìs è però più sensuale: le arance, più che sembrare guance dei rami, s’avvicinano guancia a guancia e, più che essere come sfere lucenti, bruciano accanto a noi carboni roventi14. Ci troviamo davanti a poeti di forte immaginazione, abili nel verseggiare e con una propria personalità. 

Non sono trascurati neppure i fenomeni atmosferici, come la nuvola o il lampo, che a Buscri al-Katib15 fa ricordare il fuoco d’amore: 

È apparso il lampo dalla parte di al-Higiaz, 
facendomi ricordare di Sulma e di Sa ‘da: 
e tal ricordo mi fa soffrire. 
(Il lampo) risplende sul colore delle tenebre 
e sembra (nei suoi guizzi) 
come tante spade roteanti sulle vesti azzurre. 
Oh come eccellente è il lampo, il cui bagliore 
ha tormentato (il mio) cuore! 
È forse ogni amante tormentato per i lampi? 


Se in Buscri al-Katib il lampo ricorda gli amori e ne rinnova i tormenti, non così è in Ibn Hamdis16: 


In quella plaga buia, guizza nell’aria 
da occidente a oriente, 
quasi un razzo di nafta che dalle nuvole 
esce a incendiare le tenebre. 
Se ne durasse il bagliore nell’oscurità, 
parrebbe una traccia d’oro 
sulla pietra di paragone. 

In questi versi c’è già sentore di guerra. La nafta era soprattutto utilizzata per bruciare le navi, scompaginare il nemico e metterlo in grave difficoltà. 

Tra tutti i temi, quello dell’amore è il più frequente, con riferimenti presi da altri poeti, primo fra gli altri. Abu Nuwàs, il maggiore rappresentante della poesia araba dell’epoca abbaside, vissuto a Bagdad tra il 750 e l’815. Lo si nota in questi versi di al-Billanubi17: 

Mi hanno ucciso sguardi di donne simili a statue, 
fra un candore di denti e labbra 
di scura porpora; 
dopo aver detto che la mia giovanile follia 
si era ormai conclusa, 
eccola rendermi nuovamente pazzo d’amore 
e di passione. 

È una qasida ben congegnata, la cui struttura segue un canone preciso: quando la passione sembra essere sopita, ecco che l’apparire della donna fa agitare nel poeta il fantasma dell’amore che gli si ripresenta inaspettato. La donna, «la gazzella», con le sue malìe, paragonata alla «luna che lo spasimante venera, come chi in passato, indotto dalla tentazione, ha adorato gli idoli», fugge lontano, a causa di un malevolo detrattore, facendo sfumare ogni contatto e rendendo difficile la vita. Meglio affidarsi al «capo dei capi», il solo che può offrire tranquillità e pace. La nota encomiastica chiude il componimento; il poeta non chiede niente, elogia soltanto l’emiro a cui si riferisce, considerandolo come «una nuvola che profonde pioggia» e si sente tutelato. 

L’amore più spesso è sofferenza, sentimento inappagato o represso, come in as-Sa’di18: 

Sarei venuto, per l’ardente amore, a visitarti 
camminando sulla mia faccia o sul mio capo. 


o in Sadus an-nahwi19: 

È stata lunga questa notte, tanto da sembrare 
un secolo, senza mattino 
che illumina e senza aurora. 
E il fantasma (dell’amata) è stato avaro 
di unirsi (a me) durante la notte: 
oh meraviglia! Perfino il fantasma 
mi abbandona. 

Il sentimento amoroso è vissuto con trasporto e passionalità, e questo in genere da tutti i poeti, nei quali la sensualità è una caratteristica. La riscontriamo in Ibn Harndis20 che non sfugge a quest’ agone poetico spesso sfoggio di bravura e non datore di vera poesia. 

Dal seno ben formato, arriva sospirando 
e se ne va, ed il mio cuore resta 
come leone in petto a lei avvinghiato. 

E così in tanti altri versi d’amore: 

una guancia dal color di rosa, 
e un delicato ramoscello che si dondola 
con le mele. 

in cui Ibn Hamdìs, servendosi di immagini come queste, è fortemente allusivo e sensuale. Altrove, come fanno notare anche F. Gabrieli21 e A. Borruso22, il poeta alle immagini dà maggiore slancio e respiro e riesce a fare vera poesia, come in Un giardino o in Incontro, nei quali l’avvicendarsi dell’aurora dà il senso della pienezza e, al tempo stesso, è il tentativo, e anche il bisogno di voler fermare, perché non sfumi, e contemplare meglio, ora la bellezza della ragazza, ora la gioia d’amore 

sospirai sbigottito, ma solo sospirai 
per lo spuntar dell’aurora. 

nel timore che il sopraggiungere della luce del giorno non la porti via. La stessa sensibilità è nel frammento Stelle lucenti23. 

Non la finivo di bere al calice delle sue mani, 
e la saliva era condimento alla mia bevanda. 
Le stelle lucenti declinavano ad occidente, 
come cigni si tuffano in uno stagno. 

Anche qui la retorica e la ricerca smodata di immagini, che poi sono consuete nella poesia araba, passa in sott’ordine di fronte a queste stelle che, declinando, lasciano un alone di nostalgia per il tempo che se ne va e con esso le cose belle della vita, le donne, l’amore, mentre la vecchiaia incombe su ciascuno come uno stagno privo di vita. 

Ma il tempo di poetare dei poeti arabo- siciliani volgeva al termine. La splendida stagione kalbita si spense tra le liti intestine che portarono il disordine e la guerra. Difatti, quando le lotte di predominio diventarono più frequenti, ecco che furono pronti ad appropriarsi della Sicilia i Normanni, presenti già nel meridione d’Italia. Fu proprio durante la lotta fratricida tra Ibn-Turnnah di Siracusa e Ibn al-Hawwas di Castrogiovanni (Enna) che Ibn-Turnnah chiamò i Normanni in suo aiuto. 

Durante questa lotta e anche dopo molti poeti arabo-siciliani intrapresero la via dell’esilio: alcuni, come Ibn Hamdìs e Abu’l Arab, si diressero verso la Spagna, altri verso l’Africa o l’Oriente, come Ibn at-Tubi. In questa seconda fase declinante per gli Arabo-Siciliani, troviamo sprazzi di sicilianità abbastanza sinceri, come li possiamo cogliere in Abu’ l-Arab, poeta che, attaccato alla sua terra, dinanzi alla conquista dei Normanni, scelse di andare incontro ad un esilio incerto. 

Egli è tormentato dall’incertezza che l’idea dell’ esilio gli prospetta e dall’idea stessa di dover partire, essendo stata la Sicilia fatta propria dai Cristiani. Ecco il componimento nella traduzione di A. De Stefano24: 

Perché corro dietro a vane,fallaci speranze? 
Mi basta solo eh ‘io batta dritta la via. 
Ma dove ne andrò? Già l’anima mia esitante 
or verso Occidente, or verso Oriente si volge. 

Dopo questi interrogativi il poeta si fa consapevole della realtà e, con uno scatto d’orgoglio tutto siciliano, cerca di uscire dallo stato di depressione, facendosi coraggio, pensando che in fondo tutto è successo e a niente vale abbattersi. Meglio accettare la realtà, vivere dove capita e in mezzo ad altri uomini che gli sono fratelli. 

lo vivrò nel boschetto dove fanno nido le aquile. 
Nacqui dalla terra, qualunque terra mè buona, 
ogni uomo è mio fratello, il mondo è la mia patria. 

Abu’l-Arab è un cosmopolìta e anticipando idee proprie dell’Illuminismo: l’uomo cittadino del mondo, con un forte desiderio di integrarsi in esso e vivere la vita com’è giusto che sia, non essendo possibile altrimenti. Aspirazione di quanti con umiltà vengono a chiedere lavoro e un minimo di serenità, dato che nella loro terra vigono guerre e miseria. 

L’emiro Abu’l-Qasim Abd Allàh ibn Sulaymàn Yakhlaf al-kalbi25 canta il vino, l’amore, ma ha anche versi carichi di nostalgia per la Sicilia che ha dovuto abbandonare. 
Ha reso dolce la mia vita beata in quelle dimore 
dedicarmi al piacere dal vespro all’albeggiare; 
Laggiù l’anemone assomigliava 
ad una gota scintillante per peluria 
e nel colore della violetta sembravano 
amalgamarsi tenebre e luce; 
Il giglio aveva il candore delle cupole, 
con al centro aurei pistilli 
e sui teneri steli ammiravi i narcisi: 
parevano lanterne sospese ai sostegni; 
i cedri ricordavano cofanetti d’oro 
in ordinata serie, o seni di fanciulle. 

E ancora: 

Ho libato in giardini radiosi 
al garrulo tubare dei colombi [. . .] 
in un giardino che invaghisce, 
con la varietà delle vedute e il cinguettìo 
chi lo contempla; 

Ibn Sulaymàn apparentemente canta il vino e le gioie della vita al di là di ogni preoccupazione, ma sente dentro di sé tutto il rammarico che gli viene dalla mancanza di un bene di cui non può fare a meno, e che si porta nel cuore, e rivive ogni qual volta gli si presenti l’occasione: è la Sicilia ricca di colori, di suoni e di odori che vengono dagli opulenti giardini che allora circondavano Palermo e visti anche dalla località delle 

«Torri», citata ma difficile per noi localizzare. Qui il tema bacchico è di spunto al poeta per ritornare in quei luoghi carichi di ricordi dove consumò la spensierata giovinezza e dove nacquero le prime avvisaglie dei dissidi: 

Ho assaporato [il vino] in notturno [simposio], 
tenebroso come la mia sorte, 
e fra le incognite degli eventi. 
che portarono alla perdita dell’isola. 

Ritornando ad Ibn Hamdis, egli andò in esilio, prima a Siviglia, poi in Marocco e in Tunisia e, per ultimo, a Maiorca, dove morì. In lui, oltre ai temi della poesia classica, come abbiamo visto, c’è il rimpianto e la struggente nostalgia per la sua casa e per la terra che fu sua: 

Oh, custodisca Iddio una casa in Noto, 
e fluiscano 
su di lei le rigonfie nuvole! 
Ogni ora io me le raffiguro nel pensiero, 
e verso per lei gocce di scorrenti lacrime. 
Con nostalgiafiliare anelo alla patria, 
verso cui mi attirano 
le dimore delle belle donne. 
E chi ha lasciato il cuore a vestigio 
di una dimora, 
a quella brama col corpo fare ritorno. 

E ancora: 

Vento, perché non spremi la pioggia 
e non ne irrighi i campi assetati? 
Spingi verso di me le sterili nuvole, 
ch’io le riempia dell’acque delle mie lacrime. 
Abbeveri il mio pianto la terra dell’amore; 
possa esser sempre, 
nella sterilità, abbeverata di pianto!26. 

È uno tra i componimenti più belli della poesia arabo-siciliana: le immagini delle nuvole e delle piogge, il dolore dell’esule, sono forti per essere dimenticate. 

Il motivo del dolore fa tutt’uno con quello del ricordo; il sentimento del rimpianto si fa scontento: ormai è impossibile per lui potervi ritornare! 

Altri poeti, all’arrivo dei Normanni, rimasero in Sicilia, come Abd-ar-Rahmàn di Butera27, che elogia la munificenza del Regno: 

Non c’è vita serena, se non all’ombra 

della dolce Sicilia, 

sotto una dinastia che supera 

le cesaree dinastie dei re, 

e la gioia di vivere qui, tra i colori vivi di una primavera che dilata la sua luminosità sulle cose e sulle persone; o come Abd-ar-Rahmàn al-Itrabànishi28, il segretario trapanese, che esprime il desiderio che la pace possa durare e solo la bellezza del luogo e l’Amore possano dettare leggi. Egli cantò il fasto della corte di Ruggero II nel componimento dedicato alla villa reale della Favara, costruzione araba abbellita dai Normanni. 

Favara dal duplice lago, ogni desiderio 

in te assommi: 

vista soave e spettacol mirabile. 

Dove i tuoi due laghi s’incontrano, 

ivi l’amore s’accampa, 

e sul tuo canale la passione pianta le tende. 

Il poeta innalza un inno alla bellezza del luogo ed auspica la pace, la sola garante di prosperità e gioia di vivere; poi formula l’augurio che la felicità duri a lungo e le sciagure stiano lontane dalla Sicilia, e in cambio vi domini incontrastato l’Amore. È l’augurio nobilissimo di un animo innamorato della sua terra. 

I Normanni s’impadronirono della Sicilia gradatamente, nel corso di un trentennio, dal 1060 al 1091. Poi fu di nuovo la pace e un periodo di splendore per l’isola, un periodo in cui uomini di razza, lingua, religione diverse, convissero da cosmopoliti e cooperarono senza discriminazione, chiamati, alcuni, ad amministrare il Regno, altri, a nobilitarlo nella cultura e nell’arte, sempre sotto re 

Ruggero. Così la Sicilia ebbe i requisiti necessari per rendersi grande. La corte palermitana divenne centro di cultura e di scambio di idee. Vi si fecero acquisizioni scientifiche e traduzioni utili a conservare il patrimonio culturale antico, e lo stesso sovrano collaborò ai lavori, realizzando un’ integrazione di uomini e di culture senza precedenti.Un esempio di integrazione tra popoli diversi sotto Ruggero II è la Cappella Palatina, in cui c’è la contaminazione di elementi bizantini, arabi e latini, indice di grande creatività. Ma ce ne sono tanti, come il bellissimo esempio di arte arabo-normanna che è la Zisa, palazzo costruito da Guglielmo I, ricco di giardini lussureggianti e zampilli d’acqua. 

L’auspicio di Abd-ar-Rahmàn doveva, però, di lì a poco essere vanificato dall’egoismo e dal prepotere di baroni ed ecclesiastici che male vedevano la stima sovrana degli arabi di corte. Finì che re Ruggero, non potendo più controllare, anche perché ammalato, la situazione, cedette alle tante maligne insinuazioni che produssero le prime condanne con giudizi sommari. L’accusa di tradimento di Filippo al-Mahdia, gran consigliere di Ruggero, bastò a scatenare lotte e fatti di sangue che produssero, nel 1227, la relegazione di migliaia di Arabi a Lucera. Ciò avvenne sotto dominio svevo, con Federico II, e di lì una serie di lotte tese a disperderli, con conseguenze negative per la Sicilia. 

Salvatore Vecchio 

NOTE: 

1 S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, Torino, ERI, 1964, p. 130 e segg. 
2 U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo, S.F. Flaccovio, 1975, p. 139. 
3 A. Borruso, «La poesia araba in Sicilia nel Medioevo», in Saggi di cultura e letteratura araba, Mazara del Vallo, Liceo Adria, 1995, p. 95. 
4 I. Di Matteo, Antologia di poeti arabi siciliani, estratta da quella di lbn al-Qattà, Palermo, Archivio Storico Siciliano, 1935. 
5 F. Gabrieli, «Arabi di Sicilia e Arabi di Spagna», in Pagine arabo-siciliane, Mazara, LiceoAdria, 1986, p. 24-25. 
6 U. Rizzitano, «La Sicilia nella cultura araba», in Studi arabo-islamici in memoria di U. Rizzitano, Mazara, Liceo Adria, 1991, p. 291. 
7 I. Di Matteo, cit., p. 99. 
8 Ivi, p. 128. 
9 I vi, p. 100. 
10 Ivi, pag. 103. 
11 Ibn Harndìs, Poesie (a cura di A. Borruso), Mazara, Liceo Adria, 1987, p. 73. Traduzione di F. Gabrieli. 
12 Ibn Hamdìs, cit., p. 74. 
13 I. Di Matteo, cit., p. 123. 
14 Ibn Harndìs, cit., p. 30. 
15 I. Di Matteo, cit., p. 104. 
16 Ibn Hamdìs, cit., p. 45. 
17 U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, cit., 184. 
18 I. Di Matteo, cit., p. 102. 
19 Ivi, p. 102. 
20 Ibn Hamdìs, cit., p. 88. 
21 F. Gabrieli, lbn Hamdìs, Mazara, S.E.S., 1948, pp. 47-48. 
22 Ibn Harndìs, cit., p. 15. 
23 Ivi, p. 87. 
24 A. Di Stefano, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, Palermo, Ciuni, 1938, pp. 17-18. 
25 U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, cit., 181-182. 
26 F. Gabrieli, lbn Hamdìs, pp. 24 e 50. 
27 A. Di Stefano, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, cit., 15. 
28 Ivi, p. 16.

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 5-12.




 La cultura della guerra 

Molti sono per la guerra, perché sostengono sia un mezzo per il raggiungimento della pace1. Sembra assurdo: l’uomo anela alla pace, e intanto proclama la guerra; fa guerra per realizzare la pace. Ci troviamo dinanzi ai due schieramenti del si e del no, che perseguono (apparentemente) la stessa finalità con due strade diametralmente opposte: quanti vogliono la guerra, ritenuta capace di risolvere ogni controversia, e quanti la rinnegano, considerandola un crimine contro l’umanità. Due schieramenti “l’un contro l’altro armati” che ribadiscono la ferma convinzione di trovarsi nel vero e nel giusto. 

Sappiamo che non si è mai certi di essere nel vero e nel giusto, ma sappiamo, e siamo pienamente convinti, che l’uomo va rispettato nel suo essere profondo, nella sua umanità, per quello che è, capace di produrre dialogo. Ma questo è un aspetto che va ripreso; per il momento, riteniamo delineare sinteticamente le opposte culture che animano questi schieramenti e, poi, vogliamo richiamare all’attenzione alcuni filosofi e studiosi che hanno affrontato il tema della guerra. Qualche esempio soltanto, perché la sua letteratura è molto vasta. 

La cultura della destra, in Italia e nel mondo, è propensa alla guerra. Neoconservatrice e autoritaria in politica, aperta a tutte le istanze in economia. Il suo liberismo è portato ad avallare qualsiasi cosa torni utile e renda denaro, come il ricorso alla forza delle armi, il consumismo sfrenato, le tecnologie, spingendo la gente (persino la piccola e media borghesia, gli stessi operai e i giovani), delusa dai passati regimi a darsi ad un edonismo egoistico e privo di idealità; edonismo che devia dai veri problemi la gran parte di persone e lascia campo libero a poche per consolidare nel pubblico il loro privato. 

Altra cultura è quella della sinistra che offre una non piacevole immagine di sé, priva di un programma chiaro e unitario, tale da formulare proposte alternative concrete. E questo la porta spesso a litigi interni che la compromettono ad ogni momento. A proposito della guerra, essa non ha espresso una chiara posizione. Inoltre, quando il Consiglio di sicurezza dell’O.N.D. votò la risoluzione che legittimava l’intervento militare alleato, una buona parte del centro sinistra accettò favorevolmente la decisione, la quale fu un segno tangibile di asservimento alla maggiore potenza. Il disorientamento della sinistra è dovuto al fatto che, crollata l’ideologia marxista, deve contrastare la destra su un terreno (quello del capitalismo) che prima le era impraticabile. Sicché, i temi che affronta (l’economia, la giustizia, la scuola, la politica interna), sono gli stessi di quelli dei suoi oppositori. 

Chi si distanzia e differisce, è la sinistra più a sinistra, la radicale, molto sensibile ai grandi temi che travagliano la società italiana e il mondo, e li denuncia (la guerra, la globalizzazione, l’ambiente, i Paesi poveri), schierandosi senza tentennamenti dalla parte dei non-violenti, dei no global, degli ambientalisti, di chi chiede l’azzeramento dei debiti dei Paesi poveri. Sono temi che danno linfa a questa sinistra e la rendono credibile, perché s’avvicina alla politica dell ‘ uomo, denuncia l’emarginazione, gli abusi sconsiderati e gli scempi. 

1. – Al di là di ogni disputa, l’alternativa migliore sarebbe quella di restituire il suo vero ruolo alla politica. Si legga, a proposito, E. Peyretti, La politica è pace, Assisi, Cittadella ed., 1998, pag. 203.

E già siamo nell’ambito della terza cultura, quella dei movimenti, fuori dei canoni della politica ufficiale, sicuramente recepita, ma non accolta, perché va contro i molteplici interessi dei pochi, e semmai utilizzata il più delle volte dalle altre solo per fare retorica o essere di facciata, e non con l’intenzione di volerla attuare. È la cultura dei pacifisti, cioè, di coloro che rifiutano la guerra e contestano l’operato dei governi, i quali trascurano l’aspetto umano della vita, contribuendo a nullificare l’uomo, togliendogli dignità, valori acquisiti nel tempo, princìpi; ma è anche la cultura dei no global, che si battono per un mondo a misura d’uomo, contro l’ammasso di capitali da parte di sempre più agguerrite multinazionali, a scapito dei sempre più poveri. Ed è ancora la cultura degli ambientalisti, che rivendicano un mondo più sano a favore della vita. 

