I “DIARI” DI VIRGILIO TITONE 

 Chi conobbe Virgilio Titone*, se lo ritrova nei Diari (tre volumi che raccolgono scritti che vanno dal 1920 al 1989, anno della sua morte) così com’era, invariato nel tempo, con la sua umanità, l’immenso bagaglio culturale, la sua capacità di leggere il passato e di prospettare il presente, senza farsi sfuggire niente, a costo di apparire un solitario e un fustigatore, solo da pochi apprezzato per quello che era, storico, letterato, scrittore, uomo d’ingegno versatile e geniale. 

Virgilio Titone fu un “personaggio” scomodo per il mondo accademico e per quello letterario, non certamente per tanti uomini di cultura che gli riconoscevano la genialità intuitiva del grande storico e l’abilità dello scrittore capace di dire anche quello che non scriveva. Perché nella sua parsimoniosità, al pari degli antichi scrittori, in poche parole sapeva contensare e racchiudere tanto contenuto rivelatore della sua profonda cultura. 

E gli amici, vecchi compagni di frequentazioni culturali o giornalistiche (quasi tutti ormai scomparsi, ultimo Montanelli) e gli ex alunni, che affollavano le aule dove teneva le sue lezioni, lo ricordano con grande rispetto per la profonda umanità che sapeva trasmettere e che lo faceva amare e rispettare per quello che era: un maestro di grande cultura. Così lo ricorda con belle immagini cariche di affetto e di stima lo storico inglese Helmut Koenigsberger, che, dalle pagine di Esperienze di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquant’anni), tesse un bellissimo elogio all’uomo e alla sua opera. E proprio di questi giorni, pubblicato sulla “Voce” di Mazara, è un profilo, seppure sintetico ma nitido, di Vincenzo Gentile, che, a proposito dei Diari, mette in evidenza «la grande coerenza, la forza dell’anticonformismo, la libertà, la religiosità, la stima per gli umili, con i quali sapeva intrattenere un dialogo schietto e lineare». E, ancora, non va dimenticato il caloroso tributo di affetto e di riconoscenza che Calogero Messina rende al Maestro nelle dense pagine di presentazione dell’opera. 

I Diari, pubblicati dalle edizioni Novecento negli anni 1996-1997, con il patrocinio del Comune di Castelvetrano (Trapani), che gli diede i natali, ci hanno restituito – dicevamo – nella sua integrità e nelle varie sfaccettature l’uomo Titone, rendendolo vivo ed ancora attuale. Gli uomini grandi sono tali perché sanno proiettarsi oltre, sanno, cioè, prevedere realtà lontane nel tempo. Chi già ha avuto l’opportunità di leggere i Diari, avrà constatato, nonostante siano passati alcuni decenni, l’attualità delle affermazioni e delle osservazioni, la ponderatezza dei giudizi, l’equilibrio nell’indicare le cose che allora si potevano fare e che tuttora potrebbero costituire un valido rimedio per ovviare a certe anomalie del vivere sociale. Ancora, il lettore avrà certamente notato la lungimiranza dei punti di vista espressi e ripresi varie volte: a proposito del comunismo sovietico, che poi crollò, della questione meridionale o di quella settentrionale. 

Trent’anni fa Virgilio Titone era il solo a parlare di questione settentrionale e nessuno lo prendeva in considerazione. Quando, poi, a distanza di anni, Bossi in altri termini, e con maniere abbastanza forti cominciò a dire le stesse cose, i governanti di turno dovettero ricredersi e, forse, pentirsi per non aver dato ascolto a chi da tempo aveva sollevato il problema con fondate cognizioni di causa. Certamente, se avessero dato ascolto al professore, che mai usava toni accademici e che, anzi, era un antiaccademico, avrebbero evitato che la Lega, allora di protesta, potesse assurgere ad elemento di rottura della stessa unità nazionale. E, stando le cose in quel modo, tutto questo era inevitabile, perché lo Stato e gli uomini che lo rappresentano, pur nel loro fare, hanno sempre trascurato le peculiarità del Sud e del Nord. 

I Diari ci danno un’immagine nitida dell’Autore. La prima impressione che anche il lettore più sprovveduto si fa di Virgilio Titone è quella di un uomo laborioso che sfrutta al massimo il suo tempo, perché possa lasciare una traccia, un segno che torni utile a sé e agli altri. E, a proposito, scrive: 

«Il pensiero è un fiume che ci trascina nella sua inarrestabile corrente. Non si ferma mai. Non possiamo non pensare. Perciò, Cartesio definisce l’anima res cogitans, essendo (sempre) pensante. Ma il pensare, nel senso più esteso del termine, si traduce e deve tradursi nel fare: nel costruire opere belle e utili per noi e per gli altri, o nell’umile lavoro di tutti i giorni, che è pure un costruire, anche quando non si pensi se non al pane da portare ai propri figli(1)». 

Titone volle essere utile fino all’ultimo, e non mancò giorno che non annotasse qualcosa sugli argomenti più disparati, dai fatti di cronaca a quelli di cultura, dalle letture che non avevano limiti di interesse, alla politica, ai mutamenti del costume e della morale. 

Quello che Sartre diceva di sé, quando gli dicevano che aveva scritto tanto («Nulla dies sine linea»), possiamo, a ragione, dirlo di lui che ha lasciato un patrimonio ricco di virtù e di opere. Perciò, scriveva ancora intorno agli anni Trenta del secolo scorso: 

«Proponiti a un tempo diversi compiti da portare a termine. Non è possibile far poco. O si fa molto o non si fa nulla. Il far molto ci dà l’abito del fare e il metodo. Inoltre ci rende orgogliosi del lavoro stesso. A questo modo si trova tempo per tutto e tutto si fa presto e bene(2)». 

Se queste brevi note ci danno già la misura dell’uomo, tanto più la esaltano gli accenti di bontà e di umanità che costituiscono l’humus di questo diario di una vita, e delle lettere, queste ultime pubblicate in appendice ad ognuno dei tre volumi. Umanità e bontà sono l’abito di chi guardò al bene comune e per questo lottò, andando contro corrente, castigando i soprusi e le angherie dei prepotenti, e fustigando i luoghi comuni. 

A leggere questo denso diario, si respira aria fragrante di libertà. E Virgilio Titone fu un uomo libero da qualsiasi condizionamento, e tale volle restare sempre, pur sapendo che la sua determinazione gli avrebbe costato tanti voltafaccia e grandi amarezze. Non se ne fece una ragione, perché, anche a constatare che i suoi articoli venivano pubblicati con cadenze più prolungate nel tempo, continuò a scrivere e a pubblicare nelle sue riviste (“La nuova critica”, “Quaderni reazionari”, “L’osservatore” ). Titone – come leggiamo nel brano sopra riportato – non rinunciò mai a pensare, che per lui significava anche agire. 

In una lettera del 1983 scrive ad un amico: «Bisogna certo pensare, ma per agire, per rendere gli altri migliori, più buoni, più onesti, più liberi dai pregiudizi comuni». Sono poche parole, ma nella sintesi, tutto un programma di vita e un messaggio rivolto non solo all’amico in difficoltà, ma a quanti hanno a cuore la pace sociale e il vivere civile onesto. 

I Diari coprono un arco di tempo che va dal 1920 al 1989. Se consideriamo che Titone era del 1905, ne risulta che molti degli scritti e pensieri riportati nel primo volume furono scritti in età giovanile, e ciò meraviglia per la profondità di sentire che vi è racchiuso. Gli stessi pensieri, ripresi ed ampliati, ma non rinnegati con l’avanzare degli anni, vengono riproposti più volte tra gli scritti della maturità e costituiscono parte del suo pensiero. Queste convinzioni così radicate gli vennero dagli studi profondi e metodici che, a partire da quegli anni lontani, lo accompagnarono per tutta la vita, da buoni compagni di viaggio, e lo fecero distinguere per serietà di intenti e coerenza. 

Dante, Goethe, Leopardi, Dostojevski, D’Ancona, nomi noti e poco noti (Lorenzo Panciatichi, poeta e letterato fiorentino del sec. XVII, per citarne uno), moderni e contemporanei, italiani e stranieri (Titone fu anche uno studioso di letterature straniere, in particolare della francese e della spagnola, di cui per un certo periodo ricoprì la cattedra palermitana), costituiscono una galleria ricca e variegata di autori che, pur nell’ampiezza degli interessi, sono il sostrato della sua immensa cultura. 

Ma, oltre all’uomo di studi, emerge da questi scritti l’osservatore attento degli uomini e delle cose. Virgilio Titone non si faceva sfuggire niente. E la grandezza dello storico sta proprio in questo, e nella capacità di spiegarsi (e spiegare) le varie realtà alla luce del vissuto, senza mai perdere di vista l’uomo e le sue vicende. Sicché i Diari sono una fonte inesauribile di notizie e di spunti, che aprono con obiettività e distacco al secolo XX quanti vogliono cimentarsi nel suo studio ed, inoltre, offrono l’opportunità di conoscere in fieri il pensiero dello storico, riversato nelle innumerevoli opere. 

Il primo volume va dal 1920 al 1969. Sono annotazioni varie e interessanti di storia (questioni meridionale e palestinese, movimenti studenteschi, realtà sovietica e Paesi comunisti), oppure, commenti a notizie giornalistiche, considerazioni e giudizi su letture le più disparate (volendo ricordare altri nomi accanto ai già menzionati: Balzac, Turgenev, Bergson, Croce, Mondolfo, Marcuse, Vallès, a parte i classici, che conosceva bene e traduceva senza ricorso ai vocabolari) e, ancora, semplici fatti di cronaca o di costume (sporcizia a Palermo, dilagare del nudo, dirottamenti aerei). 

Qualunque cosa cada sotto gli occhi o nelle mani di Virgilio Titone è suscettibile di attenzione e genera idee. Qualunque cosa, un verso o la semplice vista del mare selinuntino, è spunto per una riflessione che coinvolge tutto e tutti. 

Il 9 ottobre 1969 scrive: 

«Ieri ho fatto un bagno nel mare della mia campagna di Selinunte. Bagnandomi guardavo, come sempre mi accade, l’acropoli con le colonne del tempio di Ercole. Quel mare è antico e vi si bagnavano i miei avi selinuntini. Poiché son certo che la mia famiglia è delle pochissime che ne discendono. E anche ieri sentivo quel pieno appagamento di me stesso, che provo nel mare: come se mi liberassi da ogni cosa dolorosa e impura e mi fondessi con le acque. Ci ritornerò l’anno venturo. Dopo queste brevi pause ritorno a scrivere libri e articoli – il solo pretesto che mi resti per vivere – e a pensare ai miei morti(3)». 

Il fluire del tempo, la piccolezza umana, gli affetti familiari che ci portiamo dietro, e di cui non possiamo fare a meno, ci dicono la caducità della vita, ma anche il senso che in essa va ricercato e per il quale vale la pena di vivere. Il tutto in una forma piana e non priva di religiosità: Titone viveva per scrivere e per dare il suo contributo di idee che sono illuminanti per capire l’uomo e la società in cui vive. 

Da buon storico, l’Autore comprese bene la realtà che si stava vivendo. Gli anni Sessanta, che stavano subendo gli effetti di una economia allargata, furono anni di aperta contraddizione e di scontro, nei quali era evidente la crisi delle ideologie, tra cui quella marxista, alitante nei movimenti studenteschi. I governanti, per non perdere il controllo della situazione fecero una sterzata a sinistra, rompendo l’equilibrio fino ad allora vigente. 

L’analisi che Virgilio Titone fa di quegli anni può essere in qualche punto discutibile, ma non può non essere accolta. Il permissivismo, la corsa al posto statale, lo scadere degli studi, il successivo allontanamento dei giovani dalla politica, il barocchismo che entrò allora in letteratura, la contraddizione divenuta ancor più palese tra l’atteggiamento di pensiero e di vita, questo ed altro potevano solo suscitare sdegno nell’uomo Titone che aveva sempre lottato per la libertà dai condizionamenti e si era battuto contro “la servitù dei cervelli”. 

Il secondo volume, che copre gli anni 1970-1976, approfondisce la tematica sopra esposta, la riprende e la fa ricca di nuove argomentazioni, sempre frutto di letture di libri e di giornali. Così è anche il terzo volume che raccoglie gli scritti dal 1977 al 1989, anno della sua morte. 

Calogero Messina, nella sua calda e commossa introduzione che rievoca il maestro e l’amico, scrive: 

«Quando lo contemplavo seduto al suo tavolo stracolmo di carte nella sua sala preclusa alla luce del giorno, in compagnia dei suoi libri posati dappertutto, negli scaffali, per terra, sulle sedie, il suo volto asciutto e di grande dignità, intenti gli occhi alle pagine di un autore, pensavo a volte all’antico umanista che amava discorrere con gli uomini di altre epoche.(4)» 

Nei Diari balza subito agli occhi lo studioso, che non s’interessa soltanto di un campo specifico di conoscenza, ma è portato ad indagare su tutto ciò che è dell’uomo. In cultura era un eclettico, era aperto a tutte le istanze: voleva conoscere per paterne parlare e scrivere; in tutto cercava la cognitio causae per avvivinarsi meglio all’uomo e migliorare per quanto si può il suo viaggio tra gli uomini. 

L’immagine che Messina tratteggia di Virgilio Titone corrisponde appieno. Essa è una bella rievocazione che dice tutta la stima e la riverenza, da parte di chi lo conobbe bene e lo praticò, per l’uomo Titone, dedito ai libri e chiuso nel silenzio della stanza per studiare e scrivere. Ma se l’antico umanista se ne serviva 

* Nato a Castelvetrano (1905-1989), insegnò Storia moderna presso l’Università di Palermo. Fondò e diresse diverse riviste; tra le sue tante opere ricordiamo: Espansione e contrazione (1948), La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (1955), Origini della questione meridionale.!. Riveli e platee del regno di Sicilia (1961), Storia, mafia, costume in Sicilia (1964), La storiografia dell’Illuminismo in Italia (1969), Il pensiero politico italiano nell’età barocca (1975). 
per risuscitare fantasmi che ormai appartenevano al passato, il nostro autore studiava e scriveva per comunicare con gli altri e continuare un colloquio mai interrotto, perché a base di tutto il suo fare poneva la crescita morale e sociale dell’Italia e della Sicilia, a cui era morbosamente attaccato, anche se non fu tenero di giudizi nei loro confronti. 

Leggendo il vasto diario, affiora la chiara impressione che, in fondo, pur nei contrasti e nelle difficoltà, Titone era un ottimista, uno che amava la vita e il mondo, ed aveva fiducia negli uomini, nonostante constatasse che in certi momenti della storia tutto sembra complottare la disfatta. Eppure, non risparmiò articoli di ogni sorta, pubblicati in giornali nazionali ed isolani, finché glielo permisero, e non si stancò mai di ripetere le stesse cose. 

A proposito, il 28 agosto del 1970 così scrive a Salvatore Specchio: 

«Certamente, scriverei più spesso in quel giornale [il riferimento è al “Corriere della Sera”]. lo però non ne sono il direttore. E poi a che cosa servirebbe, se non è possibile, né in questo né in alcun altro, scrivere quello che tutti pensiamo?» 

Ma Titone non smetterà mai di scrivere, anzi rincarerà la dose, quasi per non dar tregua ad un nemico invisibile e nocivo. Già nel 1966 aveva pubblicato Il conformismo e, sempre sul tema, dieci anni dopo, pubblicherà Dizionario delle idee comuni; del 1978 è il libro La servitù dei cervelli e, di un anno dopo, Il libro e l’antilibro. 

Tutti questi scritti vengono ricordati nei Diari. In questi come negli altri, lo scrittore mette il dito sulla piaga della società, e si rivela un uomo libero e coerente che credeva davvero in un mondo migliore, nel rispetto degli altri, al di là delle parole prefatte o delle barricate precostituite. Da uomo libero dai condizionamenti, anche di partito. Le lettere, specie del III volume, ne sono la testimonianza. 

L’alto senso della libertà portò Virgilio Titone a parlare e a scrivere con la sua testa. Ad esempio, si parlava, allora come ora, dello stato di disagio della Sicilia, ripetendo discorsi già triti e ritriti e citando statistiche. Titone rigettò energicamente questa tesi, al contrario parlò, e scrive nel suo diario, di una Sicilia ricca, capace di poter essere gestita in modo autonomo. Eppure questo non avvenne allora, e non avviene ancora oggi, se non in timidi tentativi, sia per 

consuetudine radicata nei Siciliani di apparire quelli che non sono per ottenere agevolazioni statali, sia per la rapacità di molti politici che dalla dichiarata questione traevano (e traggono) tanto profitto. Queste le conclusioni a cui perveniva lo storico, e da esse partiva per parlare di questione settentrionale con i suoi risvolti negativi per tutta l’Italia. 

I Diari di Virgilio Titone aprono il lettore a tutto un caleidoscopio di idee e di pensieri che costituiscono il fondo della sua vasta produzione. E il lettore, o lo studioso, che si accinge ad esplorarla, non può non tenerli in considerazione, se vuole davvero comprenderla. 

Le lettere, che il Messina pubblica in appendice ad ogni volume, sono di prezioso corredo, perché mettono arcor più in evidenza l’uomo e le sue idee, con i molteplici interessi e gli amici, tra i quali scrittori di alto livello nel panorama italiano del secolo scorso. Ciò vuol dire che Titone era tenuto in grande considerazione come studioso e come scrittore, e per questo apprezzato e letto. 

Titone era vocato alla scrittura. Scriva di storia, di sociologia, di critica o altro, egli rimarrà anzitutto uno scrittore degno di essere accostato ai nostri migliori. Si leggano le opere di narrativa (Storie della vecchia Sicilia, Vecchie e nuove storie di Sicilia, Le notti della Kalsa di Palermo), o quelle sopracitate o le tante altre non menzionate: in tutte c’è il rispetto della parola, ponderata e messa al posto giusto, indice di padronanza del lessico che s’accompagna alle idee, di cui l’autore si fa portatore, ma c’è anche il rispetto del limite, cioè, la capacità di dire molto nella stringatezza, senza che ciò pesi nell’economia della pagina, anzi la rende agile e piacevole. 

Certamente le doti dello scrittore emergono nella loro luce più vera nelle opere di più ampio respiro, ma i Diari, appunto perché raccolgono scritti per lo più brevi, finemente lavorati, sono una palestra di stile. Molti di essi sono veri e propri poemetti in prosa che ci riportano alla migliore tradizione nostrana, a partire da Savarese, 

Rosso di San Secondo, Borgese, tutti ricollegabili alla “Ronda” e a Cecchi, con cui il nostro autore era in buonissimi rapporti. 

Virgilio Titone, con sobrietà e, nel contempo, con grande sensibilità, affida alla pagina se stesso, senza barocchismi o sentimentalismi. Ed è quello che da un vero scrittore dobbiamo sempre aspettarci. 

Salvatore Vecchio 

1) Diari (1977-1989), pag. 77. 
2) Diari (1920- 1969), pag. 114.x
3) Ivi, pagg. 208-209 
4) Ivi, pag. 170

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 4-12.




 Gentile e la cultura siciliana 

Giovanni Gentile, figura di spicco nella storia della filosofia contemporanea, s’interessò con molto impegno della Sicilia e della sua cultura. Siciliano (nacque a Castelvetrano, in provincia di Trapani nel 1875, e morì a Firenze nel 1944, barbaramente ucciso da partigiani), ricevette a Trapani la sua prima educazione umanistico-filosofica e a Palermo insegnò dal 1906 al 1913, venendo in contatto con gli uomini più in vista di allora. 

Estimatore ed amico di Pitrè, volle e inaugurò, con la pubblicazione del primo volume dei Canti popolari siciliani (1940), l’ «Edizione nazionale delle opere di Giuseppe Pitrè», facendosi sostenitore dello studio delle tradizioni popolari già bene affermato in Italia e nel mondo. Basti pensare a G. Cocchiara che nel 1923 pubblicò l’ormai classico Popolo e canti nella Sicilia d’oggi e ai tanti che come lui intrapresero la strada additata da Pitrè e da Vigo. 

Gentile raccolse in un libro, Il tramonto della cultura siciliana (1917), i saggi pubblicati su «Critica» di Croce, saggi che da una parte onorano la figura e l’opera di Pitrè, dall’altra vogliono evidenziare come la cultura siciliana con la scomparsa del grande demopsicologo si stesse avviando al suo tramonto. Egli temeva che con la morte di Pitrè, Di Marzo e Salomone-Marino avvenuta nei primi mesi del 1916, gli studiosi siciliani si sarebbero rivolti a temi ed argomenti di respiro nazionale e tutto ciò che di regionale li aveva interessati sarebbe stato accantonato. Tale convinzione gli veniva dal fatto che era un convinto nazionalista e, soprattutto, interpretava la tendenza degli uomini di cultura siciliani ad aprirsi alla realtà italiana come un volgere le spalle a quella siciliana. Alla base del libro (molto valido e informato sulla cultura siciliana di fine Settecento) c’è questo presupposto che ne costituisce il vizio di fondo. 

Il popolo siciliano, che aveva avuto parte attiva nel Risorgimento, si sentiva tradito; aveva sperato di ottenere libertà ed autonomia, aveva pensato di essersi liberato di un governo sordo alle sue istanze, incapace il Borbone di farsi garante di tutti, es’ era trovato nella stretta di un altro dominatore, prepotente, esigente esattore di tributi. E gli intellettuali siciliani se ne erano resi conto. 

Lo Stato piemontese ingrandito non soltanto esigeva tasse dai meno abbienti, ma toglieva loro i figli che servivano per l’esercito, e niente faceva per quanti avevano creduto di poter migliorare la propria esistenza. Si pensi al modo in cui fu spazzato via quel vento di primavera tutto siciliano che furono i Fasci dei lavoratori (1892-1893). Fu un senso di sfiducia che alimentò il separatismo. D’altronde, i Siciliani non avevano combattuto a partire dal ’48 e s’erano uniti successivamente all’impresa di Garibaldi per la liberazione della Sicilia? I più erano convinti e auspicavano l’autonomia, pur in una confederazione di Stati. 

Così l’isola subì un periodo di stasi, durante il quale letterati, studiosi e gente comune andarono altrove in cerca di fortuna; altrettanti restarono, sperando in tempi migliori. Era logico che tutti si adeguassero alla nuova realtà, allargando i loro orizzonti culturali; ma questo non significò che una maggiore apertura, non un collasso della cultura siciliana. Era anche logico che la prospettiva con la quale si erano visti e affrontati i problemi dell’isola non fu più la stessa, perché inserita in un contesto più largo, italiano, ma l’anima di fondo siciliana, la cultura, che è vita di un popolo, non sarebbe venuta mai meno, destinata ad alitare in ogni isolano perché sia consolidata e tramandata e continui a vivere. 

Giovanni Gentile esclude tutto questo nel suo libro, e afferma il contrario, sia nell’ampia introduzione che lo riassume, sia nella trattazione, organica nel suo insieme, ma di parte. 

«La cultura siciliana, scarsa di contenuto e di tenacia di tradizione, non mancava, per altro, di un carattere suo ben determinato; e non era possibile infatti che non vi stampasse un’ impronta rilevata quell’isolamento geografico e storico, onde essa rimase tutta chiusa in se medesima, come una nazione particolare, fin quasi alla vigilia del ‘601.» 

Si può ben notare come il filosofo, tutto preso dal suo punto di vista, dimentica il ruolo di mediatrice culturale della Sicilia nel corso dei secoli ed’ un tratto si scrolla l’immensa mole di cultura di cui essa, aere perennius, da sempre è stata depositaria. 

Senza andare troppo lontano, la Sicilia è stata sempre un porto di mare aperto ai commerci e alla cultura. Messina fu nel Medioevo città di intenso movimento: vi si convogliavano merci provenienti da Oriente e da Occidente, e con esse anche libri che tramite i mercanti giungevano ai committenti. Dante era letto e studiato; tanti studenti uscivano fuori dell’isola per andare a studiare nella penisola da dove tornavano per intraprendere nei luoghi d’ origine le varie professioni, cosi fu per Tommaso Calojra agli inizi del XIV secolo. Questi a Bologna fu compagno di studi ed amico di Petrarca, con il quale, una volta ritornato a Messina, mantenne fino alla morte (1341) una corrispondenza epistolare. 

I contatti e gli scambi culturali da e per la Sicilia ci sono sempre stati. Uno splendido esempio ci viene dato dall’ età umanistico-rinascimentale che da noi fu fertile di ingegni e di opere2. Uomini di cultura, scrittori, insegnanti, si trasferirono da una città all’ altra, perché chiamati ad insegnare o a gestire le segreterie comunali, e ben pagati per meriti acquisiti. Tutto un gran fèrvere di attività culturali, ma non solo. Troviamo i nostri umanisti nelle migliori corti e studi sparsi per l’Europa, onorati e stimati per scienza ed opere che già allora facevano grande la Sicilia. Tommaso Schifaldo, marsalese, andò a studiare a Siena, dove si laureò nel 1460 e insegnò in varie città; Pietro Ransano, palermitano, viaggiò molto e per tre anni (1488-1490) fu ambasciatore in Ungheria presso Mattia Corvino; Lucio Marineo e Lucio Flaminio insegnarono a Salamanca, Cataldo Parisio Siculo in Portogallo, Priamo Capozio in Germania, e così tanti altri. 

Non fu «chiusa» né, tanto meno, «sequestrata » la Sicilia. Essa fu ed è sempre aperta alle nuove istanze. Nel SetteOttocento, secoli a cui Gentile fa riferimento, intense furono le relazioni culturali tra Sicilia e Spagna, e tanti i libri siciliani tradotti e pubblicati in Spagna, così come quelli spagnoli venivano letti e divulgati in Sicilia; molti furono gli spagnoli che da noi vennero ad esercitare l’arte della stampa. Si trattava, per lo più, di pubblicazioni agiografiche, ma anche di storia, di narrativa e di teatro. Viene, a proposito, citato Giovanni Meli che in un suo componimento, Don Chisciotti e Sanciu Panza, richiama Miguel de Cervantes, ma conosciuti e influenti per il teatro nostrano furono Felix Lope de Vega e Pedro Calderon de la Barca3. 

La Sicilia fu aperta a tutta l’Europa. Ricordiamo gli scambi culturali con la Francia, la circolazione dei libri che molto influenzarono e fecero dibattere i nostri intellettuali. Erano da noi noti e letti gli enciclopedisti e gli opinionisti francesi (Voltaire, Diderot, Helvétius, D’Alembert, Montesquieu, Rousseau), e non mancarono gli studiosi che contribuirono con le loro opere a diffonderli e farli conoscere ad un pubblico più vasto. 

Sicché le idee circolavano tra i vari ceti, tanto da spingere alle rivolte. Si ricordi la ribellione di popolo a Palermo nel 1773, che cacciò il vicerè Fogliani. Ad annotare le conseguenze a cui quelle idee «malsane» portavano fu un nobile conservatore, Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca, che nel suo Diario paLermitano difende ed elogia il viceré4. La rivolta non ebbe l’esito sperato e presto tutto tornò alla normalità, e questo fu possibile per l’ accentuato particolarismo della società siciliana, per gli interessi di parte dei ceti emergenti capaci di bloccare ogni spinta innovativa e rivoluzionaria. 

Particolarmente Montesquieu e Rousseau ebbero non solo lettori ma anche seguaci e censori. Tra i primi, tanto per citare alcuni nomi più rilevanti, vanno ricordati Cesare Gaetani della Torre, Salvatore Maria Di B1asi, che difese Rousseau dagli attacchi di Isidoro Bianchi e di Francesco Paolo di Blasi, il quale scrisse una Dissertazione sovra L’ egualità e la disuguaglianza degli uomini (1778) e sarà in seguito giustiziato per le sue idee liberali; critici furono Antonio Pepi che nel Trattato della inegualità naturale degli uomini (Venezia 1771, Palermo 17782 ) ammette l’uguaglianza naturale ma non sociale degli individui, Tommaso Natale e Nicola Spedalieri. 

Figura poliedrica di intellettuale fu Tommaso Natale che studiò la filosofia di Leibniz e la divulgò con una sua rilettura abbastanza originale: Filosofia Leibniziana esposta in versi toscani. A lui si deve anche l’opera Riflessioni politiche intorno alt efficacia e necessità delle pene, scritta nel 1759 ma pubblicata nel 1772. Ciò significa che la Sicilia era veramente un laboratorio di cultura che non solo attingeva dal continente, ma elaborava un suo pensiero anticipatore e per certi aspetti originale. Ciò significa anche che la Sicilia non era «chiusa» e nemmeno «sequestrata». Essa stava vivendo un momento della sua storia come tanti altri, momento ricco di grandi aspettative e di forti contraddizioni, lo stesso che stavano vivendo gli altri paesi d’Europa, protesi verso il nuovo e desiderosi di voltare pagina. La sola differenza stava nel fatto che da noi si era aperti in cultura, mentre dal punto di vista politico più moderati e conservatori, perché a costituire per lo più il ceto intellettuale erano persone agiate che, seppure auspicassero riforme e miglioramenti, anche per un senso di filantropismo abbastanza diffuso nel secolo dei Lumi, tenevano molto al loro status e ai privilegi di cui godevano5. Di conseguenza, anche se le idee circolavano ed erano molto rivoluzionarie, i ceti emergenti non avevano l’interesse a cambiare radicalmente le cose. Per un benessere collettivo era il ceto colto che, fatte proprie le idee d’Oltralpe, auspicava veramente miglioramenti e riforme. Esso avrebbe voluto attuarle, cosa che risultò impossibile, non tanto perché, come scrive Gentile: «la Sicilia era stata la sola parte dell’Italia a non risentire socialmente il contraccolpo della Rivoluzione francese», quanto perché c’era nella massa un rilassamento spirituale6, un bisogno di conservare e di migliorare il proprio stato sociale, da parte dei nobili, del clero e dei borghesi, senza sovvertire l’ordine politico. La povera gente, rurale e contadina, era asservita a questi ceti e da essi dipendeva. La borghesia, che in Francia fu parte attiva e fece da traino al terzo stato, da noi cercò di emulare i ceti emergenti e di consolidare una sua posizione di privilegio, per cui, a volere usare le stesse parole di Virgilio Titone, «non manca chi, dietro le quinte, si serve della plebe e la dirige e consiglia per fini più lontani7.» 

La Sicilia è stata sempre così, ed è tuttora difficile apportarvi cambiamenti significativi. Ognuno ha pensato a sé, dimenticando gli altri. I molti interessi dei pochi ne hanno condizionato lo sviluppo. Così è tuttora. E la massa, se prima seguiva ciecamente, o rassegnata, il signore da cui dipendeva, adesso vota per l’amico che le ha promesso un lavoro, o per l’amico dell’amico di cui può avere bisogno. La povera gente non era libera allora come ora o, per lo meno, non aveva la possibilità di fare scelte, perché erano i potentati a scegliere per lei; un male, questo, così radicato da ostacolare ogni sviluppo, politico e socio-economico. 

Eppure le idee circolavano.Tra il Sette-Ottocento ci furono accesi dibattiti che affrontarono i più disparati problemi del tempo e si prospettarono soluzioni in linea con quelle avanzate in altri paesi. Così avvenne con la pena di morte, anticipando le conclusioni di Beccaria, o a proposito della querelle degli antichi e dei moderni, nella quale intervennero, tra i tanti, Vincenzo Gaglio e Giuseppe Alondres: il primo nei suoi scritti risente dell’influsso di Montesquieu ed è per i moderni, l’altro della filosofia morale del Sei-Settecento e preferisce gli antichi. 

Le dispute interessarono problemi di attualità, di diritto, di filosofia, di religione, ma anche di storiografia, tanto che si cominciò a vedere più oggettivamente il fatto storico, a voler conoscere cosa fu realmente, al di là delle spinte emotive o delle convinzioni che fino ad allora erano state di ostacolo alla verità. Nicola Spedalieri da Bronte confutava molte tesi di Edward Gibbon, l’autore della Storia della decadenza dell’Impero Romano, in una sua opera molto apprezzata da Domenico Scinà8, e l’agrigentino Vincenzo Gaglio si meravigliava come Voltai re potesse esprimere un giudizio negativo nei confronti di Augusto. Ma non accettava anche punti di vista di autori classici latini come Livio, che allora, insieme con tanti altri scrittori, era conosciuto e studiato9. 

Quanto detto finora, credo sia indizio non, come afferma Gentile, «della scarsezza di contenuto e però della debolezza di tradizione della cultura, che la Sicilia al momento della unificazione nazionale recava seco, come proprio patrimonio10 >>, bensì di ricchezza di contenuto e di un suo solido radicamento nella tradizione culturale siciliana. Se poi molti scrittori nostrani costretti a stabilirsi nella penisola (Gentile cita P. E. Giudici e F. Ferrara), ma anche quelli che continuarono ad operare nell’isola, non ebbero difficoltà alcuna a fare proprio il nuovo clima che veniva ad instaurarsi con l’unificazione, il merito va alla stessa cultura siciliana perché da sempre era stata a contatto con quella italiana. Di conseguenza, all’atto dell’unificazione, le due culture (quella siciliana e l’italiana) avevano tanti tratti comuni; per questo i nostri si sentirono a casa loro, imponendosi e dettando leggi in ogni campo della vita nazionale. D’altronde, quale altra regione della nuova Italia aveva e tuttora ha una letteratura così ricca da competere con quella siciliana? Lo stesso Dante ne riconobbe il primato11, anche se poco dopo la storia cambierà corso, come si sa, e quel primato passò alla Toscana. 

Gentile, a riprova della sua affermazione, porta come esempio il verismo di Verga, Capuana e De Roberto, la cui arte non può spiegarsi se non come prodotto del vasto movimento culturale dilagante in Europa in quello scorcio di secolo. Vera senza dubbio l’affermazione, ma non si può pretendere il contrario, che, cioè, non c’era motivo per cui la Sicilia non avrebbe dovuto risentirne, perché diversamente avremmo avuto davvero la chiusura, cosa che non ci fu. 

Le idee circolano e si diffondono adeguandosi alle diverse realtà. In Sicilia il positivismo e il verismo trovarono terreno fertile negli scrittori sopra riportati e in tanti con tanti altri, ed ebbero anche come cantore Mario Rapisardi, che fece sua la tendenza del tempo, anche se dalla sua poesia traspare un animo candido innamorato della vita e delle intime manifestazioni del cuore. Se Rapisardi, verista e romantico al tempo stesso, operò al di fuori dei canoni di scuola, non così fu per gli altri che vi si adeguarono fin quando poterono, perché nei veri artisti è l’estro che prende la mano, facendo tesoro di una materia che, messa in luce dall’arte (a niente erano valse le tante inchieste), con tanto effetto denunciava i mali della società siciliana. 

Quello che vogliamo dire è che, comunque, l’originalità non consiste nell’essere promotori di un pensiero o di un’arte, ma nel modo come quel pensiero e l’arte vengono fatti propri. Oggi parliamo di Capuana più come teorico verista che come artista; il contrario diciamo di Verga, universalmente riconosciuto come indiscusso maestro. Vogliamo ancora aggiungere, e Gentile sapeva benissimo questo, che un movimento di cultura, se è veramente tale, si diffonde da sé a macchia di leopardo, in una nazione prima, in un’altra dopo, come fu per lo stesso positivismo nella seconda metà dell’Ottocento: prima in Francia e in Inghilterra, poi in Germania, in Italia e negli altri paesi. Come tutti gli altri movimenti di cultura del passato, esso sarebbe arrivato in Sicilia lo stesso, anche a non essere unita all’Italia, e avrebbe avuto i suoi studiosi. 

Ritornando al verismo italiano, esso fu veramente tale grazie all’arte degli scrittori isolani e, soprattutto, grazie al Verga che fece assurgere a dignità elevata una materia prettamente siciliana, purificandola e vestendola di una universalità tutta propria ed originale che niente ha a che fare con il regionalismo. Il verismo italiano fu tale perché prima di tutto fu siciliano. Non per questo agli autori menzionati aggiungiamo altri, meno famosi ma meritevoli di essere ricordati e studiati, come Alessio Di Giovanni, che nei suoi lavori e in particolare in Gabrieli lu carusu12, risalta un’umanità sofferente che in Sicilia come nelle varie parti del mondo rivendica migliori condizioni di vita e invoca una giustizia negata. 

Scrive Giovanni Gentile: 

«L’Isola era stata sempre sequestrata, a causa del mare e della scarsezza dei commerci, da ogni relazione col resto del mondo. Quando nel 1781 ci venne come vicerè il napoletano Domenico Caracciolo, credeva di giungere, dice uno storico siciliano, fra gl’Irochesi e gli Ottentotti13.» 

Lo storico ricordato è Isidoro La Lumia, grande sicilianista che, rispolverando documenti e antiche carte redatte sotto i Borboni, contribuendo con il suo lavoro di studioso al bene della patria, aveva notato un regresso rispetto al passato e coglieva l’occasione, l’isola ormai accorpata allo Stato italiano, per auspicare interventi e maggiori attenzioni da parte di chi quelle attenzioni e quegli interventi aveva promesso già a partire dal 1860. 

La Sicilia è stata sempre un’isola aperta, mai «sequestrata». Al centro, com’ è, del Mediterraneo, ha mantenuto buone relazioni non solo con i paesi costieri, ma anche con quelli più lontani che vi trovavano generi di prima necessità e quant’ altro vi si produceva. Durante tutto il Settecento, nonostante l’ assolutismo borbonico, i commerci furono floridi soprattutto con la Spagna, e in Sicilia venivano a rifornirsi navi maltesi, inglesi, francesi, olandesi, portoghesi, per non dire di quelle provenienti dal nord Italia, genovesi, veneziane, livornesi e altre ancora. Si esportavano grano, orzo, sommacco, zolfo, e tanti prodotti isolani; in cambio, si importavano spezie varie, cacao, panni, legno, zucchero e merci che servivano al fabbisogno nostrano14. 

Ci furono pure periodi di crisi dovuti a cattivi raccolti che facevano registrare un rallentamento dei commerci, ma era normale e ciò si verificò dovunque. Eppure, i baroni e i mercanti trovavano il modo, con la compiacenza di uomini di governo, di vendere il grano destinato all’ approvvigionamento delle popolazioni, con i conseguenti aumenti dei prezzi e, quindi, con le epidemie e le rivolte che ne derivarono, come avvenne nel 1763 sotto il vicerè Fogliani15. Frutto, comunque, di cattiva amministrazione legata ad interessi di parte, piuttosto che ad una politica tesa a migliorare il paese, nonostante le sue risorse naturali ed umane. Se a questo aggiungiamo che gli stessi commerci che si svolgevano per mare non erano sicuri per via delle scorrerie piratesche (i pirati infestavano tutti i mari e spesso erano reclutati da nazioni nemiche per ostacolare i commerci tra stati amici ed accaparrarsi le merci), il quadro della Sicilia del Settecento è più completo. 

Ad evidenziare le potenzialità della Sicilia sono gli stessi viaggiatori che già nel Settecento affluirono dai diversi paesi per visitare l’isola tanto decantata per il clima, le bellezze e le antichità, e non calcarono la penna sulle negatività che enumera Gentile; c’erano pure, ma non era tutto nero come fa apparire. In Sicilia, come in altri paesi, si viveva quasi la stessa realtà. Certo, in alcuni di essi c’era più liberalismo, da noi vigeva un assolutismo che doveva fare i conti con le nuove idee e che in altre parti stava crollando. 

Il tedesco Friedrik Miinter e l’inglese Henry Swinburne16 fecero considerazioni abbastanza positive sulla produttività del terreno, per tanta parte, però, lasciato incolto e facevano ricadere la colpa sul governo. Altri viaggiatori notarono i commerci che abbisognavano di potenziamenti, rallentati spesso da crisi dovute a carestie o altri fattori umani. Erano visitatori che, attratti da curiosità artistico-culturali, paesaggistiche, antropologiche, spinti da quel far parlare di sé proprio della Sicilia, affrontavano non pochi disagi per visitarla, tra strade malandate, inesistenti o ridotte a pantani d’inverno, malsicure per il brigantaggio dovuto ai tanti problemi irrisolti e all’ abbandono in cui la povera gente viveva e, comunque, già molto ridimensionato nella seconda metà del Settecento. Esso non fu un fenomeno soltanto siciliano, tant’ è che i governi cercarono nel tempo di ovviare all’inconveniente ricorrendo alle maniere forti, come agì il vicerè Fogliani che diede incarico al principe di Trabia di fare piazza pulita dei banditi. 

Giovanni Visconti Venosta17, citato da Gentile, parla di rischi «bensì sempre inferiori alla leggenda». Ma siamo già nel 1853. Brydone18, che fu in Sicilia nella primavera-estate del 1770, si premunì di guardie del corpo, ma non ebbe incontri spiacevoli, anzi fu bene accetto e rispettato ovunque. Lo stesso Hager19, che visitò la Sicilia in due occasioni, tra il 1794 e il 1796, riferisce di aver sentito parlare di banditi, ma non ebbe di essi conoscenza diretta. 

C’è da dire che in Sicilia i briganti, per un insito senso di ospitalità, avevano sempre avuto massimo rispetto per i viaggiatori stranieri. Mlinter, scrive: «A dispetto di tutti i racconti di banditi e di assassini, io ho viaggiato disarmato nella più perfetta sicurezza. [ … ] Collera e vendetta sono i peccati ereditari di ogni nazione meridionale d’Europa. Si trovano questi in grado distinto tra i Siciliani, ma un forestiero che non ha alcuna occasione d’irritare un nazionale, oppure, che sappia osservare la necessaria precauzione, non ha nulla da temere.» La stessa cosa in tempi più recenti affermerà H. Koenigsberger (20) che nei Siciliani riconosce come «preminente caratteristica: la loro umanità». 

Giovanni Gentile, che certamente ebbe a cuore le sorti della sua terra, voleva con i suoi interventi dare un contributo alla causa nazionale dell’Italia che, politicamente unita, mancava ancora di quell’unità spirituale che la rendesse veramente una nazione. Essa ancora non aveva saputo legare a sé le popolazioni perché non aveva mantenuto le promesse fatte, lasciandole nel più completo abbandono, aumentando così lo stacco tra Nord e Sud e favorendo brigantaggio e rivolte. 

La Sicilia, dallo sbarco di Garibaldi in poi e quasi per tutta la prima metà del 

secolo scorso, non aveva visto niente di nuovo, e la sua gente aveva aspettato invano la terra promessa; tante volte si ribellò, bruciò perfino archivi e municipi, ma lo Stato centrale non fece altro che mandare l’esercito a sedare con la forza le rivolte21. A niente servirono le denunce e le inchieste. Lo Stato non aveva la forza di garantire la giustizia perché non c’era alcuna volontà politica di risolvere i secolari problemi delle classi rurali e contadine. E questo malcontento acuì lo spirito separati sta dei Siciliani, da Napoli prima, quando nel 1848 idearono e si batterono per un’autonomia tra Stati confederati, e dallo Stato italiano dopo, quando nel 1866 Palermo insorse per separarsi da Torino. Tentativi entrambi falliti non perché mancavano gli uomini e le idee, ma perché la classe colta che se ne faceva promotrice non trovò l’unità d’intenti con le altre classi sociali, per cui facile venne ai poteri costituiti ristabilire l’ordine con l’esilio e l’uccisione dei capi rivoltosi. 

Il 1848 fu una grande lezione politica per tutti, ma dovunque, nei vari Stati europei come in Sicilia, la rivoluzione rientrò e ci fu una forte repressione; il 1866 fu la rivolta palermitana del «Sette e mezzo» (durò poco più di una settimana dal 16 al 22 settembre) causata da diversi fattori, non ultimi il malessere dilagante e la delusione: i Siciliani, nell’abbandono sotto i Borboni, si erano venuti a trovare ancor più abbandonati, spogliati e soli sotto i Savoia! 

Ancora una volta le aspirazioni dei Siciliani erano state disattese. E anche se tanti, a cominciare da Mazzini, per un motivo o per un altro, condannarono l’accaduto (l’Italia stava vivendo una congiuntura sfavorevole per via della guerra con l’Austria), certo non fu, come scrive Gentile, pur riconoscendo il disagio e l’ amarezza della popolazione siciliana, «opera brigantesca degli elementi più torbidi delle infime classi sociali, sobillati e sostenuti segretamente da clericali e borbonici, colpiti ne’ loro privati interessi»22. Essa fu, per dirla con Francesco Renda, «senza dubbio una manifestazione incontenibile ed esplosiva di malcontento e di protesta popolare» che trova le sue cause in un insieme di motivi che andavano al di là della stessa Sicilia e vedevano coinvolti l’economia isolana, il governo centrale e la stessa politica, sia della destra che della sinistra23. In ogni caso, fu un campanello d’ allarme che denunciava la fragilità del costituito Stato italiano e il desiderio di una vera autonomia, tradita e sempre lontana. 

Unita all’Italia, la Sicilia s’avviò verso il tramonto come nazione, ma non rinunciò mai alla cultura nella quale la sua gente si è sempre riconosciuta e continuò a tenere viva la sua aspirazione autonomistica. Le rivolte a cui abbiamo fatto riferimento, il separatismo del 1943, la stessa rivolta del 1958 e le spinte in tal senso di questi ultimi anni confermano questo assunto. Ciò vuoi dire che, pur in una visione politica unitaria italiana, la Sicilia non ha mai cessato di sperare in una sua indipendenza e di guardare alla tradizione, non come rimpianto del passato, bensì come punto di riferimento ad un presente che è pure incerto. Senza dubbio, l’unità apportò un notevole cambiamento, ma il modo di vedere e di sentire siciliano, pur arricchendosi di nuovi apporti, rimase invariato. 

Gentile non manca di vedere in tutto questo il persistere di un regionalismo che andò dissolvendosi dal 1860 in poi24. Egli individua la causa della «dissoluzione di questa cultura regionale» nell’isolamento in cui la Sicilia era rimasta fino al 1848, «estranea e ripugnante » alla nuova cultura che si respirava in Italia e altrove, alludendo alla cultura romantica, con gli studi giuridici, filosofici, letterari e con la nuova concezione della storia. 