Prima di accennare al dibattito filosofico sulla guerra, va detto che il messaggio di Gesù è contro ogni tipo di guerra; così è anche il messaggio delle altre grandi religioni monoteistiche. Sono il fanatismo, l’intolleranza, i fondamentalismi che generano le guerre di religione, da quelle combattute dai crociati cristiani alle altre dei musulmani. È la situazione contingente che spesso fa deviare dal messaggio d’amore e di bene delle religioni; e questa devianza è dovuta ai condizionamenti politico-religiosi a cui l’uomo è sottoposto. Ne deriva che la storia che produce è un continuum di positività e di negatività. Lo constatiamo nella quotidianità tutti, lo affermano i filosofi, non ultimo G. B. Vico che, però, fa risalire questo intreccio ciclico, sempre allargato, alla Provvidenza, la quale dispiega così i piani della Divina sapienza2. Ma, in un mondo sempre più laicizzato, questa visione della storia cede il posto ad una maggiore consapevolezza delle capacità dell’ uomo, che, rispettoso per quanto voglia della volontà divina, reclama ed afferma in modo deciso il suo libero arbitrio. Sicché, imponendosi con la razionalità che gli è propria, agisce quasi sempre per fini utilitaristici, a cui assoggetta il senso della giustizia3, un modo di intendere la giustizia che non è, però, quella che alita in ciascuno di noi e che, a solo pensarla, abbraccia tutto, l’umano e il divino, la materialità e la spiritualità. Mentre l’ utile, qualunque sia, condiziona la giustizia, anzi la uccide, come afferma Kant4. E con essa la vita, perché l’utile porta a guerre nefaste, anche se si combattono in nome della democrazia e della pace; e i popoli che le subiscono vivono nell’estremo abbandono, nella miseria più nera e nell ‘ indifferenza di tutti. Per quale ragione? Per esportare, o imporre, con la forza delle armi la democrazia e la pace? E, ancora, si può parlare di missione umanitaria quando, partecipando in armi, si è alleati con i Paesi che hanno voluto la guerra? 

Questi interrogativi, che abbiamo sentito e spesso ci siamo posti negli ultimi tempi, sono dovuti ed hanno in sé la crisi dell’uomo, tanto teso a soddisfare i propri bisogni, quanto incapace di vedere e venire incontro a quelli degli altri. Allora, come si può volere la pace o, per lo meno, pretendere di vivere in pace, se non si è propensi ad accettare gli altri, e se si vuole imporre, più che dialogare e cooperare? Perché accanirsi a volere un ordine a senso unico? C’è in tutto questo una ragion d’essere che consiste nell’avvantaggiarsi della disgrazia altrui: più gli altri stanno male, tanto più si consolida la loro sudditanza, dal bisogno e dalla 

2 – G. B. Vico, Principi di Scienza Nuova, in Opere filosofiche (a cura di N. Badaloni – P. Cristofolini), Firenze, Sansoni, pagg. 393-394; 465-467. 

3 – U. Grozio, Prolegomini al diritto della guerra e della pace (a cura di G. Fassò), Napoli, Morano, 1979. 

4 – I. Kant, La metafisica dei costumi (a cura di G. Vidari), Laterza, Roma-Bari, 1983

politica. Chomsky scrive: «Strangolali, affamali; e dopo avrai le tue belle elezioni e tutti non faranno che parlare di quanto sia meravigliosa la democrazia5». Chiamiamola democrazia, se vogliamo! 

Ciò non fa che rispondere ad una politica di potenza che equivale a politica di menzogne: nel nome della democrazia, viene presentato per oro colato ciò che fa comodo a pochi, opponendo un fermo diniego alla coscienza che non può avallare un tale operato. Di qui la guerra e, ancora, il terrorismo. E l’uomo, pur di avere partita vinta, rinuncia alla politica, che è apertura, sapere ascoltare pareri diversi, consolidamento di punti d’incontro, smussamento di contrasti con intese e rapporti volti a pianificarli, e preferisce ricorrere alla guerra, cioè, usa la forza delle armi per imporsi sugli altri ed assoggettarli. 

Giorgio La Pira6 vedeva nel capitalismo l’ origine di tanti mali che affliggono l’ umanità. In effetti, nella corsa sfrenata verso l’accaparramento di nuove fonti di ricchezza, tutto diventa lecito e possibile, come la guerra, e tutto viene considerato un bene di interesse collettivo, quanto è feccia della peggiore specie. 

Agostino, Tommaso, Machiavelli, Moro, per un motivo o per un altro, avallano la teoria della guerra. Per Tommaso, forte dell’autorità di Agostino, una guerra può considerarsi giusta se è avallata dall’ autorità del principe, è sostenuta da giusta causa, e risponde a retta intenzione7. Non così la pensa Erasmo da Rotterdam, che, spirito libero, cosa singolare per i suoi tempi, condanna la guerra in ogni sua forma e parla di tolleranza e di solidarietà. 

«Dalla guerra ha origine il naufragio di ogni cosa buona e straripa il 

mare di tutte le sciagure; inoltre, non c’è malanno che si radica più tenacemente. 

La guerra semina guerra, dalla più piccola nasce la più grande, da 

una ne scaturiscono due da ciò che sembra uno scherzo una cosa seria e 

cruenta, e la pestilenza bellica nata altrove si propaga ai vicini e addirittura 

ai popoli più lontani ed estranei[…]. Il buon principe non intraprenderà mai, 

per nessuna ragione, una guerra se non quando, dopo aver tentato di tutto, 

vedrà che non si può evitare in nessun modo8». 

Ed Erasmo non manca di andare contro quanti (Agostino, Tommaso e tanti altri – Machiavelli già nel 1513 aveva enunciato la sua dottrina ne Il Principe; More nell’ Utopia, che è del 1516 -, pur detestando la guerra, si era pronunciato per la dottrina della guerra giusta) si allontanano dall’insegnamento evangelico, che esclude ogni forma di guerra nel nome della pace e della solidarietà tra gli uomini, e riprenderà questa sua convinzione con incrollabile fede nel Lamento della pace (1517), perché la tolleranza e la convivenza pacifica trovino accoglienza nell’umano sodalizio. 

5 – N. Chomsky, Il golpe silenzioso (Segreti, bugie, crimini e democrazia), Casale M., Ed. PIEMME, 2004, pag. 135. 

6 – G. La Pira, “Lettera a Pio XII”, «Corriere della Sera», 3 gennaio 2004. 

7 – T. d’Aquino, Summa Theologica, II, q. 40, a. 1 (trad. di L. A. Perotto, in Scritti politici), Milano, Massimo, 1985. Nonostante S. Tommaso ammetta la guerra giusta, promossa da uno Stato che abbia validi motivi, essa «deve poggiare su una retta intenzione volta al ripristino della giustizia per far trionfare il bene». La “retta intenzione” nella guerra attuale contro l’Iraq non c’è. Le menzogne che sono state dette e sono a tutti note confermano questa affermazione. 

8 – E. da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano (trad. di A. Morisi Guerra), Roma, Signorelli, 1992.

Negli uomini di grande cultura c’è la ferma convinzione che solo la pace permette di vivere da uomini, solo essa garantisce l’ordine, il rispetto, la prosperità 

nel progresso e nelle umane attività, solo essa consolida i rapporti tra i popoli e promuove i commerci, indispensabili per assicurare il benessere e migliorare la vita di tutti. 

A distanza di più di due secoli gli fa eco Kant, che non solo rifiuta la guerra, ma è contro ogni ingerenza straniera in uno Stato sovrano ed auspica l’ emancipazione dei popoli. Così scrive: 

«Per ciò che riguarda i rapporti stessi tra gli Stati, non può pretendersi 

da uno Stato che esso debba abolire la sua costituzione, anche se dispotica 

(ma che è pur sempre la più forte in rapporto ai nemici esterni), finché 

tale Stato corre il pericolo di essere assorbito da altri Stati: perciò deve 

anche essere permesso rinviare l’attuazione di quel disegno a tempo migliore9». 

Ciò significa che, nel momento in cui un popolo, stanco e deluso del regime che lo governa, comincia a ribellarsi, boicottando e sommuovendo tutto ciò che gli è possibile, per allontanarlo, solo allora può essere motivato l’intervento di una forza multinazionale, a tutela dei diritti dell’uomo e per garantire il ritorno alla normalità. Venendo all’attualità, l’O.N.U. sarebbe potuta intervenire, qualora in Iraq ci fossero state le premesse per farlo. Non c’erano, non è intervenuta ed ha fatto bene. Chi si è arrogato il compito di farlo, fu l’America, scavalcando l’O.N.U., facendole perdere tanta credibilità. Sicché, se prima era auspicata una sua ricostituzione per renderla più democratica e credibile, tanto più ora che è stata delegittimata. Qualcuno dirà che gli Stati Uniti avevano tutte le loro buone ragioni per farlo. Ma, premesso che niente viene dal niente (conferma ciò un principio del Karma, secondo cui, tutte le azioni di bene o di male ritornano al mittente in bene o in male), la guerra, di certo, non risolve i problemi, anzi li inasprisce e li ingrandisce. I fatti attuali lo dimostrano. 

Riprendendo il discorso, qualche decennio dopo la presa di posizione di Kant, un altro tedesco, il generale prussiano Karl von Clausewitz10, stratega ed esperto di arte militare, dopo aver definito la guerra «un atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà», aggiunge che essa è «un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua concatenazione con altri mezzi». Da bravo generale prussiano, che dovette contrastare j disegni imperialistici di Napoleone, Clausewitz non poteva non far sua la realistica lezione di Machiavelli e di Hobbes: aggredire per non essere aggrediti, o prima di essere aggrediti. Ma così l’uomo sembra essere destinato a vivere in un continuo stato di guerra, e non può sperare di essere nella pace, fino a quando, a catena, alla forza delle armi risponderà con la forza. 

Von Clausewitz fu uno dei primi assertori della guerra preventiva. Quella che ha voluto ed ha fatto Bush, evidentemente spinto da un insieme di interessi e da tutta una filosofia che si riallaccia al pensiero di Leo Strauss per tramite di molti suoi seguaci neo-conservatori e vicini all’ amministrazione americana, come il vice Segretario di Stato Paul Wolfowitz. Strauss ritiene che la giustizia sia espressione del più forte e che il governante possa servirsi del potere a proprio vantaggio. È la politica machiavellica che deve impersonare l’astuzia e la giustizia. A senso unico, evidentemente! 

9 – I. Kant, Per la pace perpetua (La pace come destinazione etica e politica dell’umanità), a cura di M. Pancaldi, Roma, Armando ed., 2004, pagg. 107-108. 

10 – K. von Clausewitz, Della guerra (trad. di A. Bollati – E. Canevari), Milano, Mondadori, 1996.

Nell’uomo è più radicata la cultura della guerra che non quella della pace. Questa convinzione nasce dal fatto che la guerra viene considerata come la panacèa contro ogni forma di male, l’unico rimedio capace di dare soluzione alle più intrigate controversie che travagli ano il mondo. Ma in base a quale norma i fautori l’avallano e i governanti la dichiarano? I primi, ritenendosi detentori del vero, vogliono realizzare ed affermare i propri principi, i secondi, forti delle armi, se ne fanno paladini e, nuovi crociati, seminano stragi e morte nel nome di finte idealità e di nutriti interessi. E per raggiungere tali scopi, ricorrono alla menzogna in politica che fornisce alibi e attira dalla loro parte il consenso dei molti. 

Nell’era delle grandi comunicazioni, ora che veramente sono state abbattute le distanze e il mondo diventa sempre più piccolo, non dovrebbero esistere scontri frontali, e tutto dovrebbe svolgersi nel segno del dialogo, che costruisce e mai distrugge. La guerra è guerra, e non può mai essere considerata giusta. Norberto Bobbio11 ha analizzato nei vari aspetti la teoria della guerra giusta, ed è venuto alla conclusione che è impossibile poter delimitare il giusto dall’ ingiusto, perché mancano la “certezza dei criteri di giudizio e l’imparzialità di chi deve giudicare”. Ne deriva che è una teoria che non ha modo di esistere, come tante altre, specie in un tempo in cui le armi sono più che sofisticate, e il danno che si arreca è sempre maggiore del torto subito. Sono coloro che vogliono veder giustificato il loro operato agli occhi delle popolazioni che ricorrono a risoluzioni e si inventano orpelli giustificatori; sono quelli che prima fanno a meno dell’O.N.U. e poi le chiedono di intervenire per vestire di legalità le loro azioni lesive di ogni diritto. 

L’O.N.U. può intervenire per salvaguardare la pace, non può essere faziosa. Se il suo scopo cardine è quello di mantenere la pace tra i popoli, il suo operato deve essere rivolto senza tentennamenti al bene12. Il mantenimento della pace è il suo fine primario, e pertanto è ribadito in quasi tutti gli articoli che lo Statuto contempla. Il VI capitolo riguarda la «soluzione pacifica delle controversie». L’Organizzazione non può soddisfare 1’interesse di un Paese o di alcuni, perché non perseguirebbe il bene di tutti e le sue soluzioni verrebbero a mancare di solidi principi di legalità; cioè, non agirebbe nello spirito per cui fu costituita, come si è verificato in questi ultimi tempi, facendosi coinvolgere da interessi nazionali, perdendo credito nella comunità internazionale. Perciò, fino a quando sarà snobbata e strumentalizzata dalla maggiore potenza, e alcuni Paesi godranno del diritto di veto, essa non potrà mai rispettare i suoi principi; fin quando i Paesi poveri dovranno elemosinare i miseri contributi, essi saranno sempre condizionati nel voto e, di conseguenza, avalleranno ciò che i potenti hanno già deciso. In politica è spesso invocata l’arma del ricatto, così come viene invocata la menzogna. Tommaso, in certe occasioni, come quando il politico non può farne a meno per raggiungere risultati benevoli, l’ammette13; ma è da stare sempre attenti 

11 – N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, Il Mulino, 1984: «La guerra è una procedura giudiziaria in cui maggiore male è inflitto non da chi non ha più diritto ma da chi ha più forza, anzi si verifica la situazione in cui non già la forza è al servizio del diritto, ma il diritto finisce per essere al servizio della forza. In sintesi: una qualsiasi procedura giudiziaria è istituita allo scopo di far vincere chi ha ragione. Ma il risultato della guerra è l’opposto: è quello di dar ragione a chi vince». 

12 – Il 1° punto del cap. I recita: «1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, e a questo fine: prendere misure collettive efficaci per la prevenzione e la cessazione delle minacce alla pace, e per la soppressione degli atti di aggressione o di altre infrazioni della pace e pervenire con mezzi pacifici e conformemente ai principi della giustizia e del diritto internazionale, alla sistemazione o alla soluzione delle controversie internazionali o di quelle situazioni che potrebbero portare ad una violazione della pace…». 

13 – Tommaso d’Aquino, Op. cit.

e diffidare. Lo ha bene intuito Hannah Arendt14, che invita alla prudenza e a guardarci dai mistificatori, i quali spesso usano la menzogna per disorientare e distogliere dalla verità. Come è stato per l’intervento in Iraq. Si è parlato di minaccia irachena, di armi di distruzione di massa, di legami di AlQaeda con il regime di Saddam. Smascherate le menzogne, le vere ragioni vengono intuite, manon rivelate. E, intanto, si continua ad uccidere e a distruggere e, nel nome di ipocrite idealità, alcuni si arrogano il diritto di fare guerra. 

Va ancora ribadito che una guerra, per quanto le motivazioni possano farla avallare, non è mai giusta. E non lo è per tantissime ragioni: considerato che è il contrario della pace, basta questo per dire che essa non è giusta. Per questo va evitata o, per lo meno, vanno tentate tutte le soluzioni possibili perché non si faccia; e, poi, perché, la guerra è un torto nei riguardi di innumerevoli vite innocenti, è tanta distruzione di beni, è un danno spesso irreparabile all’ambiente, è un rinnegare la razionalità, come dire, un regresso dell’ essere-uomo, che si chiude inequivocabilmente nell’egoismo. 

Robert Kagan, in un suo recente libro dal titolo: Il diritto di fare guerra15 difende a spada tratta gli U.S.A., come se fosse un loro diritto fare guerra in nome della collettività («Fin dall’inizio, la politica estera statunitense non ha mirato solo a difendere e promuovere gli interessi materiali nazionali» e, quasi novelli Enea, designati dal fato a reggere i destini del mondo, a perseguire i principi irrinunciabili del liberalismo. Li difende nella scelta della guerra contro l’Iraq e si rammarica che gran parte degli Europei non li abbia seguiti, motivando la sua presa di posizione con la perdita di controllo sulla politica americana16. 

Lasciamo agli altri la possibilità di valutare ancor meglio questi punti di vista. Crediamo, comunque, che la gran parte degli Europei, consapevole delle tante aberranti guerre subite nei secoli nel proprio territorio, e delle altre che tuttora si combattono nel pianeta, si renda ben conto dell’errore che gli Americani continuano a commettere. Riguardo a quanto Kagan scrive, secondo noi: 1) non è questione di perdita di controllo della politica estera americana da parte europea, bensì di attribuzione di senso ai valori e di credibilità17. L’Europa, che ha dietro di sé una cultura millenaria, ha radicati nel suo senso originario i principi di libertà, di democrazia, di uguaglianza e, anche con difficoltà, li persegue. Non così è per l’America, che veste di utilitarismo politico-economico questi valori e li svuota di senso. È questa perdita di senso che disorienta l’Europa e il mondo. 2) Gli Stati Uniti perseguono il liberalismo universale a parole, e non sono credibili; nei fatti, impongono agli altri la loro visione del mondo, come è stato in Afghanistan, in Iraq e in altri Paesi, e quelli che non l’accettano, sono potenziali nemici, suscettibili di andare ad allungare la lista degli “Stati canaglia”. 

14 – H. Arendt: «La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L’abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata fra le virtù politiche e le bugie sono sempre state considerate giustificate negli affari politici». (Politica e menzogna, 1972. Trad. it. Milano, Sugarco, 1985). 

15 – R. Kagan, Il diritto di fare guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità (trad. it. di S. Giuliese), Milano, Mondadori, 2004, pag. 55. 

16 – Id., cit., pagg. 16-18: «…evidenziarono una crescente preoccupazione per i problemi intrinseci alla nuova struttura, in particolar modo la rapida perdita di controllo da parte dell’Europa. […] Gli europei non temono che gli Stati Uniti vogliano controllarli; sono solo consapevoli di aver perso il controllo su di essi e, di conseguenza, sulla conduzione degli affari internazionali». 

17 – A proposito, cfr. il discorso di Dominique de Villepin, ministro degli esteri francese, tenuto al Consiglio di Sicurezza delle N.U. il 3 marzo 2003.

La verità è che, come la storia insegna, il modo unipolare di condurre la politica internazionale è stato nocivo a tutti gli imperi del passato ed è nocivo all’America, che da decenni ormai si è imbarcata in guerre che la destabilizzano all’estero e nei suoi Stati. La crisi economica, le pressioni dei grandi trust, la perdita del potere di acquisto dei salari, la disoccupazione, l’insicurezza e la criminalità, oltremodo diffusa, questa, tra i giovani, offrono un’immagine non tanto bella. Ma ai potenti interessa la potenza, poco importa la miseria dei tanti, anzi, se ne fanno scudo per portare avanti i loro disegni, perché la miseria, come le stragi, alimentano la retorica, che rende credibile il loro operato, e ingrandiscono il nazionalismo. 

Intanto, molti intellettuali americani hanno preso le distanze e criticano l’amministrazione Bush. Interessante, a proposito, è il contributo del sociologo Michael Mann, che passa in rassegna la politica americana di questi ultimi anni e suggerisce un cambiamento di rotta, se non vuole evitare il peggio, cioè, il crollo, se non un disastro per sé e per il mondo. Tra l’altro, scrive: 

«È un Impero incoerente, con un militarismo superattivo e arrogantemente 

sicuro di sé che finirà per distruggersi. Per compensare i propri limiti, 

i nuovi imperialisti si attaccano con accanimento crescente all’unico elemento 

di forza di cui dispongono in abbondanza: la devastazione offensiva 

militare. La mia conclusione è che il nuovo imperialismo americano sta 

diventando il nuovo militarismo americano. Ma non basta all’Impero. Chi 

di spada ferisce … 18». 

Difficile dire, a questo punto, fino a quanto la caduta del Muro di Berlino abbia giovato all’ umanità! È certo che in questi ultimi decenni stiamo assistendo a guerre disumane dettate da una folle superbia e da una tracotanza inaudita, la hybris che rode gli animi e non s’arresta, anzi, inebria ed esalta chi vi si trova dentro, da soldati o da resistenti, e istiga al sangue e agli orrori. Chris Hedges, come soldato prima e poi come giornalista, ha potuto sperimentare questo nelle sue varie missioni di guerra e lo descrive nel suo utile, e certamente scomodo, libro Il fascino oscuro della guerra. 

«Quando assumiamo la droga della guerra proviamo esattamente ciò 

che provano i nostri nemici, compresi i fondamentalisti islamici che 

definiamo alieni, barbari e incivili. È lo stesso narcotico che anch’ io 

ho consumato per anni. E come per ogni tossicodipendente in fase di 

recupero, una parte di me continua ad avere nostalgia della semplicità 

e dell’ euforia della guerra … 19». 

La guerra abitua ad uccidere e a guardare in faccia la morte, trascina nel baratro come una droga e per molti è come il richiamo della foresta; e l’ individuo cessa di essere, perché in essa non c’è posto per il sentimento e la morale. Il soldato e il combattente si spogliano della loro umanità e nel loro bruto cinismo commettono le atrocità più inaudite di cui non sempre veniamo a conoscenza, perché ben poco sfugge alla censura di guerra. Ogni notizia e le stesse immagini vengono filtrate, e non è facile farsi idea chiara della situazione. La pubblicità, i mezzi di informazione, la pressione che si esercita sui giornalisti devono, direttamente o 

18 – M. Mann, L’Impero impotente (trad. it. di Gianna Lonza), Casale M., Ed. PIEMME, pag. 26. 

19 – C. Hedges, Il fascino oscuro della guerra (trad. di M. G. Cavallo), Roma-Bari, Ed. Laterza, 2004, pag. 7. 

non, offuscare la verità. Si conoscono spesso le malefatte del nemico, le perdite inflittegli, ma non le nostre o quelle che subiamo. Ogni giorno conosciamo il numero di morti dei resistenti e non quello dei morti tra gli occupanti. 