La Sicilia, aperta e sensibile al nuovo, respirò quella cultura, anche criticamente, calandola nella sua realtà. Sicché lo stesso romanticismo non fu «estraneo » né «ripugnante», perché da noi si verificò quello che stava avvenendo (o già era avvenuto) negli altri paesi. Anche qui ci fu tutta una polemica classico-romantica che coinvolse i letterati migliori e che si svolse tramite dibattiti e articoli pubblicati nei diversi giornali e riviste siciliani e italiani, come «La Ruota» e «Il Vapore» di Palermo, «Lo Stesicoro» di Catania, «Lo Spettatore Zancleo» di Messina, «Giornale Arcadico » di Roma. Tanto per citarne alcuni, classicisti furono F. Malvica, T. Gargallo, A. Gallo, L. Vigo, S. Costanzo, F. P. Perez; romantici F. Bisazza, M. Coffa, G. Turrisi Colonna, Eliodoro Lombardi, G. Daita, S. Barbagallo-Pittà. 

Ma, al di là degli schieramenti, classicisti ·e romantici furono accomunati dal desiderio di vedere la Sicilia socialmente riscattata e più democratica. I primi auspicavano maggiore autonomia, senza cambiare né l’orbita d’influenza né l’ordine sociale; i secondi propendevano, invece, per un cambiamento radicale, vedendo nell’unità con le altre regioni italiane maggiori possibilità di sviluppo per la Sicilia. Per questo, entrambi, accomunati nel bene maggiore e in esso concordi, mirarono ad una letteratura che fosse comprensibile e popolare25. 

Anche dal punto di vista filosofico la Sicilia risentì del clima culturale italiano e straniero (soprattutto tedesco e francese) del Settecento e primo Ottocento. Essa da sempre aveva avuto rapporti strettissimi con il resto d’ Italia e non rimase sorda alle nuove istanze del pensiero europeo che vi giungevano, passando dalla Francia; semmai, elaborò e fece proprie quelle che riteneva più congeniali per un suo rinnovamento morale e civile. I suoi filosofi migliori, che pure si erano nutriti dell’empirismo e del razionalismo del Settecento, e avevano assimilato bene la filosofia di 

Wolff, giudicarono parolaio e inconcludente l’idealismo tedesco di Fichte, Schelling ed Hegel, conosciuto attraverso l’eclettismo di Victor Cousin, che fu seguito da molti filosofi siciliani, come Francesco Pizzolato e Salvatore Mancino. 

Di Cousin i nostri studiosi apprezzarono l’afflato spiritualistico, l’ affermazione della libertà, della spiritualità indi viduale e dell’ esistenza di Dio. Perciò, se da un lato veniva a consolidarsi lo spiritualismo, terreno fertile aveva trovato in Sicilia il positivismo e l’evoluzionismo spenceriano, studiati anche dal giovane Gentile al liceo «Ximenes» di Trapani26. 

L’apertura allo spiritualismo, la formazione di una coscienza nazionale, il guardare alla tradizione, era il clima culturale del Risorgimento, ed era quanto avveniva in Italia, dove il pensiero illuminista venne sviluppato nel sensismo di Condillac e di Tracy, o anche criticato, come fecero Galluppi, Gioberti, Rosmini, Romagnosi e altri. 

Contrariamente a quanto afferma Gentile (27), che, cioè, la cultura siciliana rimase ferma al secolo XVIII, tra la fine del Settecento e il primo Ottocento in Sicilia si respirò lo stesso clima che in Italia. Lo studio e la ricerca mirarono alle esigenze del momento storico e perciò Vincenzo Tedeschi studiò e approfondì Kant, quello della Metafisica dei costumi (1797), cioè, Kant etico e politico, ma anche P. Galluppi, a sua volta studiato da Antonio Catara-Lettieri, e G. D. Romagnosi, che fu seguìto da un folto gruppo di studiosi e filosofi, come V. d’Ondes Reggio, B. Castiglia, E. Amari, F. Ferrara. 

Romagnosi fu apprezzato per la sua «filosofia civile» e per il recupero della filosofia della storia, la quale aprì agli studi storici e fece conoscere ed avvicinare i filosofi siciliani a Vico. Così, lo stesso V. Gioberti, che ebbe anche lui diversi seguaci (il citato Catara-Lettieri, Antonio Maugeri, Nicolò Garzilli), fu studiato per il suo ontologismo che afferma l’ «Ente» e valorizza l’ «esistente» come fattore di storia. Di qui l’esigenza di indagare la storia millenaria della Sicilia per farla meglio conoscere nella realtà e nei bisogni presenti. Per gli storici siciliani non fu facile, ma questo obiettivo li guidò nella ricerca e nella vita, da uomini di studio e di impegno nel sociale. Ciò li portò a sacrificare per il momento il principio dell’autogoverno siciliano e ad accantonare tutte le altre rivendicazioni. 

Queste argomentazioni riprendono quelle che Gentile espone nel Tramonto della cultura siciliana. Da quanto espresso, però, questo «tramonto» non ci fu, perché la cultura siciliana seppe affrontare il nuovo corso politico e continuò ad essere voce e riflesso dei Siciliani. È vero che la Sicilia rinunciò per il momento, come era avvenuto nel passato con le altre dominazioni, alla sua autonomia e si inserì a buon diritto nel nuovo contesto italiano, ma l’«anima siciliana », la cultura restò attiva ed operosa, anzi, risultò corroborata, perché si arricchì, adeguando le sue problematiche alla nuova realtà. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

1. G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, pagg, 4-5, Sansoni, Firenze, 1963′. 
2. S. Vecchio, L’Umanesimo siciliano, «Spiragli», 1997, anno IX, n. 3-4, pag. 5. 
3. C. Messina, Sicilia e Spagna nel Settecento, Società Siciliana per la Storia Patria, 1986, pag. 245, Palermo. Cfr. anche S. Correnti, La Sicilia nel Settecento. Il tramonto dell’Isola felice, voI. II, Tringale, Catania, 1985. 
4. S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, Torino, ERI, 1964, pago 250. Vedi anche F. De Stefano, Storia della Sicilia. Dal secolo XI al XIX, Bari, 1948, pag. 236 e segg. 
5. F. De Stefano, cit. pag. 261. 
6. Ivi, pag. 305. 
7. V. Titone, Sicilia e Spagna, Novecento, Palermo, 1998, pag. 293. 
8. L’opera è: Confutazione dell’esame del Cristianesimo fatto dal signor Edoardo Gibbon nella sua Storia della decadenza del Romano Impero», Roma, 1784. Scinà scrive: «Gibbon alle prese con lo Spedalieri ti pare un pigmeo, ti fa proprio pietà.» Cfr. C. Messina, Settecento italiano classicista e illuminista, Herbita, Palermo, 1980, pag. 29. 
9. V. Gaglio, Problema storico-critica-politico: Se la Sicilia fu più felice sotto il governo della repubblica romana, o sotto i di lei imperatori, in «Notizie de’ Letterati», Palermo, 1772; poi in Opuscoli di autori siciliani, voI. XVII, Palermo, 1775. Cfr. C. Messina, ciI., pagg. 56-57. 
10. G. Gentile, cit., pag. 3. 
11. Dante, De vulgari eloquentia, I, 12,2; I, 2,4. 
12. A. Di Giovanni, Teatro siciliano, Studio Editoriale Moderno, Catania, 1932. Si trova anche in Teatro verista siciliano (a cura di A. Barbina), Bologna, 1970. 
13 G. Gentile, cit. pag. 5. 
14. C. Messina. Sicilia e Spagna nel Settecento, cit. Cfr. V. Titone, Economia e Politica nella Sicilia del Sette e Ottocento, Palermo, 1947. 
15. S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, cit., pagg. 244-250. 
16. F. MUnter, Viaggio in Sicilia (a cura di D. Peranni), Palermo, 1823; H. Swinburne, Voyage dans les Deux Siciles (a cura di J. B. de la Borde), Parigi, 1787. 
17. G. Gentile, ciI. pago 7. Cfr. G. ViscontiVenosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute, Milano, 1904. 
18. P. Brydone, Viaggio in Sicilia e a Malta nel 1770 (a cura di V. Frosini), Milano, 1968. 
19. J. Hager, Impressioni da Palermo, Palermo, 1997. 
20. D. e H. Koenigsberger, Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquant’anni), Caltanissetta, 2002. 
21. S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, cit., pagg. 289-292. 
22. G. Gentile, cit., pag. 22. 
23. F. Renda, Storia della Sicilia (dal 1860 al 1970), vol. I, Palermo, 1984, pagg. 208-212. 
24. F. De Stefano, ciI., pag. 393. 
25. G. Santangelo, Letteratura in Sicilia da Federico II a Pirandello, Palermo, 1975′. Cfr. F. De Stefano, cit., pag. 354. 
26. M. Di Lalla, Vita di Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze, 1975, pago 6 e segg. 
27. G. Gentile, cit., pag. 31.

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 10-19.




 Arte e vita nelle opere di Romano Cammarata 

Francesco Boneschi, parlando di Cardarelli – poco prima che il Maestro morisse – così scriveva: «Non si diventa grandi poeti nella felicità (felicità in senso comune, perché l’artista, disperato fin che si voglia, gode pur sempre una sua altissima felicità). Tutto ciò che è bene per la vita è male per la poesia. Non si nasce artisti, ma solo sensibili. Artisti ci si mantiene alimentandoci continuamente e coraggiosamente di dolore»(1). 

E non può essere diversamente. Solo chi ha provato a sue spese le amarezze della vita e il dolore, può capire e comprendere, e da artista parlare al cuore, a caldo, senza bisogno di cercare altri modi e parole, perché le sue parole e i suoi modi, realmente sperimentati, sono fatti propri dagli altri, e assurgono ad una forma d’arte elevata, divenendo canto spiegato, dove tutto sa di musica e di spontaneità, non essendoci il freddo lavoro di calcolo da laboratorio. 

Romano Cammarata è uno di questi artisti (pochi, in verità) che «ha preso il fuoco/con mani di gelo» e trova la sua linfa nel dolore: e la sua opera nasce dal bisogno di estrinsecare la propria esperienza, perché sia di giovamento a tutti lungo la strada comune. Ma se questo è il motivo che lo spinge a calarsi col ricordo nel dolore che è, poi, un riviverlo con sofferenza, l’Autore fa di tutto perché la sua sia anche una denuncia, volendo così contribuire al miglioramento delle condizioni di vita di quanti soffrono, dovunque essi si trovino, negli ospedali, per esempio, o nelle carceri. Sicché, parafrasando Boneschi, il dolore alimenta l’arte, è vero, ma è anche vero che apre alla vita, facendo scoprire quelle dimensioni che spesso, pur essendo in superficie, non vengono considerate e apprezzate, e così noi riacquistiamo fiducia nel mondo e nella vita che, tutto sommato, vale veramente la pena di vivere. 

Questo ottimismo è frutto dell’apertura verso gli altri. Cammarata crede nella bontà dell’uomo, perché crede nel dialogo, nella forza della parola che, come la pioggia insistente o il vento, scava in profondità, e concilia e accomuna nei sentimenti più nobili. 

Romano Cammarata è autore di una sola opera: il suo stile, ora asciutto, ma disteso e pacato, ora sferzante e mai indulgente; e la sua scuola è la vita, l’aperto scenario dove si susseguono come in una moviola le alterne vicende dell’uomo e delle cose illuminate da un sole che non sempre riscalda e non per questo è meno desiderato. 

La vita, passata al setaccio dal dolore, e purificata, assurge ad arte e parla all’uomo, facendolo fremere di commozione e di gioia per la riacquistata serenità che lo porta a considerare la sua condizione identica a quella di tanti altri uomini che, però, perché non sono stati direttamente travolti dal vortice impetuoso della sofferenza, spesso non si rendono conto di niente. 

«Tra la folla ignara della nostra pena, camminiamo 
nell’aria trasparente del crepuscolo, ancora una volta 
insieme, consapevoli che ci stiamo inoltrando nel buio»(2). 

Nel nostro autore, la vita perviene a dignità d’arte per un dono che è della vera poesia, e nella sua opera non c’è mai il compiacimento solipsistico che, a lungo andare, anche nelle sue forme più alte, stanca. Ed è veramente lontano D’Annunzio con la sua concezione della vita come arte! Ci troviamo dinanzi ad uno scrittore e poeta che, preso dal suo lavoro, tutto avrebbe pensato che darsi alla scrittura e all’arte figurativa per comunicare! La molla, invece, la farà scattare la malattia che, ad un certo punto, lo spingerà a scrivere la sua avventura da un ospedale all’altro, ora in momenti di abbandono che farebbero pensare subito al peggio, se non fossero sostenuti dalla presenza di spirito che lo attacca alla vita, ora in altri più pacati, dove il miraggio della guarigione è vivi1ìcato dagli affetti puri che solo in circostanze del genere vengono nobilmente rinsaldati e messi in risalto nella loro luce più vera. 

“Dal buio della notte”, metaforicamente parlando, non è facile venire al giorno pieno: non è di tutti guarire dal cancro. Ebbene, quasi per un evento inspiegabile, ma anche per l’accanirsi dell’uomo dinanzi al male, a cui non vuole soggiacere, in una lotta impari contro il tempo minaccioso, l’Autore ne esce vittorioso, rapendo, alla maniera del Foscolo, ma per illuminare il giorno, una “favilla al sole”: 

«Un giorno, nuvolo e grigio, mi trovo solo in quel 
cortile. A un tratto il cielo si apre a un raggio di sole, 
che viene a scaldare la mia solitudine. Gli offro il volto 
ferito, deturpato, quasi felice di quella inattesa carezza. 
Per quanto tempo non so. Dopo, passato lo stordimento, 
provo la sensazione di aver rubato quel raggio di sole 
caduto distratto dal cielo fin giù nel cortile, perché con 
geloso egoismo l’ho tenuto nascosto, non l’ho diviso con gli 
altri compagni tenuti come me nel chiuso dolore. 
Per questo sento di dover chiedere loro scusa, 
raccontando del raggio di sole. 
Mi guardano con aria attonita, non capiscono questa mia 
preoccupazione, non intuiscono questo sentimento che 
invece a me dà la misura dell’umanità nuova che la 
sofferenza sta facendo crescere dentro di me»(3). 

Una prosa concisa e densa al tempo stesso di significati profondi. Non sembra proprio vero di avere sotto gli occhi una prima opera. Eppure, a leggerla, sin dall’inizio, si ha la sensazione, e subito dopo la conferma di un dettato squisitamente padrone di sé, che non si fa prendere la mano da compiacimenti di ogni sorta. La parola ubbidisce senza alcuna forzatura e si costruisce le immagini con una sobrietà invidiabile, raggiungendo l’effetto desiderato. Intendiamoci, Romano Cammarata non fa letteratura, narra con la sua voce di sempre il vissuto. Ed è proprio dalla sua esperienza di dolore (l’Autore altruisticamente non lo augura a nessuno) che la parola acquista il tono giusto e, a tratti, si eleva, e diviene musica, fortificando, col suo straordinario potere catartico, l’animo stanco del poeta, e di quanti si accostano al libro, e consola. 

L’effetto consolatore della poesia! A dirsi, l’accostamento al Foscolo viene da sé, ma è puramente casuale. Se nel poeta ottocentesco è facile rilevare il compiacimento letterario, nel Nostro questo non c’è, perché la sua è una poesia sbocciata, giorno dopo giorno, lungo la strada d’un calvario doloroso. 

«La morte di un compagno è sempre qualcosa che ti 
sconvolge. Sai dell’attesa, dell’arrivo della Signora, lo 
presagisci lo senti con l’istinto delle bestie e poi vedi 
circondare uno dei letti con un paravento: è calato un 
altro sipario sulla vita di un uomo»(4). 

C’è in queste parole una partecipazione silenziosa, sofferta, dello scrittore che non richiede alcun commento, ma c’è anche il senso ritrovato di una umanità profonda che non conosce limiti. Il compagno morto, la foglia che cade, gli alberi agonizzanti, il pianto per la sua e altrui sventura, sono semplici immagini di un uomo che nella sofferenza scopre la poesia e la pietà fraterna, il mondo, in poche parole, degli uomini, quale dovrebbe essere: un lavoro onesto, l’amore verso il prossimo, il rispetto della natura che, come l’uomo, vive una sua vita. 

Se il dolore rende l’uomo molto sensibile, è pure vero che non sempre lo abbatte e lo fa scivolare troppo in basso. Ci sono risorse tali che anche sull’orlo del precipizio danno una forza e un coraggio che da soli bastano per risollevarlo. L’attaccamento agli altri (Leopardi scarta l’idea del suicidio perché, diversamente, arrecherebbe danno a coloro che gli vogliono bene, e il papà di Andrea, così si chiama il protagonista di Dal buio della notte, dirà:«Nessuno di noi appartiene completamente a se stesso…»), l’amore coniugale, l’affetto patema, sono l’ancora della salvezza e il supporto psicologico che lo fanno insistere e lottare. D’altronde, cosa varrebbe la vita se non ci fosse questa altalena così variegata che la rende accettabile e desiderata? 

Il dolore, in un’opera come questa, prende la parte del leone: esso viene contemplato nelle varie sfaccettature, e nel suo vortice non c’è solo il protagonista, ma tanti che – come lui – per un verso o per un altro soffrono nel silenzio le proprie pene: i compagni di stanza, il vecchio padre venuto dalla Sicilia, e poi Francesca, la moglie, che non lo lascerà un istante. Anche il figlioletto ne subirà le conseguenze e si sentirà insicuro. Causa di altro dolore per Andrea che vorrebbe aiutarlo e non può, poiché lui stesso ha bisogno “di qualcuno che [lo] tenga per mano”. 

Ma questa sofferenza, visibile e no, è sopportata con virilità, senza ripiegamento né abbassamento di armi. Anzi, Andrea, con coraggio, denuncia ora le disfunzioni ospedaliere (ritardi negli accertamenti, pessime condizioni di ricovero in corsia, e gli ammalati trattati in malo modo) ora le persone, incapaci di svolgere i ruoli di loro competenza (professori che prendono lucciole per lanterne, sofi senza scrupoli né un minimo di psicologia che non hanno rispetto per i degenti, certe suore e portantini che tutt’altro dovrebbero fare invece che lavorare negli ospedali). È una denuncia che non usa toni forti. perché schiva della passionalità che in occasioni del genere si manifesta. Andrea, nella sua umanità, prova pena per quanti agiscono disonestamente ed anela ad un mondo di serena fraternità. 

Dante dovette ricorrere al sogno per calarsi nell’aldilà; Cammarata, più realisticamente, ad occhi aperti e quando meno se l’aspettava, ha provato su questa nostra terra l’inferno e ne ha espiato anche le pene. Senza bisogno di ricorrere alla fantasia, ha riscoperto l’uomo nell’umanità più vera e il mondo più bello che mai. Da qui il suo inno alla vita, l’attaccamento alla natura e alle cose, il senso dell’amicizia, e l’amore coniugale corroborato “dal buio della notte”. 

«Quante notti è rimasta accanto a me su una sedia, 
pronta ad ogni mia necessità, quante volte alla incerta 
luce dell’alba l’ho trovata a dormire col capo reclinato 
sul mio petto, stringendomi la mano nell’attesa di un 
altro giorno. 
Povera Francesca, quante preoccupazioni, quanto 
dolore nella tua giovane esistenza, e io egoista che ho 
desiderato di andarmene, di lasciarti»(5). 
E qualche pagina dopo, continua: 
«Subisco dopo tanta inattività e immobilità una 
esaltazione lirica che mi fa amare tutto ciò che è 
vivo, che si muove, che scorre: i fiumi d’acqua, i 
fiumi di pensieri, il sangue delle vene, il vento tra 
le foglie, le immagini entro gli occhi, il sole tra le 
dita, il ricordo che scorre nella memoria, la vita nei 
nostri corpi, e il tempo che scorre su tutto»(6). 

Dal buio della notte è un’opera densa, straziante, scritta con sincerità da uno dei poeti più veri e originali di questo fine secolo. Essa sta a dimostrare come siano incerti e provvisori i confini tra la prosa e la poesia. E ciò si nota tutte le volte che ci troviamo dinanzi a poeti autentici. 

La materia bene posseduta circola nella pagina e scorre con la fluidità propria degli stati d’animo che trovano la loro assuefazione nella parola sapientemente dosata e messa al posto giusto. Sicché basta un suo lieve spostamento o una diversa impostazione della frase per innalzare di tono il discorso o, per meglio dire, la poesia, perché Romano Cammarata, pur nei momenti più brutti, sarà sempre vigile a se stesso e non perderà mai di vista la calma interiore. 

Rileggiamo il passo sopra riportato. Bastano un dosaggio più attento e il ricorso alla versificazione, perché il discorso acquisti maggiore respiro e si faccia canto che, dopo l’adagio dell’inizio, piano piano s’innalza e si diffonde, esercitando nell’animo travagliato un influsso rasserenante e liberatorio. 

Amo tutto ciò che scorre 
i fiumi d’acqua 
i fiumi di pensieri 
il sangue nelle vene 
la lava entro la terra […] 
Scorre il ricordo nella memoria 
scorre l’azione sulla pigrizia 
scorre la vita sui nostri corpi 
scorre la guerra sui campi di pace 
scorre la pace su inutili stragi 
scorre l’amore sul ghiaccio dell’odio 
Amo il tempo che scorre su tutto (7) 
È bastato che il poeta utilizzasse certi accorgimenti, di cui spesso la poesia moderna si serve (l’anafora, il climax, l’accumulazione) per elevare di tono la parola poetica, raggiungendo risultati veramente sorprendenti. Allora la musica acquista la cadenza d’un canto che invade il corpo e l’anima, e noi respiriamo appieno un’aria salutare. 

Ma ciò che il poeta maggiormente canta è la ritrovata fiducia in quella vita che ha sempre amato e che ora descrive coi colori più propri. L’uomo che ha sofferto l’apprezza ancora di più e trasmette questo suo attaccamento agli altri. Per dare colore al tempo nasce da questo stato d’animo e da questa esigenza, ed è la speranza che si alligna in chi ama la vita, la fiduciosa attesa del meglio, la forza che ci vuole, perché ognuno si faccia coraggio e l’accetti (la vita) così com’è. 

Romano Cammarata si è dato alla poesia (poi, magari, si darà anche ai suoi lavori a sbalzo) “per dare colore al tempo”. Ma a quale tempo? Evidentemente, al tempo di sempre, anche se in particolare al tempo dell’inoperosità forzata, attanagliato dalla malattia e dal dolore, o “assediato”, come scrive M. Petrucciani nella Prefazione e, ancor prima di lui, lo stesso poeta nella lirica Piove. 

Ma -dicevamo- il poeta crede nella vita e la ama. Perciò la canta, pizzicando le corde della sua chitarra che, nonostante tutto, è sensibile ad ogni sollecitazione. 

Sono l’anima di una chitarra 
i suoi sonori accordi 
sono le mie vesti 
vivo nell’intimo del legno 
concavo e vibrante […] 
Sono l’anima di uno strumento 
che è l’anima di un uomo 
e il mio canto 
è il canto dell’uomo… (8) 

C’è in questa, come in altre liriche, un contrasto fra la morte, rappresentata dal dolore che spesso annebbia lo spirito, e l’amore, sempre ritornante e diverso, ora per la vita con i suoi alti e bassi che ci riserva, ora per la donna, necessaria e indispensabile compagna del nostro “viaggio”. Ma la poesia di Cammarata, in ogni caso, è caratterizzata da una pensosità raccolta (“E sarò con me stesso/a discutere ancora/che vivere/vale sempre la pena/anche se c’è/un dolore che stanca”; “Noi non sappiamo/cosa sa il bambino”) che non ammette tentennamenti, ed è un atteggiamento, questo, che non gli farà perdere di vista la realtà che lo circonda. Vedi, ad esempio, Nel circo di notte: la pista del mondo, di notte, è deserta, ma ciò non esclude che non sia vegliata da qualcuno, dai “tanti pagliacci” che siamo noi, che è il poeta stesso, preso dalle ansie e dalle preoccupazioni del giorno. 