C’è, inoltre, uno scatenamento di forze che dà dell’antidemocratico e fanatico estremista a chi, per dire come la pensa e voler fare gli interessi di tutti, dice e afferma il contrario. Anche questo va inscritto nella cultura della guerra! Sicché, per caso veniamo informati dei maltrattamenti ai prigionieri, mentre fanno vedere le stragi delle bombe irachene, e non dei bombardamenti alleati. E se filtra qualcosa che oscura la propria immagine, viene considerato un caso isolato o un incidente. Intanto tanti innocenti perdono la vita e le loro morti passano inosservate. Cosa importa degli altri? 

«Noi piangiamo le vittime degli attacchi alle Torri gemelle. Le loro 

foto tappezzano i muri della metropolitana. Piangiamo i vigili del fuoco, 

ed è giusto. Ma siamo ciechi alle sofferenze dei tanti che in Medio Oriente 

abbiamo schiacciato insieme ai nostri alleati, ignorandone per decenni diritti. 

Sembra che loro non contino niente20». 

La cultura della guerra non accetta l’Altro, se non in condizioni di inferiorità. Nella filosofia contemporanea il ricorso all’ Altro è abbastanza ricorrente21. Il Me vive in rapporto con l’Altro, e non c’è esclusione; diversamente si cade nell’egoismo, e l’egoismo genera l’odio, che è alla base di ogni dissidio e del terrorismo internazionale, il quale non ha niente a che vedere con quello nazionale, perché questo è relativamente facile da individuare e colpire, quello è un fantasma che accomuna nell’odio quanti di diverse nazionalità hanno visto invaso il loro Paese e distrutto; è un irriducibile fantasma che colpisce con la stessa crudeltà con cui altri hanno colpito e colpiscono; e in esso non c’è affatto nichilismo, a differenza di quanto ritiene André Glucksmann22: c’è senz’ altro la ferma volontà di servirsi di qualsiasi mezzo, anche il più nefasto e disumano, pur di vedere i propri Paesi di origine riscattati e resi liberi dall’ingerenza straniera. Cos’altro possono fare i tanti gruppi nazionalisti disseminati per il mondo per fermare il terrorismo degli Stati? Allora, anziché muovere una crociata contro l’ internazionalismo terroristico, non sarebbe più proficuo sradicare le cause? Non sarebbe un bene per tutti? Certo. Ma nessuno vuole la soluzione. La crociata al terrorismo alimenta la retorica della guerra, e i suoi responsabili hanno una ragione in più per spingere altri Paesi a mettersi dalla loro parte. 

Riprendendo quanto si affermava all’inizio, questo è il risultato di un uso improprio della politica, che guarda al particolare e non accetta l’Altro; è un diniego della politica che, innanzitutto, è dialogo che avvicina e non divide. Ma oggi non si dialoga; si sproloquia ed agisce solo dietro la spinta di denaro o di un utile. Oggi l’uomo ha perso l’uso della parola e non è capace di rapportarsi agli 

20 – Op. cit., pag. 17. 

21 – Tanti filosofi hanno rivolto la loro attenzione all’argomento che si rivela molto interessante e ricco di approcci. Cfr., tra gli altri, E. Lévinas, Difficile libertà (trad. it. di G. Penati), Brescia, La Scuola, 2000. 

22 – Il filosofo francese ha presentato la relazione «L’escalation di violenza da Hitler a Bin Laden» al Convegno “Ulisse o Titanic? Libertà e distruzione nella cultura contemporanea”, tenutosi a Palermo il 9 e il 10 ottobre 2004. La relazione è stata pubblicata sul “Giornale di Sicilia”. Glucksmann discorre a senso unico e, come tanti, non si pone il problema dell’Altro. 

23 – G. Monbiot, L’era del consenso (Manifesto per un nuovo ordine mondiale), trad. it. di E. Valdrè, Milano, Lonanesi, 2004.

altri. Eppure si dice portatore di pace, di giustizia, di democrazia, mentre calpesta le leggi elementari della democrazia, non cerca la giustizia, rinnega la pace. In cambio, è pronto ad ogni guerra per sete di dominio e di ricchezza. 

A questo punto, ci si chiede: cosa si può fare? È certo che non si può rimanere passivi; perciò, bisogna parlare di tutto questo per dar vita a movimenti di massa che, se non mandino a casa, condizionino perlomeno i governi. Fare opera di divulgazione significa appropriarsi la politica, comunicare con gli altri, parlare, scambiare idee, formulare proposte, che vuol dire allargare il consenso, creare le premesse per un cambiamento radicale, a favore di un nuovo ordine mondiale, come lo ha bene delineato Monbiot23, con cifre alla mano (e non è idealismo), in cui l’uomo possa essere se stesso e in condizioni adeguate ai suoi bisogni. Che vuol dire riprendersi l’umanità, riconoscersi tra pari ed essere nella pace, contro ogni forma di cieco egoismo e di spietata brutalità delle guerre dei nostri giorni. 

Salvatore Vecchio




L’imperdonabile errore di Cagliostro

L’imperdonabile errore di Cagliostro

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 41-46.




 L’Umanesimo siciliano 

Nella vita sociale e nella cultura siciliana il passaggio dal Regno al Viceregno non fu senza ripercussioni negative. Innanzitutto fu negativo il fatto che era venuta meno la Corte, da sempre centro di irradiazione culturale: e se già nel primo Quattrocento l’Umanesimo peninsulare poteva dirsi affermato, non così fu nell’Isola, perché esso ricevette decisivo impulso solo con la salita al trono di Napoli di Alfonso V nel 1442. 

Le vicissitudini politiche e le difficoltà economico-sociali dovute alle guerre e alle varie calamità, il sorgere di nuove professioni, avevano attutito l’interesse verso gli antichi, ma non l’avevano spento del tutto. Se sotto la dominazione araba la Sicilia aveva favorito lo scambio tra culture diverse e aveva fatto parlare di un suo protoumanesimo fin dal tempo dei Normanni, e se il fervido studio, la ricerca e la conoscenza dei classici, le traduzioni dal greco in latino, o dall’arabo in latino, furono continuati dagli Svevi, ora, ravvivati dal mecenatismo di Alfonso il Magnanimo, lo studio e l’amore per i classici si tradussero come in un modello di vita a cui guardare, la molla da cui sarebbe partita la spinta della conoscenza dei moderni. 

Negli uomini più geniali gli studi umanistici non costituirono un mondo a sé, non furono solo imitazione, ma un momento di riflessione, di pensosità, come quella che traspare dai volti di Antonello da Messina, che sembra voler penetrare la problematicità della vita. 

Ma il fatto che la Sicilia era priva della Corte e la cultura monopolio delle città (Messina prima di tutte, e poi Palermo, Catania e le altre minori) fece sì che gli interessi venissero convogliati nel versante giuridico-scientifico, cioè, verso studi che avessero una maggiore attinenza con la vita pratica, in modo da soddisfare le esigenze dei signori e delle nuove classi sociali emergenti, quelle dei borghesi e dei professionisti. 

L’università di Catania, istituita da Alfonso nel 1444 fu elargitrice di sapere scientifico e giuridico, ma non di quello umanistico. I letterati, per approfondire i loro studi e divulgare le loro opere, furono costretti ad andare fuori dalla Sicilia. Poi, magari, alcuni ritornavano, come Caio Caloria Ponzio o Giovanni Marrasio, ma molti andavano per non tornare più. Questo costituì un motivo di impoverimento della cultura siciliana che vedeva rimpicciolita la schiera dei suoi letterati, ma fu anche un modo per tenersi collegata all’Italia e all’Europa, come dimostrano i carteggi tra letterati siciliani e uomini di cultura del Continente. 

Le città siciliane, economicamente e socialmente più avanzate detenevano – dicevamo – il monopolio della cultura e se ne servivano a tutto vantaggio dei loro interessi. Essendo molto vivo il campanilismo tra esse, si voleva offrire un’immagine di sé il più possibile evoluta e aperta a tutte le istanze. Questo fece si che esse agevolassero gli studenti, dando ai più promettenti borse di studio per consentire loro la frequenza delle università in altre città italiane. Questi investimenti nella cultura si traducevano nella possibilità di avere nel giro di pochi anni uomini preparati e abili anche nell’amministrare le loro città, come fu per Antonio Cassarino o per Giovanni Naso da Corleone, i quali ricoprirono la carica di segretari comunali a Palermo. 

I letterati siciliani che operarono in Sicilia dovettero sostanzialmente fare i conti con la realtà cittadina. Per fare un nome, citiamo Giovanni Marrasio di Noto, nei cui scritti (quelli degli ultimi anni) è evidente il lavorio esistenziale della società siciliana. Non così fu per gli altri che, pur mantenendo sempre i contatti con la Sicilia, rimasero fuori. Sicché il loro classicismo è impregnato di una visione elegiaca della vita verso cui furono proiettati. Antonio Beccadelli il Panormita o Giovanni Aurispa, furono instancabili propagatori di studi classici.; ad Aurispa dobbiamo la conoscenza di gran parte degli autori greci per averne portati i codici da Costantinopoli. 

L’amore per gli antichi fu molto vivo in Sicilia. La mentalità dell’uomo nuovo era già aperta ad altre strade ed era sentita la necessità di adeguarvisi. Dovunque sorsero scuole che ebbero maestri insigni e scolari altrettanto validi da succedere ai loro maestri nell’insegnamento o a portare fuori dell’Isola la loro dottrina. Alcuni ebbero onori e riconoscimenti tali da divenire confidenti di re (il Panormita nella corte di Alfonso e di Ferdinando a Napoli, o Aurispa, che fu segretario dell’imperatore Giovanni Paleologo di Costantinopoli, e lo stesso Pietro Ransano); altri tennero le cattedre dei maggiori atenei del tempo (Filippo Barberis, che ebbe interessi un po’ in tutte le discipline umanistiche, Antonio Cassarino e Giovanni Naso); altri ancora portarono l’Umanesimo in Europa. È il caso di Lucio Marineo e di Lucio Flaminio, che andarono ad insegnare a Salamanca, di Pietro Ransano, che fu ambasciatore in Francia e in Ungheria, dove rimase diversi anni, di Cataldo Parisio Siculo, che insegnò in Portogallo, di Giovanni Antonio Provina, che andò fino in Irlanda e tanti ancora. 

Abbiamo voluto ricordare alcuni nomi per dare un’idea della vivacità culturale del Quattrocento siciliano, che non sarebbe potuto essere tale, se in Sicilia non ci fossero state quelle premesse indispensabili a favorire gli studi. E, in verità, Messina e Palermo furono due poli di indiscussa cultura; l’una perché fu aperta ai commerci e per essi fu luogo di incontri e di scambi editoriali, l’altra perché non solo era la sede vicereale e, quindi, centro di attrattiva politica e di rigurgito di idee, anche perché ebbe vivo quel senso di primato che le derivava dalla memoria della gloria passata, per cui cercò di adeguarsi alle nuove realtà, chiamando a sé uomini di provata cultura, come Giovanni Naso, fatto venire dallo studio di Napoli con la promessa di un lauto stipendio. 

Non meno contavano nel panorama culturale siciliano gli altri centri minori, che vantavano nomi di tutto rispetto: da Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa, che vide in opera Tommaso Ciaula, a Marsala, che fu sede prestigiosa di studi umanistici (Schifaldo, Capozio e, più tardi, Colocasio). Da Trapani a Mazara del Vallo, da Agrigento ad Alcamo, un po’ dovunque, si studiò greco e latino, si emularono gli antichi e si scrisse nella loro lingua, trascurando la propria, che nel secolo precedente aveva raggiunto nella prosa una dignità letteraria invidiabile. 

Il volgare siciliano venne così accantonato, a tutto vantaggio del toscano emergente; esso fu usato sia in prosa che in poesia per soddisfare solo l’esigenza della cultura di interesse popolare, specialmente quella religiosa, ma non fu più curato come nel passato e perse a poco a poco in dignità. Anche perché l’influsso del toscano, con l’introduzione della stampa, cominciò ad essere più insistente, e gli uomini del tempo non si resero consapevolmente conto di quanto stesse avvenendo a scapito della loro lingua. 

Tirando le conclusioni, in Sicilia nel Quattrocento ci furono un’attività culturale e una ripresa degli studi che la fecero uscire dall’ambiente angusto regionale e le aprirono la prospettiva di maggiori contatti con la terraferma che, se da un lato le costò la perdita del primato in campo linguistico, dall’altro le consenti un maggiore utilizzo delle proprie energie intellettuali che in termini culturali si tradusse nel dare un’immagine diversa di sé e nel sapersi imporre con uomini preparati in ogni campo dello scibile, i quali occuparono in Italia e in Europa cattedre e cariche prestigiosissime. 

Ne risulta così un quadro variegato, ricco di stimoli, contrariamente a quanto si possa pensare di una Sicilia relegata entro angusti limiti culturali e chiusa dai suoi mari. Era il vento della nuova età che anche in quest’estremo lembo dell’Occidente, crocevia di incontri e di scontri con l’Oriente, portava la brezza di un rinnovamento radicale che investiva tutti e tutto nel segno di una fiducia incondizionata nell’uomo e nelle sue scoperte che di lì a poco dovevano rivoluzionare per sempre il vecchio mondo. 

*** 

Da alcuni nomi che già abbiamo menzionato risulta chiaro che la Sicilia partecipò con una presenza abbastanza massiccia all’Umanesimo italiano ed europeo, contribuendo in larga misura alla diffusione e alla conoscenza della cultura classica. 

Operando in Italia e in Europa, gli Umanisti siciliani, facendo propri i temi ricorrenti, scrissero le loro opere in latino, indirizzandole alle persone colte. Quelli che, invece, restarono in patria, dovettero adeguarsi alla realtà siciliana, dove operavano anche sporadiche figure di mecenati, come Guglielmo Raimondo e Giovanni Tommaso, conti di Adernò. 

Gli Umanisti del primo Quattrocento, regnante Alfonso il Magnanimo (1416-1458), si sentirono principalmente attratti dal clima culturale italiano, e molti di essi che avevano studiato nelle università del Continente spesso preferirono rimanervi ad occupare le cattedre più importanti o, ritornando in Sicilia, mantenere sempre i contatti con gli amici che avevano lasciato, come era stato per Tommaso Caloria che, appunto, mantenne un 

rapporto epistolare con l’amico Petrarca, e come fu per Marrasio e altri che rientrarono in patria. Ci fu un cambiamento di tendenza quando, nel secondo Quattrocento, la Spagna cominciò a farsi più presente. Allora furono molti quelli che abbandonarono la Sicilia o le cattedre universitarie italiane per andare in Spagna o in altri Paesi europei. 

Alla corte di Alfonso il Magnanimo giunse, dopo aver girato mezza Italia per studio e per bisogno innato di conoscere uomini e luoghi, Antonio Beccadelli, detto il Panormita (chiamato anche Bologna per l’origine bolognese della sua famiglia, nato a Palermo nel 1394), che, figura irrequieta e intraprendente di uomo e di letterato, andò alla ricerca di codici antichi, incurante delle spese, e li studiò con l’amore proprio dei suoi tempi. 

Non ancora ventenne, si trasferi a Bologna e poi a Firenze, dove conobbe e divenne amico di Giovanni Aurispa, che lo inseri nell’ambiente letterario e lo raccomandò al pontefice Martino V, che nel 1419 si trovava in quella città. Di lì passò a Padova, a Pavia, a Roma, insegnando latino e greco e continuando gli studi giuridici, e a Siena, dove scrisse i componimenti che fanno parte dell’Hennaphroditus, pubblicato nel 1425. 

Ben presto divenne amico del duca Filippo Maria Visconti che nel 1429 lo volle insegnante nello Studio di Pavia. Un soggiorno, questo, che risultò proficuo, perché qui portò a termine il commento a otto commedie di Plauto e buona parte delle Epistolae gallicae, che rispecchiano la vita spensierata del loro autore, scritte in un latino semplice e piacevole, tra le gioie e i divertimenti. Lo stesso stato d’animo lo ritroviamo nelle Epistolae campanae, scritte a Napoli, quando già era segretario di re Alfonso. Nel 1432 fu a Parma e qui ricevette la corona d’alloro dall’imperatore Sigismondo. 

Stancatosi dell’insegnamento, abbandonò Pavia e finì per mettersi al servizio di Alfonso. Ma potè trovare la tranquillità economica e spirituale quando questi si impadronì di Napoli. Da allora il Panormita fu onorato e ammirato per la sua intensa attività culturale in seno al “Portico Antoniano”, da lui fondato e che dopo la sua morte, avvenuta nel 1471, prese il nome di “Accademia Pontaniana”, dal nome del suo successore, Giovanni Pontano. 

Al periodo napoletano, oltre alle epistole menzionate, risale l’opera, scritta nel 1455, De dictis et factis Alphonsi regis, che è un omaggio al suo potente benefattore e che raccoglie aneddoti e sentenze che mettono in risalto la disponibilità e la bontà d’animo del re. Tutto in un latino elegante e agile, ma non ha più niente della poesia gioiosa e piena di vita dell’Hennaphroditus e delle Epistolae. La tranquillità economica gli fece perdere lo slancio interiore, ricco di arguzia e propenso all’amore, proprio di uno che aveva saputo modernamente conciliare la piacevole innamorata poesia di Catullo e gli strali infuocati di Marziale. 

Palermitani e amici di Antonio Beccadelli, anch’essi rappresentanti di spicco dell’Umanesimo non soltanto meridionale e siciliano, furono Ransano (1428-1492) e Gravina (1453-1528). Pietro Ransano, fine letterato, storico e teologo, fu vescovo di Lucera, dove morì, e appartenne all’ordine domenicano. Nel 1488, e fino al 1490, fu inviato da Ferdinando come ambasciatore in Ungherìa presso la corte di Mattia Corvino. A questo periodo si riferisce l’Epitome rerum hungaricarum. 

Pietro Gravina, socio dell’ “Accademia Pontaniana” e vicino per personalità e interessi al Panormita, fu filosofo, abile oratore e poeta. Gli piacque vivere gaiamente, lontano dalle contese e dalle malignità, curando, piuttosto, molto le amicizie, tra cui quelle di letterati e poeti, come Pontano e Sannazaro, e non disdegnando di rivolgere le sue lodi ora a questo ora a quel protettore per garantirsi sempre, senza preoccupazioni di sorta, una vita agiata da gaudente. Per questo fu stimato e amato dal suo mecenate, Giovan Francesco di Capua, conte di Palena, che prima di morire lo nominò erede dei suoi beni e gli pubblicò le poesie. 

Pietro Gravina scrisse libri di Frammenti, Selve, Elegie, Epigrammi (pubblicati nell’opera Carmina), un Carme epico per Consalvo di Cordova, Epistolae et orationes, e tutte in un latino scorrevole e facile, con qua e là spunti di vera poesia, mentre nella gran parte dei versi abbonda di loquacità, dandosi più all’estro parolaio che ai veri sentimenti. 

Di Noto, a cui dobbiamo tanti umanisti, fu Giovanni Aurispa (13761459), instancabile ricercatore in Italia e a Costantinopoli di classici greci e grande ellenista. A lui si deve l’aver fatto conoscere all’Occidente la quasi totalità della letteratura greca (Platone, gli storici, l’Antologia Palatina e tantissimi altri autori) rimasta per lunghi secoli inesplorata. Di qui i suoi frequenti viaggi nelle varie città italiane (Firenze, Bologna, Venezia, Ferrara, città dove morì). viaggi, questi, che gli fruttarono il ritrovamento e l’acquisto di centinaia di codici e l’ammirazione di tanti estimatori e letterati, come Bracciolini, Valla, Filelfo, Ambrogio Camaldolese, che se lo contesero, chiamandolo ad insegnare nelle loro università. Il Panormita lo invitò insistentemente a Napoli, per farlo socio del suo sodalizio, offrendogli l’ospitalità e gli onori del re, e 

Ambrogio Camaldolese lo aiutò fmanziariamente ad acquistare molti codici. 

L’insegnamento, il commercio e la cura che ebbe per gli antichi lo distolsero da una produzione propria che si ridusse ad alcune traduzioni dal greco in latino e a pochi componimenti e letture, sempre in latino, che ne evidenziano la forte personalità, la ben ferrata conoscenza linguistica e il raggiunto equilibrio umano e spirituale. 

Sempre Noto diede i natali a tanti umanisti, alcuni dei quali già incontrati, come Riginaldo Montoro, che insegnò a Salamanca, altri, come Giovanni Antonio Provina, letterato e storico, al servizio di re Ferdinando il Cattolico, Antonio Cassarino e Giovanni Marrasio. 

Antonio Cassarino, che fu insegnante a Palermo (era nato nel 1379, e morto a Genova nel 1444, quando, per sfuggire a un tumulto vandalico popolare e porsi in salvo, cadde da una finestra), si trasferì prima a Costantinopoli per perfezionarsi nella lingua, e qui le sue lezioni furono seguite da un folto pubblico e vennero lodate dallo stesso Imperatore; poi, ritornato in Italia, emulo del concittadino Aurispa, passò ad insegnare nelle più importanti città, traducendo i classici, ma scrivendo poco di proprio. Di lui ci rimangono le traduzioni di Plutarco e della Repubblica e della Politica di Platone, con alcune lettere e orazioni. 

Poeta, amico di Leonardo Bruni e di Maffeo Vegio, fu Giovanni Marrasio, nato nei primi anni del ‘400 e morto probabilmente nel 1471, anno della morte del Panormita, che ne apprese la notizia e ne fu addolorato. Del poco che si sa di lui, dalla natia Noto si recò per studio a Siena, dove conobbe Antonio Beccadelli e nel 1425 compose l’Angelinetum, dedicato ad Angelina Piccolomini, divenendo famoso più del dovuto, non tanto per il merito poetico e la sua conoscenza del latino, quanto per il tema amoroso e per la polemica che l’operetta suscitò. Da Siena poi passò a Firenze, a Padova e a Ferrara. Sappiamo anche che verso il 1450 prese gli ordini minori e che poi ritornò in Sicilia, dove il contatto con l’ambiente e la diversa realtà segnano nella sua poesia una svolta che gli fece abbandonare il tono classico d’ispirazione petrarchesca per una più pacata partecipe accettazione della vita. 

Altri Umanisti siciliani furono il corleonese Giovanni Naso, autore oltre che delle Consuetudini della città di Palermo, di un poema in lode di re Giovanni II, in occasione della vittoria su Barcellona che gli offri lo spunto per esaltare Palermo e le sue origini, e di alcuni componimenti di ispirazione beccadelliana, in cui, comunque, evidenzia una buona conoscenza tecnica modellata sull’opera di Virgilio; Giacomo Mirabella, ellenista, autore della traduzione A Nicode, di Isocrate; il domenicano Tommaso Schifaldo (1430?1494?), marsalese, insegnante in diverse città dell’Isola, filologo, poeta e autore di opere storiche; fra Filippo Barberis (1426-1487), anch’egli domenicano, di Siracusa, e, come lo Schifaldo, versatile e proficuo autore di opere filosofiche e di storia sacra e profana (Virorum illustrium cronica). 

Furono famosi i suoi Opuscula, di varia argomentazione. Con essi ricordiamo l’agrigentino Nicolò Valla e Antonio Flaminio di Mineo, operante, quest’ultimo, a Roma nella seconda metà del secolo, dove tenne una scuola di latino e greco. Di lui ci sono giunte due lettere, mentre di Valla, che soggiornò anche per diverso tempo a Roma, abbiamo alcuni componimenti in prosa e in versi e una grammatica, scritti in latino e un Vocabolarium vulgare cum latino. Il Vocabolarium fu pubblicato a Firenze nel 1500, e fu il primo vocabolario in dialetto siciliano che, però, riproduce in gran parte le voci della parlata di Agrigento. 

Se questi e altri non ricordati furono gli Umanisti siciliani che svolsero la loro opera in Italia e in Sicilia molti furono quelli che portarono l’Umanesimo nella Penisola Iberica e in Europa. Lo stesso fra Filippo Barberis andò fino in Ungheria, alla corte di Mattia Corvino, e nella Spagna di re Giovanni, ma, mentre egli rientrò, altri preferirono rimanere all’estero. E’ il caso di Lucio Marineo, da Vizzini, che dopo aver studiato alla scuola di Giovanni Naso, si recò a Roma, dove divenne amico e frequentò l’Accademia di Giulio Pomponio Leto, e di qui in Spagna, diffondendo con le sue opere (fu autore di carmi in latino e di una grammatica) e il suo insegnamento l’Umanesimo siciliano. 

Suoi colleghi di insegnamento a Salamanca furono Pietro Santeramo, di Messina; Lucio Flaminio, autore di orazioni, epistole e di un commento a Plinio, e Parisio Cataldo Siculo, che andò ad insegnare in Portogallo, giurista e autore di componimenti poetici in latino. 

Vanno particolarmente ricordati per le loro opere il mazarese Angelo 

Callimaco, autore di lettere e di un componimento, De Laudibus Messanae, dove elogia Messina e la Sicilia, ricorrendo al mito e alla storia; e Priamo 

Capozio, di Marsala, che si spinse fino in Germania, insegnando a Dresda e a Lipsia, e fu autore di un poemetto dal titolo Federiceide, composto e pubblicato a Lipsia nel 1488. Una recente edizione si deve al compianto amico Giacomo Sammartano, corredata di traduzione e delle poche notizie biografiche che di lui si conoscono. 

Capozio, rientrato a Palermo probabilmente nel 1511, occupò la carica di avvocato fiscale; questa carica fu causa della sua morte, avvenuta nel 1517, durante la sommossa di Luca Squarcialupo 

La Federiceide fu dedicata al suo grande mecenate, Federico III di Sassonia, discendente di Federico, margravio di Meissen, fondatore della dinastia. Capozio narra le imprese di quest’ultimo, vincitore di Adolfo di Germania che ne ostacolava l’ascesa al trono.

È un componimento encomiastico in esametri latini di bella fattura con spunti paesaggistici e con riferimenti biblico-mitologici che bene conciliano l’elemento pagano a quello cristiano. Il poemetto ha una sua importanza storica rilevante, perché, oltre a costituire un documento dell’Umanesimo siciliano in terra europea, esso s’inquadra in un filone artistico preciso, quello della poesia epica, che tanto posto occupa nella letteratura rinascimentale. L’Umanesimo siciliano non fu, come si può ben notare, limitato alle grandi città dell’Isola; anche le più piccole (Vizzini, Mineo, o le più distanti dai centri di influenza) furono vivide di cultura (è il caso di Mazara, di Marsala, della stessa Alcamo) che non restò entro i confini della Sicilia, ma ebbe un’ampia risonanza in Italia e in tutta l’Europa. 

Salvatore Vecchio 

NOTA BIBLIOGRAFICA 

Per un ulteriore approfondimento, si consultino: 
F. De Stefano, Storia della Sicilia dal sec. XI al sec. XIX, Bari, 1948; 
V. Titone, La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia, Bologna, 1955; 
L. Natoli, La civiltà siciliana del sec. XI, Palermo, 1895; 
S. Sala, La Sicilia e l’Umanesimo, in <<Archivio Storico Siciliano», 1933; 
G. Sammartano, L’Umanesimo in Sicilia, in «Umanisti marsalesi. Tommaso Schifaldo e 
Vincenzo Colocasio», Marsala, 1969.

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pagg. 5-13.




Ionesco. Tra la vita e il sogno 

 Lo spettatore o il lettore, sulle prime, dinanzi ad un’opera di Ionesco, non sa se quello che gli viene prospettato è un sogno , o un insieme di sogni, oppure la trasposizione personalissima della realtà su un piano puramente surreale. Se ne renderà subito conto, però. È certo che in Ionesco c’è una dosata commistione di vita e di sogno, di realtà, quale essa è, e come gli si presenta, e di aspirazioni. Alla base di tutta l’opera ioneschiana c’è questo, e nel tendere verso l’altro va vista e spiegata la tensione che l’attraversa, magari manifestantesi sotto forma di contenuta comicità o di disarmante drammaticità. 

Questo modo di vedere la vita e le cose Ionesco se lo è portato dietro per sempre ed è sintomatico di tutta la sua produzione. Sicuramente, però, le cause vanno ricercate nell’ambiente familiare della sua infanzia e nel clima socio-politico incerto caratterizzante quegli anni di guerra. Fatto sta che un momento veramente felice, che ricorderà con nostalgia, lo vivrà lontano dai suoi e lontano da Parigi, alla Chapelle-Anthenaise, in Maienna, quando verrà affidato, assieme alla sorella Marilena, ad una famiglia di contadini. Ionesco non dimenticherà mai quel soggiorno e questo luogo di sogno, anzi per lui costituirà un “paradiso perduto” a cui guarderà sempre con i suoi occhi adulti. 

* 

*     * 

Era nato a Slatina, in Romania, nel 1909, da Eugenio Ionesco, e da Teresa Ipcar, francese. Già, all’età di due anni fu portato a Parigi, dove il padre avrebbe dovuto preparare una tesi in diritto. Il piccolo Eugenio passò i primi anni, immerso nei suoi giuochi di bambino, con la madre e la sorella, anche se ben presto dovette conoscere le brutture della vita e affrontare tante difficoltà di ordine materiale e carenze di affetto, perché il padre nel 1916 ritornò a Bucarest, lasciando la famigliola, dove si risposò con la scusa di essere stato lasciato dalla moglie, incurante dei figli. È del 1917, nel bel mezzo della guerra, il soggiorno alla Chapelle-Anthenaise, nella fattoria chiamata “Il mulino”: 

«A otto, nove, dieci anni, quando soggiornavo al Mulino tutto era gioia, tutto era presenza. Le stagioni sembravano dispiegarsi nello spazio. Il mondo era un decoro, con i colori ora scuri ora chiari, con i fiori e le erbe che apparivano e disparivano, venendo verso di noi, e poi allontanandosi, sciogliendosi sotto i nostri occhi, tanto che noi stessi restavamo al nostro posto, guardando passare il tempo, pur rimanendone fuori(1)». 

Un mondo di sogno che gli rimarrà per sempre impresso – dicevamo e che ricorderà qua e là nei suoi scritti. A parte nel racconto La vase, da cui Heinz von’Cramer realizzò un film, girato sul posto e che ebbe come attore lo stesso lonesco, c’è l’aspirazione al mondo dell’infanzia nella Soif et la Faim, dove Jean, il protagonista, anela, ma invano, alla felicità. 

Alla Chapelle-Anthenaise rimase due anni appena, fino al 1919, quando dovette fare ritorno a Parigi, città che avrebbe dovuto lasciare sul finire del 1922 per raggiungere il padre a Bucarest, dove il giovane avrebbe studiato il rumeno. Qui portò a termine i suoi studi medi e nel 1929 si iscrisse alla facoltà di lettere di Bucarest. Ben presto però i rapporti con il padre e la matrigna divennero tesi, tanto che andò ad abitare con la madre, che intanto era anche lei ritornata a Bucarest. 

«Padre, non ci siamo mai capiti… Mi senti? lo ti ubbidirò, perdonaci, noi ti abbiamo già perdonato… Mostra il viso! (il Polizzotto rimane fermo.) Eri rigido, forse non eri nemmeno troppo cattivo. Può darsi, non per colpa tua. No. Odiavo la tua violenza, il tuo egoismo. Non ho avuto alcuna pietà per le tue debolezze. E mi picchiavi. Ma sono stato più duro di te. Il mio disprezzo ti ha colpito ancora più forte. È il mio disprezzo che ti ha ucciso. Vero? Ascolta… Dovevo vendicare mia madre… Dovevo farlo. In che cosa consisteva il mio dovere? Lo dovevo veramente? .. Ella ha perdonato, ma io ho continuato a vendicarla… A che serve la vendetta? È sempre il vendicatore che soffre…(2)». 

Dopo tanti anni (siamo press’a poco nel ’52, anche se Victimes du devoir porta la data del ’53), Ionesco rivive questi stati d’animo a tu per tu con i fantasmi rivisitati, seppure irriconoscibili, del padre e della madre. Così, per Ionesco, è la rilettura di un reale che ha segnato la sua vita e che riaffiora qua e là in una trasposizione scenica dai toni e dai colori diversi. Quasi una liberazione dai sensi repressi, una confessione – come lui stesso la chiama – sulla scena del profondo che solo ora emerge e che a lungo si è portato dietro. 

Gli anni che vanno dal 1930 al 1950 sono anni di formazione letteraria e di fervida attesa. Fa molti incontri, a cominciare da quelli con Tristan Tzara e i poeti surrealisti che lo invoglieranno a scrivere poesie (Elégies pour étres minuscules (Elegie per esseri minuscoli), 1931, e a interessarsi di letteratura. Sono gli anni delle sue prime collaborazioni a giornali e riviste: “Azi” (Oggi), “Critica” (La critica), “Floarea de foc” (Il fiore di fuoco), “Idea Romàneascà” (L’idea rumena), “Vremea” (Il tempo), “Viata literarà” (La vita letteraria), “Zodiac” (Lo zodiaco), “Facla” (La fiaccola). Ma questi, specialmente i primi, sono anche gli anni di maggiori scontri con il padre che lo avrebbe voluto indirizzare a studi scientifici. C’è, a proposito di quegli alterchi, una bella pagina in cui Ionesco, per bocca di Jean, protagonista suo alter ego di Voyages chez les morts (Viaggi tra i morti), rivive come in un susseguirsi di quadri quei divieti e soprusi paterni: 

«Quando ero studente, entravi nella mia stanzetta. Cercavi nei miei cassetti. Mi controllavi i quaderni e non vi trovavi che caricature al posto dei compiti assegnatimi dai maestri, dai professori. Mi facevi ripetere le lezioni, me le facevi recitare, senza che sapessi una parola […]. 

Tu me frappais. Mais j’ai été plus dur que toi. Mon mépris t’a frappé beaucoup plus fort. C’est mon mépris qui t’a tué. N’est-ce pas? Écoute… Je devais venger ma mère… Je le devais… OÙ était mon devoir? Le devais-je vraiment?… Elle a pardonné, mais moi j’ai continué d’assumer sa vengeance… À quoi sert la vengeance? C’est toujours le vengeur qui souffre…

Mi schiaffeggiavi, mi picchiavi, ma essi, i miei professori, non tenevano affatto conto dei miei zeri in matematica, essi, avevano fiducia (…). 

Ora sto regolando i miei conti con te e ti rinfaccio tutto ciò che hai voluto impedirmi di fare, tu, pater familias cieco(3) 

Nel 1938 lo troviamo di ritorno a Parigi per svolgere una tesi su “Il peccato e la morte nella poesia francese da Baudelaire in poi”. Intanto si era già sposato nel 1936 con Rodica Burileanu, da cui nel ’44 ebbe la figlia Marie-France. Per vivere dovette esercitare diversi :r;nestieri, il più consono quello di correttore di bozze presso una casa editrice. 

In questo periodo tradusse diversi autori rumeni in francese (Povel Don, Urmuz) e scrisse Frammenti di diario (1946). Se da un lato, questo, per Ionesco, è un periodo di ristrettezze economiche, dall’altro, è denso di arricchimenti culturali e di nuove amicizie (Jean Gabriel Gros, Jean Torte!’ Nicolas Bataille). Il lavoro di correttore di bozze gli fece acquisire una maggiore dimestichezza lessicale e lo aprì a nuovi modi espressivi. È certo, comunque, che la ricerca formale e il giuoco lessicale lo indussero tra il 1948 e il 1949 ad avvicinarsi al teatro con una bozza (L’Anglais sans proJessew1 di quella che sarà La Cantatrice chauve, rappresentata n l maggio del 1950, tra molta disapprovazione e pochi consensi, fra cui quello di André Breton che la considerò un’opera surrealista. Da questo momento in poi, voler delineare la vita di Ionesco è percorrere le tappe della sua produzione teatrale. 

* 

*     * 

Alla Cantatrice chauve, sempre dello stesso anno, affianca La Leçon e Jacques ou la Soumission. Sia l’una che l’altra, all’inizio, non ebbero tanto successo e ci volle qualche anno prima che il grande pubblico le apprezzasse fino ad essere ininterrottamente rappresentate in tutto il mondo. Era il totale distacco dalla tradizione, ed esse costituivano l’anticipazione del nuovo, il linguaggio dissacrante e strambo, il vario impasto, ricco di allusioni, del narrato, ma era, soprattutto, la mancanza di dimestichezza che si aveva con questo “nuovo teatro” che teneva lontano il pubblico. Pubblico che in quegli anni era costituito prevalentemente dal ceto medio borghese, quella classe sociale scopertamente attaccata dall’Autore perché certo gli riportava davanti la figura patema e quella di uomini come lui. 

Se è vero, come è facile constatare e come lo stesso Ionesco afferma nei suoi scritti, che la fonte primaria della sua ispirazione sta nel proiettarsi verso il passato, l’autoritarismo esacerbato, l’accanimento del Professore di La Leçon, la sua ripetitività, e l’insistere oltre la volontà dell’Allieva, riportano sulla scena il passato dell’autore, il padre sempre in attrito, in contrasto con il giovane Ionesco, portato verso le lettere, piuttosto che verso le scienze e le pratiche attività. In Jacques ou la Soumission c’è, invece, la presa di coscienza del personaggio Jacques, il portavoce di Ionesco, che, rimasto stordito dall’invadente materialità, vuole chiudersi in sé e rifiuta ogni cosa, a differenza degli altri, incoerenti e sordi ad ogni richiamo che possa prospettare loro una vita più umana. Jacques, per la verità, vi tenta, sotto il segno della propria libertà e dando corpo al suo sentimento di amore per Roberta, ma tutt’intorno è l’incomprensione, la chiusura. 

Il teatro è, per Ionesco, la proiezione sulla scena di una realtà molto sofferta, rivissuta e, perciò, resa più vera dalla spoliazione che il tempo ha operato di ogni risentimento personale. Tutto è presentato come se si svolgesse fuori dalla realtà, come sogno che, però, di tanto in tanto riaffiora, mettendo in dubbio le nostre certezze. 

Tra le opere scritte nel ’51, oltre alle Chaises, ci sono Le Salon de l’automobile e L’avenir est dans les oeuJs, mentre del ’52 è Victimes du devoir. Se L’avenir est dans les oeuJs è la continuazione caricaturale e conformistica di Jacques ou la Soumission, Les Chaises è la rappresentazione dell’assenza, del vuoto, della proliferazione degli oggetti e, pessimisticamente, dal punto di vista umano, del nulla. 

Ionesco confessa di avere inizialmente immaginato un vecchio in mezzo a tante sedie, senza pensare né a ciò che avrebbe potuto significare, né ad un’eventuale prosecuzione della scena. A pensarei, gli venne in mente l’idea del vuoto, della solitudine, e su quella prima immagine scrisse la “farsa tragica” (così è il sottotitolo) dei due vecchi che, delusi dell’attesa di un Oratore, si uccidono. La proliferazione degli oggetti (le sedie), il linguaggio ricco di contraddizioni, la finzione scenica dei due che parlano con altri invisibili, le frequenti volute ripetizioni, i suoni e le voci onomatopeiche, tendono ad accelerare l’azione, fino all’esasperazione e al suicidio. 

Les Chaises, che fu rappresentata al Teatro Lancry da Sylvain Dhomme il 22 aprile del 1952, ebbe una fredda accoglienza di pubblico e di critica, ma non mancarono gli apprezzamenti, quelli di Adamov, Beckett, Anouilh, Queneau, che sottolineavano la novità e le doti dell’autore. 

Il decennio degli anni Cinquanta vedrà moltiplicarsi le rappresentazioni delle opere ioneschiane che cominciano a uscire dal circuito parigino e francese per inserirsi in uno più vasto, europeo. Di questi anni, a parte quelle ricordate, sono: Amedée ou Comment s’en débarasser, L’Impromptu de l’Alma, Le Nouveau Locataire, Theur sans gages, Rhinocéros. Se in Amedée ou Comment s’en débarasser, scritta nell’agosto del 1953, si assiste ancora alla proliferazione degli oggetti (i funghi, un cadavere che s’ingrandisce fuori misura), se alla base di questa pièce c’è l’aspirazione alla libertà, nel senso pieno della parola, e se nel Nouveau Locataire, a parte i mobili che vanno occupando quasi tutta la stanza, limitando l’azione del nuovo inquilino, c’è l’esigenza di salvaguardare l’uomo dall’invadente materialità, ciò vuol dire che Ionesco non ha mai perso di mira la realtà con cui si è chiamati a confrontarsi, e da questo momento s’interesserà di più a tutto quanto ci riguarda da vicino: il rapporto con gli altri, oltre che con se stessi. 

Il suo modo di procedere sarà sempre lo stesso: prenderà spunto da un sogno (Ionesco stesso racconta di avere sognato un cadavere che s’ingrandiva a dismisura) o partirà da una realtà per denunciare a se stesso e agli altri i mali della società. È il caso di Theur sans gages, scritta nel 1957. Vi incontriamo per la prima volta il nome di Bérenger che ritroveremo in molte altre pièces. È l’alter ego dell’autore, un cittadino che vuole scoprire l’assassino, chi semina il “male” nella “Città radiosa”, quale era il mondo in origine e quale potrebbe ancora essere. Bérenger, da solo e nell’indifferenza degli altri, vuole anche capire il perché dell’uccisione, vuole rendersi conto di quel gesto insulso. 

La pace, lontano dai rumori della città, gli anni passati alla ChapelleAnthenaise, tornano alla mente di Ionesco, e vorrebbe (invano!) riviverli, ma a niente valgono i buoni propositi, se il sicario («n crimine non paga. Non commettete altri crimini, e sarete pagato») rimane nell’ostinazione. 

«Ascoltate. Voglio farvi una confessione lacerante. Spesso, io stesso dubito di tutto. Non ditelo a nessuno. Dubito dell’utilità della vita, dei valori di tutte le dialettiche. Non so più come regolarmi, può darsi che non ci sia né verità né carità. In questo caso, siate filosofo: se tutto è vanità, se la carità è vanità, anche il crimine è vanità… Sareste stupido se, sapendo che tutto è polvere, valorizzaste il crimine, perché sarebbe come dare un prezzo alla vita… Prendere tutto sul serio… ed essere in piena contraddizione con voi stesso(4)» 

Il “male”, impossibile da estirpare, è di ostacolo alla realizzazione di una vita migliore e condiziona qualsiasi attività. Sicché il clima della guerra fredda che si respirava in quegli anni e la brutta esperienza di quella da poco cessata, piena di nefandezze e di atrocità, ispirano al drammaturgo un’altra opera. RhinDcéros (1958), in cui, attaccando ogni forma di dittatura, va contro la massificazione dilagante che annulla lo slancio individuale e pianifica le coscienze. 