La vita va vissuta, nonostante tutto. Ed allora, ecco che accanto alle note di soffusa pensosità, mai pessimistiche, al contrario di tanta lacrimevole poesia nostrana (Nel buio della notte, il Nostro farà dire ancora al papà di Andrea: « Non disperare mai: il mondo è degli ottimisti, i pessimisti non sono che spettatori »l. si fa strada la speranza (“Mattino / ho respirato il sereno / Se ti potessi fermare / sarei un fanciullo … “), con la richiesta di “un attimo in più” e l’amore. avvolto, quasi, da un senso di sacro che invita al silenzio per paura che venga profanato. 

Mi sono fermato 
sul tuo volto puro 
ho poggiato la mano 
sulla tua fronte 
non turbata dagli anni […] 
Vorrei 
pronunciare un nome 
ma le tue labbra 
accennano di no 
Che importa il nome? 
È solo giovinezza (9) 

A volte, il poeta è più disteso, e la parola, allora, acquista più scioltezza, perché essa, come una creatura, è partecipe del suo stato d’animo. Onda marina è una lirica gioiosa, direi solare per la luce che irradia e si fa nostra. Le immagini sono quelle di sempre, vive, tra la realtà e la metafora, e rese più agili dai versi brevi dei quinari e dei senari, ad eccezione di un binario e di un settenario. 

Onda marina 
onda d’amore 
il tuo corpo il mare 
il tuo· amore il vento 
ed io lo scoglio 
che attende l’abbraccio… (10) 

L’insistenza dell’anafora ubbidisce ad un crescendo interiore, prima che si materializzi nella parola e nelle immagini, che solo nel “sonno d’amore” raggiunge il suo culmine. 

Altrove c’è anche la consapevolezza che quest’onda possa sfuggire all’abbraccio. Come in Ferma il tuo sguardo, dove il tempo ha operato mutamenti e solchi profondi, e al poeta non resta che prendere atto della realtà, senza recriminazione alcuna. 

Il punto più alto di questa lirica va visto, a parer mio, nell’attacco che segue i primi versi: 

Che vale il desiderio 
se esso è tormento 
è angoscia 
se richiama solo fantasmi 
se ti mostra 
crudo violento e spoglio 
un reale che non è tuo 
che ti raggela dentro 
che strappa allo spirito 
urla ribelli … (11) 

L’uomo è troppo provato per cedere alle lusinghe delle illusioni, e se è vero, com’è, che il dolore tempra gli animi, la poesia li sublima. E il lettore si sentirà come trasportato e spinto nel vortice di un tumultuare che sembra dover esplodere da un momento all’altro. 

Il procedere, apparentemente prosastico, sempre ricco di accorgimenti tecnici, ma sempre tendente all’essenziale, si ascrive nell’ambito di una scrittura poetica tra le più riuscite del Novecento europeo. Un influsso? A parte la lezione dei classici rivisitati con un’ottica tutta moderna, un posto di rilievo occupa quella di Verlaine delle Poesie saturnine e, più propriamente, dell’Arte poetica. E tanti altri potrebbero essere citati (nella lirica sopra riportata, ad esempio, scorgiamo un’affinità col Cernuda dei Piaceri proibiti de “La realtà e il sogno”, per non parlare dei nostri (Ungaretti, Quasimodo, Cardarelli, Montale). Ma, a che vale? Ogni grande poeta deve necessariamente qualcosa agli altri, riprendendone, anche senza cercarli, i motivi, e li amplia e li sviluppa, facendoli propri, cantandoli con voce sicura e modulata. D’altronde, cosa han fatto gli antichi poeti? Eppure, ognuno di essi ha una fisionomia che lo distingue e lo connota; in poche parole, ha uno stile suo, personalissimo. Com’è questo di Romano Cammarata che impronta di sé ogni pagina, perché la parola è levigata dal caldo del suo sentire. 

La sua tematica è quella della poesia di tutti i tempi e, anche se nasce dal dolore, si colora di vita e si scalda d’amore. Vita e amore, però, entrambi condizionati dal tempo, vigile impassibile delle cose e dell’uomo, inteso ora come contrasto’ fra il giorno e la notte. tra la luce e il buio, ora tra presente e passato. 

Riprendiamo la già citata Mattino: 
Mattino 
ho respirato il sereno 
Se ti potessi fermare 
sarei un fanciullo 
Mattino 
ieri fiaccola 
a fugare atroci sogni 
oggi speranza 
di un altro giorno 
da aggiungere alla vita (12) 

Ma il tempo passa inesorabile (“Mi fermo a guardare/il giorno che muore/come sempre come tanti/eppure io trovo/nel sole che cade/qualcosa di umano/qualcosa che è mio”). Allora la morte acquista contorni precisi e si delinea in tutta la sua realtà. Il poeta l’osserva soltanto. anzi l’aspetta e, rivolgendosi alla sera, dice: 

Sei ora una scadenza: 
ad ogni tuo apparire 
cancello un giorno amaro 
del mio diario (13) 

E, con una bella immagine. antica e sempre nuova, perché rivisitata con sensibilità moderna, il Nostro si paragona alle foglie e agli alberi “molli di pioggia”: 

Ho visto gli alberi 
molli di pioggia 
piangere soli 
Ho pianto con essi 
anch’io 
solo come la foglia che il tempo 
con mano crudele 
stacca dal ramo 
solo come l’albero 
avvolto dall’umida nebbia (14). 

Bisogna provare per credere, si dice comunemente! E, in verità, Romano Cammarata, sull’orlo del percipizio, si è trovato nelle condizioni di constatare com’è triste per l’uomo dire al mondo addio. Ma – vogliamo sottolineare un concetto che riteniamo fondamentale per la comprensione dell’opera cammaratiana – il poeta non piange perché il giorno gli è “amaro”, nel senso comune del termine. No, non si lamenta per questo, cosa che farà dire ad Ungaretti:«La morte si sconta vivendo»; è perché sente di dover lasciare questo mondo che, tutto sommato, ama intensamente. E se, per Ungaretti, la morte diviene quasi una liberazione, non così è per Cammarata, attaccato com’è alla vita, anche se c’è un sentimento di soffusa malinconia, dovuto, molto spesso, all’impossibilità di viverla come vorrebbe. 

Così la stessa notte, nei momenti migliori, perdendo la connotazione di cui parlavamo sopra, diviene il tempo dell’amore. Si veda, ad esempio, La notte, bellissima lirica, dove un alone di mistero e di sogno avvolge il corpo della donna “cercato frugato/illuminato appena/da riflessi di stelle”. Il poeta è pervaso da una gioia interiore che non è godimento dei sensi, ma l’aprirsi di un’anima innamorata “alla ricerca di ombre/che non sono/quelle della notte”. 

Notate come il climax e gli enjambements, ricorrenti in tutto il testo, danno una vivacità inconsueta, propria del canto che niente concede alle stonature e, tanto meno, alla provvisorietà. 

Dopo 
sarà bella la strada 
ancora avvolta 
nel buio 
riempirla di noi 
strapparla dal sonno 
come ho fatto con te 
raccontare alle strade 
ai lampioni, ai gatti randagi 
una storia d’amore 
e dire che è bello il tuo corpo… (15) 

E così, in qualche altra lirica, dove la notte è uno scenario aperto alla vita, forse, più disteso, ma è sempre la vita che pulsa, magari, con i suoi dolori e con i soprusi che la caratterizzano. Si veda ancora Nel circo di notte o, meglio, Notte siciliana, dove gli uomini ipotizzano, andando dietro alle loro aspettative represse, un mondo migliore. 

Il presente è visto nella sua realtà contingente. A volte, intriso di dolore (“Presente/ponte ai giorni/pilastri crudeli/piantati nella carne/ogni lastra/ogni bullone/è grido di uomo/sacrificato/alla memoria”), ma la speranza vi raffiora sempre, come lo scoglio dall’acqua (“Mattino/ieri fiaccola/a fugare atroci sogni/oggi speranza/di un altro giorno/da aggiungere alla vita”). 

Il futuro è una terra lontana e inconoscibile. Ma il poeta non sembra interessarsi tanto del futuro. Egli vive nel presente e, perciò, l’accetta, così com’ è, perché non può essere diversamente, ma criticamente lo passa al setaccio della sua esperienza e può anche non condividerlo. 

Cammarata non ama i colori forti, anche se in lui c’è una vera propensione per la luce: 
Luccichio di mondi lontani 
l’impossibile che non si compie 
se non al tramonto. 
Ho sete di luce 
attendo l’estate e non so 
mi smarrisco 
in un gioco ostinato (16). 

Preferisce, piuttosto, la mezza tinta, sia perché vuole soffermarsi meglio a guardare la realtà che lo circonda, sia perché il non definito corrisponde ad una sua particolare intima attrazione. Sicché alle stagioni dense predilige la primavera e l’autunno: la vita al suo sbocciare e l’inizio della fine. 

La natura vive, come l’uomo, il suo giorno, ora nei colori più vivi, ora nel grigio che ingiallisce le foglie. 
È aprile! 
intorno 
la vita si arrampica 
su per la luce 
si scalda di sole 
Un grido 
mi lacera dentro 
mentre scendo 
scale d’angoscia (17) 

Ma il poeta soffre; sente che la vita gli pulsa dentro, con i sensi disposti a darsi e che, intanto, niente può fare, se non gridare il proprio dolore. A chi? E allora lo reprime, lo tiene per sé, mentre tutt’intorno sa di nuova luce. A questo punto, comincia a propendere per l’autunno. Vedi Foglie sparse, Mi sei passata accanto, Ho visto le foglie cadere, dove il Nostro, pur consapevole di ciò che ci aspetta, è colto da una malinconia dovuta piuttosto alla vita che se ne va e non alla morte che s’avvicina. 

Mi sei passata 
accanto 
senza guardarmi… 
Ho sentito 
lo stesso vento 
che stacca le foglie 
dal ramo 
nell’autunno (18) 

L’immagine dell’albero che diviene spoglio e delle foglie che cadono è tanto cara al Nostro che la ripropone con insistenza. Nella sua umanità, li sente non dissimili a noi, come creature accomunate dallo stesso destino. Un’immagine, questa, a cui tanti poeti, nel tempo, sono ricorsi (basti ricordare Dante, Arnault e Leopardi, suo insigne traduttore, Verlaine, Cardarelli, entrambi molto vicini per sensibilità e canto a Cammarata), e in ognuno di essi acquista connotazioni diverse, sempre nuove, che le distinguono e le fanno apprezzare per la loro aderenza alla realtà delle cose e della vita. 

In Mi sei passata accanto la sillabazione rigorosa ubbidisce ad una musicalità sciolta che assorbe e fa proprio il realismo umanissimo del poeta, perché la poesia nasce e si alimenta del vissuto quotidiano, per il dono che è suo di renderlo liricamente, grazie alla parola che – come abbiamo detto prima – fedelmente esterna e traduce i suoi stati d’animo. 

Cammarata, comunque, non indugia sul reale; esso è solo un punto di partenza, l’angolo di osservazione che gli permette di esprimere l’essenziale che gli urge dentro. Anche nelle liriche più palesemente realistiche, il dato di fatto è solo un pretesto che richiama il noumeno. Si veda la più volte citata Nel circo di notte, dove il poeta non è attratto dal circo in sé, ma dalla vita che vi è racchiusa. 

Lo spettacolo è da poco terminato, e il poeta s’aggira per la pista ormai deserta che ancora sa di urla e di giochi, un pagliaccio che col suo fare disinvolto e distaccato sino a poco prima aveva divertito il pubblico, ora non può più contenere la sua malinconia. E se ne sta lontano dagli altri “con in mano il violino/che più non ha note”. 

Suona un violino 
un pagliaccio innamorato 
leva il suo pianto 
tra corde e tamburi […] 
Dagli occhi che ridono 
lacrime nere di cera 
cadono giù a bagnare 
la pista del circo 
È il mondo 
racchiuso in un circo di notte (19) 

La parola, nella sua levità, acquista un valore simbolico e vuole si legga sotto aspetti diversi, nonostante sia fruibile e aperta a tutti. Conferma che, questa di Cammarata, è una poesia pervasa dalla sensibilità propria della migliore lirica contemporanea. 

Il verso libero, poi, ha un suo rigore logico, e il ricorso alle figure retoriche mira sempre a suscitare sensazioni nuove e imprevedibili in ciascuno di noi. E il pregio di una poesia siffatta è che non solo si dà all’ascolto, ma vuole che si senta e si faccia propria. 

Ritornando ora al motivo del tempo, il passato acquista una sua luce nel ricordo. A volte, il poeta è invaso da un senso di malinconica tristezza, di vuoto che lo lascia disorientato (“e quando un uomo/non ha più ricordi/né idee né il caldo di un abbraccio/quest’uomo è niente”), altre volte, rievoca con pacata dolcezza una visita. Qui le parole, ridotte all’essenziale, disegnano immagini di squisita freschezza: 

Il sapore struggente 
di quell’abbraccio di sposa 
e di quello festoso e leggero del bimbo! 
Sapeva di primavera quell’abbraccio 
come le margherite raccolte nei campi 
a riempirmi il cuore e le mani (20). 

Più spesso il ricordo lo riporta alle sue origini, all’infanzia, alla sua terra di Sicilia. Come ne I ricordi, ove tutto sa di sfumato e, quasi, di antico. 

I ricordi 
uccelli migratori 
tornano sempre 
all’origine 
attraverso l’oceano 
della vita passata […] 
torno all’isola 
circondata di ignoto 
cerco un tempo 
uno spazio 
vecchie dimensioni… (21) 

Ma il tempo opera irreparabilmente e non sempre il desiderio di approdo viene appagato (“Non trovo i margini/i nomi delle cose…), sicché il poeta deve scavare nella sua memoria per trovare agganci con un passato ormai lontano. Così, in Vecchia strada, si paragona ad uno “stanco viandante”, a cui solo i ricordi fanno compagnia, spinto dall’intimo bisogno di ritrovarsi nei luoghi che gli appartennero. 

I ricordi come sassi 
sparsi alla rinfusa 
seguono la strada. 
Li ritrovo nella notte 
questi ricordi 
sulla strada illuminata 
di polvere di luna 
quando la solitudine 
mi spinge stanco viandante 
a ricercare ancora 
luoghi che sono lontani 
perduti forse laggiù 
lungo la strada 
illuminata di polvere di luna (22). 

L’inizio è quasi una supplica. Ma, perché, cosa cerca il poeta? Forse, se stesso bambino fra tanti altri suoi coetanei; forse, quel mondo isolano che s’era lasciato dietro, coi volti scavati dalle fatiche, con le cantilene che vorrebbero essere canti e sono voci strozzate dai secolari soprusi. 

Notte siciliana è una sintesi delle “vane coordinate” che il poeta tira sul filo della memoria per ritrovare sé e quel mondo lontani per sempre. 

Notte siciliana 
accordi di chitarra 
echi di canti lenti 
che nel buio vanno 
a cercare la vita… (23) 

E non rievoca soltanto; la sua è anche una denuncia che nasce da un bisogno di giustizia che vorrebbe ridare all’uomo (“ritornate all’uomo/e allo strumento”) la sua dignità. 

La lirica di Romano Cammarata, oltre a segnare un momento particolare della sua condizione umana ed esistenziale, diviene anche mezzo di riscatto e impegno contro ogni [orma di stortura che tanto condiziona la società. Sempre col suo timbro di voce originalissimo e familiare, che dà il senso e la misura di una poesia dotata di un solido equilibrio umano ed estetico. 

Il tema della denuncia, presente in Dal buio della notte e Per dare colore al tempo, diviene protesta e sfida in Violenza, oh cara, pubblicato da Sciascia nel 1986. 

Il titolo è provocatorio, ma il libro è tutta una provocazione contro le ingiustizie e i mali che travagliano la società. L’Autore non risparmia nessuno, nemmeno lo Stato che, come detentore di potere, spesso usa violenza, piuttosto che tutelare il diritto dei cittadini a vivere la loro vita. 

La storia che narra è un fatto di cronaca giudiziaria come tanti, e sarebbe passato inosservato, se Agostino Bertoni, il protagonista, non avesse voluto andare sino in fondo. È accusato di sequestro e la prova sono le banconote da centomila che la posta gli ha dato al momento di riscuotere la pensione, e che spendeva per le sue esigenze quotidiane. 

Una vita normale, da uomo-pensionato qualunque, vedovo, senza pretese, con le solite passeggiate giornaliere (più che altro per portare a spasso Eva, la cagnetta bastarda che gli era stata affidata da un bambino e a cui s’era particolarmente attaccato) e la solita lettura del giornale. E le giornate sarebbero passate così, sempre uguali, se due poliziotti non l’avessero prelevato e portato al vicino commissariato, e subito dopo in carcere. 

Bertoni protesta, ma dinanzi all’ottusità gretta e meschina del commissario, preferisce non insistere. Quello che più lo preoccupa è la cagnetta Eva che costituisce il suo unico problema; per il resto, non deve rendere conto a nessuno. 

«Un uomo decide della sorte di due altri esseri 
avviandoli a luoghi diversi: uno al carcere, l’altro al 
canile; luoghi che forse si differenziano nel nome, ma 
che hanno in comune lo stesso fine: di rinchiudere 
esseri che per mala sorte sono divenuti chi randagio, e 
chi si è fatto ladro, chi ha azzannato per fame o per 
odio o per rabbia, e tutti con lo stesso destino: quello di 
venirne fuori quando, e se sarà, cani rabbiosi»(24). 

È una riflessione amara che, per un verso, dà la misura della profondità di sentire del protagonista, per l’altro, intacca il modo di far giustizia, il sistema che non funziona con tutti i mali che ne derivano. 

Risolto il problema della cagnetta (che sarà affidata, dietro sua richiesta, ad un agente), Agostino Bertoni si rasserena, ed è allora che, contrariamente al Meursault di Camus, nel silenzio della cella decide la sfida allo Stato, alla Giustizia, perché adoperi le leggi nel rispetto del cittadino. Da qui scatta la molla della protesta ad oltranza, visto che lo si incrimina di un fatto non commesso: che sia lo Stato a provare la sua colpevolezza. Lui, Agostino, farà da spettatore a questo dramma che, per certi aspetti, potrebbe dirsi assurdo, ma non lo è. Ed è inutile fare degli accostamenti ad autori che hanno affrontato questo tema, perché è la vita con le sue sfaccettature che, ad un certo punto, acquista connotazioni diverse e che solo un ossevatore attento mette in risalto.  

Romano Cammarata è uno di questi, e la sua interlocutrice è la vita, che va vissuta, giorno dopo giorno, con serietà di intenti, se si vuole un’esistenza migliore. Per questo, Agostino non differisce per forma mentis dal personaggio di Andrea, anzi ne continua l’azione, tutta improntata del suo ritrovarsi fra gli uomini e di impegno nel sociale. E se Andrea aveva lottato per uscire dal buio, e partecipare alla vita, Agostino si dà alla lotta perché non vuole essere un passivo, e desidera che sia fatta giustizia alla libertà del vivere. Il chiudersi in sé, il riflettere, che vedono Andrea intento al recupero di sé, e alla comprensione della vita e del mondo che lo circonda, per Agostino. sono la valvola di sfogo di un uomo che a stenti si riconosce nella società in cui vive. Sicché. entrambi i protagonisti formano un tutt’uno positivo. entrambi seguono lo stesso percorso che li vede impegnati contro ogni sorta di stortura che condiziona e reprime. 

Agostino è un uomo solo, non ha altri rapporti se non quelli occasionali, Carmela, la donna che periodicamente gli riassetta la casa, e con lui ha vissuto momenti intensi e felici, non è più che una cara amica che finisce per soddisfare soltanto le intime esigenze del corpo. Ma, per il resto, non gli dice niente e, forse, versa più alletto su Eva che sugli altri suoi simili. 

Questa di Agostino è la solitudine dell’uomo moderno, che fa chiudere agli altri. Perciò parla col suo io, discute tra sé e affronta certi discorsi esistenziali che hanno una loro logica e che è quella di chi, non assorbendo passivamente ciò che gli si presenta, rielabora ora constatando ora criticando. Sicché, letto con superficialità, a qualcuno potrebbe sembrare che il romanzo sia un mosaico di tesi ben costruite e saldate; e invece non è così, perché, di riflesso, è la vita – come dicevamo -, anzi il travaglio d’un uomo che, ad un certo punto, reagisce al negativo che la quotidianità presenta. Si veda, a proposito, la pagina dedicata ai “randagi”, o quella in cui parla di democrazia o, ancora, l’altra dove discute di violenza. È una profondità di pensiero di uomo “qualunque”, ma consapevole, di chi, insomma, tenendo saldi i piedi a terra, non si serve di spicciola retorica, ma del vissuto individuale che, come tale, per la sua realtà, spesso, assurda, coinvolge tutto il tessuto sociale. 

Violenza, oh cara è un libro di ampio respiro, e si sviluppa con un movimento a spirale che ha dell’imprevisto. L’uomo solo Bertoni, uscendo allo scoperto, crea rapporti tali che ci ripropongono valori che sembra siano scomparsi. E la positività di questo personaggio sta soprattutto qui, non solo nel rifiutare la violenza che gli viene propinata. Bertoni ispira fiducia, perché è spontaneo; perciò, chiunque gli si avvicina, attinge il meglio che può e lo fa suo. 

L’incontro con l’avvocato d’ufficio, che poi sarà il suo legale di fiducia, fa instaurare un rapporto di amicizia e di ammirazione reciproca che attenua, se non dissolve del tutto. nel più giovane, il contrasto, antico e sempre nuovo, tra padri e figli. Nel giro di poco più di due pagine, (autori come Turgenev, ad esempio, vi hanno dedicato interi libri), il Nostro, in una prosa ricca di tanta umanità, perviene a risultati sorprendenti. 

«Noi figli, per la generazione che ci separa, per il tipo 
di rapporto che esiste, difficilmente riusciamo a 
comprenderli, e poi, come mi sta accadendo ora, un 
estraneo mi parla mi dice le stesse cose e subito lo 
capisco, ne accetto le idee. 
Credo che stasera farà felice mio padre, perché lo 
saluterò con più rispetto e credo che sarò più in grado di 
comprenderlo, di ascoltarlo. Grazie per questa lezione» (29) 

Altro incontro importante, decisivo, che lascerà un’impronta duratura nell’uno e nell’altro, è quello con Carlo, un giovane recluso, divenuto “randagio rabbioso” per violenza subita, con cui Agostino discute e parla con tutta sincerità, cercando di chiarire – prima di tutto a se stesso – i lati oscuri della loro vicenda di uomini. E nessuno si sarebbe immaginato che i due siano legati tra loro più di quanto non sembri: la loro condizione, o meglio, la loro salvezza dipende da un gesto di dedizione e di amore verso il prossimo: Carlo, venendo a conoscenza del reato, di cui è accusato l’amico, per lui, padre più che confidente, si dichiara colpevole e complice del sequestro Gerlandi, scagionandolo dall’accusa. 