Siamo nel 1958, anno della “controversia londinese(5)”. Si rimprovera a Ionesco. con opere come questa. e le altre che seguiranno subito dopo (Le Roi se meurt, Le Piéton de l’atT. scritte nel 1962. La Soif et la Fatm.1964. Jeux de massacre. 1969). il fatto di essersi dato al teatro éngagé. lui che aveva rimproverato questo a Brecht. a Sartre. a Camus. allo stesso Adamov e ad altri. E l’accusa gli viene mossa sia da quelli che fin dal suo esordio lo avevano sostenuto. e che ora si sentivano come “traditi” (è il caso della Tynan). sia dai detrattOri. abituati a vedere Ionesco nella prospettiva di antiteatro. 

Ionesco si allontanava dal suo modo di fare teatro, ma non per fare politica, da cui si guardò bene, bensì illuso di potere in qualche modo essere utile agli altri, visto che l’uomo, pur travagliato da forti crisi interiori, è portato a trascurare certe verità che sono sotto gli occhi di tutti: la morte, dall’indifferenza, prospettandosi un mondo umano più giusto, migliore. Ma si è nell’ambito del tentativo, perché l’uomo, nonostante tutto, è attaccato alla terra, a questa sua esistenza terrena, e anche se anela a qualcosa che lo sollevi spiritualmente, difficile è poterne uscire. Ed ecco la delusione, quella dei protagonisti di Le Piéton de l’air e di La So!! et la Faim e, quindi, dello stesso Ionesco che si vedrà costretto a riprendere il teatro degli inizi. 

La giustificazione al titolo che abbiamo dato a queste pagine è nel continuo oscillare tra la realtà e la mancata realizzazione di una aspirazione, seppure nobilissima, che non permette a Ionesco una pur minima tranquillità. Il sogno gli si infrange d’un colpo e il suo voler uscire dal pessimismo, che è insito nell’uomo, diviene impossibile e quasi fa difficoltà a riconoscervisi. Ne Le Piéton de l’air, che prende origine da un sogno(61, e che è l’aspirazione icaria al volo, Bérenger perde ogni speranza e non vuole più insistere, perché nessuno lo segue, nessuno gli dà retta e, quindi, anche a volere, è nell’impossibilità di agire. Così, ne La So!! et la Faim(7) , dove Jean, il protagonista è proteso verso la felicità. 

Gli anni Sessanta portarono Ionesco alla notorietà di pubblico e di critica. Le sue pièces venivano rappresentate e riproposte senza sosta un po’ dovunque, in Europa e nel mondo, e ormai Ionesco, divenuto un personaggio di rilievo, cominciava a partecipare con più assiduità al dibattito culturale con inteIVenti su giornali e riviste. Più frequenti divenivano anche i suoi viaggi all’estero che gli fruttarono tante conferenze e dibattiti. Ora, alla produzione teatrale, abbina pure quella critica (Notes et contre-notes, 1962; Joumal en miettes, 1967; Présent passé. Passé présent 1968; Découvertes, 1969) e si accosta sempre più alla pittura, ritenendola idonea, più che la parola, già molto abusata, a portare avanti la ricerca intrapresa con la sua opera drammatica, e tracciando la stessa parobola, perviene al figurativo, essendo partito prima con l’astratto. 

 

È il colore, la luce esplodente, la certezza che squarcia il buio, il bisogno 

di pace interiore che lo spinge a trovare nuove forme, a continuare la ricerca, 

che è, per Ionesco, “intermittente”, come titolerà un suo libro del 1987, ed 

è un uscire allo scoperto per dire le ragioni che lo hanno spinto ad operare 

nella vita e nell’arte, per difendere ancora una volta il suo teatro. 

Ionesco continuò, nonostante tutto, a pubblicare. Macbett è del 1972; 

segue Ce jonnidable bordeU, tratto dal romanzo Le Silitaire (1973) e pubblicato 

da Gallimard nel 1975, lo stesso anno di L’homme aux valices. Tra 

queste opere e Voyages chez les morts del 1981 vanno collocate due raccolte 

di articoli vari: Antitotes (1977) e Un homme en questiofl. (1979). 

Siamo, in modo diverso, dinanzi agli stessi temi. La lotta per il potere, 

in Macbett. messi da parte i nobili sentimenti, non fa che seminare la morte 

e la distruzione, mentre l’incomunicabilità chiude ancor più nella solitudine, 

in cui trova rifugio il Personaggio di Ce jonnidable bordel! Di là della 

solitudine, la distruzione e la morte, niente. Allo stesso modo dei personaggi 

di Sartre e di Camus, al Personaggio – così Ionesco chiama· il protagonista 

della pièce – non rimane altro che asserragliarsi in casa e starsene lontano 

da tutto e da tutti, perché impossibile vivere in condizioni esistenziali così 

miserevoli ed è veramente triste vivere questa vita, che è un “incredibile 

bordello!” Eppure, l’attaccamento alla vita permane ed è irresistibile: 

«11 Personaggio: Mascalzoni! Lasciatemi in pace! 

Si alza e getta loro un barattolo di conseroa e una 

bottiglia in testa. I personaggi scompaiono. 

Lasciatemi in pace! Luce! Luce! 

La luce del mattino inonda il palcoscenico. Non si 

sente più alcun rumore che viene da juori. I muri sono 

scomparsi, non c’è che un’intensa luce. Solo la poltrona 

resta sulla scena. 

l…1 

Ch’è? Non c’è nessuno! Ohe! Ohe! 

Si precipita, afferra una bottiglia di cognac, e la getta. 

Sto morendo di fame! Sto morendo di sete! 

Si guarda ancora attorno, lo spazio è vuoto, non c’è 

che la luce che viene un po’ da ogni parte. 

Cosa vuoI dire! Non vale più la pena, non c’è nessuno. Non ho capito 

un accidente, non capisco niente. Nessuno potrebbe comprendere. Tuttavia 

non sono meravigliato. È anche da meravigliarsi che non sia meravigliato. 

Molto strano(8)» 

La solitudine, la paura che essa incute, spinge ad amare la vita un po’ 

prima detestata. Siamo in presenza di due stati d’animo contrastanti che 

costituiscono la base di tutto il teatro ioneschiano: il contrasto fra ombra 

e luce, tra senso di vuoto (l’autore spesso ricorre al termine “cave” per indicare 

più propriamente il vuoto esistenziale) e presa di coscienza, tra la propensione 

ad agire e l’impossibilità a operare(9), per cui Ionesco, tramite il Personaggio, 

nella battuta finale (.Bello davvero questo scherzo, miei cari! Bello scherzo, 

signori e signore. Andatevi a immaginare uno scherzo simile! Uno scherzo 

simile! Che bordello! Ah là là, che incredibile bordello!1101.), spinge alla 

derisione. 

(. .. ) 

Que se passe-t-il? Il n’y a plus personnel Ohél Ohél 

n se précipite, prend une bouteille de cognac, il jette la bouteille. 

Je vais crever de faiml Je vais crever de soifl n regarde encore autour de lu~ l’espace est vide, il n’y a que cette lumière qui 

vient de toutes parts. 

Qu’est-ce que ça veut direi C’est p1us la peine, il n’y a personne. Je n’y ai rien com~ris. j.e 

ne comprends rien. Personne ne pourrait comprendre. Et cependant je ne sois pas etonne. 

C’est meme étonnant que je ne sois pas étonné. Bien étonnant•. 

Nel 1975 Jacques Mauclair rappresentò al Thèé1tre de l”Atelier L’homme 

aux valiges, e Berrnan, nel 1980, al Guggenheim Theater di New York, 

Voyages chez les morts. In entrambe le opere sono molto evidenti e 

accentuati gli elementi autobiografici, ombre che riaffiorano, indistinte, 

quasi come in un sogno: i ricordi dell’infanzia, le persone che la popolavano 

e che non ci sono più, i luoghi cari che gli rimasero impressi, nonostante 

i cambiamenti operati dal tempo e l”eté1. Se in Voyages chez les morts Ionesco 

proietta sul palcoscenico tanti quadri (diciannove, quante sono le scene in 

cui si svolge l”opera) che fanno rivivere il suo dramma familiare -il padre 

che abbandona la famigliola, le preoccupazioni finanziarie, i suoi rapporti 

con il padre e la matrigna -, ne L’homme aux valiges ripropone se stesso 

con il bagaglio della vita passata da cui è difficile distaccarsi. Anche qui 

gli elementi autobiografici ed onirici(1l) sono così bene miscelati che si 

confondono, e un senso di melanconica tristezza, carico di umorismo, 

attraversa la pièce, dall’inizio alla fine, per arrivare ad una dichiarata 

insoddisfazione: 

«PRIMO UOMO: Grazie per avermi portato le valigie. Da quando ho perso 

l”altra, non ho più la mia terza dimensione. Qualcosa mi manca, di intimo. 

Sono malato. Non si vede, chiaramente, come se non mi riguardasse(l2)». 

* 

*     * 

«Afin de calmer mon angoisse a’aije déjà dit?), afm de calmer mon 

angoisse, pour m’endormiTplus tranquille, la nuit, dans mon lit,je me rappelle 

les noms de tous ceux qui sont morts… de tous mes parents et wnis, et 

ennemis, qui sont morts, qui sont morts… fls sont des centaines… Je mejoue, 

à moi-méme, ma propre pièce, Le roi se meurt, dans le rol principali (13) •• 

Il 28 marw del 1994 l’autore di Le Roi se meurt moriva realmente, Quel 

pomeriggio di marzo, Ionesco se ne andava come se ne va Bérenger I, con 

la speranza nel cuore, anche se tutto gli crollava addosso, lasciando come 

testamendo spirituale La quete intermittente, il libro a cui affida le sue 

speranze, la ricerca del vero, i dubbi, l’idea della morte. E come Bérenger, 

consapevole che l’ineluttabile passo dovrà pure compiersi, egli si rivolge 

indietro negli anni, intravvedendovi la gioventù, i parenti, i tanti amici cari, 

ohimè!, passati per sempre, le fedi incrollabili che ora non gli dicono niente, 

il dubbio ritornante, forse l’unico che non l’ha mai lasciato per assillarlo 

ancora di più, il pensiero della morte e la presenza-assenza di Dio, 

Un libro, questo, in cui Ionesco si delinea come uomo e come artista, 

con i suoi affetti più cari, ma anche con i suoi timori causati dai detrattori 

della sua opera, i quali fanno Beckett promotore del «teatro dell’assurdo», 

che Ionesco preferisce chiamare semplicemente «teatro nuovo», o «teatro 

d’avanguardia» 

«D’ailleurs, Beckett n’est pas ce qu’on appelle un “membre” de lajamille 

de “l’absurde”: son humour provient d’ailleurs, appartient à une autre 

tradition, un autrejolckore, irlandais. En disant que Beckett est le promoteur 

du Thédtre de l”Absurde, en cachant que c’était moi. les joumalistes et les 

historiens littémires amateurs commettent une désinjormatiDn dont je suis 

victime, et qui est calculée. Parce que je ne leur plais pas! Pourquoi? Parce 

queje n’était pas communiste, au temps où il était malséant de ne pas l’etre. 

Ils ne m’ont pas pardonné d’avoir été antiçommuniste avant eux. C’était une 

impertinence. Ceci m’a été conft.rmé par Marcabru, Arrabal, et d’autres…(l4)» 

Ionesco porta le sue pezze d’appoggio, citando nomi di autori e opere, 

rivendicando a sé, con La cantatrice chauve del 1950, il ruolo di iniziatore 

di questo teatro d’avanguardia, .une avant-guarde toujours vivante, puisque 

depuis les années 1950, ce théé1tre, très caractéristiques, n’a pas eu de 

relève., e fa i nomi di Adamov, Tardieu, Weingarten e altri, mentre Enattenda11t 

Godo~ è del 1953. Ionesco crede nel teatro e, come tale, non può sopportare 

le meschinità degli arrampicatori di specchi. Per questo motivo, non 

risparmia nessuno, critici e impresari teatrali che fanno il bello e il cattivo 

tempo, a scapito del teatro e dell’arte. 

Tali amarezze, che sicuramente attutivano quello slancio proprio di 

Ionesco, già da tempo avevano spinto il Nostro a chiudersi in un dignitoso 

riserbo, anzi lo avevano indotto a darsi alla pittura, preferendo alle parole 

i colori. Così dice: «Per esistere, dunque, non mi resta altro che la pittura. 

Se cessassi di dipingere, sarei del tutto un disperato. I colori, e niente altro 

che i colori, sono il solo linguaggio che possa parlare, i colori mi dicono 

qualcosa. Essi sono ancora viventi, da quando per me le parole hanno 

perduto senso, valore, ogni espressione. I colori sono per me ancora di 

questo mondo: essi cantano, sono di questo mondo e sembra che mi 

congiungano all’Altro Mondo. Ritrovo in essi ciò che la parola ha perduto. 

Essi sono la parola: il disegno si, ma soprattutto il colore è parola, 

linguaggio, comunicazione, vita, ciò che mi può congiungere al resto, 

all’universo(15)». 

Déeouvertes (1969) e Le Blane et le Noir (1981), che si compongono di 

testi e di litografie di Ionesco, e le varie esposizioni fatte un po’ dovunque 

(Svizzera, Germania, Belgio) testimoniano l’interesse e la dedizione verso 

quest’arte che potrebbe apparire come un suo nuovo apprendistato, mentre, 

invece, è il mezzo con cui d’ora in poi porta avanti la sua ricerca dettata 

dal bisogno di comunicazione profonda tra sé e il mondo, tra il finito e 

l’infinito, di avvicinarsi a Dio. Come nel teatro, egli acuisce la tensione 

esistenziale, servendosi dell’astratto e utilizzando colori forti che dicono 

prepotente il bisogno di luce, che è calma interiore, amore verso gli altri 

e verso Dio. 

* 

*    * 

 

 

Come Pirandello. Ionesco era pervenuto al teatro in modo casuale. E se 

Pirandello se ne era servito per criticare il mondo borghese. mettendo sulla 

scena il dissidio esistente tra l’uomo e la società. tra quello che vorrebbe 

essere e quello che agli altri appare. Ionesco mette in discussione l’umana 

esistenza. dando più risalto a motivi e a – verità elementari. che fino ad allora 

erano apparsi marginali tanto da non interessare la letteratura. 

Il tema della solitudine. l’incomunicabilità. il rapporto di coppia. certa 

banalità che è nel linguaggio e, ancora. il conformismo e la materialità. la 

violenza. la morte (e. quindi. il bisogno di una certezza che faccia accettare 

la vita) è quanto sta alla base del teatro di Ionesco, e a questo va ascritta 

tutta la sua ricerca di uomo e di artista. che non può certo essere definita 

assurda. perché ci tocca da vicino ed è parte di noi, la più interessante. 

la più vera. la più umana. 

«On a dit quej’était un écrivain de l’absurde; il y a des mots comme ça 

qui courent les rues, c’est un mot à la mode qui ne le sera plus. En tout 

cas, il est dès maintenant assez vague pour ne plus rien vouloir dire et pour 

tout définir facilement. Si je ne suis pas oublié, dans quelque temps, il y 

aura un autre mat courant les rues, un autre mot reçu, pour me défmir moi 

et d’autres, sans nous définir (16)» 

Il teatro di Ionesco fu oggetto di incomprensione. e si parlò subito di 

assurdo. cosa che lo stesso drammaturgo rigettò. come lo conferma il passo 

riportato. chiamandolo. semmai. -sorprendente». In effetti, è vero che il 

suo teatro. già dalle prime pièces, disorientava per la tematica piuttosto 

inconsueta. perché tende fino all’inverosimile allo scavo interiore. ma 

sbalordiva anche per la novità con cui veniva posta. Perciò, il termine 

“assurdo” poteva essere giustificato dal punto di vista della drammaturgia 

(le sedie e gli oggetti che si moltiplicano, il dialogo che diviene insignificante 

e banale). non per ciò che vuole rappresentare (la materialità dilagante, 

l’incomunicabilità), considerato che è l’uomo al centro dell·interesse. l’uomo 

e i mali odierni che gli rendono difficile la vita. 

(16) E. Ionesco. Notes et contre-notes. cito pago 297: «È stato detto che ero uno scrtttore dell’assurdo; 

ci sono parole come questa che sono frequenti, una parola alla moda che non lo sarà più. In 

ogni caso. di primo acchito. è molto vaga per non voler dire niente e per definire tutto con facilità. 

se non sarò dimenticato. tra non molto. ci sarà un altro termine abusato. una parola confezionata. 

per designare me e gli altri. senza designarci». 

Ionesco, con il suo teatro, si è fatto paladino di un umanesimo da tanti 

reclamato, ma mai portato come lui alle estreme conseguenze. Le Roi se 

meurt, La Soif et la Faim sono le più aperte a questa intima esigenza 

dell’Autore, ma anche le altre, pur deridendo certi comportamenti, perseguono 

lo stesso obiettivo: è sempre l’uomo al centro del suo discorso, è l’uomo il 

suo interlocutore, ed è lui stesso, Ionesco che, in quanto tale, risente del 

disorientamento proprio dell’uomo di oggi e ricerca degli agganci, delle 

certezze che lo rendano più sereno e gli facciano accettare la vita. 

Il teatro di Ionesco tende alla realizzazione di un mondo migliore, lontano 

dai convenzionalismi, dalla materialità, dall’incomunicabilità che chiude e 

reprime. Sarà un sogno, un’utopia irrangiungibile: se non altro, da 

anticonformista amato e biasimato, Ionesco ha sfidato e ci sfida, volgendo 

tante volte lo sguardo nostalgico alla sua infanzia, alla Chapelle-Anthenaise, 

che, seppure lontana, per lui rappresentava ancora il mondo felice e vero 

verso cui spinse fino all’ultimo la sua ricerca. 

Salvatore Vecchio.

(1) Molti ricordi e annotazioni biografiche sono riportati in E. Ionesco, Journal en miettes, Paris, Gallimard, coll.”Idées”, 1973.
(2) E. Ionesco, Victimes du devoir, in “Théàtre complet”, Paris, Gallimard, 1991, pag. 222: «Père, nous ne nous sommes jamais compris… Peux-tu encore m’entendre? Je t’obéirai, pardonne-nous, nous t’avons pardonné… Montre ton visagel (Le Policier ne bouge pas.) Tu étais dur, tu n’étais peut-etre pas trop méchant. Ce n’est peut-étre pas ta faute. Ce n’est pas toi. Je haissais ta violence, ton égoisme. Je n’ai pas eu de pitié pour tes faiblesses. 
(3) lvi. pag. 1310: «Quand j’étais écol1er, tu entrals dans ma petite chambre. Tu cherchais dans mes tiroirs. Tu contròlais mes cahiers, tu n’y trouvais que des caricatures à la place des devoirs que m’imposaient mes maitres, mes professeurs. Tu me faisais répéter mes leçons, tu me les faisais réciter, je n’en savais pas un mot […] Tu me giflais, tu me battais, mais eux, mes professeurs, ne tenaient pas compte de mes zéros en mathématiques, eux, me faisaient confiance[…] Maintenant. je règle mes comptes avec toi et je te reproche tout ce que tu as voulu m’empècher de faire, toi, pater familias aveugle.
(4) lui, pagg. 533-534: «Écoutez, je vais’vous faire un aveu déchirant. Moi-meme, souvent, je doute de 
tout. Ne le répétez à personne. Je doute de l’utilité de la vie, du sens de la vie, de mes valeurs, et de 
toutes les dialectiques. Je ne sais plus à quoi m’en tenir, il n’y a ni vérité ni charité, peut-étre. Mais 
dans ce cas, soyez philosophe: si tout est vanité, si la charité est vanité, le crime aussi n’est que 
vanité…Vous ser1ez stupide si, en sachant que tout n’est que poussiére, vous donniez du prix au crime, 
car ce serait donner du prix à la vie… Ce serait prendre tout au sérieux… ainsi, vous voilà en pleine 
contradiction avec vous-méme». 
(5)Viene riportata, con i vari interventi, in E. lonesco, Notes et contre-rwtes, Parts, Gallimard, 1966, pagg. 137-164. che interessa tutti lLe Roi se meurt), e semina anche stragi nella collettività lJeux de massacre). E poco o niente può fare l’amore. Di qui l’aspirazione a uscire 
(6) C. Bonnefoy, Entretien avec Eugène Ionesco. Paris. Belfond. 1966, pago 74. 
(7) E. Jacquart, “Notice” in E. Ionesco. Théatre complet, cito pago 1763: «La fonction du symbole est ici d’ordre exploratoire. Ionesco cherchant à exprimer le sens de l’aventure spirituelle. filigrane de la condition humaine. En lui confluent des éléments réputés inconciliables – le réel et le réve, l’angoisse et l’espoir, le conscient et l’inconscient – bref. l’expérience globale de l’induvidu». 
(8) E. lonesco, Theàtre completo cit., pagg. 1200-1201: 
«Le Personnage: Sa1autsl Foutez-moi la paixl n se lève et leur Jette une boite de conserve et une bouteille à la tete. Les personnages disparaissent. Foutez-moi la paixl De la lumièrel De la lumièrel La lumière du matin se Jait sur le plateau. On n’endend plus aucun bruit venant du dehors. Les murs ont disparu, il n’y a plus qu’une grande lumière. SeuI le Jauteuil reste sur la scène.
(9) Cfr. “Mes pièces et moi”, in Notes et contre notes, cito pagg. 230-232. 
(lO) Iv~ pago 1201: -Quelle bonne blague, mes enfantsl Quelle blague m~ss~eurs-dames. A-ton 
pu imaginer une blague pareillel Une blague pareillel Quel bordell Ah la la, quel formidab1e bordell» 
(11) Un riscontro puntuale al racconto autobiografico e ai riferimenti dei tanti sogni ripqrtati nella pièce si ha in lonesco, Journal en miettes, cito 
(12) Iv~ pag. 1282: «PREMIER HOMME: Merci de m’avoir apporté mes valiges. Depuis que j’ai perdu l’autre, je n’ai plus ma troisième dimensiono Quelque chose me manque, de l’intérieur. Je suis infirme. ça ne se voit pas, évidemment, comme cela, à me regarder” 
(13) E. lonesco, La quete intennittente, Paris, Gallimard, 1987, pagg. 57-58: «Per tranquillizzarmi O’ho già detto?), per attutire la mia angoscia, per addormentarmi più sereno, la notte, nel letto, mi ricordo i nomi di coloro che sono morti… dei parenti e amici, e nemici, che sono morti… morti. .. Nell’ordine di centinaia… lo rappresento, per me stesso, la mia stessa pièce, n re muore, nel ruolo principalel•. 
(l4)Ivi. pag. 46: «Pertanto. Beckett non è uno che può dirsi “membro” della famiglia dell'”assurdo”: il suo humour proviene d’altrove, appartiene a un’altra tradizione. un altro folckore. irlandese. Dicendo che Beckett è l’tniziatore del Teatro dell’Assurdo. nascondendo che sono stato io, i giornalisti e gli storici letterari dilettanti fanno una disinformazione di cui sono vittima. di proposito. Perché non piaccio lorol Perché? Perché non ero comunista quando era da screanzati non esserlo. Non mi hanno perdonato di essere stato anticomunista prima di loro. Un’assurdità. Ciò mi è stato confermato da Marcabru, Arrabal. e altri …» 
(15) lui. pag. 13: «Il ne me reste donc encore pour exister que la peinture. Si je cessais de peindre. je serais totalement désespéré. Les couleurs. et rien encore que les couleurs. sont le seui langage que je puisse parler. les couleurs me disent quelque chose. Elle sont encore vivantes. tandis que les mots oot perdu pour moi senso valeur. toute expression. Les couleurs sont de ce monde. encore. pour moi; e11es chantent, elles sont de ce monde et 11 me semble qu’elles me relient à l’Autre Monde. Je retrouve en elles ce que la parole a perdu. Elles sont la parole: le dessin oui. mais surtout la couleur est parole. langage. communication. vie, tout ce qui peut me relier au reste, à l’uruvers». 

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 9-23.




 Il teatro di Ionesco 

L’11 maggio del 1950, al Théatre des Noctambules di Parigi, veniva rappresentata per la prima volta La Cantatrice chauve di Eugenio Ionesco, con la regia di Nicolas Bataille. Fu un grande avvenimento o, meglio, quella data segnò l’inizio di un teatro nuovo che venne designato con diverse etichette. Noi non entriamo nel merito della questione, perché almeno per il momento non ci interessa o, se ci interesserà, in rapporto a quello che è l’oggetto del nostro discorso. 

La Cantatrice chauve, che ininterrottamente da allora viene rappresentata a Parigi e nel mondo, ha in sé la tematica del teatro di Ionesco, con la conseguente rottura con il teatro tradizionale e con il teatro engagé di Brecht e di Sartre. Ionesco, pur mettendo al centro del suo discorso l’uomo, non presenta dei caratteri o degli eroi, non lancia dei messaggi; egli porta sulla scena ciò che è stato da sempre trascurato e nemmeno minimamente preso in considerazione: la banalità che è nella nostra esistenza, lo spirito di contraddizione che è in noi, la messa in discussione del linguaggio. E su queste linee, anche se con diverse sfumature, si muoveranno i nuovi drammaturghi (Beckett, Schéhadé, Genet, Pichette, lo stesso Adamov). 

Ionesco definì questo suo modo di fare teatro «anti-teatro», volendo rimanere dentro il teatro, sebbene gli altri lo abbiano etichettato come «teatro dell’assurdo» per la novità con cui affronta i problemi esistenziali, difficilmente riconducibili nell’ottica del teatro tradizionale, e per la libertà stessa con cui vengono trattati, rompendo con la staticità di quel teatro. 

Certo, influì sul «nuovo teatro» la situazione creatasi in conseguenza alle due grandi guerre, con le distruzioni e con le assurdità che esse, più che mai, evidenziavano, mentre era facile rendersi conto come le manifestazioni artistiche non solo non rappresentavano la realtà, ma la travisavano, contribuendo così a disorientare ancor più gli uomini che, usciti da quelle catastrofi – siamo negli anni Cinquanta -, erano già entrati nel clima della cosiddetta guerra fredda. E se il disagio era generalizzato, tanto più veniva vissuto dagli intellettuali che volevano pure trovare un modo per esternare la realtà senza falsarla: quella realtà che cadeva sotto i loro occhi e quella che interiormente stavano vivendo. 

Alcuni (Brecht, Sartre, Camus e altri) portavano avanti nelle loro opere un discorso politicamente impegnato, ma, volendo mandare dei messaggi, per forza di cose dovevano risultare di parte, perdendo così di vista, nella sua essenza, l’uomo. Ionesco e i nuovi drammaturghi vanno contro questo tipo di teatro, presentando la realtà com’è, amara, spesso banale, eppure reale specchio dell’umana esistenza. In essi non c’è altra pretesa che questa: dire le cose come stanno. senza alcuna presunzione, non nascondendo niente. Ma, appunto perché sono «verità elementari», scuotono l’uomo in tutto il suo essere e lo fanno riflettere. 

* 

*      * 

Il teatro è, per Ionesco, un campo aperto ove tutto è possibile rappresentare, anche ciò che sembra non avere né testa né coda, come avviene nella Cantatrice chauve, dove gli Smith dicono frasi senza senso, ripetitive e contraddittorie. 

La Cantatrice chauve, che Ionesco sottotitola: Anti-pièce. proprio perché si diversifica dal teatro tradizionale. trae la sua linfa da un eserciziario per l’apprendimento della lingua inglese. È l’occasione perché Ionesco vada contro il linguaggio convenzionale, vuoto e insignificante(1). Si accorge che quelle frasi accostate tra loro producono uno strano effetto. come di chi parla tanto per parlare. per cui la comprensione risulta incomprensibile e astratta. Al di là di tutto questo, ecco che subentra. però. il lato comico del discorso: e se il pubblico alla prima rappresentazione rimase frastornato, ne uscì anche divertito per la comicità che involontariamente è alla base della pièce. 

IL SIGNOR SMITH, sempre col suo giornale: C’è una cosa che non capisco. Perché nella necrologia, che il giornale riporta, si dà sempre l’età della persona deceduta e mai quella dei neonati? È un non senso. 

LA SIGNORA SMITH: Io non me lo sono mai chiesto! Un altro momento di silenzio. L’orologio suona sette volte. Silenzio. L’orologio suona tre volte. Silenzio. L’orologio non suona affatto. 

IL SIGNOR SMITH, sempre col suo giornale: Ecco, è scritto che Bobby Watson è morto. 

LA SIGNORA SMITH: Mio Dio, poveretto, quando è morto? 

IL SIGNOR SMITH: Perché ti meravigli? Lo sapevi bene. È morto due anni fa. Ti ricordi, siamo stati al suo seppellimento, un anno e mezzo fa. 

LA SIGNORA SMITH: Certo che mi ricordo. Mi sono ricordata subito, ma non capisco perché tu stesso sei rimasto meravigliato ad apprenderlo dal giornale.

IL SIGNOR SMITH: Non era sul giornale. Sono già tre anni che si è parlato del suo decesso. Me lo sono ricordato per associazione di idee(2). 

Già questo colloquiare è buffo e insignificante. Così è tutta la pièce che si svolge in un interno, con protagonisti gli Smith, appunto, e un’altra coppia, i Martin, affiancati dalla governante Mary e dal Capitano dei pompieri. 

Niente di particolare nella scenografia, vivificata, però, da un inconsueto movimento che mette in risalto i personaggi e, soprattutto, il loro dialogare e il dialogo in genere, causa continua di malintesi. Sotto accusa è la borghesia emergente negli anni Cinquanta, conformista, ricca soltanto di frasi fatte e di pretese che ne tradiscono le origini e la vuotaggine. 

La pièce, che è un atto unico, consta di undici scene; non narra una storia, ma mette assieme stati d’animo diversi che, intensificati, sfociano nella comicità, come avevamo accennato sopra. Comunque, è una comicità che, se sulle prime fa ridere, lascia subito l’amaro in bocca e i suoi effetti sono altamente drammatici. Questo perché il teatro di Ionesco non è staccato dalla realtà, ma vive di essa. Il senso di angoscia, di insoddisfazione, che è nell’uomo, viene tradito dalle parole che lo intensificano ancora di più, dando a tutto l’insieme una progressione drammatica inaspettata. È, questo, un punto d’arrivo della poetica di Ionesco, ma è anche un punto di contatto con l’arte di Pirandello, che proprio sul comico aveva poggiato le premesse dell’umorismo che sta alla base del suo teatro. 

* 

 *      * 

Il teatro di Ionesco è una parodia del linguaggio e del modo di fare medio-borghese. 

La Cantatrice chauve è il primo tentativo bene riuscito, anche se all’inizio fece parlare molto di sé. D’altronde, il pubblico e la critica non erano abituati a questo genere di teatro, e dovette passare parecchio tempo prima di uscire fuori dalla tradizionale ottica teatrale. E se qui, in questa prima pièce, il linguaggio, messo sotto accusa per la banalità e per la ripetitività (si veda, ad esempio, la scena IV, dove i coniugi Martin scoprono dopo un lungo scambio di battute di essere marito e moglie) subisce di tanto in tanto un’accelerazione che alla fine esplode con quel .Non di qua, ma di là, non di qua, ma di là, non di qua… “, nelle opere che seguiranno, come ne La Leçon, c’è un’intensificazione dell’azione, anche se poi essa ripresenterà, seguendo una struttura circolare, la scena dell’inizio. Così, a chiusura della Cantatrice, avremo i Martin che ripetono la stessa scena di apertura degli Smith, mentre nella Leçon, il Professore, dopo avere ucciso, si prepara a uccidere ancora. 

L’attenzione dell’autore non è rivolta al carattere dei personaggi, ma al vissuto quotidiano, monotono eppure pieno di imprevisti, vuoto e amaramente deludente, capace solo di farci consapevoli dell’assurdità della nostra esistenza. Per questo acquistano importanza nel suo teatro quegli elementi che erano stati da sempre trascurati: gli oggetti, la luce, il silenzio, le decorazioni. Essi rappresentano la materializzazione e il vuoto dell’uomo moderno, la sua mancanza d’identità. Anche le didascalie, che già in Pirandello avevano assunto un ruolo non indilTerente per la comprensione e per la rappresentazione delle sue commedie, hanno una fondamentale importanza. E se il testo molto spesso è scarno e si limita all’essenziale, esse fanno scendere nel particolare e calare nella realtà che l’autore vuole evidenziare. Dietro questa esigenza c’è la preoccupazione (comune a tutti gli autori, del resto) che la propria opera non venga travisata e rispecchi i sentimenti e le tensioni che sono alle sue origini. 

Con Les Chaises Ionesco rappresenta sulla scena la solitudine, la mancanza di identità, gli oggetti. ricorrendo a una sorta di accelerazione che dice quanto è deprimente la vita. Le sedie che si moltiplicano a dismisura sottolineano la materialità invadente, il vuoto, l’assenza, che sono nell’uomo di oggi. Nei due vecchi protagonisti c’è tanta nostalgia per la vita che fu. ma manca loro lo slancio che li faccia uscire dallo stato di torpore angoscioso in cui sono caduti. 

IL VECCHIO: Sono le 6 del pomeriggio… È già notte. Ti ricordi, un tempo. non era così; era ancora giorno alle 9 di sera. alle lO. a mezzanotte! 

LA VECCHIA: È pur vero. che memoria! 

IL VECCHIO: È cambiato tutto. 

LA VECCHIA: Perché, secondo te? 

IL VECCHIO: Non so, Semiramide, mia cacca… Può darsi, perché più si va, più ci si affonda. A causa della terra che gira, gira, gira, gira… 

LA VECCHIA: Gira, gira. tesoruccio mio… (Silenzio,) Ah! Sì, sei certamente un gran saggio. Sei molto dotato, tesoro. Avresti potuto essere presidente capo, re capo, o anche dottore capo, maresciallo capo, se avessi voluto, se avessi avuto un po’ d’ambizione nella vita… 

IL VECCHIO: A cosa ci sarebbe servito? Avremmo vissuto un po’ meglio… e poi. abbiamo una posizione. sono maresciallo lo stesso. d’alloggio. visto che sono portinaio. 

LA VECCHIA (accarezza il Vecchio come si carezza un bambino): Tesoruccio mio, mio piccolo… 

IL VECCHIO: Mi annoio molto. 

LA VECCHIA: Eri più allegro, quando guardavi l’acqua… Per distrarci, fingi come l’altra sera. 

IL VECCHIO: Fingi tu, tocca a te. 

LA VECCHIA Tocca a te. 

IL VECCHIO: A te. 

LA VECCHIA: A te. 

IL VECCHIO: A te. 

LA VECCHIA: A te. 

IL VECCHIO: Bevi il tuo tè, Semiramide. Non c’è tè, evidentemente (3) 

Un senso di nostalgia che fa cadere nella delusione e nella più stupida banalità. Ora che la parola non è più capace di esprimere la realtà della nostra esistenza, prendono corpo gli oggetti che proliferano, marcando ancor più uno stato di disagio che non solo deprime, ma spinge all’annullamento e alla morte. E i due vecchi si uccideranno nella vana attesa di qualcuno che li avrebbe dovuto sollevare e farli uscire dalla confusione mentale in cui erano caduti. Solo all’ultimo appare il tanto atteso Oratore che, però, è sordo e muto, e non riesce a comunicare dinanzi a quell’assenza-presenza rappresentata dalle sedie vuote. 

* 

*     * 

L’Oratore delle Chaises, atteso dai due vecchi e dalla moltitudine di “invisibili”, non parla perché sordomuto; nella Cantatrice chauve assistiamo a qualcosa di simile: non c’è nella pièce nessuna che sia calva e che canti. Nell’una e nell’altra Ionesco si serve degli oggetti e del linguaggio per provocarci. E ci riesce magnificamente bene, perché spinge chiunque alla riflessione, mette chiunque dinanzi a queste assurdità che, poi, tali non sono, se consideriamo che esse sono la parte meno apparente di noi; quella a cui diamo meno ascolto, eppure reale, anche se si tratta di un realismo che cozza con l’assurdo. 

Dietro all’apparente sperimentalismo teatrale c’è nell’opera di Ionesco un bisogno di ricerca che lo accompagnò per tutta la vita. Questo suo bisogno nasce dalla presa di coscienza dell’uomo che, uscito da due guerre nefaste, ha perso la fiducia nei valori e cerca con disperazione una nuova identità. Adesso l’uomo Ionesco vuole fare piena luce attorno a sé o, per lo meno, vuole attaccarsi a una speranza che gli prospetti l’uscita da questo vicolo cieco. Ionesco che era andato contro il teatro impegnato, ora dà un senso alla sua ricerca, volendo riscoprire i veri sentimenti e aprire un varco in un mondo che non conosca violenze e soprusi(4). 

Già in Jacques ou la Soumission c’è un attacco diretto contro il conformismo dilagante, ma meglio ancora in Rhinocéros, dove l’allusione a ogni tipo di fanatismo è più marcata e il conformismo è paragonato a una sorta di malattia sociale dilagante che contagia persino gli insospettabili. 

BÉRENGER: Riflettete, vediamo, vi rendete ben conto che abbiamo una filosofta che questi animali non hanno, un irreprensibile sistema di valori. Secoli di civiltà l’hanno consolidato… 

JEAN, sempre nel bagno: Demoliamo tutto, staremo meglio. 

BÉRENGER: Non vi prendo sul serio. Scherzate, e fate poesia. 

JEAN: Brrr… Barrisce appena. 

BÉRENGER: Non sapevo che foste poeta. 

JEAN. esce dal bagno: Brrr… Barrisce di nuovo. 

BÉRENGER: Vi conosco molto bene per credere che questo sia il vostro intimo pensiero. Perché, lo sapete molto bene che io, l’uomo… 

JEAN, interrompendolo: L’uomo… Non pronunciate più questa parola! 

BÉRENGER: Voglio dire l’essere umano, l’umanesimo… 

JEAN: L’umanesimo è superato! Siete un vecchio sentimentale ridicolo. Entra nel bagno. 

BÉRENGER: Alla fine, nonostante tutto, lo spirito… 

JEAN, dal bagno: Cliché! Mi raccontate sciocchezze. 

BÉRENGER: Sciocchezze! 

JEAN, dal bagno, con una voce molto rauca difficilmente comprensibile: Assolutamente. 

BÉRENGER: Sono meravigliato di intendervi dire ciò, mio caro Jean. Perdete la testa? Dunque, amereste essere rinoceronte? 

JEAN: Perché no! Non ho i vostri pregiudizi (5) . 

Bérenger, questo personaggio positivo che tante altre volte incontriamo in Ionesco, farà una gran fatica a imporsi e a rimanere integro nella sua personalità. Quando l’aberrazione di alcuni diviene di tanti, l’anormalità entra nella norma, mentre, al contrario, il normale sembrerà agli occhi di tutti un anormale e tale verrà considerato. Come Bérenger e quanti, come lui, vanno contro il conformismo di massa che mortifica l’uomo nella sua dignità. 

Giustamente Martin Esslin(6) ha colto nel segno il teatro di Ionesco quando dice che l’apparente assurdità della vita gli serve da pretesto per la sua ricerca sull’uomo e sulla società tendente a riscoprire quei valori elementari indispensabili per la nostra esistenza. In effetti Ionesco si indirizza verso questa riscoperta e ricerca la via per ridare all’uomo la serenità perduta. Jean, il protagonista di La Soif et la Faim, tende verso una vita migliore; Bérenger di Le Roi se meurt, dopo tanto soffrire, acquista consapevolezza e si rende finalmente conto del senso vero della vita. 

L’assurdo, di cui molto si parla, a proposito di Ionesco, va contro l’effimero e vuole consolidare certezze durature. Per questo, va scartata l’etichetta di assurdo; meglio parlare di anti-teatro, come Ionesco stesso preferisce, dal momento che, magari in forma diversa e non rinunciando al teatro, affronta la realtà, quella che tocca più da vicino l’uomo e il suo essere profondo. 

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Claude Abastado scrive: «Tutto il suo teatro è una esplorazione dell’inconscio, concepito come la fonte del pensiero e dell’azione e, nello stesso tempo, come la realtà psichica comune a tutti gli individui(7)•. L’affermazione coglie nel segno il teatro di Ionesco che la conferma ne L’Impromptu de l’Alma(8). La morte, l’aspirazione a un mondo migliore nell’aldilà e le relative incertezze sono alla base di questo teatro, anche se con tutta la buona volontà dell’autore la sua ricerca e il tentativo di dare una risposta ai perché rimangono elusi; e l’uomo Ionesco, come Jean di Le Piéton de l’air , perde quello slancio che lo aveva fatto sperare in bene, ma non demorde dal credere in un qualcosa di più duraturo. 

Le Roi se meurt è l’opera in cui Ionesco sviluppa più che in ogni altra sua pièce il tema della morte e, di conseguenza, l’impotenza dell’uomo dinanzi a questa realtà che spesso viene sottovalutata e, addirittura, dimenticata. Il re che muore è l’uomo resosi finalmente consapevole del proprio destino. Ma all’inizio insiste a non dare peso a tutto ciò, e solo quando il senso della morte, e l’idea che tutto è effimero e passeggero, cominciano a impossessarsi di lui, allora capirà che è inutile ribellarsi e che la morte, quando verrà, non chiederà mai il permesso. 

MARGHERITA: Non ne vale la pena. È irreversibile(9) . 

L’uomo che fino ad allora non aveva mostrato alcuna incertezza, adesso, tutto d’un tratto, vede crollare dinanzi a sé il mondo di cartapesta che s’era costruito, e vuole crearsi un varco per uscire da quella morsa che è l’idea ossessionante della morte, vicolo cieco faticoso per chi si accinge a imboccarlo. Alcuni uomini, magari, si arrenderanno sfiduciati a questa triste realtà, altri si rivolgeranno a Dio come ultima salvezza, altri ancora tenteranno di dare, a riprese, una ben più salutare soluzione ai loro problemi. Di questi è Eugenio Ionesco che con coraggio spinge avanti la sua ricerca, tenendo presenti la condizione umana e la futilità del destino. 

Le Roi se meurt è l’amara constatazione della morte dell’uomo, di ogni uomo che erroneamente ha posto la sua speranza nella vita. 

MARGHERITA: È tempo perduto. Sperare, sperare! (Alza le spalle.) Non hanno che questo in bocca e la lacrima all’occhio. Che abitudine (lOl. 

Ma è anche un inno alla vita, quella degna di essere vissuta nella piena consapevolezza delle nostre capacità, in vista di un bene che vada al di là 

della stessa morte. Perché, allora, Ionesco ha scritto questa pièce? Sentiamolo: 

« Sono partito da un’angoscia… Quest’angoscia era molto semplice e chiara. Essa era scaturita da qualcosa di meno irrazionale. di meno viscerale, cioè, di più logico. qualcosa più alla superficie della coscienza […l. Ero stato ammalato e avevo avuto molta paura (11) •• 

Ionesco esprime il timore e lo stato d’animo di chi sta male e si trova fra la vita e la morte. Il tempo che passa, inavvertito e impassibile, acuisce ancora di più il disagio e travolge a poco a poco ogni speranza e ogni desiderio. È allora che l’uomo riconosce i suoi limiti e cade nell’angoscia. 