Il romanzo è tutto scatti imprevisti, come questo del “gesto sublime” di Carlo, movimento di ritorno che disorienta e commuove, perché il lettore tutto avrebbe previsto, ma non che l’amicizia potesse dare una così nobile prova. E questo avviene perché Agostino ha posto resistenza alla violenza sopraffattrice; ora vince, perché ha operato con dignità nel bene. 

Il male si può sconfiggere, questo è il messaggio umano dell’Autore: occorre scavare nelle coscienze, perché è lì che si alligna molto spesso, quasi inavvertitamente, senza che ce ne rendiamo conto. D’altronde, lo stesso giudice Perri non è colto dall’imbarazzo e dal dubbio, non ha momenti di perplessità e di rimorso (“E se fosse realmente innocente? Se fosse, come sembra e ne ha tutta l’aria, uno di quei poveri diavoli…”), mettendo anche lui le dita sulla piaga d’un sistema che non funziona? 

Questo di Romano Cammarata è un mondo che non conosce pessimismo, perché diversamente sarebbe la resa, il chiudersi in sé, la disfatta; e, invece, è apertura, confronto e darsi disinteressatamente. Un mondo in cui l’essere coerenti viene premiato, e fiduciosi, quindi, bisogna guardare avanti senza titubare. Sotto questo aspetto, il Nostro si pone tra quegli scrittori (Ionesco vi tenderà con le sue ultime opere, pur partendo da altre premesse) impegnati al recupero di un umanesimo nuovo, mirando, ciascuno a suo modo, ad elevare moralmente e socialmente la nostra travagliata esistenza. Ne deriva che Violenza, oh cara, è basato tutto sul contrasto fra la violenza e l’amore, ma è l’amore, nel senso più ampio, che predomina incondizionato. 

Bertoni avrebbe dovuto da lì a poco riprendere la sua vita abituale, e gli si presenta dinanzi un’altra donna, vittima, stavolta, di una ben più atroce violenza: Sofia, la moglie dell’agente di polizia che aveva preso con sé Eva, la cagnetta, ed ora vedova e sola, con una bambina da mantenere e da allevare, perché il marito è stato ucciso in un conflitto a fuoco con alcuni delinquenti. 

L’incontro di Agostino Bertoni con la donna è di una straordinaria delicatezza e di grande sensibilità umana e artistica insieme. 

«La porta si socchiude, poi si apre, e Agostino si 
trova di fronte una giovane donna, pallida nella cornice 
dei capelli neri e dell’abito nero che mette in risalto una 
contenuta bellezza»(26). 

Ed è anche una pagina di singolare bellezza. La donna ci ricorda la madre di Cecilia, di manzoniana memoria: bella nell’aspetto, dignitosa nel portamento, ben tagliata nella sua figura provata dalla sofferenza. 

Cammarata è un artista a cui bastano pochi tocchi di cesello, perché un’immagine s’imprima bene nella nostra mente e non Si dimentichi mai. E come si può dimenticare la tragedia eli cui Sofia è rimasta vittima indifesa? Agostino, l’alter ego dell’Autore, uscito da poco dalla pesante prova che conosciamo, adesso non ha più pace, non si spiega e non vorrebbe ammettere come mai la società cada così in basso; ne soffre, perché anche lui ha toccato con mano una violenza di altro tipo, ma sempre violenza che intacca profondamente l’anima e rende partecipi dell’altrui disgrazia. 

Agostino, indirettamente coinvolto in questo dolore, non si riconosce e non accetta più la sua filosofia eli vivere; la solitudine, sinonimo di egoismo, che finora ha caratterizzato la sua vita, non ha modo di esistere, perché sa che potrà essere utile agli altri. E l’idea che già gli ritorna spesso nella mente, di prendere con sé madre e figlia, non lo lascia un istante. Eppure vuole esserne certo: ne parla con Carlo durante un colloquio e ne parla anche con Carmela che, nonostante si profili la possibilità di perderlo, lo incita, come Carlo, a compiere “un gesto bello”. 

«“Ma che aspetti, Agostino, vuoi che te lo dica io, quando 
lo sai benissimo”. Interviene Carlo, interrompendo le 
ultime battute onnai intuiie, che l’amico stava per fare, 
“Perché non compi anche tu un gesto bello, meraviglioso, e 
offri loro la tua casa, la tua compagnia, la tua presenza e 
sicurezza di uomo?! Lo credi possibile? Realizzabile? Se sì fallo subito»(27). 

Il dettato è appropriato, sicuro, come se la fluidità del discorso avesse trovato l’alveo proprio. È la foga di dire di chi, uscendo da una situazione dolorosa, si compenetra nel dolore altrui e vuole che le cose vadano per il verso giusto, per eliminare dal vivere quotidiano tutte quelle violenze, piccole o grandi, che a lungo andare mortificano e disorientano. 

Ma anche questo libro, come gli altri di Romano Cammarata, è tutto da leggere. Le parole e i commenti dicono poco, quando si ha da fare con un vero libro. È preferibile ascoltare, leggere con grande umiltà, pagina dopo pagina, per gustarne la bellezza e meditarlo. Allora ti prende un tumultuare interno che è l’immedesimarti in ciò che i personaggi dicono e fanno, il ricrearteli dinanzi con la loro dignità cii uomini provati ma non vinti, sicuri di sé, fruitori di valori che. nonostante i rumori effimeri della nostra età, ‘godono pur sempre cii una luce di cui la nostra misera umanità ha bisogno. E così, con Agostino, sei porlato a constatare come la violenza sia portatrice di una sua felicità, e sia ‘·cara”. Certo, perché apre alla realtà che ci circonda, perché fa scoprire con gli occhi del cuore e della mente verità che non stanno in superficie, perché. insomma, pernlette di acquistare piena consapevolezza della vita e avvicina agli altri con più disponibilità e dedizione, come è capitato ad Agostino che, fra l’altro, ha riscoperto l’amore. 

Dicevamo all’inizio di questa lettura che Romano Cammarata è artefice di una sola opera: il suo stile. La prosa di Violenza, oh cara ubbidisce agli impulsi interni del suo autore e di essi. lontana da ogni artificiosità, vive e si sviluppa. Sicché, ora è misurata, quando più è meditativa, ora è disinvolta e agile, quando più è discorsiva e colloquiale. In ogni caso, sempre in tono alto, nel rispetto della tradizione, che qui – come altrove – viene nobilitata dal tocco proprio della modernità di sentire del Nostro. Riprova, questa, di una raggiunta maturità umana e artistica non indifferente che certamente segna un punto di richiamo obbligato a quanti vogliono avventurarsi nel mondo dell’arte, senza, per questo, perdere di vista la realtà nel suo eterno f1uire. 

Salvatore Vecchio

(1) F. Boneschi, L’ultimo Cardarelli, in “Italia che scrive”, febbraio 1959, pag. 47. 
(2) R. Cammarata, Dal buio della notte, Roma, Armando ed., 1983, pag. 36. 
(3) Ivi pagg. 76-77. 
(4) Ivi, pag. 47. 
(5) Ivi, pag. 75. 
(6) Ivi, pag. 79. 
(7) R. Cammarata, Per dare colore al tempo. Caltanissetta-Roma, Sciascia ed.,1985, pag.94. 
(8) lvi, pag. 24. 
(9) Ivi, pag. 32. 
(10) Ivi, pag. 83. 
(11) lvi, pag. 90. 
(12) lvi, pag. 30. 
(13) lvi, pag. 48. 
(14) Ivi, pag. 99. 
(15) lvi, pag. 50. 
(16) lvi, pag. 36. 
(17) lvi, pag. 75. 
(18) lvi, pag. 92. 
(19) lvi, pag. 52.
(20) lvi, pag. 93. 
(21) lvi, pag. 51. 
(22) Ivi, pag. 92.
(23) Ivi, pag. 27. 
(24) R. Cammarata, Violenza, oh cara, cit., pagg.30-31.
(26) Ivi, pag. 153. 
(27) Ivi, pag. 164. 
(29) Ivi, pag. 57.

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 13-35.




 Alessio Di Giovanni poeta del popolo* 

Non esagera chi afferma che Alessio Di Giovanni è un grande poeta, sia pure dialettale, certamente uno dei maggiori del ‘900, e non solo siciliano. La sua è una poesia che esprime le variegate sfaccettature dell’ uomo nella quotidianità e nel contesto della terra in cui vive, facendola palpitare di vita negli usi, nei costumi, nella parlata della gente che quella terra popola. È una poesia che parla all’uomo, qualunque sia la sua appartenenza geografica, perché è a lui connaturata e, per questo, è universale. 

Il poeta, dopo le sue prime esperienze di scrittura che sono vere sperimentazioni di poetica e di una ricerca tutta sua, auspica un ritorno alla natura con i richiami che sono suoi: la campagna sterminata (‘a campìa), ove si sente la voce del vento e quella degli animali che pare dicano: ci siamo, e si tocca con mano il lavoro dell’uomo, sia quello all’aria aperta che nelle cavità del sottosuolo. Con la differenza, rispetto agli altri poeti siciliani (in dialetto e no, e il riferimento è al Veneziano, al Meli, allo stesso Verga, al Martoglio), che in Di Giovanni ci sono un’aderenza e una fedeltà al vero effettivo, cioè, non sono letterarie e di moda. La scelta del dialetto o, meglio, della parlata, ne è conferma, come lo confermano la sua adesione al felibrismo di Mistral e degli altri poeti di Provenza e le simpatie e le attrazioni per il Santo d’Assisi che esternò in diverse occasioni e con altrettante opere. 

L’intento di Alessio Di Giovanni fu quello di fare uscire dal solco tradizionale la poesia dialettale siciliana e di rinnovarla sotto il segno della semplicità e della verità delle cose. Scrive in una nota che pospone a Lu fattu di Bbissana: «Bisogna ritornare alla natura: all’osservazione amorosa, sincera ed ingenua del vero.» Ed è quello che farà in tutta la sua produzione, sia in versi che in prosa, nella lingua della gente. Perché, per lui come per noi, quelli che noi chiamiamo dialetti, vedi il siciliano, sono lingue che per ragioni storiche sono state asservite o, se vogliamo, soggiogate da altre, anche se continuano ad esserne linfa. 

Scrive ancora Di Giovanni: «La lingua è il gran fiume regale che può rispecchiare nitidamente il roseo e continuo trasformarsi delle nuvole vaganti per il cielo, e la massa verde degli alberi fluviali, e persino l’ombra d’un branco d’uccelli migratori, e può attraversare e fecondare pianure e città, senza correre il pericolo d’anneghittirsi in limacciose paludi e perdersi in selvatiche lande acquitrinose, solo fin quando gli ignoti fiumicelli montani non si dimenticheranno d’apportargli con inconsueta vena, le pure acque fresche, limpidissime acque che loro concede l’alta montagna inviolata. Fate che codesti fiumicelli inaridiscano e il gran fiume perderà tutta la sua maestosa travolgente bellezza, per diventare un polveroso sentiero, irto di ciottoli e di inutili erbacce1». 

Il dialetto, la cui importanza è fuori di dubbio, per Di Giovanni, è il mezzo migliore con cui non solo si comunica, ma permette di aderire meglio alla verità delle cose, perché rappresenta la parlata genuina della gente, spontanea e non mediata. E per soddisfare questa sua esigenza in lui non mancò mai né lo studio, né il bisogno continuo di confrontarsi con il patrimonio linguistico delle diverse parlate, né tanto meno l’esigenza di dare ascolto ai cunta della tradizione orale. 

Maju sicilianu è la sua prima opera, pubblicata nel 1896, divisa in tre parti: la prima, Amuri rusticanu, dedicata a «Garibaldu Cepparelli, pitturi a Firenzi »; la seconda, Vuci di li cosi, a «Ciccu Lujacunu, paesista»; e la terza, Tipi e sceni paisani, a «Luici Di Giovanni, pitturi». Sulla scia della poesia classica, il poeta apre la silloge con una invocazione alla Poesia, perché gli stia vicino e lo ispiri, e con essa motiva il titolo: «Ora ca, a maju, spuntanu li rosi / E li gigli s’adornanu pumpusi; /.../ Jetta supra di mia li to grann’ali / Eccu … t’aspettu cu affannu murtali2.» 

Il tema che caratterizza la prima parte è quello dell’amore, contornato qua e là da spunti che richiamano la vita della natura nel tempo che incede. Per lo più si tratta di ottave siciliane, ma anche ottave e quarti ne abbinate, con rima alternata (ABABABAB, sulla scìa delle canzonette popolari e delle ottave classiche di Antonio Veneziano), come questa: «E cantanu li gaddi a lu matinu / Ji mi susu pi jiri a cacciari. / M’accumpagna pi via lu me vicinu: / Cu iddu ti vegnu, bedda, a salutari. / Sùsiti di ssu lettu beddu finu, / Sùsiti di ssu lettu e nun tardari. / Ca c’è l’amanti to, ccà, a tia vicinu, / Ca ti voli, o bidduzza, salutari3.» 

Il sentimento d’amore è qui espresso in modo rozzo, da contadini e da gente di paese quali sono. Essi non conoscevano altri modi, né giri di parole, eppure il loro è un amore sentito, espressione di uno stato d’animo che dice il bene che si vuole alla donna amata, un bene che spesso fa smaniare e non prendere sonno o, non potendolo godere nella realtà, sognare, come è nell’ottava IX (ottava toscana, rima alternata e negli ultimi due versi baciata, ABABABCC). 

Di Giovanni si rivela già abile conoscitore dell ‘uomo inserito nel contesto in cui vive; perciò ritrae strade e case di paese e campagne aperte, ricche di odori e di colori, come un bravo pittore sa fare. E si rivela anche abile dosatore della parola, capace di cogliere nel suo piccolo tanto sentire, com’era il parlare della gente umile, scarno nel suo insieme, di poche parole, ma ricco e aperto nel suo significante. Ma è pure un buon conoscitore di metrica, mai forzata nel glorioso endecasillabo e nella rima. Sicché la sua poesia è come un canto che ci è tramandato, perché possa dire la vita intimo è sempre lo stesso. 

La seconda parte della silloge, Vuci di li cosi, cambia registro dal punto di vista tematico, che è più variegato e ricco. C’è pure il tema dell’ amore, ma gareggia con le voci e i rumori propri della campagna. Leggiamo: «Passi ntra li lavura tu cantannu, / C’un fazzulettu russu a la to testa. / Ni la vuccuzza to perli ci stannu, Di ddà la vuci nesci duci e mesta. / Li lavura ti vannu curtiggiannu, / Comu tu passi abbàscianu la testa. / Li paparini dicinu lampiannu: / – Binvinuta, bidduzza! Oh chi gran festa!4» 

Ormai il poeta dà ascolto a tutto ciò che lo circonda. E sono i prodotti della terra, le semine, i lavori ciclici dei campi, e gli uomini che s’apprestano ad accudirvi, a dare voce ad una poesia che comincia a cambiare tonalità e ad essere più attenta alle cose degli uomini e della natura. Perciò, ora è la voce del padrone che chiama alla pausa le ciurme lavoratrici, ora è una considerazione che il poeta fa al termine della mietitura, ora sono il vento e il caldo afoso, che s’impongono e si fanno sentire, oppure è la solitudine della campagna, ove si sentono solo le stancanti serenate dei grilli. Ecco: «Ch’è occupusu lu cantu di li griddi / Nì la tacita notti rimitusa! / A du’, a tri, a quattru, a vinti, a centu, / a middi… / Ah! Cumincia l’urchestra piatusa. / E comu lu curaggiu a mia spiddi! / Comu si fussi arrè all’età scantusa: / Ca mi pari ci fussi ji sulu ed iddi / Ni sta gran sulitudini scurusa5». 

Nella terza parte, Tipi e sceni paisani, abbiamo un insieme di sonetti, in tutto venti nove, alcuni dei quali raggruppati sotto un unico titolo ma numerati, come «Priludiu», che si compone di due sonetti, i quali, a mo’ di monologo rivolto all’amico della dedica, introducono una nota di nostalgia, da parte del poeta, per i trascorsi giovanili comuni, per essere lontano dai luoghi cari, e per il senso del passato che non torna più. 

I sonetti sono tutti di buona fattura; risentono qua e là dell’influenza di Nino Martoglio, ma non più di tanto, come ben sottolinea anche Salvatore Di Marco6, perché in Di Giovanni c’è già l’esigenza di riprendere, attraverso l’arte di cui comincia ad essere padrone, nei pregi e nei difetti, la gente di Sicilia nella quotidianità della vita, che spesso nel suo lato comico nasconde il tragico dell’esistenza. 

In Centona di Martoglio il dialetto è più contaminato dalla lingua; volutamente è storpiato (tanto per citare un sonetto, «Il telefrico senza fili»: ci troviamo dinanzi al popolano che, abitando in un grosso centro, è più evoluto, rispetto a quello di un paese contadino) e, inoltre, nel poeta di Belpasso c’è una fine vena comico-burlesca che caratterizza la sua poesia. Cosa che in Di Giovanni non troviamo; nei suoi versi trapelano, e via via divengono più forti, il disagio e la miseria di una vita di stenti, e c’è anche un forte senso religioso che spinge all’accettazione e alla speranza. 

Pregi e difetti di gente paesana e campagnola, dicevamo. E Di Giovanni sa bene coglierli, come in «La carità di la genti» o i sonetti del «Jòvidi Santu», e in tutti gli altri, nei quali ci sono usi e consuetudini assodati nel tempo, registrati dimenticati. Anche perché ci troviamo dinanzi a un dialetto che è la lingua di questi popolani, siano essi i garzoni di bottega che i contadini. Essi parlano la loro lingua, e sono veri e ci si stagliano davanti, e s’impongono all’attenzione dei lettori per quelli che sono; con gli assensi e le battute asciutte che nella loro essenzialità dicono tutto. Perciò, quando ci si crede come abbia fatto il Nostro a passare dalla poesia al teatro, la risposta si trova proprio là, in quel modo di fare poesia che è la sintesi di tante voci raccolte, a cui il poeta ha posto l’orecchio e il cuore. Ancora non è nella sua piena maturità (si nota sia nei temi, che saranno diversi, sia in certe ricadute nella lingua), ma già conosce bene il suo mestiere e riesce a fare proprio un sentimento di tutti, come in «La Batti Matri», che dice tutta la religiosità che è nella gente nel giro di quattordici versi che sembrano cesellati a misura. 

«Ch’ è bellu, ad ata notti, l’ascutari / La Batti Matri, ddu piatusu cantu! / O chi durmiti o chi stati a vigliari / Sempri è pi vu’ un suavi, duci, ‘ncantu. / […] Tu sula, Matri pia, m’arricupari, / Tu sula m’à salvari nni ssu mantu. / […] Acchiànanu li vuci a lu rimpiantu. / Ni la quieti vasta a risunari: / – Tu, Matri, stàvatu a la cruci accantu7». 

Il poeta fa degli altri quello che è un suo stato d’animo, un sentire religioso che lo prende tutto e gli fa respirare un desiderio di pace, solo a sentirsi tutelato dalla Madonna, che conosce il dolore e il perdono e, perciò, a lei si rivolge e da lei vuole essere tutelato («Tu sul a m’à salvari nni ssu mantu») e, nel canto che s’innalza e si diffonde nel silenzio della notte, la sua diviene una preghiera composta e riverente che tutti accomuna nel ricordo dell’atroce sofferenza di Cristo e al pensiero della pia Madre che, desolata, non lo lasciò un istante. 

L’anno 1900 fu un anno proficuo per Alessio Di Giovanni, sia dal punto di vista della produzione, che lo vide impegnato nell’ode Cristu, pubblicata poi nel 1905, nel saggio Contadini di Valdensa e Villani di Realmonte, in Lu fattu di Bbissana e in Fatuzzi razziusi, sia da quello di una elaborazione di poetica che caratterizzerà le sue opere successive. Fino a questa data, dietro l’influenza di amici, quali Garibaldo Cepparelli e Giuseppe Tumbarello, aveva sperimentato, aderendovi, il fonografismo in piena stagione veristica, e lo scopo era quello di voler riportare sulla carta la parlata viva della gente, riproducendo con la grafia anche i suoni (Bissana: Bbissana; ziti: zziti; bonu: bbonu; ecc.). Dopo quell’anno, Di Giovanni accantonerà la fonografia per scrivere in un dialetto fedele alle varie aree linguistiche isolane. Già anni prima aveva scritto: «Ma certamente nella poesia non si può trovare la vera arte che non è posseduta dal contadino e dal popolano. Il poeta dialettale, quindi, deve ricorrere alla grazia del dialetto nativo ma non può dimenticare la sua arte e i suoi studi. La poesia dialettale possiede una spontaneità riflessa, cioè una spontaneità popolare, unita all’ Arte. Il poeta deve dare a quella poesia la forza immaginosa e fantastica della sua mente8.» 

Più semplicemente, egli anticipava quanto, a proposito dello scontro-incontro che Di Giovanni ebbe con Verga (il Ciancianese non accettava che I Malavoglia fossero stati scritti in lingua dialettale), ebbe a scrivere P. P. Pasolini: «Il dialetto è materiale che riceve forma da una poetica che la trascende, che appartiene alla cultura in lingua, i cui centri non sono solo nel continente italiano, ma in Europa. Di Giovanni appartiene a questa cultura come ci appartiene il Verga. In realtà, tra I Malavoglia, scritti in lingua dialettale ma non ancora in dialetto, e Lu fattu di Bbissana, scritto nel più chiuso dei dialetti, la differenza è solo apparente. Ambedue sono scritti in un linguaggio che non è in realtà né lingua né dialetto, ma è contaminazione, non solo fisica, non solo grammaticale o sintattica, ma di cultura e cultura. La cultura superiore dello scrivente e la cultura inferiore del parlante9.» Che significa che è il poeta, con gli strumenti di cui dispone, qualunque essi siano, il manipolatore della materia grezza della sua poesia, l’artefice capace di elevarla, perché di venti patrimonio e documento, e canto indelebile e vero, capace di sfidare le intemperie del tempo e le miserie degli uomini. 

In quegli anni c’erano tutte le condizioni perché poeti e letterati cominciassero realisticamente a interessarsi di ciò che stava loro attorno. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in Europa come in Italia, sulle ceneri del romanticismo andava covando il naturalismo-verismo con tutta una serie di problematiche che aprivano a nuovi scenari sociali mai prima di allora evidenziati: lo sfruttamento e le condizioni di miseria dei lavoratori, sia nel Nord che nel Sud, sfruttato, questo, dai grossi proprietari di terra e di miniere. Ad appesantire il disagio delle popolazioni c’era la disastrosa politica economica di Crispi, in attrito con la Francia, e tesa a concretare e potenziare l’idea di rendere grande l’Italietta con possedimenti oltremare. 

Forte era il malcontento della povera gente, ora sostenuto dal movimento operaio che stava organizzandosi (il «Partito dei lavoratori italiani», fondato nel 1892, diventerà «Partito socialista italiano» nel 1895) ora dalla Chiesa che aveva fatto sentire la sua voce di protesta con l’enciclica Rerum Novarum (1891). Ci fu così nell’aria un bisogno di giustizia e di solidarietà che si traduceva in richieste di terra, di aumenti salariali e di un’adeguata legislazione che mettesse fine ad ogni forma di sfruttamento e di ingiustizie, anche da parte dello Stato. Proprio in questo periodo i contadini e minatori dell’agrigentino si organizzavano nei «Fasci dei lavoratori » (1892-1894) che in poco tempo si estesero in quasi tutta la Sicilia. Ed era tutto da sperare, se Crispi, ridivenuto capo del governo nel dicembre 1893, non avesse stroncato tutto sul sorgere, proclamando lo stato d’assedio. 