A ragione, G. Dumar dice: « È questa angoscia fontamentale, esistenziale. che fa da soggetto al Roi se meurt. Mai Ionesco è andato così lontano nella descrizione dell’essere -per-la-morte. come la descrive la filosofia pessimista. da Schopenhauer a Sartre (12) ‘. Ed è questa, in effetti. la constatazione che un lettore attento farebbe, se si soffermasse soltanto su Le Roi se meurt una conclusione sconsolante e logica che è di chi arbitrariamente fa scadere tutto l’essere dell’uomo nell’ “essere-per-il-mondo” che è “essere-per-la- 

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Così come circolare è la struttura di certe pièce, anche la drammaturgia ioneschiana segue una forma circolare. Ionesco era partito parodiando il linguaggio e mettendo in caricatura la società borghese. per condannare con Tueur sans gages e Rhinocéros le aberrazioni del totalitarismo dilagante in quegli anni, specie in Romania, il suo Paese, e per constatare (La Soif et la Faim. Le Roi se meurt) l’impossibilità per l’uomo di uscire dal vicolo cieco della sua esistenza. Deluso. non potendosi elevare perché la ricerca non ha gli sbocchi sperati, l’uomo Ionesco ritorna alla sua fase iniziale, quella pessimista de La Cantatrice chauve. de Les Chaises e de La Leçon. Perché? 

La vita – dice Ionesco, a proposito de La Vase – è un continuo retrocedere. un imbrattarsi di fango. un andare verso il basso(l3). Così. in Jeux de massacre. in Macbeii e in Cefonnidable bordello egli affronta ancora il tema della depravazione collettiva. degli orrori delle guerre. dello spargimento di sangue dettato dal desiderio di prevalere sugli altri e di dominare. 

La disarticolazione del linguaggio. la sua ripetitività. le allusioni e i luoghi comuni rendono ancor più deludente e mortificante l’esistenza che non ha altra alternativa, altro scampo. se non la lucida consapevolezza delle leggi che la sovrastano. del male che incombe su tutto. 

MACBETT: Eccola tutta nuova. (Rimette la spada nel fodero. beve il boccale di vino, mentre l’Attendente esce di scena da sinistra.) No, nessun rimorso, essendo stati traditori. Non ho .fatto che ubbidire agli ordini del mio sovrano. servIZIO imposto. (Posando 11 boccale:) Molto buono, questo vino. Non risento più la stanchezza. Andiamo. 

(Guarda verso il fondo.) Ecco Banco. Hé! Come va?l14) 

Gli orrori, i misfatti delle guerre ancora una volta giustificati e voluti da ordini superiori, come in ogni tempo e in tutte le guerre: e basta la motivazione di un ordine imposto per mettere a tacere la coscienza e affogare nel vino il rimorso! Cambiano i tempi. ma l’uomo è sempre lo stesso! 

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Il teatro di Ionesco, che è un’amara riflessione sulla vita e sull’uomo, a giusta ragione, è teatro totale, nel senso che alla sua base non c’è l’uomo in sé, e inserito in un contesto sociale, ma qual è nel suo intimo, nella sua essenza e, come tale, ha veramente dell’universale. Sta qui, senza bisogno di cercare altrove, la riuscita di questo teatro che, sulle prime non fa avvertire il suo peso, ma a poco a poco attrae a sé e conquista. 

A proposito di Ionesco, si è parlato di nuovo Umanesimo. Il suo teatro valorizza l’uomo e tutto ciò che in bene è capace di fare, allontanando il male che pende sulla sua testa come la spada di Dàmocle. Un nuovo Umanesimo, questo di Ionesco, che, da una parte, mette in guardia l’uomo dagli odierni pericoli (invadente materializzazione che non gli lascia alcuno spazio e lo fa cadere nella più nera solitudine, il prevalere di ideologie che vanificano ogni suo sforzo piuttosto che innalzarlo , per cui è portato ad ammalarsi di rinocerontite – vedi Rhinocéros -, con il conseguente abbandono sfrenato a ogni eccesso), dall’altra, tende verso la ricerca di valori e verità che la dilagante materialità ha fatto dimenticare ( l’amore, il senso dell’amicizia, il dialogo, la spiritualità propria dell’uomo, l’accettazione della vita, l’ineluttabilità della morte). 

Il bello di questo teatro è che il suo autore non indica in qualche modo il suo assunto, ma procede, almeno apparentemente. senza fissi obiettivi, per cui il lettore, o lo spettatore, viene preso alla sprovvista, come quando incosciamente trovatosi immerso in un sogno e, volendone poi tirare le fila, fa difficoltà a raccapezzarsi. Ionesco è consapevole di questo(15), per cui l’azione scenica risulta molto movimentata, ricca di spunti e di contraddizioni che dicono quanto è imprevedibile la vita, mentre i personaggi non sono tutto, perché – come dicevamo – un ruolo determinante lo assolvono le luci, il silenzio, i rumori, la stessa contraddittorietà del dialogo. Quello che conta per Ionesco, e per i nuovi drammaturghi in genere, è comunicare (16), riuscire a comunicare agli altri il mondo di cui siamo un riflesso, non necessariamente ricorrendo alla parola, ma a tutte quelle manifestazioni ed espedienti che avvicinano meglio alla realtà. 

Fuori da ogni convenzionalismo, il teatro di Ionesco è soprattutto un teatro di ricerca , e quello a cui si rivolge è il mondo nel senso lato del termine. Per questo, Ionesco è scrittore di grande umanità e di finissima sensibilità. È auspicabile che molti si accostino alla sua opera, che veramente ha dell’originale e risponde appieno alle esigenze dell’uomo, mai come ora in cerca della sua vera identità. 

Salvatore Vecchio 

1) E. Ionesco, Notes et contre-notes, Paris, Gallirnard, 1966, pag. 253. 
(2) E. Ionesco,. La Cantatrice chauve, in “Théatre complet”, Paris, Gallimard, 1991, pag. 12: 
«MONSIEUR SMITH, toujours avec son journal: il y a une chose que je ne comprends pas. Pourquoi à la rubrique de l’état civil, dans le journal,donne-t-on toyjours l’age des personnes décédées et jamais celui des nouveau-nés? C’est un non-sens. 
Madame SMITH: Je ne me le suis jamais demendé! 
Un autre moment de silence. La pendule sonne sept fois. Silence. La pendule sonne trois fois. Silence. La pendule ne sonne aucune fois. 
MONSIEUR SMITH, toujours dans son journal: Tiens, c’est écrit que Bobby Watson est mort. 
MADAME SMITH: Mon Dieu, le pauvre, quand est-ce qu’il est mort? 
MONSIEUR SMITH: Pourquoi prends-tu cet air étonné? Tu le savais bien. Il est mort il y a deux ans. Tu te rappelles, on a été à son enterrement, il y a un an et demi. 
MADAME SMITH: Bien sùr que je me rappelle. Je me suis rappe/é tout de suite, mais je ne comprends pas pourquoi toi-mème tu as été si étonné de voir ça sur le journal. 
MONSIEUR SMITH: ça n’y était pas sur le Journal. Il y a déjà trois ans qu’on a parlé de son décès. Je m’en suis souvenu par association d’idées! »
(3) Ivi, pagg.142-143: 
 l.E VIEUX: Il est 6 heures de l’après-midL .. Ilfait dejà nuit. Th te rappelles,jadis, ce n’était pas ainsi; ilfaisait encorejour à 9 heures du soir, à lO heures, à minuit. 
IA V1EILLE: C’est pourtant vrai. quelle mémoire! 
LE VIEUX: ça a bien changé. 
IA V1EILLE: Pourquoi done, selon toi? 
LE VIEUX: Je ne sais pas, Sémiramis, ma crotte… Peut-etre parce que plus on va, plus on s’enfonee. C’est à cause de la terre qui toume, toume, toume, toume… 
IA VIEILLE: Toume, tourne, mon petit chau… (Silence,) Ah! ou~ tu es certenement un grand savant. Th es très doué, mon chau. Th aurais pu etre président chef, roi chef, ou mème docteur chef, maréchal chef, si tu avais voulu, si tu avais eu un peu d’ambition dans la vie… 
LE V1EUX: A quoi cela nous aurait-il servi? On n’en aurait pas mieux vécu… et puis, nous avons une situation, je suis maréchal tout de mème, des logis, puL’>que je suis coneierge. 
IA VIEILLE (elle caresse le Vicux comme on caresse un enfant): Mon petit chau, mon mignon… 
LE VIEUX: Je m’ennuie beaucoup. 
IA VIEILLE: Th était plus gai, quand tu regardais l’eau… Pour nous distraire, fais semblant comme l’autre soir. 
LE VIEUX: Fais semblant toi-mème, c’est ton tour. 
IA V1EILLE: C’est ton tour. 
LE VIEUX: Ton tour. 
IA V1EILLE: Ton tour. 
LE VIEUX: Ton tour. 
IA V1EILLE: Ton tour. 
LE VIEUX: Bois ton thé, Sémiramis. Il n’y a pas de thé, évidemment. 
(4) Per una maggiore comprensione di lonesco e del suo teatro, di grande utilità è Notes et contre-notes, citato e, in particolare, il saggio che apre il libro: L’auteur et ses problèmes, pagg. 11-43. 
(5) E. Ionesco, in “Théàtre comp1et”, pag. 601: 
BÉRENGER: Réfléchissez, voyons, vous vous rendez bien compte que nous avons une philosophie que ces animaux n’ont pas, un système de valeurs irremplaçable. Des siècles de civilisation humaine l’ont bati!… 
JEAN: toujours dans la salle de bains: Démolissons tout cela, on s’en portera mieux. 
BÉRENGER: Je ne vous prends pas au sérieux. Vous plaisantez, vous failes de la poesie. 
JEAN: Brrr… Il barrit presque. 
BÉRENGER: Je ne savais pas que vous éliez poète. 
JEAN, il sort de la salle de bains: Brrr. .. Il barrit de nouveau. 
BÉRENGER: Je vous connais lrop bien pour croire que c’est là volre pensée profonde. Car, vous le savez aussi bien que mo~ l’homme… 
JEAN, l’interrompant: L’homme… Ne prononcez plus ce motI 
HÉRENGEH: Je veux dire l’etre humain, l’humanisme… 
JEAN: L’humanisme est. périrné! Vous éles un vieux sentimental ridicule. Il entre dans la salle de bains. ÉRENGER: EnJìn, tout dc meme, l’esprit… 
JEAN, dans la salle dc bains: Des Clichés! Vous me mcontez cles betL’ies! 
HÉRENGER: Des betL’ies! 
JEAN, de la salle dc bains, d’une voix très rauque dilTicilement compréhensible: Absolument. 
HÉRENGEH: Je suL‘i élonné de vous entendre dire cela, mon cherJean! Perdez-vous la let.e? Enfìn. aimeriez-vous elre rhinocéros? 
JEAN: Pourquoi pas! Je n’ai pas vos préjugés. 
(6) M. Esslin, Le théàt.re de l’absurde, Paris, Buchet/Chastel. 1963. 
(7) «Tout son théiìtre est une exploration de l’inconscicnt, conçu comme la surce de la pensée et de l’action, et, en meme temps, commc la realité psychique commune à tous les individus» (C. Abastado, Ionesco, l’ans, Bordas, 1971, pa~. 246). 
(8) E. lonesco, in “Théatre complet”, cit., pag. 465: «Le théatre est, pour moi, la projection sur scene du monde du dedans: c’est dans mes reves, dans mes angoisses, dans mes désirs obscurs, dans mes contradictions interieures que, pour ma part, je me réserve le droit de prendre cette matière théatrale ‘.
(9) lvi, pag. 741: 
-MARGHERlTE: Ce n’est pas la peine. Elle est irréversible ‘. 
(lO) Iv~ pago 741: 
« MARGI IERITE: C’est du temps perdu. Espérer, espérer! (Elle hausse les épaules.) lls n’om que ça à la bouche et la larrne à l’oea. Quelles moeurs! -. 
(lI) C. Bonnefoy, Emratiens avec Ionesco, Paris, Bclfond, 1966, pago 90: « Je suls parti d’une angolsse… Cette angoisse était trés simple, trés claire. Elle a été ressentie d’une façon molns irrationelle, moins viscérale, c’est-à-dire plus logique, plus à la surface de la conscience […]. Je venais d’ctre malade et j’avais eu très peur ‘. 
(12) G. Dumar, Frère, a.raut mourir- Le Roi se meurt – Odéon, in “Le Nouvel Obsevateur”, 6 Dic. 1976, pag. 103. morte”. Non così è per Ionesco che – come abbiamo detto – non solo non ha cessato mai di ricercare Dio. ma fa pensare nei suoi ultimi scritti (“La quete intennittente”. “Maximilien Kolbe”) a una concezione più rasserenante della vita. 
(13) M. C. Hubcrt, Eugène Ionesco, l’aris, Seui\, 1990. Pago 260: • Ce qui se passe dans In Vase, c’est ce qui se passe dans la vie, dans notre viCo Nous avons l’impression – c’est un blasfèmel – que Dicu a une volonté d’involution. Pour moi, je trouve qu’il est tout à fait illogique, non nature!, anormal, pathologique qu’au lieu dc nous épanouir, à mesurc qUe nous avançons dans l’age, nous nous dégradions. La vie devrait étre un épanouissement, une évolution favorable et non pas une involution ‘. 
(14) E. Ionesco, in “Théatre complet”, cit., pag.lD48: • MAC13E1T: La voilà toute neuve. (Il remet san épée dans le fourreau, boit la cruchc dc vin, tandis quc l’ordonnancc sort de scéne par la gauche.) Non, pas de remords, puisque c’était cles traitres. Je n’aifait qu’obéir aux ordres de mon souverain. Service commandé. (l’osant la cruche:) Très bon, ce vino Je ne ressens plus 
(15) Cfr. nota 8, pag. 12. 
(16) E. Ioncsco, Notes et contre-nDles, cit., pag. 197. 

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 8-14.




I Sei personaggi in cerca d’autore

 Il decennio 1920-1930 segna un periodo fruttuoso del teatro pirandelliano, non tanto per la produzione che è ricca di per sé (dall’esordio poetico del 1889 all’anno della morte, avvenuta il 10 dicembre del 1936 a Roma, mentre era intento a completare il mito dei Giganti della montagna), quanto ai risultati a cui perviene. 

Mi riferisco alle innovazioni teatrali, compendiate nella trilogia del «teatro nel teatro -, molto interessante sia per i contenuti che per la drammaturgia, destinata, a sua volta, a svecchiare – come dicevo altrove – il teatro in genere che, da ora in poi, si fa portatore delle istanze vive e pressanti dell’uomo del XX secolo, più attento al suo io profondo e non per questo meno insidiato e travagliato dalla quotidianità della vita. 

Il teatro, con Pirandello, comincia a interessarsi, quindi, dell’uomo nel senso pieno della parola, coinvolgendo, così, un pubblico più vasto, e più che coprire il tempo libero dei suoi assidui frequentatori, rappresentando i fatti della vita, ora affronta problemi che ognuno si era posto e su cui, però, non si era soffermato abbastanza per la complessità che essi presentano o, magari, pur tenendoli nella dovuta considerazione, gelosamente fa proprie le conclusioni, non ritenendo di esternare agli altri quelle che sono solo sue convinzioni, anche perché la vita di società non può non esigere determinati comportamenti ben consolidati e difficili da demolire. 

Pirandello baserà la sua ricerca su un doppio binario: da una parte, sull’introspezione psicologica (con la messa in dubbio di certe acquisizioni), dall’altra, sull’esigenza di aprire nuove vie allo stesso teatro, continuamente mortificato dalla rappresentazione falsificata della realtà. Per forza di cose, ne deriva che questo di Pirandello è un teatro che dà molto spazio alla dialettica, perché, appunto, c’è da parte del nostro autore lo sforzo di portare sulle scene il travaglio esistenziale dell’uomo del suo tempo, e non solo del suo. Questo modo di fare e di intendere il teatro rientra nel cosiddetto pirandellismo, caricandolo di significato negativo, come dire, cerebrale, aberrante, qualcosa di poco chiaro. 

Certo, gli spettatori e i critici di allora si trovarono in gran difficoltà, non abituati, com’erano, alle innovazioni a cui stavano per essere sottoposti: ma, a distanza di più di mezzo secolo, e dopo gli ismi che hanno messo tutto in discussione e l’utilizzo dei più sofisticati congegni elettronici anche nel campo teatrale, non è più quello l’effetto, e la cosa non fa più impressione. 

Pirandello è l’anticipatore e l’iniziatore del teatro contemporaneo. Egli non rappresenta la realtà, perché intende il teatro come finzione, illusione, cioè (ingrandita dall’immaginazione e dalla fantasia), della realtà che ognuno si porta dentro e che vuole venga rappresentata così com’è. Per questo motivo sia Il Padre che La Figliastra di Sei personaggi in cerca d’autore pretenderanno che siano essi stessi, e non gli altri, a rappresentare il loro dramma per timore di vederlo travisato. E in questo c’è la preoccupazione di Pirandello, e di ogni altro autore, che la sua opera venga male interpretata. Anche perché, in teatro, la realtà fantastica si carica di vita e diviene più vera e reale, in quanto è «realtà immutabile», mentre quella della vita è cangiante e soggetta a diventare illusione. Un esempio Pirandello lo porta nel saggio su L’umorismo, quando fa riferimento a don Abbondio e a Don Quijote. Questi due personaggi, creati dalla fantasia, continueranno a vivere eterna la loro vita, mentre i loro rispettivi autori sono destinati a vivere sempre nell’ombra(l). 

Il rapporto arte e vita, attori e personaggi, attori e pubblico, è il motivo che sta alla base della trilogia del «teatro nel teatro», che include Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1923) e Questa sera si recita a soggetto (1929). 

Pirandello, nella Premessa al I vol. di Tutto il teatro (Milano, Mondadori, 1933), scrive: «Ciascuno dei tre lavori raccolti in questo I volume del mio teatro rappresenta personaggi, casi, e passioni che gli son proprii e che non han nulla perciò da vedere con quelli dell’altro; ma tutti e tre uniti, quantunque diversissimi, formano come una «trilogia del teatro nel teatro», non solo perché hanno espressamente azione sul palcoscenico e nella sala, in un palco o nei corridoi o nel ridotto d’un teatro, ma anche perché di tutto il complesso degli elementi d’un teatro, personaggi e attori, autore e direttore-capocomico o regista, critici drammatici e spettatori alieni o interessati, rappresentano ogni possibile conflitto». 

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Sei personaggi in cerca d’autore è del 1921 e fu rappresentata per la prima volta al Teatro Valle di Roma, con la regia di Dario Niccodemi, il 10 maggio dello stesso anno. Fu un insuccesso, con pubblico e critica disorientati. L’autore dovette aspettare la rappresentazione del 27 settembre, al Teatro Manzoni di Milano, per cogliere il suo meritato successo. 

Sulle prime, le reazioni del pubblico non potevano essere positive: non era abituato ad assistere a una messa in scena – evidentemente in apparenza – disordinata e caotica e, entrando, non poteva non rimanere deluso dinanzi a un palcoscenico in allestimento. 

Alcuni attori stanno provando Il giuoco delle parti di Pirandello, quando entrano, uno accanto all’altro, Sei personaggi che chiedono di vedere rappresentato il loro dramma. Sono il Padre, la Madre, la Figliastra, il Giovinetto, la Bambina e il Figlio, che rispettivamente impersonano il “rimorso”, il “dolore”, la “vendetta”, lo “smarrimento”, la “tenerezza”, lo “sdegno”. Il Giovinetto e la Bambina sono realizzati solo come presenze, il Padre, la Figliastra e il Figlio come spirito, la Madre come natura. 

Tra lo sbalordimento del Capocomico e le contrastanti reazioni degli attori, il Padre, a nome di tutti, espone il motivo della loro venuta. «Nati vivi» dalla fantasia del loro autore, che poi si rifiutò di immetterli nel mondo dell’arte, essi sono lì in cerca di un autore che li faccia propri e li rappresenti. Non chiedono altro, anche perché una volta creati hanno diritto a vivere e nessuno può loro negare l’esistenza(2). 

Il Capocomico è riluttante, ma l’insistenza del Padre e gli interventi della Figliastra, che fanno intravedere il dramma, lo spingono ad accettare e a ritirarsi coi Personaggi nel suo camerino, interrompendo così le prove e lasciando liberi gli attori. 

Il primo tempo si conclude qui. Il palcoscenico resta vuoto, perché gli attori, meravigliati e anche risentiti per la decisione del Capocomico, usciranno a poco a poco tutti di scena. 

Qual è il dramma intravisto e ritenuto interessante ai fini di una rappresentazione? 

Un uomo, sposato con una donna di umili natali, un po’ per l’incomprensione che c’è tra i due, un po’ per una relazione tra la moglie e il suo segretario, che viene allontanato dal lavoro, non potendo più sopportare lo stato di pena in cui la donna si abbandona, dopo avere dato in balia il figlioletto, la costringe ad andare da quello. Ciò nonostante s’interessa di loro, segue e vede crescere la bambina nata da quella unione (la Figliastra), ma poi ne perderà le tracce, perché la famigliola, per sfuggire agli occhi indiscreti di lui, andrà ad abitare in un altro paese, e non saprà più niente fino a quando, morto il secondo marito, non se li vedrà tutt’e quattro, dato che nel frattempo erano nati altri due figli. 