L’amarezza in tutto il paese fu grande, e alle reazioni di piazza subentrarono quelle degli animi più eletti che cominciarono a fare proprie le altrui sofferenze e aspettative per riproporle nelle varie forme artistiche. Alessio Di Giovanni fu uno di questi e sentì, ancor giovane, l’esigenza di un rinnovamento della poesia che desse voce ai fatti per evidenziare l’umanità che è in essi, o denunciasse, per dare inizio ad un riscatto, la miseria e i lavori disumani in cui la povera gente era stata da sempre relegata. 

Lu fattu di Bbissana (Bbotta di sangu) è il poemetto, composto di sei sonetti, che dà inizio alla grande poesia di Alessio Di Giovanni. L’argomento già faceva parte della tradizione orale. Attratto dal cuntu di un contadino, il poeta lo elabora e poeticamente lo ricrea, dando risalto al sentire degli uomini e al dramma che essi consumano, a cui sembra partecipare anche la natura con i suoi odori, i colori e i rumori che la animano, pur nell’afa d’un meriggio assolato. Non spargimenti di sangue, non risse; è un dolore forte, cupo, tutto interiore che prende Caluzza tradita nell’amore e la stramazza a terra come folgorata. È uccisa da una «botta di sangue», mentre nessuno sa niente e tutt’attorno continua la vita di sempre, allorché il canto dei mieti tori invita al lavoro usato. 

I sonetti di Fatuzzi razziusi riprendono nel dialetto di Noto il tema dell’ amore e della bellezza femminea. Solo a chiusura della silloge un sonetto affronta il tema del lavoro nella zolfara e della sofferenza dei carusi («Iu la sientu ssa vuci ri tirruri / c’acciana, acciana sempri cciù ccunfusa / comu timpesta ri milli furturi»), che fanno venire i brividi a sentirli nel loro lamento angoscioso, indistinto, come tempesta combattuta da mille altri fortunali. Ancora poca cosa, ma già il poeta comincia a calarsi nell’«osservazione amorosa, sincera ed ingenua del vero». 

L’ode a Cristu, composta in quegli anni e pubblicata nel 1905, segna il definitivo trapasso dalla poesia tradizionale a quella nuova, fatta di sussulti e di richiami che spingono a guardare in faccia una realtà di stenti e di miseria, sia che si tratti della vita dei campi, sia che riprenda il lavoro duro, faticoso e inumano della zolfara, lavoro fatto di lamenti («ddi lamenti / ca pàrinu suspira, e ‘na prijera / Scura di morti») imprecanti l’essere nati e lo stesso Dio che li tiene in quelle condizioni di vita, «misi comu li cani a li catini». 

L’andante è discorsivo, e chi parla è il poeta, mentre Cristo non fa alcun cenno. Perché tanto silenzio? «Chinu di scantu, / Cu la vuci ca trema puru idda, / Cu lu pettu affannatu di lu chiantu, / Ti gridu e dicu: / – Chi è ca penzi? Puru tu, tu puru / Vo’ abbannunari stu munnazzu anticu?10». E in quel silenzio il poeta riscopre l’umanità del Cristo, impotente dinanzi alla malvagità del male, implorante serenità, gioia di vivere, auspicante maggiore giustizia e un mondo di liberi e uguali. 

L’ode è intrisa di una forte spiritualità, ed è un’ode bella, ricca di armonia, ma drammatica, forte. Alessio Di Giovanni qui ha recuperato il senso del divino, che è nelle cose e negli uomini, ma perché ritorni ad essere palese e vivo, perché Cristo non continui a guardare triste («Ma di lu muru, / ora cu l’occhiu ‘nfuscu mi talii» ), è bene che quelle ingiustizie vengano denunciate: l’uomo deve tornare libero e non deve essere più crocifisso. Per questo il poeta chiede un lampo di quello sguardo, perché la sua sia voce di fuoco, e di sentenze: «Dammi, o Signuri, un lampu di ssu sguardu, / Dammi vuci di focu e di sintènzii»!) 

È la stessa spiritualità che riscontriamo in A lu passu di Girgenti del 1902. Fra’ Matteo, animato di buona volontà, è travagliato dalle contraddizioni, ma non vuole venir meno al suo credo e alla sua missione, e niente può se non dare un esempio di dedizione e di coraggio, andando incontro alla morte. Ma è anche la stessa spiritualità che troviamo in Lu puvireddu amurusu (poema francescano), pubblicato nel 1907. Sono diciotto componimenti in siciliano con traduzione italiana a fronte, costituiti di quartine di settenari ed endecasillabi a rima baciata, andante, carica di una musicalità che dice la gioia di vivere nell’armonia e nella pace tra le creature, figlie tutte di un Dio, a cui devono essere riconoscenti. «Pirchì in ogni armaluzzu / Sempri vidi vi tu lu Signiruzzu! / Nni tia tutti l’armali, / Puru li vermi, puru li cicali, / Truvavanu la mamma / Cu lu sò amuri ardenti comu ciammall.» 

L’anelito alla fratellanza e all’amore reciproco è il tema portante del poema, in cui il poeta riprende i momenti salienti della vita del Santo d’Assisi, calandoli nella campìa della sua Valplàtani, nella zona della Difisa, e rivivendoli col desiderio di vedere attuato ovunque quel disegno evangelico che tutto riporti nella luce gioiosa del Creatore. È l’anelito ad un socialismo umanitario, cristiano, un socialismo di cui i cattolici più spinti, come Miglioli e Murri, si facevano portatori. Ma in Alessio Di Giovanni non c’è alcuna spinta alla lotta sociale, non c’è nemmeno una rivendicazione, c’è una ferma fiducia negli uomini, nel loro buon senso e nella capacità che hanno di compenetrarsi nei bisogni altrui. 

Il poeta di Cianciana è come se stesse al di sopra delle parti, speranzoso di concordia («Pòviri cci nni su’, / Ma ‘un stannu cu li ricchi a tu pir tu … / Invidia, no, nun n’hannu / E pàssanu la vita travagghiannu12», fiducioso che prima o poi potrà realizzarsi una pace sociale capace di annullare ogni contrasto e di vivere in una amorosa cooperazione. È l’aspirazione di Francesco e, ancor prima, di Gesù, di Pascoli e di tanti altri che esularono dalla realtà, dimenticando che l’uomo rimane sempre abbarbicato nel suo egoismo che fa rivendicare a sé quello che dovrebbe essere degli altri. 

Al 1904 risale un opuscoletto, Nella Valplàtani. Versi siciliani, pubblicato per il matrimonio dell’amico Giuseppe Tumbarello di Realmonte, comprendente tre componimenti («La fava», «Morti scunzulata» e «Ni la massaria di lu Màvaru», con traduzione francese a fronte di Tommaso Cannizzaro), che successivamente Di Giovanni inserirà in Voci del feudo. Sono tre gioielli di vivo realismo nei quali il poeta infonde un senso di virile accettazione. La miseria, il freddo, le privazioni sono come se fossero un dato di fatto naturale che solo l’avanzare della bella stagione porta via. 

L’immagine delle fave che cuociono e l’attesa gioiosa di chi aspetta per mangiare sono indimenticabili; così pure non è da dimenticare la morte a cui va incontro la zz’Annuzza, che dopo una vita di stenti e di fame muore nell’abbandono e nella solitudine come era vissuta («Pari ca dormi, ‘n’arma nun si senti … / Comu si ‘un asistissi cchiù lu munnu»). Come se il mondo non esistesse! È quello che capita a questa povera donna, ma tanti nel mondo vivono ai margini, sconsolati e soli! 

Non così è nel terzo componimento. «Codda lentu lu suli […] Mancu ‘n’arma si vidi nni lu feu, / ‘Mmenzu li terri gerbi e li ristucci, / ‘Ntra poja e ‘ ntra vaddati, e la campana / Di li vacchi ca pàscinu, arrispunni, / Cu ‘na mota ca pari ca chiancissi, / A ‘na vava di ventu ca trasporta / Pi ddi timpi lu sciàvuru di l’ervi13.» 

Qui è la natura, con le sue voci, i rumori e il gesticolare delle creature che la popolano ed animano, ed essa s’impone offrendo un idillio di vita campestre che distende e riposa. Non c’è il tema teocriteo dell’amore, anzi il poeta fa trapelare un certo malessere (il boiaro è vecchio, stecchito e pallido), eppure la descrizione è tutta un palpitare di vita fino a tramonto inoltrato, quando i grilli fanno ancora sentire il loro canto. E l’attaccamento alla terra, alla propria terra, che, spinge il poeta ad allargare lo sguardo e a cogliere tutto in un insieme che piace. 

La silloge Nni la dispensa di la surfara, pubblicata a Palermo nel 1910, si compone di quarantaquattro sonetti e, a dire di Alessio Di Giovanni, dovevano far parte di ‘Nfernu veru, rimasto incompiuto. Qui il poeta riprende usi e costumi della sua gente e, in particolare, degli zolfatai. II tutto è affidato al cunta-cunta, ad un affabulatore assoldato dai padroni per abbonire con racconti, che si tramandavano oralmente, i lavoratori stressati e smunti dall’inumano lavoro delle miniere. Unico diversivo sono il vino e il gioco delle carte, poi poche altre ore di riposo per riprendere a lavorare con le prime luci dell’ alba. L’intento del poeta è, sì, letterario, perché realisticamente descrive la vita fuori delle miniere, nell’unico ritrovo di dopolavoro, ma il suo vero scopo è far conoscere la miseria e gli stenti degli zolfatai, e il loro disagio esistenziale che fa preferire loro il non vivere piuttosto che soffrire ed essere sfruttati. 

Voci del feudo è del 1938. II poeta vi include alcuni componimenti già pubblicati e i Sunetti di la surfàra, anch’essi destinati a far parte di ‘Nfernu veru. In Voci del feudo c’è tutto il mondo poetico di Alessio Di Giovanni, consistente nella poesia che canta la vita nel feudo, accostata a quella che tanta altra povera gente vive nelle miniere di zolfo della zona. È un mondo accomunato da enormi sacrifici e da miseria, da cui non sembra esserci scampo. Il poeta lo ritrae nelle voci, nelle cose, nella gente che lo vive, ma non va oltre. Solo in qualche tratto assume un tono di protesta, di una denuncia silenziosa, come se tutto dipendesse da una mano misteriosa che da un momento all’ altro potrebbe alleviare ogni ingiustizia e ridare dignità all’uomo. 

Il poeta dà voce alle cose e agli uomini: il lamento dei mieti tori, una giornata al pascolo nelle terre del Màvaro, un ritorno nella casa natìa, reso amaro dai ricordi e dal tempo passato che non torna più. 

«Lu vidi ca turnavi? / Cchiù vecchiu, è veru, e stancu: ma chi ‘mporta? / Lu me’ cori nun cancia: ‘un ti scurdavi14.» E il poeta enumera oggetti familiari, rievoca una persona cara, e la sente vicina, intenta a lavorare, mentre la consapevolezza che s’impossessa di lui gli fa dire che è inutile «ripensare a quel tempo felice che non torna più». Bellissimo componimento, in cui Di Giovanni ricrea un momento di pathos indimenticabile e lo partecipa al lettore che con lui condivide la nostalgia degli anni che furono vissuti nella casa che lo vide crescere e gioire. 

Il feudo era anche luogo di insidie e di morte. In La minnitta il poeta riprende un agguato, ritraendolo nei particolari, tra la malvagità dell’uomo e lo stupore della natura che assiste inorridita e senza parole: «Niscìu di lu pagghiaru / E s’appustò ddassutta la trazzera: / Eccu du’ cani … doppu un picuraru. / Po’ mancu ‘n’arma … / … ‘Na lustrura, / ‘Na botta … un sgriddu: ahjai! ‘na vuci: mori! / E lu punenti / Chiuji … Spunta la luna e talìa tutta / Scantata unu ca scappa, e poi… cchiù nenti15.» 

C’è uno sbalordimento generale, un rimanere di stucco proprio di chi assiste, quasi inconsapevolmente, ad una malvagità, e qui a rimanere stordita è la natura che non concepisce la vendetta, perché non sta scritta in nessuna parte. 

Troviamo inseriti in Voci del feudo alcuni sonetti dedicati ai minatori di zolfo16, sfruttati in modo inumano e senza ritegno da padroni privi di scrupoli. Le zolfare, veri e propri «carnai, non di morti ma di vivi», sono il terrore degli zolfatai che invidiano gli animali i quali, se non altro, vivono a cielo aperto e godono del sole. In «Scìnninu a la pirrera», ecco come il poeta esprime la loro amarezza: «Oh, putìssiru, allura, abbannunari / Dda vita ‘nfami, dda vita assassina, / Comu l’armali, ‘nfunnu a li vadduna!» 

I Sunetti di la surfàra sono componimenti nei quali dominano la desolazione e lo sconforto dei minatori, costretti a lavorare dalle prime luci dell’alba al tramonto, chiusi nella profondità della terra e soli. Sembra siano stati abbandonati da tutti, persino dal vento, che nelle poesie del feudo fa sentire viva la sua voce, scuotendo le cime degli alberi o carezzando le biade, facendole ondeggiare, mentre qui, nella zolfara, esso tace o, se dapprima sibila qua e là, sentendo il lamento dei minatori, simile ad un pianto, esso va subito a rintanarsi, facendo perdere le sue tracce. 

Leggiamo da «Lu cantu di li surfàri»: «E sempri di ddassutta veni un cantu / Ca pari di ddu scuru lu lamentu. / Si ferma un pocu … ddoppu, ad ogni tantu, / S’jsa cchiù malancònicu, cchiù lentu. / Ogni acidduzzu, pigghiatu di scantu, / Fùji ddu locu scuru, ddu spaventu: / Li timpi, muti, ascùtanu ddu chiantu / E si va ‘ntanari macari lu ventu17.» È un lamento che si diffonde ovunque e nessuno vorrebbe sentire, perché è innaturale, oltre che struggente. Lo si può ben notare: al poeta non sfugge niente, ma tutto è intriso di questo dolore che attanaglia e strugge. 

Poco sopra è stato citato «Scìnninu a la pirrera»: agli zolfatai è negato persino il sole («Cà no pi iddi, pi l’ervi di lu chianu, / Luci lu sul i biunnu a la campìa», che splende per le erbe dei campi, e non per gli uomini. È uno splendido sonetto nel quale il poeta delinea con tratti da pittore conoscitore dell’animo umano, l’intimo sentire degli zolfatai e dei carusi, il loro interiore contrasto, la ribellione che non porta a niente, se non all’accettazione di quello stato di cose. 

Alessio Di Giovanni è il cantore della sua terra e della sua gente, sia che lavori nei campi, che si cali nel fondo di una miniera, ed egli ne rimane il custode depositario della storia, che spesso non viene scritta, degli usi atavici, come lo furono il padre Gaetano e l’amico Corrado Avolio. La sua importanza è certamente destinata a crescere, perché con la sua opera, che andrebbe divulgata anche nelle scuole, rappresenta una pietra miliare nel contesto letterario del primo quarantennio del Novecento. Egli, da grande poeta qual è, ha saputo fare verismo nel senso vero del termine, senza fronzoli, senza sguainare coltelli, con una parola sempre pesata, lavorata, scavata come pietra dall’acqua, martellata dall’uso secolare che ne avevano fatto i padri; una parola ricca di significati che sa di cantilena e, anche, di cristiana speranza. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

* Cianciana (Ag.), 1872 – Palermo, 1946. Poeta, romanziere, drammaturgo, demopsicologo, scrisse le 
sue opere in siciliano, in versi e in prosa, alcune delle quali con la traduzione italiana a fronte. In lingua pubblicò saggi di demopsicologia, di arte e letteratura: Canti popolari agrigentini, 1894; Saru Platania e la scuola popolare siciliana, 1896; Federico Mistral, 1915; Larte di Giovanni Verga, 1920; Il dialetto e la lingua, 1924 e La vita e l’opera di Giovanni Meli. 
1 A. Di Giovanni, L’arte di Giovanni Verga, Palermo, Sandron, 1920, pago 20. 
2 Id., Maju sicilianu (a cura di S. Di Marco), Comune di Cianciana, 2003, pag. 30: «Ora che a maggio sbocciano le rose / E i gigli s’adornano pomposi; / / Getta su di
me le tue grandi ali / Ecco … t’aspetto con affanno mortale.» 
3 Ivi, pag. 34: «AI cantare dei galli, al mattino, / Mi alzo per andare a cacciare. / M’accompagna per via il mio vicino: / Con lui ti vengo a salutare. / Alzati da un letto così comodo, / Alzati dal letto e non tardare. / C’è l’amante tuo, qui, vicino, / Che ti vuole, belluccia, salutare.» 
4 Ivi, pag. 55: «Passi tra le biade cantando / Con un fazzoletto rosso in testa. / Nella boccuccia tua perle ci stanno, / Di là la voce esce dolce e mesta. / Le biade ti vanno corteggiando, / Al tuo passare abbassano la testa. / I papaveri dicono lampeggiando: / Belluccia, benvenuta! Che gran festa!» 
5 Ivi, pag. 55: «Vero soffocante è il canto dei grilli / Nella tacita notte solitaria! / A due, a tre, a quattro, a venti, a mille … / Ah! Comincia l’orchestra pietosa. / Sembra che il coraggio venga meno! / Come se fossi ancora nell’età delle paure. / Sembra esserci solo io e loro / In questa gran solitudine tutta scura.» 
6 A. Di Giovanni, Maju sicilianu (a cura di S. Di Marco), cit., pag. 16. 
7 Ivi, pag. 72: «Ch’è bello, a notte fonda, ascoltare / Lo Stabat Mater, quel pietoso canto! / Sia che dormiate sia che siate svegli / Per voi è sempre soave, dolce incanto. / ... / Tu sola, Madre pia, devi accogliermi / Tu sola devi salvarmi sotto il tuo manto. / ... / S’innalza il canto al rimpianto. / Nella quiete immensa senti risuonare: / – Tu stavi, Madre, alla croce accanto!» 
8 A. Di Giovanni, Saru Platania e la scuola popolare siciliana, Napoli, Chiurazzi, 1896, pag. 61. 
9 P. P. Pasolini, Noterella su una polemica Verga-Di Giovanni, in “Galleria”, a. VI, nn. 5-6, sett.-dic. 1956, pagg. 330-332. 
10 «Preso di paura, / Con la voce tremante anch’essa, / Col petto ansante di pianto, / Grido e dico: / Che pensi? Pure tu, tu pure / Vuoi abbandonare questo mondaccio antico?» 
11 «Perché in ogni bestiola / Tu vedevi sempre il Signore! / In te, tutti gli animali, anche i vermi, anche le cicale / Trovavano la madre / Con il suo amore ardente come fiamma.» 
12 «Poveri ce ne sono; / Ma non stanno in contrasto con i ricchi … / Non hanno invidie / E passano la vita lavorando…» 
13 «Tramonta lento il sole […] Non c’è anima viva nel feudo, / Tra terre incolte e stoppie, / Tra poggi e vallate, e la campana / Delle mucche che pascolano risponde, / Con un tocco simile ad un pianto, / Al lieve venticello che trasporta / Per i dirupi il profumo delle erbe.» 
14 «Lo vedi che sono tornato? Più vecchio, vero, e stanco: che importa? / Il mio cuore non cambia: non ti ho scordato.» 
15 «Uscì dal pagliaio / E s’appostò sotto la trazzera: / Ecco due cani … poi un pecoraio. / Dopo neanche un’anima … / … Un lampo, / Un botto … un grido: ahjai! Una voce: muori! / E il ponente / Chiuse … Spunta la luna e guarda tutta impaurita uno che scappa, e poi … niente. 
16 Salvatore Di Marco ha dedicato un interessante studio all’argomento dal titolo: Sopra fioriva la ginestra. Alessio Di Giovanni e la Sicilia delle zolfare, Palermo, Nuova Ipsa, 2006, che si consiglia, perché, nel contesto dell’opera digiovannea, dà un ampio quadro di questa realtà isolana che dava ricchezza, in cambio di lavoro sfruttato e disumano. 
17 «E sempre da lì sotto sale un canto / Che sembra il lamento del buio. / S’arresta un poco … dopo, di tanto in tanto, / S’alza più malinconico, più fioco. / Ogni uccellino, impaurito, / Fugge quel luogo buio, quello spavento: / I poggi, muti, ascoltano quel pianto / E lo stesso vento va a rintanarsi.» 
Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 7-15.



 Antoine de Saint-Exupéry e Il Piccolo Principe 

«Le petit prince, qui assistait à l’installation d’un bouton enorme, sentait bien qu’il en sortirait une apparition miraculeuse, mais la fleur n’en finissait pas de se préparer à ètre belle. [ … ] Et puis voici qu’un matin, justement à l’heure du lever du soleil, elle s’était montrée. Et elle, qui avait travaillé avec tant de précision, dit en bàillant: – Ah! je me réveille à peine… Je vous demande pardon … Je suis encore toute décoiffée … 
Le petit prince, alors, ne put contenir son admiration: – Que vous 
ètes belle! 

– N’est-ce pas, répondit doucement la fleur. Et je suis née en mème temps que le solei!…” (*) 

Negli anni della fanciullezza avevo letto Il Piccolo Principe, ma non gli diedi, allora, il peso dovuto. Non avevo colto nel vivo il suo messaggio: lo avevo letto come un bel racconto e basta. Tutto era finito li, come tante altre letture. 

Ricordo di avere ammirato la semplicità, la dolcezza con cui il protagonista, un ragazzino biondo, si muove e agisce, ma, per il resto, non ero andato oltre. Ci sono dei momenti in cui non si dà spazio a cose che, magari, ripresentandosi, acquistano un significato cosi forte e pregnante da sentirne il fascino e da assaporarle. 

Diversi anni dopo la relazione deludente e dissacratoria sul Piccolo Principe, tenuta da una signora agli studenti stranieri di una scuola parigina, mi produsse una reazione contraria; accese in me il desiderio di rileggere il libro, se non altro, per constatarne di persona la validità e considerarlo per quello che effettivamente è. Per me fu come se lo leggessi per la prima volta, come se quel ragazzino biondo mi si rivelasse nella sua totalità e mi dicesse, da buon amico. le piccole grandi verità che fanno l’uomo e lo rendono degno della vita. 

Il Piccolo Principe è un libro stupendo, un monumento imponente della letteratura mondiale, che chiunque dovrebbe tenere caro e di tanto in tanto leggere, perché è patrimonio di tutti e parla la lingua semplice che va diretta al cuore per nobilitarlo e per rinsaldarlo nei valori, a cui l’uomo non può e non deve rinunciare. 

Esso trova la molla ispiratrice nell’infanzia: 

«Chiedo perdono ai bambini di aver dedicato questo libro ad una persona adulta. [… ] Tutti gli adulti sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)…» 

In questa dedica a Léon Werth, che in sintesi preannuncia la dicotomia presente nel libro (il mondo dell’infanzia e quello degli adulti, evidenziando cosi due livelli di lettura), è riflesso lo stato d’animo del suo autore, che nei momenti più tristi soleva rivedersi bambino, ricreando i fantasmi buoni di quell’età. 

*** 

Il piccolo principe, allora, non poté contenere la sua ammirazione: – Che sei bello! 

– Vero, rispose dolcemente il fiore, e sono nato insieme al sole…”

Antoine de Saint-Exupéry fu scienziato e pilota, pensatore profondo e scrittore, ma, soprattutto, poeta degno di essere chiamato tale, perché in ogni suo scritto c’è l’uomo, vivo, parlante, che agisce e si muove sempre in direzione dell’uomo e per l’uomo. 

Di famiglia aristocratica (nato a Lione il 29 giugno 1900, scomparso durante una ricognizione aerea sulla regione di Grenoble-Aubérieu-Annecy il 31 luglio 1944, per un guasto al motore del suo aereo, secondo alcuni, abbattuto dalla contraerea tedesca, secondo una fonte più accreditata), Antoine de Saint-Exupéry fu nella vita un signore, dedito al bene del suo Paese e del prossimo. Un signore come il suo piccolo principe, lui, piccolo grande principe alla corte dell’uomo. 

L’impegno che lo caratterizzò fu frutto di un’intima esigenza di partecipazione e di dedizione agli altri, mai un bisogno di emergere e di farsi notare. Era tanto schivo quanto grande per non curarsi di quello che si diceva sulla sua opera, motivo di spunti polemici per i detrattori, mossi da invidia di mestiere piuttosto che da argomentazioni serie e degne di essere considerate. Dapprima gli si rimproverò che la sua letteratura era esperienza 

vissuta (Courrier Sud, 1929; Vol de nuit, 1931; Terre des hommes, 1939; Pilote de guerre, 1942), ma quando cominciò a interessarsi più apertamente dell’uomo, come se ci fosse uno stacco tra le prime e le opere successive, non venne accettato nelle vesti di saggista e di pensatore. 

Nelle opere di Saint-Exupéry non c’è stacco alcuno, non c’è il passaggio da un argomento ad un altro; la tematica è la stessa, dalla prima all’ultima. Cambia, semmai, l’approccio, seppure gradatamente, perché lo scrittore darà più peso alla riflessione; ed essa non è dovuta al mero ragionamento, che avrebbe trovato il tempo che vuole, ma diviene più insistente, perché più ricca è l’esperienza acquisita. Altrimenti Antoine non ne sarebbe stato capace: in lui l’azione, il vissuto quotidiano, precedono la scrittura; e questo sempre, anche in quelle opere che meno lo fanno notare, come ne Le petit Prince. 

Écrits de guerre (1939-1944) ce lo conferma con molta evidenza: quando ha la possibilità di volare, per rendere un servizio al suo Paese, Antoine è allegro, dimentica i dolori delle tante cadute, giuoca, come a Napoli, librando aquiloni tra le grida festose dei bambini, si sente di avere «un cuore di vent’anni» (1); quando, invece, non gli si consente di volare per l’età avanzata, allora è triste, gli sembra avere «notte nella testa e freddo nel cuore», e non è capace di scrivere. Ecco cosa dice in un’intervista rilasciata a Dorothy Thompson di “The new York Tribune” e pubblicata il 7 giugno 1940: 

« – Vi sbagliate appieno, ha risposto. Nessuno, attualmente. ha il diritto di scrivere una sola parola se non partecipa personalmente alle sofferenze della società. Se non opponessi la mia stessa vita, non sarei capace di scrivere. E ciò che è vero per questa guerra deve essere vero per tutte le altre cose. Bisogna servire l’idea cristiana del Verbo che si fa Carne. Lo si deve scrivere, ma con i! proprio corpo (2)» 

Il mestiere di pilota, che Antoine de Saint-Exupéry esercitò dal 1927 fino all’anno della morte e che dà lo spunto ai libri sopraccitati, non lo chiuse agli uomini, come si sarebbe potuto verificare; anzi, operò in lui una metamorfosi rispetto al giovane aristocratico che era stato, L’altitudine lo avvicinò alla terra e all’uomo più di quanto si possa immaginare e gli fece amare la vita, con lo stesso entusiasmo e la commozione di quando si trovava dinanzi ai cartoni animati di Walt Disney. 

Antoine de Saint-Exupéry non è il narratore dei suoi voli, bensì il poeta innamorato degli uomini e delle sue cose. Il volo gli apre il cuore all’ascolto di milioni e milioni di altri battiti che, seppure a diecimila metri, negli agglomerati urbani, minuscoli e lontani, o nelle lanterne delle singole abitazioni, sono in stretta comunione con lui. 

«Ed ora, come un guardiano nel cuore della notte, scopre che la notte evidenzia l’uomo: i suoi richiami, le sue luci, questa inquietudine. Una semplice stella nell’ombra: l’isolamento di una casa. Essa si spegne: è una casa che si chiude sul suo amore. O sulla sua noia. È una casa che cessa di far segnali al resto del mondo. Non sanno cosa sperano quei contadini seduti attorno alla tavola dinanzi al loro lume: nella grande notte che li circonda non sanno che il loro desiderio va tanto lontano. […] Quegli uomini credono che la loro lampada splenda per l’umile tavola, ma a ottanta kilometri da loro, qualcuno è già toccato dal richiamo di quella luce, come se essi l’agitassero disperati, da un’isola deserta, davanti al mare (3)». 

Nelle opere successive il richiamo all’uomo diviene sempre più insistente. Già Terre des hommes inizia con una dichiarazione molto significativa: la terra ci insegna a conoscere noi stessi più che tutti i libri messi assieme (4). Vale a dire che basta guardare attorno per considerarci e apprezzarci per quelli che siamo, senza torcere mai l’occhio da questo che dovrebbe costituire il nostro vero interesse: conoscere e amare l’uomo. 

Antoine de Saint-Exupéry ama e considera l’uomo senza andare lontano, attorno a sé: nell’aereo che pilota, nei compagni di lavoro, nella solitudine del deserto. Non è facile, se si considera che spesso barriere invisibili e insormontabili si frappongono al nostro cammino, rendendoci ciechi sopraffattori di noi stessi. 

In Pilote de guerre, pubblicato nel 1942, c’è la consapevolezza di una guerra impari e assurda che, nonostante tutto, andava combattuta. 

«Noi lottiamo in nome di una causa che consideriamo causa comune. È in giuoco la libertà, non soltanto della Francia, ma del mondo: consideriamo troppo comodo il ruolo di arbitro. Ma siamo noi che giudichiamo gli arbitri (5)». 

Nel suo racconto Antoine affronta da uomo, prima che da soldato, l’amara realtà, andando indietro nel tempo, alla sua infanzia, quasi per crearsi un baluardo, un blocco di forza che lo faccia resistere e continuare. E qui non è più il pilota – scrittore con cui abbiamo a che fare, è il poeta che qua e là emerge con prepotenza e s’impone per dire delle verità molto elementari, che durano fatica ad essere prese in considerazione, eppure fanno parte di noi e per questo occorre reimpossessarcene per renderci degni della vita che, altrimenti, non avrebbe senso. 

A maggiore conferma di quanto abbiamo esposto, dobbiamo rifarci a Citadelle, l’opera postuma, di cui era geloso, e a cui affidò tutto se stesso. Il titolo, che tradotto significa “fortezza”, è molto indicativo, perché è una fortezza costituita da quei valori (l’amicizia, l’amore, la libertà, la giustizia, la famiglia, il senso di Dio, ecc.) a cui l’Autore è attaccato morbosamente e che difende a spada tratta, riprendendoli, sottolineandoli nella loro importanza, andando contro i pregiudizi, smussando i contrasti, dando ascolto ai sentimenti, perché l’uomo possa emergere nella sua totalità. 

Antoine de Saint-Exupéry, lontano da ogni ideologia, tende al recupero della parte più buona e sana dell’uomo («Se voglio giudicare il cammino, il cerimoniale O il poema, considero l’uomo che ne viene fuori. O meglio, ascolto il battito del suo cuore» (6)) in nome di un umanesimo integrale che lo veda finalmente all’unisono con gli altri per costruire un mondo migliore, dove, non esistendo più le velleità che rendono vani i nostri sforzi, egli possa volgere la sua attenzione a ciò che c’è di vero e di duraturo. 

*** 

Nel Piccolo Principe, come del resto in ogni altro suo libro, Antoine de Saint-Exupéry dichiara la sua professione di pilota e si presenta tale, pur trovandosi in una situazione poco piacevole di forzato riposo. Questa dichiarazione è importante, perché viene a confermare quanto abbiamo detto, che, cioè, l’azione precede ogni suo scritto, anche quelli – come in questo caso – che in parte sono frutto di inventiva e di immaginazione. 

Nella notte fra il 30 e il 31 dicembre del 1935, nel tentativo di stabilire con il suo aereo Simoun un primato nella trasvolata Parigi-Saigon, un guasto al motore lo costringe a fare un atterraggio di fortuna nel bel mezzo del deserto del Sahara, a 200 km. del Cairo. Verrà soccorso, assieme al suo meccanico André Prévot, da una carovana di nomadi, dopo una lunga ed estenuante marcia. 

A parte la permanenza in Africa, che gli fece apprezzare la pace e la solitudine del deserto, questa avaria gli procurò un’esperienza che non poté mai dimenticare e che qua e là affiora nella sua opera. 

«Ricordo il giorno in cui, essendomi smarrito in inviolate distese. mi sembrò dolce, quando ritrovai le tracce dell’uomo, poter morire tra i miei. Ora, niente distingueva un paesaggio da un altro, se non da lievi impronte nella sabbia. per metà cancellate dal vento. E tutto era trasfigurato.» (7) 

Di fronte alla tragica fine che si sarebbe potuta verificare di lì a qualche giorno, o a poche ore, in mancanza d’acqua, invece di chiudersi dinanzi al pericolo minacciante, si apriva alla comprensione e all’amore del suo simile, materialmente lontano, ma molto presente e vicino al suo cuore. 

Il Piccolo Principe maturò nel clima della comprensione e nella calma del silenzio, piano piano, come il bocciolo della rosa, in un momento particolare della vita dell’uomo e del poeta, che viveva in prima persona un’esperienza di guerra atroce e fratricida pronta a svuotare ogni nobile sentimento e a rendere vano il tentativo di quanti volevano fermarla. Di qui la tristezza che è del piccolo principe, ragazzino biondo con i capelli sciolti al vento, pensoso più di quanto non lo fossero gli adulti, capace di agire e di giudicare, perché lontano dai loro interessi e pregiudizi. Eppure, guardando gli uomini, li commisera per la loro stoltezza, ma li ama per il fondo buono che li accomuna. 

Già il titolo dice molto. Vero che ci troviamo dinanzi ad un piccolo principe, ma, a tutti gli effetti: egli ha l’autorità di un principe. Non appartenendo a questa terra, è come un angelo, proveniente da un asteroide lontano. Si è venuto a trovare cosi, senza volerlo, in quel regno grande, di cui fanno parte gli uomini che egli richiama con l’autorità disarmante dei piccoli, spesso capaci di mettere in difficoltà i grandi. In poche parole, è come un extraterrestre che s’avvicina agli umani, ma, nel momento che lo fa, trova molto strano il loro comportamento. 

Antoine de Saint-Exupéry inizia il libro (cap. I) con un ricordo della sua infanzia accompagnato da alcuni disegni che gli diedero l’opportunità di conoscere gli adulti e di diffidare di essi, visto che i loro interessi non corrispondevano ai suoi. 

Un colloquio, un vero rapporto di amicizia, lo avrà più tardi, per caso, con il piccolo principe, e il ricordo di quei disegni d’infanzia lo aiutò molto a comprendere il bambino biondo e le sue esigenze. Sicché la sosta nel deserto gli fu piacevole e salutare, più che stare con gli uomini, perché lo fece meglio accostare ad essi. Questo dominante senso del reale è il motivo per cui Antoine non iniziò la sua storia come di solito iniziano le fiabe; volle che fin dall’inizio venisse considerata come un racconto (<<Perché non voglio che il mio libro si legga con leggerezza» (8), con il rispetto e l’importanza che gli sono propri. 

Così, dopo i primi approcci (siamo ai capitoli II-VIII, e passeranno alcuni giorni perché Antoine ne venga a conoscenza), il piccolo principe paleserà i suoi sentimenti, i suoi timori, le apprensioni e l’insofferenza verso il complicato e il cervellotico propri degli adulti, l’amore per le cose a cui essi non danno tanto peso. 

I capitoli XI-XXIII raccontano il viaggio che il bambino biondo compie per arrivare nel pianeta Terra, mentre il XXN riprende il dialogo tra lui e l’autore ed ha il suo culmine nel XXVI capitolo, quando il piccolo protagonista muore per far ritorno nel suo asteroide. Solo allora Antoine si reimpossessa del racconto e nel XXVII capitolo vuole rendere consapevole l’uomo di ciò che ha importanza e che realmente resta. 

Antoine de Saint-Exupéry è uno scrittore che non schematizza ciò che sente di scrivere; ubbidisce solo agli stimoli che via via riceve e li struttura senza badare ad una vera e propria architettura del racconto. Sicché la struttura che abbiamo evidenziato è il risultato a cui l’autore è pervenuto, non il tracciato che si era prefisso. Ecco cosa scrive a proposito: 

«Se, prima di scrivere, delineo a tratti qualche piano della mia opera [… l. non sarà quello schema a condizionarla. Altro non è che l’espressione dell’opera da scrivere. Perché evidentemente l’essenziale si presenta per prima cosa come struttura.» (9) 

Uno scrittore non può essere condizionato dagli schematismi; guai se fosse così, tutto andrebbe a scapito della creatività, che altro non è se non la libertà di esporre e di esporsi, come hanno fatto da sempre i veri scrittori, come Antoine, in questo e negli altri suoi libri. 

Per quanto riguarda il tempo in cui si svolge l’azione, Antoine de Sainte-Exupéry ci dà una precisa indicazione. Nel suo libro si rifà ad un guasto al motore del suo aereo e il riferimento risale alla fine di dicembre del 1935, anno della sosta forzata nel deserto del Sahara (101. Il Piccolo Principe verrà scritto nell’estate del 1942. 

Lontano dagli uomini e dal mondo, al secondo giorno di sosta, Antoine ebbe la visita o, meglio, si trovò dinanzi, con un’apparizione improvvisa, il piccolo principe e con lui colloquierà per otto giorni (nella realtà rimase tre giorni nel deserto prima che arrivassero gli aiuti), giusto il tempo per non morire di fame ed essere tratto in salvo, e anche il tempo perché il bambino biondo potesse ritornare nel suo asteroide. 

A parte il primo giorno, in cui Antoine fu veramente solo («Mi sentivo molto più isolato di un naufrago su una zattera in mezzo all’Oceano») (11), gliene bastarono sette perché potesse scoprire il mondo umano e spirituale del piccolo principe e innamorarsene fmo al punto di farsene banditore e amarlo. 

L’azione, quindi, si svolge nel bel mezzo del deserto, per quello che attiene al racconto dell’autore, mentre, per quanto riguarda quello del piccolo principe, in buona parte, nell’immensità dello spazio planetario, costellato da una miriade di asteroidi, alcuni dei quali visitati prima di scendere sul pianeta Terra. 

«La Terra non è un pianeta qualsiasi! Vi si contano centoundici re (non dimenticando. certo, i re negri), sette mila geografi, novecento mila uomini di affari, sette milioni e mezzo di ubriachi, trecentoundici milioni di vanitosi, vale a dire circa due miliardi di adulti.» {l2) 

Se circoscritta e limitata la vita negli asteroidi, immensa appare al piccolo principe la Terra, molto varia nei paesaggi e nei suoi abitanti, ma altrettanto aperta a tutte le aspettative e al bene. Sicché, lo spazio reale di Antoine e quello illusorio degli asteroidi del piccolo principe risultano integrati in un’unica concezione della vita che, a sua volta, lega i due in un’amicizia indissolubile molto costruttiva e offre loro l’opportunità di riflettere sulle cose e sugli uomini. Ne deriva che la narrazione è un misto di monologo, di forma indiretta e di dialogo, ma essa diviene via via più serrata verso l’ultimo, quando comincia ad essere più manifesto il messaggio del libro e il ruolo del piccolo protagonista. 

Il monologo smorza ed esplica il dialogo, come se l’io narrante prendesse coscienza delle verità che vanno emergendo dalle brevi battute e dalle secche domande dell’interlocutore, perché ogni domanda e ogni battuta non sono dette a caso e, più che un senso, hanno una motivazione ben precisa: mirano ad asserire qualcosa che già per lui è scontata, ma passata sotto silenzio e trascurata dagli adulti, che di ben altro si curano. Perciò, all’inizio, c’è una specie di incomprensione e solo dopo abbiamo la presa di coscienza e l’attaccamento al piccolo principe e al suo insegnamento. 

«Mi ci volle molto tempo a capire da dove venisse. Il piccolo principe, che mi poneva molte domande, sembrava che non sentisse le mie…»; 
«ogni giorno imparavo qualcosa sul suo pianeta, sulla partenza, sul viaggio. Aweniva pian piano, per via di riflessioni. ..». 
«Ah, piccolo principe! Ho capito cosi, a poco a poco, la tua piccola vita malinconica. Non avevi avuto tanto per distrarti se non la dolcezza dei tramonti. Ho appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, quando mi hai detto: – Mi piacciono i tramonti. Andiamo a vedere un tramonto… » (13) 

Così il distacco, con cui Antoine aveva accolto il piccolo principe, cede il posto ad una curiosità che va al di là del semplice voler conoscere. Tra i due comincia ad instaurarsi un’amicizia e una comunione d’intenti che difficilmente possono essere intaccate. 

L’io narrante dell’autore-pilota espone in prima persona, dal I al IX capitolo, le conoscenze acquisite sul piccolo principe e il suo mondo. Successivamente, a partire dal X fino al XXIII capitolo (il tempo necessario perché questi potesse esporre le tappe del suo viaggio e gli incontri avuti), la narrazione si serve della terza persona, Solo nella parte finale, dal XXIV al XXVII capitolo, il discorso riprende alla prima persona, quasi a voler sottolineare il ritorno alla Terra, alla realtà del guasto e del deserto o, forse, per dare meglio l’idea che ciò che viene detto interessa da vicino e tocca fino a scuotere l’io profondo. 

*** 

Proprio per questo, il vero protagonista del racconto è no, voce e silenzio della nostra esistenza; è no che non si riconosce tra le storture esistenti e vuole evadere; ma, nel momento in cui lo fa, prende consapevolezza, s’afferma e s’impone per quello che è: buono, desideroso di vivere in armonia con sé e con gli altri; e, per far questo, ha bisogno di confrontarsi e fare delle scelte. 

Chi sono, allora, gli altri personaggi? A ben guardare, è il mondo dei tanti io di quanti è effettivamente formato, ed è anche e soprattutto il mondo del poeta, frastagliato e ricco di nobili aperture. 

Ma Antoine de Saint-Exupéry rimane nell’ombra ed è di supporto al piccolo principe, a cui crede profondamente. Sicché, egli segue sul filo del racconto il piccolo amico; qua e là interviene, il più delle volte si mette dalla parte dell’uomo, subisce per dare spazio alle acquisizioni e per meglio evidenziare quei bisogni che, pur essendo dell’uomo, spesso non vengono apprezzati o, addirittura, ritenuti di altro tempo e di altro luogo, di un asteroide, anziché della Terra. Per questo, spesso si chiude in se stesso e riflette. C’è nella vita di un uomo un momento in cui si comincia a fare un bilancio, accorgendosi che si è realizzato ben poco di quanto si sarebbe potuto fare. Antoine, a 43 anni («Il giorno delle quarantatre volte eri dunque talmente triste?» (14)), avendo sentore della propria fine, guarda indietro nel tempo e si rivede, con i sogni belli che lo aprivano alla vita, nel mondo favoloso e puro dell’infanzia. Si rivede, magari, a giuocare al cavaliere Aklin, con accanto Paula, la cara governante e compagna di giuochi rievocata in Pilote de guerre (15). 

Ed ecco venir fuori come dal nulla il piccolo principe, il ragazzino biondo dai capelli al vento, che non si accontenta di una risposta e insiste nella sua semplicità di fanciullo. È l’irradiazione a 360 gradi dell’innocenza che stenta a capire (e non ammette) le banalità di cui è piena la vita e s’adopera perché si dia spazio ai sentimenti; è l’alter ego di Antoine che finora ha urtato contro gli interessi degli adulti, ed è anche la bontà che nel silenzio apre strade aperte da sempre e sempre trascurate per manie di grandezza e di superiorità, e gli uomini gli appaiono bizzarri e strani, poco affatto straordinari. 

«Che strano pianeta! pensò allora. È secco, pieno di punte e tutto rovinato. E gli uomini mancano d’immaginazione. Ripetono ciò che si è detto loro… Da me avevo un fiore: parlava sempre per primo… » (16) 

La malinconia del piccolo principe è data dal disagio di vivere e dalla constatazione che è difficile contrastare con le abitudini consolidate e ritenute buone. Sicché, a mano a mano che è preso da questa consapevolezza, diventa sempre più nostalgico per ciò che ha lasciato (per il suo fiore, per i tre vulcani, anche per la solitudine che gli permetteva di essere se stesso) e medita il ritorno nel suo asteroide incontaminato. 

Tutti gli altri personaggi (il re, il vanitoso, l’ubriacone, l’uomo d’affari, il geografo) sono delle comparse; rappresentano gli adulti con i loro interessi e le loro meschinità e, come tali, hanno un’azione limitata, quasi a dire che non bisogna loro dare tanta importanza. 

Un posto a parte occupano, invece, la volpe e la rosa. Contrariamente a quanto si possa pensare, esse avvicinano il piccolo principe agli uomini. “Addomesticata” prima la rosa, poi la volpe, sarà la volta di Antoine e di quanti accolgono il messaggio di amicizia e di amore di cui si fanno banditori. 

A differenza di tutta la favolistica antica e moderna, che presenta la volpe furba, pronta a rubare e a scappare, mettendo nel sacco i suoi antagonisti, la volpe del Piccolo Principe è solo guardinga, agisce per spirito di conservazione, ma è fondamentalmente buona e tende ad addomesticare, come farà con il piccolo principe, e si rivela saggia. 

«Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. […] – Gli uomini hanno dimenticato questa verità, disse la volpe. Ma tu non devi dimenticarla. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile per sempre della tua rosa… » (17) 

Questa della volpe è una toccante umanità che, se coglie sulle prime di sorpresa, rende consapevoli e fa molto apprezzare ciò che ci appartiene: la vita e, con essa, l’amore in ogni sua manifestazione. 

La rosa è una protagonista silenziosa. Sicura della sua bellezza, degna di ogni attenzione, più che parlare, fa parlare. Antoine la descrive sul nascere, e il piccolo principe la vede gonfiarsi di giorno in giorno e aprirsi. La sua semplicità, il mostrarsi cosi com’è («Il piccolo principe, allora, non poté contenere la sua ammirazione: – Che sei bello! – Vero, rispose dolcemente il fiore, e sono nato insieme al sole…»), potrebbero irritare ed invece conquistano e la fanno amare, perché niente può contrastare con la purezza che di per sé rende molto docili e arrendevoli. 