L’incontro sarà fortuito. Nella casa d’appuntamento di Madama Pace, il Padre, senza saperlo e all’ultimo momento, per intervento della Madre, viene a conoscere chi fosse veramente la ragazza con cui stava per andare a letto. 

La miseria aveva spinto la Madre a lavorare per conto di Madama Pace che, sfruttando la situazione e, all’insaputa della Madre, lamentandosi del lavoro fatto male, garantiva alla Figlia la normale retribuzione, a patto che si prostituisse. E costei aveva accettato per amore della Madre. 

La Figliastra, considerando l’uomo l’artefice dei mali della sua famiglia, sfrutta la nuova occasione, e gli chiede continuamente soldi, malvista dal Figlio, ora tornato a vivere col Padre. Ma l’uomo, impietositosi, accoglie in casa la Madre e gli altri figli. 

Il Figlio si fa sempre più scontroso, ostinandosi a non riconoscere quella donna che lo aveva allontanato ancora bambino, mentre la Madre s’adopera per distoglierlo da un tale accanimento. 

Ma un giorno, mentre lei è in camera del Figlio per attirarlo a sé, la Bambina annega in una vasca e il Giovinetto, avendo già meditato il suicidio, a quella vista, non superando l’angoscia, si uccide con un colpo di pistola. La Figliastra, non potendo in nessun modo perdonare il Figlio, e ritenendo insopportabile, dopo la duplice sciagura, vivere sotto lo stesso tetto di chi odia fortemente, «prenderà il volo», andandosene via di casa. 

Questo è, in sintesi, il dramma che i Personaggi si portano dentro ed è questo che vogliono rappresentare. Il secondo tempo è incentrato nel tentativo di questa rappresentazione. Solo tentativo, però, perché suddivise le scene e attribuite le parti agli attori, i Personaggi non si riconoscono in essi, reali ma non veri, e insistono che siano loro stessi a rappresentare il dramma, senza niente togliere al lavoro degli attori(3). Ne viene fuori una serie di botte e risposte, finché il 

Capocomico non richiami tutti al silenzio e alla prosecuzione della commedia con la scena di come siano andate le cose in casa di Madama Pace, un personaggio evocato dalla fantasia, di cui Pirandello andrà orgoglioso nella Prefazione chiarificatrice, pubblicata nell’edizione mondadoriana del 1925(4). Rivivere quella scena sarà una gran sofferenza per tutti, e spasimo per la Madre che, angosciata, rifarà lo stesso grido di allora, veramente soffrendo il dolore che impersona. Anche qui ognuno dei Personaggi tende a mettere in risalto il proprio sentimento, e tutti si troveranno d’accordo nel riconoscere negli attori l’impossibilità di rappresentarli. 

Il dramma è ormai ben delineato e il Capocomico può ritenersi soddisfatto, tanto che griderà «Sipario! Sipario!», per dire che fissa a questo punto la fine del primo atto, ma è frainteso dal macchinista che calerà subito il sipario. 

Pirandello, facendolo passare per un errore, chiude così il secondo tempo. È una delle tante trovate a cui ricorre per non fare pesare troppo il suo teatro che già si era distaccato molto da quello tradizionale. Comunque, è una novità che allora lasciava disorientato il pubblico e che veniva considerata virtuosismo scenico piuttosto che apertura a qualcosa di nuovo e di originale. 

Il terzo tempo della commedia vede rappresentato nella sua interezza il dramma dei Sei personaggi che, sebbene delineatosi, era stato semplicemente intravisto. È concertato, però, col Capocomico che le scene vengano raggruppate, sicché, dopo una digressione, a proposito della parola illusione che, se per il Capocomico e per gli Attori non è che la rappresentazione della realtà, per i Personaggi è l’unica realtà, e per questo, immutabile, si passa a creare l’ambiente (di sera, un giardino con una piccola vasca da una parte, dove si vedranno la Bambina e la Figliastra, mentre il Giovinetto se ne sta in disparte, vicino allo spezzato d’alberi, dall’altra parte i rimanenti Personaggi e gli Attori) e l’interesse cade sulla scena della Madre con il Figlio, il quale, però, si ostina a non volerla fare, sia perché lui non ha fatto alcuna scena, sia perché rimarrà fedele alla volontà dell’autore che così ha voluto. Dietro insistenza del Padre, che vorrebbe costringerlo con la forza, e del Capocomico, il Figlio narra ciò che è avvenuto, passando dal registro dialogico a quello narrativo. E riferisce che, non volendo colloquiare con la Madre, uscito fuori dalla stanza, si accorge che la Bambina era annegata dinanzi agli occhi stupefatti del Giovinetto che, nella disperazione della sua solitudine, si uccide quasi all’istante con una pistola che si era procurata. 

Nel trambusto di chi grida: «Finzione», e di altri, come il Padre («Ma che finzione! Realtà, realtà signori! Realtà!»), che la considerano realtà, il Capocomico grida al Macchinista di accendere le luci. 

Una storia triste, piccolo-borghese, come tante altre che erano state rappresentate, non interessante fino al punto da essere portata anch’essa sulle scene. Pirandello se n’era reso conto ed è per questo che lascia in abbozzo il dramma, preferendo scrivere solo la commedia dei Sei personaggi che lo vivono ciascuno a suo modo e col proprio sentimento. 

La riuscita dei Sei personaggi in cerca d’autore non è tanto nella narrazione- rappresentazione del dramma, quanto nel sentimento che i personaggi vi infondono, vivendolo, sulla scena. La novità, a parte quella drammaturgica, sta qui ed è qui la sua importanza artistica. Finora si era rappresentato ciò che sta alla superficie della vita, l’apparenza della realtà, quale essa sembra (ed è quello che il Nostro si è rifiutato di rappresentare), ma con i Sei personaggi è la realtà stessa che viene alla ribalta, perché i suoi personaggi sono essi stessi la realtà, quella realtà che ciascuno di essi si porta dentro e li rende impazienti(5). 

IL PADRE – Prostrato, ma nel pieno del suo vigore, si difende e al tempo stesso confessa la sua debolezza, appellandosi al buon senso degli altri, perché capiscano il suo stato d’animo. Così dice a un certo punto: «Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede «uno» ma non è vero; è «tanti», signore, «tanti», secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: «uno» con questo, «uno» con quello – diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’esser sempre «uno per tutti», e sempre «quest’uno» che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero,! non è vero!». 

È il personaggio verso cui Pirandello nutre tanta simpatia, e di cui si serve per affermare il suo modo di intendere la vita (la concezione relativistica, le sue convinzioni artistiche, l’impossib11ità per l’uomo di comunicare). E, questa simpatia gli è stata rinfacciata dalla critica. Pirandello la rigetta, e se il Padre risulta al tempo stesso accetto e rifiutato, dice che una cosa è il suo pensiero che può essere affidato benissimo a un personaggio qualsiasi, un’altra cosa è il travaglio proprio del personaggio, in questo caso del Padre, appunto, che è – come gli altri – in cerca di un autore(6). 

Il Padre è il personaggio travagliato dal “rimorso”, ma non si dà per vinto, perché sa che chiunque si tiene dentro le proprie colpe. e sa pure che ognuno – chi più chi meno – ha le sue pecche. anche se fa difficoltà a confessarle e fa di tutto per nasconderle. La sua è la debolezza propria della natura degli uomini, e per questo chiede comprensione e dispone, credo, col suo parlare accorato e concitato della simpatia non solo dell’autore, ma dei lettori e degli spettatori. 

«IL PADRE – Tutti! Ma di nascosto! E perciò ci vuole 
più coraggio a dirle! Perché basta che uno le dica è 
fatta! – gli si appioppa la taccia di cinico. Mentre 
non è vero, signore: è come tutti gli altri: migliore, 
migliore anzi, perché non ha paura di scoprire col 
lume dell’intelligenza il rosso della vergogna, là, nella 
bestialità umana, che chiude sempre gli occhi per 
non vederlo»(7). 

Personaggio interiormente travagliato, dicevo. Ma, in fondo, ha una sua solidità logica e una capacità comunicativa non indifferenti che mettono ancora più in risalto il suo dramma che risulta veramente in lui connaturato e sofferto. 

La FIGLIASTRA – Col Padre, è l’altro personaggio portante della commedia, nel senso che le è riservato molto spazio, e si fa portavoce anche lei di certe asserzioni pirandelliane. Rappresenta la “vendetta”, col compito non tanto di riscattare sé e gli altri, quanto di rendere più soffocante e oppresso dal rimorso quello, il Padre, che ritiene sia la causa di tutti i mali. 

«LA FIGLIASTRA – Per chi cade nella colpa, signore, 
il responsabile di tutte le colpe che seguono, non è 
sempre chi, primo, determinò la caduta? E per me 
è lui, anche da prima ch’io nascessi. Lo guardi: e 
veda se non è vero!»(8) 
Niente la ferma: la vita l’ha resa sfacciata e senza alcun pudore, e ogni 
occasione è buona per lanciare frecciate al Padre e al Figlio. È legata di 
amore filiale alla Madre, ma non ne accetta il comportamento rimessivo, 
dimostrandosi dura anche con lei, quando vorrebbe sottacere l’amore per 
il secondo marito. 

Il risentimento di questa ragazza è comprensibile, e all’occasione scapperà via di casa. D’altronde, come poteva a lungo stare in quella casa, se era considerata un’intrusa dal Figlio, e richiamata a certa «sanità morale» dal Padre, proprio da lui a cui non poteva riconoscere alcuna autorità, mentre ne aveva sperimentata bene la doppiezza? 

La Figliastra è un personaggio, anche lei, ben delineato, che impersona il suo dramma e insiste perché non venga sottaciuto, anzi è lei stessa a palesarlo e spinge il tutto, fino all’esasperazione del Capocomico, a suo favore. Sino a giustificarla di questo atteggiamento così intransigente e risoluto un po’ nei confronti di tutti, tranne della Bambina, che le ispira tanta dolcezza e di cui ammira l’innocenza, proprio quell’innocenza che ha dovuto perdere e per cui soffre, costretta a diventare anzitempo un’adulta disinibita. 

LA MADRE – Una madre tutta protesa a riconquistare la fiducia e l’amore del Figlio, e soffre immensamente per l’indi1Jerenza di costui. Una donna chiusa nel suo dolore, perché non solo vive la sventura di non avere avuto un rapporto aperto e leale di moglie con il Padre, e di essere rimasta vedova del secondo marito, ma porta dentro di sé la scena straziante a cui dovette assistere in casa di Madama Pace. Scena di ribrezzo e di grande sconforto che non vorrebbe più rivivere e, perciò, si ribella e supplica perché non venga rappresentata, rimproverando («Vergogna, figlia, vergogna») aspramente la Figliastra. 

La Madre, a differenza della Figliastra che non approva affatto il suo operato, tiene a giustificare il suo comportamento: 

«LA MADRE – Mi crederà, signore, se le dico che non 
mi passò neppur lontanamente per il capo il sospetto 
che quella megara mi dava lavoro perché aveva (8) lvi, pag. 99.
adocchiato mia figlia…»(9), 
e tiene sempre a precisare il suo dolore che suona come strazio e condanna: 
«LA MADRE – No, avviene ora, avviene sempre! Il mio 
strazio non è finito, signore! lo sono viva e presente, 
sempre, in ogni momento del mio strazio, che si 
rinnova, vivo e presente sempre. Ma quei due piccini 
là, li ha sentiti parlare? Non possono più parlare, 
signore! Se ne stanno aggrappati a me, ancora, per 
tenermi vivo e presente lo strazio: ma essi, per sé, 
non sono, non sono più!»(10). 

Tutto concorre a rinnovarle questo dolore, tutto concorre a riversarlo su di lei e a ridestarglielo «vivo e presente sempre». Nella sua natura di madre condensa in sé il dramma che l’opprime come una cappa di piombo da cui non potrà mai liberarsi. 

IL FIGLIO – Scontroso con tutti, risentito con il Padre per avere dato ospitalità a quelli che per lui sono soltanto degli intrusi, e non gli dicono niente. Nemmeno la Madre, che gli è un’estranea, rifiutandosi di riconoscerla. 

Seppure spinto, come il Padre e la Figliastra, è restio a ogni rappresentazione e preferisce stare in disparte, intervenendo, quando non può fare a meno, bruscamente e lanciando frecciate ora contro questi ora contro quella. E c’è un momento in cui rompe il silenzio e si confida: 

«IL FIGLIO – … Signore, quello che io provo, quello 
che sento, non posso e non voglio esprimerlo. Potrei 
al massimo confidarlo, e non vorrei neanche a me 
stesso. Non può dunque dar luogo, come vede, a 
nessuna azione da parte mia. Creda, creda, signore, 
che io sono un personaggio non -realizzato. drammaticamente: 
e che sto male. malissimo, in loro 
compagnia! – Mi lascino stare!»(11). 

Si dice non realizzato, ma per quello che egli rappresenta, lo sdegno, è un personaggio vivo e ben riuscito; il suo silenzio, il suo distacco, l’indifferenza che mostra, mentre il Padre e la Figliastra insistono perché il dramma si rappresenti, sottolineano e ingrandiscono di più questo sentimento di repulsa. Come gli altri, è egli stesso il dramma, e non può, per questo, andarsene, anche se, dietro istigazione, finge di farlo. D’altronde, il suo è un comportamento plausibile, e ce lo si potrebbe aspettare da chiunque si fosse venuto a trovare nella sua stessa condizione. Non essendo lì per rappresentare alcuna scena, si confida al capocomico, e narra, o meglio, rivive da vicino l’accaduto. 

Se la Bambina e il Giovinetto sono «presenze», l’innocenza e la purezza d’animo l’una (quasi a sottolinearci quelle perdute dalla Figliastra), un succube del dramma l’altro, Madama Pace rappresenta la forza evocatrice dell’arte, grazie a cui niente è impossibile e la creazione rimane viva e immutabile in eterno. 

Madama Pace è un magnaccia e tale è nel portamento e nel suo modo arrogante di parlare. 

*       * 

* 

Una commedia così strutturata non poteva non suscitare polemiche e incomprensioni. Pirandello sentì l’esigenza di apportare alcuni chiarimenti e pubblicò nel gennaio del 1925 in «Comoedia»: Come e perché ho scritto i Sei personaggi in cerca d’autore, saggio che nello stesso anno apparirà come prefazione nell’edizione mondadoriana. 

«Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale», dice Pirandello. E spiega così la nascita dei suoi personaggi e dei Sei, in particolare, che un giorno, sul più bello, gli furono presentati dalla «servetta Fantasia» e da quel momento non lo lasciarono in pace. 

«Posso soltanto dire che. senza sapere d’averli punto 
cercati, mi trovai davanti. vivi da poterli toccare, vivi 
da paterne udire perfino il respiro. quei sei personaggi 
che ora si vedono sulla scena. E attendevano, 
lì presenti. ciascuno col suo tormento segreto e tutti 
uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche. 
ch’io li facessi entrare nel mondo dell’arte. 
componendo delle loro persone. delle loro passioni 
e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno 
una novella. Nati vivi, volevano vivere»(12) 

Diciamo che Pirandello con questa Prefazione fa un bellissimo elogio dell’arte e, in particolare, difende a spada tratta la sua poetica. Una creazione, se è veramente artistica, vive autonoma, noncurante del suo autore. Come questi personaggi che insistono, in quanto «possono da soli muoversi e parlare». 

Evidentemente, perché insistenti, verranno accettati come personaggi, col dramma che ciascuno di essi si porta dentro e vive, e non solo il dramma in sé che viene, pertanto, rifiutato e solo a tratti, qua e là, intravisto nella commedia. 

Pirandello confessa di essere attratto da questi personaggi perché il loro travaglio interiore è tanto simile al suo: 

«Senza volerlo, senza saperlo, nella ressa dell’animo 
esagitato, ciascun d’essi, per difendersi dalle accuse 
dell’altro, esprime come sua viva passione e suo 
tormento quelli che per tanti anni sono stati travagli 
del mio spirito: l’inganno della comprensione reciproca 
fondato irrimediabilmente sulla vuota 
astrazione delle parole; la molteplice personalità 
d’ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si 
trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto 
immanente tra la vita che di continuo si muove e 
cambia e la forma che la fissa, immutabile»(13). 

A. Janner dice che la Prefazione sottolinea meglio la natura intellettuale, più che artistica, della commedia(14). Ma il ragionare di Pirandello niente toglie alla bellezza di Sei personaggi: tutto è connaturato e fatto proprio dai personaggi, tutto si svolge nel contesto della commedia con la naturalezza propria dell’arte, senza un minimo di appesantimento o di cedimento. 

Eppure, verrà criticato il personaggio del Padre perché molto vicino al pensiero dell’autore che così ribatte: «… Voglio chiarire che una cosa è il travaglio immanente del mio spirito, travaglio che io posso legittimamente – purché gli torni organico – riflettere in un personaggio; altra cosa è l’attività del mio spirito svolta nella realizzazione di questo lavoro, l’attività cioè che riesce a formare il dramma di quei sei personaggi in cerca d’autore»(15). Ma è pure vero (ed è un appunto che è stato fatto dallo Janner) che sia il Padre che la Figliastra fanno intuire di conoscere la scena che il Figlio non vuole rappresentare. A parte qualche piccola caduta. che è comprensibile in qualsiasi opera, quello che conta è che Pirandello è riuscito veramente a essere originale e al tempo stesso lucido espositore dei principi che più gli stavano a cuore: l’incomunicabilità e la mutevolezza degli uomini e delle cose, l’immutabilità dell’arte. 

Vero e originalissimo è il movimento, considerato disordine e caos dai primi critici, e invece risponde alle nuove esigenze del teatro. oltre che a sottolineare ancora meglio la complessità della natura umana e il continuo cangiare degli stati d’animo: il Padre che si difende benissimo dagli attacchi altrui e nasconde contemporaneamente la sua mortificazione, e più che giustificarsi confessa la miseria della carne; la Madre, personaggio umanissimo di madre che soffre e piange fino a gridare in modo straziante il suo dolore; la Figliastra che dichiara aperta vendetta per un bene che non 

potrà mai recuperare; e il Figlio, mortificato come tale nel periodo in cui avrebbe dovuto essere maggiormente curato e amato, cresciuto senza affetto, ora sordo a ogni affetto; tutti, indistintamente tutti, concorrono a creare all’interno dell’opera un piacere che non è soltanto estetico, e il loro procedere (apparentemente disordinato e caotico) altro non è che un ascendere armonico verso i gradi più alti dell’arte. 

Salvatore Vecchio 

* Questo scritto integra il mio precedente saggio su Pirandello, pubblicato in «Spiragli», IV, n. 2-3 – 1992. 
(1) L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Milano, Mondadori, 1990, pagg. 37-38: «… chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l’eternità». 
(2) Ivi, pag. 35: «IL PADRE (Interrompendo e incalzando con foga. Ecco! benissimo! a esser vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse: ma più veri! Siamo dello stessissimo parere!».
(3) Ivi, rispettivamente, pagg, 73, 75: «LA FIGLIASTRA – Ma non dicevo per lei, creda! dicevo per me, che non mi vedo affatto in lei, ecco. Non so , non… non m’assomiglia per nulla!».; «IL PADRE – Eh, dico, la rappresentazione che farà – anche sforzandosi col trucco a somigliarmi… – dico, con quella statura… (tutti gli attori rideranno) difficilmente potrà essere una rappresentazione di me, com’io realmente sono. Sarà piuttosto com’egli interpreterà ch’io sia, com’egli mi sentirà -se mi sentirà- e non com’io dentro di me mi sento. E mi pare che di questo, chi sia chiamato a giudicare di noi, dovrebbe tener conto». E ancora: «Appunto, gli attori! E fanno bene, tutti e due, le nostre parti. Ma creda che a noi pare un’altra cosa, che vorrebbe esser la stessa, e intanto non è!».
(4) «Quando io concepii di far nascere lì per lì Madama Pace su quel palcoscenico, sentii che potevo farlo e lo feci; se avessi avvertito che questa nascita mi scardinava e mi riformava, silenziosamente e quasi inavvertitamente. in un attimo, il piano di realtà della scena, non lo avrei fatto di sicuro, agge1ato dalla sua apparente illogicità. E avrei commesso una malagurata mortificazione della bellezza della mia opera, da cui mi salvò il fervore del mio spirito: perché, contro una bugiarda apparenza logica. quella fantastica nascita è sostenuta da una vera necessità in misteriosa organica correlazione con tutta la vita dell’opera». Ivi, pag. 18.
(5) Ivi, pag. 39: «IL PADRE -Il dramma è in noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, così come dentro ci urge la passione!». 
(6) Dice Pirandello nella Prefazione cit., pag, 13: «Se il Padre fosse partecipe di questa attività, se concorresse a formare il dramma dell’essere quei personaggi senza autore, allora sì, e soltanto allora, sarebbe giustificato il dire che esso sia a volte l’autore stesso, e perciò non sia quello che dovrebbe essere. Ma il Padre, questo suo essere «personaggio in cerca d’autore», lo soffre e non lo crea, lo soffre come una fatalità inesplicabile e come una situazione a cui cerca con tutte le forze di ribellarsi e di rimediare: proprio dunque «personaggio in cerca d’autore» e niente di più, anche se esprima come suo il travaglio del mio spirito». 
(7) lvi, pag. 16.
(9) Ivi, pag. 57. 
(10) Ivi, pag. 100. 
(11) Ivi, pag. 61.
(12) Ivi, pag. 6.
(l3) Ivi, pag. 10. 
(14) A. Janner, Luigi Pirandello, Firenze, La Nuova Italia, 1948, pag. 314. 
(15) L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., pag. 13.

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 7-19.