Antoine de Saint-Exupéry, sempre puntuale persino nei dettagli, scrive e descrive ciò che vede e, d’altronde, non poteva essere cosi per uno, come lui, abituato all’osservazione. Pertanto, come abbiamo già notato, il vedere e l’osservare, per lui, vengono prima dello scrivere (l8). 

Nel Piccolo Principe ne costituiscono anche una prova i disegni che lo corredano e che sono di supporto a tutto il discorso. 

«Quando avevo sei anni, vidi, una volta, un magnifico disegno in un libro sulla Foresta Vergine intitolato “Storie vissute”. Rappresentava un serpente boa che mangiava una belva. Ecco la copia del disegno.» (19) 

Il racconto del piccolo principe è una trasposizione del vissuto, e l’affabulazione si serve dei dati oggettivi dell’esperienza: il volo, il guasto, la presunzione che è negli adulti e il bisogno di ridimensionamento. 

*** 

Nel Piccolo Principe è compendiata la tematica sviluppata negli altri scritti, siano essi racconti, romanzi o saggi. Il volo o l’aeroplano in Antoine de Saint-Exupéry non sono motivo di esaltazione o di spinte nazionalistiche, bensì occasione di incontro con il piccolo principe; non evasione, ma avvicinamento all’uomo, un modo per comprendere meglio il finito e ciò che lo circonda. Per questo, ricorre spesso alla figura del giardiniere, e lo vorrebbe essere lui stesso («Ero fatto per essere giardiniere») (20), ma di buoni propositi e di valori; di quei valori e di quei propositi che elevano, allo stesso modo dell’aereo, l’uomo e lo rendono umanamente accettabile, e solo così la vita gli sorride. 

La solitudine e l’ascolto del deserto riportano Antoine nel mondo o, meglio, nei tanti mondi in cui si frastaglia: quello degli adulti, che offre lo spunto (spesso in negativo) a tanta riflessione, e quello dei bambini e delle creature, come la volpe e la rosa, più bello, più umano e sicuramente degno di tanta considerazione. Se nei primi, però, la descrizione tende all’ironia, negli altri al sentimento, che viene recuperato senza peraltro cadere nel sentimentalismo, cosa che alcuni gli rimproverano (21). 

Il deserto stesso non lo apre alla solitudine, ma costituisce motivo di ascensione e di arricchimento; esso non è chiusura con il mondo, è bisogno di ricerca: chi insiste troverà l’acqua dissetante per sopravvivere. 

«- Il deserto è bello, aggiunse. Ed era vero. Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia e non si vede niente, non si sente niente. E tuttavia qualcosa splende in silenzio… 

– Ciò che rende bello il deserto, disse il piccolo principe, è che nasconde un pozzo in qualche parte… » (22) 

Un pozzo è la speranza della vita, e la distesa ondulata di sabbia è capace di far «germinare e crescere come un sole»(23), L’incontro fortuito di Antoine con il bambino biondo nel bel mezzo del deserto fa nascere un’amicizia destinata a consolidarsi e offre lo spunto per una presa di coscienza contro il male, che affonda le radici dovunque (i baobab), e contro ogni pretesa degli adulti che danno peso al caduco («Gli uomini s’infilano nei rapidi, ma non sanno più cosa cercano. Allora s’agitano e girano attorno…»)(24), trascurando la semplicità del vivere nel rapporto disinteressato con gli altri. Così gli adulti, incapaci di svincolarsi dai loro interessi, sono oggetto di ironia. 

La solitudine nel Piccolo Principe, come negli altri libri di Antoine de Saint-Exupéry, è soprattutto riflessione, bisogno di silenzio per favorire l’ascolto di quanto c’è di buono. Essa apre ai contatti, e se non propriamente a quei rumorosi che poi non dicono niente, di sicuro a quelli che sanno crescere e ingrandire come il bocciolo della rosa. Sicché la volpe, dopo essere stata addomesticata può dire: «Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». Questo “essenziale” differisce la volpe e la rosa dalle altre simili a loro, e avvicina e lega Antoine al piccolo principe. 

Ecco cosa dice il piccolo principe a proposito della rosa: 

« – Voi non siete affatto simili alla mia rosa, voi non siete niente. Nessuno vi ha addomesticato e voi non avete addomesticato nessuno. [… ] Voi siete belle, ma vuote. Non si può morire per voi. Certo, un passante qualsiasi crederebbe che la mia rosavi rassomigli. Ma lei sola, lei è più importante di tutte voi, poiché è lei che ho innaffiata. Poiché è lei che ho messa al riparo. Poiché è lei che ho tutelata con il paravento. Poiché le ho uccisi i bruchi (eccetto due o tre per le farfalle). Poiché è lei che ho ascoltato lamentarsi, o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Poiché è la mia rosa» (25) 

– Ce qui embellit le désert, dit le petit prince, c’est qu’il cache un puits quelque part…» 

L’amicizia e l’amore vengono presentati nella loro luce migliore ed acquistano un effetto particolare perché è un bambino a farli riscoprire, nella semplicità dei suoi incontri, nell’attaccamento e nella dedizione con cui si dà agli altri, dando un esempio di come l’uomo può vivere a sua misura e a contatto con il prossimo. 

*** 

Antoine vuole riportare l’uomo (lui che s’ostinava a scrivere questo termine a caratteri maiuscoli) nella condizione di riappropriarsi ciò che gli appartiene (l’amicizia, l’amore, la gioia di vivere nella libertà e nell’espletamento dei propri sentimenti, l’attaccamento alle piccole cose), ma vuole anche sia bandito il male che si manifesta con il vizio o dando troppa importanza alla materialità, che rende seriosi, facendo uscire dall’umana dimensione. 

Ricorrendo ad un’immagine un po’ forzata, ma pregnante, Antoine è l’amante tradito che finge di non sapere niente pur di riconquistare l’amata e, per far ciò, ripercorre con la mente e con il cuore i tempi belli e i luoghi che lo videro felice. Di qui la forte malinconia che è alla base del libro, non dettata, comunque, dal pessimismo, bensì dal sincero bisogno di recuperare ciò che è suo e che, purtroppo, sente lontano, perché altri interessi, altre motivazioni lo distolgono e lo assorbono. 

«Era veramente molto irritato, e scuoteva al vento i suoi capelli dorati: – Conosco un pianeta dove c’è un signor chermisi. Non ha mai odorato un fiore, non ha mai guardato una stella, non ha mai amato nessuno. Non ha mai fatto altro che addizioni. E tutto Il giorno ripete come te: “Sono un uomo serio! Sono un uomo serio'” …» (26) 

Antoine de Saint-Exupéry piccolo principe vorrebbe che non fosse così e che si desse, invece, più ascolto alla natura e al cuore, ingentilito, quest’ultimo, da un amore forte che renda simultanei i battiti. 

Il Piccolo Principe è questo: un atto d’amore verso l’uomo e il mondo. 

Salvatore Vecchio 

(*) A. de Saint-Exupéry, Le Petit Prince, Paris, Gallimard, 1996, pag. 31: «Il piccolo principe, che assisteva al formarsi d’un bocciolo enorme, sentiva che ne sarebbe venuta fuori una visione miracolosa, ma il fiore non la finiva di prepararsi ad essere bello. [… ]E poi ecco che un mattino, proprio all’ora del levar del sole, si era mostrato. E lui, che aveva lavorato con tanta precisione, cominciò sbadigliando: – Ah! mi risveglio adesso… Ti chiedo scusa… Sono ancora tutto spettinato… 
l) A. de Saint-Exupéry, Écrits de guerre (Prefazione di R. Aron), Paris, Gallimard, 1994, pag. 395. 
2) Ivi, pag. 97: «- Vous vous trompez tout à fait, a-t-il répondu. Nul, actuellement, n’est en droit d’écrire un seuI mot s’il ne participe complètement aux souffrances de ces camarades humains. Si je ne résistais pas avec ma propre vie, je serais incapable d’écrire. Et ce qui est vrai pour cette guerre doit rester vrai en toutes choses. Il faut servir l’idée chrétienne du Verbe qui se fait Chair. L’on doit écrire, mais avec son corps.»
3) A. de Saint-Exupéry, VoI de nuit, Paris, Gallimard, 1931, pag.19: «Et maintenant, au coeur de la nuit comme un veilleur, il découvre que la nuit montre l’homme: ces appels, ces lumières, cette inquiétude. Cette simple étoHe dans l’ombre: l’isolement d’une maison. L’une s’éteint: c’est une maison qui se ferme sur son amour. Ou sur son ennui. C’est une maison qui cesse de faire son signal au reste du monde. lls ne savent pas ce qu’Hs espèrent ces paysans accoudés à la table devant leur lampe: Hs ne savent pas gue leur désir porte si loin, dans la grande nuit qui les enferme.[ … ] Ces hommes croient que leur lampe luit pour l’humble table, mais à quatre-Vingts kilomètres d’eux, on est déJà touché par l’appel de cette lumière, comme s’ils la balançaint désespérés, d’une ile déserte, devant la mer.» 
4) Id.. Terre des hommes, Paris, Gallimard, 1939, pag. 9: «La terre nous en apprend plus long sur nous gue tous les livres.» 
5) Id., Pilote de guerre, Paris, Gallimard, 1942, pag. 130: «Nous luttons au nom d’une cause dont nous estimons qu’elle est cause commune. La liberté, non seulement de la France, mais du monde, est en jeu: nous estimons trop confortable le poste d’arbitre. C’est nous qui jugeons les arbitres.»
6) Id., Citadelle, Paris, Gallimard, 1996, pag. 409: «Sije veuxjuger le chemin, le cérémonial ou le poème, je regarde l’homme qui en vient. Ou bien j’écoute battre son coeur.» 
7) lvi, pagg. 551-552: «Je me souviens du jour où m’étant égaré sur des plateaux inviolés, me parut tendre, quand je retrouvai les traces de l’homme, de mourir parmi les miens. Or, rien ne distinguait un paysage de l’autre, sinon, de faibles marques dans le sable à demi effacées par le vent. Et tout était transfiguré.»
8) Id., Le petit Prince, cit., pag. 20: «Car je n’aime pas qu’on lise mon livre à la légère.»
9) Id., Oeuvres complèts, in “Carnets V’. Paris, Gallimard. Bibliothèque de la Pléiade, 1959, pagg. 642-643: «Si, avant d’écrire, j’énonce en gros quelques mouvements de mon oeuvre […], ce n’est point ce plan-là qui conditionne mon oeuvre. Il n’est que l’expression de ce que j’ai une oeuvre à écrire. Car évidemment l’essentiel se présente d’abord en tant que structure.» 
10) Id., Le petit prince, cit. pag. 11. 
Il) lvi. 
12) lvi, pag. 13: «La Terre n’est pas une planète quelconque! On y compte cent onze rois (en n’oubliant pas, bien sur les rois nègres), sept mille géographes, neuf cent mille businessmen, sept millions et demi d’ivrognes, trois cent onze millions de vaniteux, c’est-à-dire environ deux milliards de grandes personnes.»
13) Ivi, rispettivamente, pagg. 15, 21, 26: «Il me fallut longtemps pour comprendre d’où il venait. Le petit prince, qui me posait beaucoup de questions, ne semblait jamais entendre les miennes… »; «Qhaque jour j’apprenais quelque chose sur la planète, sur le départ, sur le voyage. ça venait tout doucement, au hasard des réflessions… »; «Ah! petit prince, j’ai compris, peu à peu, ainsi, ta petite vie mélanconique. Tu n’avais eu longtemp pour distraction que la douceur des couchers de soleil. J’ai appris ce détail nouveau, le quatrième jour au matin, quand tu m’as dit: – J’aime bien les couchers de soleil. Allons voir un coucher de soleil… » 
14) lvi.
pag. 27: « – Le jour des quarante trois fois tu était donc tellement triste?» 
15) Id.. Pilote de guerre, cit.. pagg. 134-141. 
16) Ivi, pag. 64: «Quelle dròle de planète! pensa-t-il alors, Elle est toute sèche, et toute pointue et toute salée. Et les hommes manquent d’imagination, Ils répètent ce qu’on leur dit… Chez moi j’avais une fleur: elle parlait toujours la première… “ 
17) Ivi, pagg. 72-74: «Voici mon secret. Il est très simple: on ne voit bien qu’avec le coeur. L’essentiel est invisible pour le yeux. (… ) – Les hommes ont oublié cette vérité, dit le renard. Mais tu ne dois pas l’oublier. Tu deviens responsable pour toujours de ce que tu as apprivoisé. Tu est responsable de ta rose…
18) «Il ne faut pas apprendre à écrire mais à voir. Écrire est une consequence» (A. de Saint-Exupéry, “Lettre à Rinette”, in Oeuvres complètes, cit. pag. 787. 
19) Id., Le Petit Prince, cit pag.: «Lorque j’avais six ans fai vu, une fois, une magnifique image, dans un livre sur la Forèt Vierge qui s’appelait “Histoire Vécues”. ça représentait un serpent boa qui avalait un fauve. Voilà la copie du dessin.» 
20) A. de Saint-Exupéry, Écrits de guerre (1939-1944), cit. pag. 429: «Moi, j’étais fait pour ètre jardinier.» Cfr., Id., Citadelle, cit., pagg. 612-15. 
21) B. Placido, KaJka contro il principino, «La Repubblica», Roma, 30 maggio, 1992.
22) A. de Saint-Exupéry, Le petit prince, cit., pag. 77: « – Le désert est beau, ajouta-t-il. Et c’était vrai. J’ai toujours aimé le désert. On s’assoit sur une dune de sable. On ne voit rien. On n’entend rien. Et cependant quelque chose rayonne en silence… 
23) Id., Citadelle, cit., pag. 374: «Et si je me suis borné à te faire parteciper de son langage, car l’essentiel n’est point des choses mais du sens des choses, le désert t’aura fait germer et croitre comme un soleil.» 
24) Id., Le petit prince, cit., pago 80: « – Les hommes, dit le petit prince, Hs s’enfoument dans les rapides, mais ils ne savent plus ce qu’Hs cherchent. Alors ils s’agitent et tournent en rond…» 
25) «- Vous ètes belles, mais vous ètes vides, leur dit-H encore. On ne peut mourir pour vous. Bien stir, ma rose à mo!, un passant ordinaire croirait qu’elle vous ressemble. Mais à elle seule elle est plus importante que vous toutes, puisque c’est elle que j’ai arrosée. Puisque c’est elle que j’ai mise sous globe. PUisque c’est elle que fai abritée par le paravent. Puisque c’est elle dont fai tué les chenilles (sauf les deux ou trois pour les papillons). Puisque c’est elle que fai écoutée se plaindre, ou se vanter, ou meme quelquefois se taire. Puisque c’est ma rose».
26) Ivi, pagg. 28-29: «Il était vraiment très irrité. Il secouait au vent des cheveux tout dorés: – Je connais une planète où il est un Monsieur cramoisi. Il n’a jamais respiré un fleur. Il n’a jamais regardé une étoile. Il n’a jamais aimé personne. Il n’a jamais rien fait d’autre que additions. Et toute la journée il répète comme toi: “Je suis un homme serieux! Je suis un homme serieux”’… ».

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 12-27.




La multidimensionalità e la pluricontestualità di un  insegnante-educatore 

Multi-dimensionalità e pluri-contestualità sono termini nodali e chiarificatori del modus essendi di un insegnanteeducatore, in quanto tale deve essere il suo carattere de facto in una società in cui non si procede più in maniera unidirezionale. 

L’atto di operare in una scuola tutta integrante, luogo che trasforma il sapere in una sorta di conoscenza circolare ed enciclopedica, sommativa ed integrativa del saper fare e del saper essere, presuppone la continua ricerca-azione intrisa di saggezza umana e di sapienzialità nelle interazioni personalizzate in più contesti e in più dimensioni, e richiede agli educatori una metànoia interiore profonda capace di leggere l’intero nel frammento, la pluricontestualità nella mono-tematica vita scolastica. Il campo d’azione dell’ insegnante, quindi, si allarga; esce da quella chiusura cui era relegato precedentemente, divenendo l’educatore-insegnante specialiizato con compiti specifici e molteplici perché tali sono le caratteristiche richieste, e con una saggezza e un equilibrio di personalità che lo rendono esperto in umanità e che gli permettono di propagandare il ciceroniano detto della scuola come animi cultura. In tal modo, il ruolo dell’insegnante ha, iter facendo, mutato la sua funzione, ampliandosi e arricchendosi, rappresentando adesso il punto focale attraverso cui sicuramente transita l’integrazione e, nello stesso tempo, si pone come una presenza di natura preventiva rispetto a situazioni di difficoltà. 

«Ottimo maestro è colui nel quale il fanciullo vede se stesso, l’interprete del suo mondo interiore in cui egli stesso non sa guardare a fondo, in certo modo la continuazione e l’esplicazione di se stesso come in un piano più elevato, la cui guida e direzione, lungi dall’essere temuta o aborrita, è desiderata e aborrita », così La Manna scriveva più di quaranta anni fa. Come non condividere questo pensiero? Il ruolo e la formazione dell’insegnante devono essere centrati sulla relazione e sulla comunicazione, sui rapporti tra area formativa e area informativa: gran parte della professionalità dell’insegnante specializzato consiste nella capacità di intervenire attraverso corrette modalità relazionali sia con gli alunni che con gli altri insegnanti. 

Questa è una caratteristica strategica elettiva che deve essere considerata come tratto fondamentale della figura professionale. Il fatto stesso di co-operare, inter-agire, co-agire e relazionarsi presuppone la molteplicità di situazioni che deve assemblarsi in questa figura: i diversamente abili, d’altronde, presentano ai docenti delle discipline difficoltà di insegnamento per il fatto che sono diversificati i processi di apprendimento1. 

L’insegnante, perciò, per rispondere alle specifiche e diverse esigenze di apprendimento e di sviluppo umano dei soggetti in difficoltà, deve essere in grado di operare scelte consapevolmente critiche, come scrive Larocca, in base all’offerta di senso pedagogico, alla consapevolezza della dimensione formativo-educativa delle tecniche usate nelle azioni didattiche e degli elementi significativi per la rappresentazione metapoietica della realtà, e alle molteplici funzioni della scuola nel contesto della società contemporanea. Presupposto indispensabile per l’attuazione di ciò sono la capacità e la fattiva realizzazione del dialogo tra agenti diversi, cui l’insegnante-educatore si deve adoperare per attuare quale mediatore privilegiato in una società pluri-dimensionale che, molto spesso, ascolta poco e che allo «stare con gli altri» deve far combaciare «il fare con gli altri». La condizione di dovere operare nei vari aspetti della realtà (antropologici, filosofici, neurologici, pedagogici e didattici) e nella difficile dinamica del rapporto dicotomico fra l’insegnamento ad apprendere e l’apprendimento stesso di tutti gli studenti, tutti diversamente abili (Gardner docet) , è la prospettiva principale cui deve tendere2. 

La multidimensionalità e la pluricontestualità sono insite nel suo ruolo di «progettare azioni», dove, al fine di mirare l’azione, si esige la conoscenza delle diverse dimensioni dell’insegnamento in generale e i contenuti della disciplina che si conosce di più, nonché la conoscenza della logica latente e interna che presiede a quella disciplina, ossia degli aspetti epistemologici più profondi. Tutto ciò che interviene nell’atto didattico occorre sia adeguato non tanto o non solo al contenuto, ma ai processi interiori necessari per far propri i contenuti. Ne deriva che l’insegnante deve essere capace di conoscere se stesso, le singole personalità, la realtà sociale intorno, e quant’altro entri in relazione con il soggetto, non facendo ricorso solo a strumenti standardizzati, quanto alle sue sensibili capacità di lettura dei dati rilevabili da una perenne ricerca-azione. Solo così potrà riuscire ad operare e mettere in pratica modalità e strategie adeguate e differenziate e pianificare un progetto di vita flessibile, dinamico e funzionale, avendo coscienza di tutte le variabili in gioco: dalle premesse antropologiche di fondo degli attori, alla capacità di dominio in situazione delle variabili intervenienti. 

L’essere esperto in situazione richiede all’insegnante un’acuta capacità di osservatore delle personalità in sviluppo, di moderatore di situazioni difficili e di portatore di un modo di insegnare che deve andare oltre la letio ex cathedra. Non fu Collodi che fece acquistare la stima e la simpatia di tutti al suo personaggio che era stato inizialmente deriso e beffato, perché, a differenza degli altri, era un burattino? Il piccolo Pinocchio, alla fine, va dicendo: «Badate ragazzi: io non sono venuto qui per essere il vostro buffone. lo rispetto gli altri e voglio essere rispettato!»3. 

Essere disponibile verso l’altro, sia a livello numerico che analogico, significa ascoltare e capire l’altro mettendosi in una dimensione unisona, di essere al servizio dei colleghi e dei genitori in quanto diventa capace di fruire di tutte le risorse presenti nell’istituzione in cui opera che egli aiuta a mettere insieme e a co-ordinare, per il miglioramento globaIe e generale della situazione delle classi in cui lavora, comprendendo i momenti più consoni per fare proposte di natura didattica capaci di aiutare gli allievi ad apprendere, come quando, prendendo spunto da eventi naturali o sociali, suggerisce azioni capaci di coinvolgere più docenti per problematizzare e contestualizzare le situazioni e gli apprendimenti in modo multi o pluridisciplinare e interdisciplinare, coinvolgendo l’intera comunità sociale in cui vive l’istituto scolastico: ne conosce le potenziali ricchezze e stimola i responsabili affinché da tali ricchezze non vengano esclusi tutti gli allievi, ma soprattutto i soggetti in difficoltà. 

In una moneta del Medioevo si legge «Humanitas humana terre» (l’umanità sostenga l’uomo), riconnettendosi all’immagine cara del buon samaritano: «Un uomo viene derubato, spogliato, battuto, lasciato morente per strada. Passa un sacerdote e non si ferma, passa un levita e non si ferma … Si ferma solo il buon samaritano, scendendo da cavallo » Questo sta a significare come, in una società così complessa e plurima, molte volte si perdono di vista le cose più vere! 

Bisognerebbe anche imparare a ricoprire il ruolo del buon samaritano. 

Rita Vecchio

NOTE 
1. N. Cuomo, Pensami adulto, Torino, UTET.1995. 
2. E. Fromm, Avere-a-essere, Milano, Mondadori, 1995. 
3. R. Lambruschini, Dell’autorità e della libertà, Firenze, La Nuova Italia, 1974.

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 21-23.




Educazione speciale e non, tra pensare, progettare e agire? 

«L’essenziale è invisibile agli occhi, continua la volpe riferendosi alla rosa che aveva tanto curato.» Così SaintExupéry scrive nel significativo dialogo per il suo Piccolo principe. Se è necessario addomesticare, allora molte volte davvero l’educazione può essere invisibile agli occhi di chi guarda? Dalla mappa logico-disposizionale (di cui tanto discutono i pedagogisti) all’azione, è un actus hominis o un actus humanus? Una svalutazione della teoria a favore della pratica, o un viaggio ascensionale che da cognizioni teoriche preparatorie all’azione conduce all’actus vero e proprio? Domande che rimandano a teorie pedagogiche che da anni si arrovellano intorno a questa querelle irrisolta: in un certo senso, l’azione umana precede la riflessione intrisa di motivazione invisibile e di intenzionalità mirata1, che spiegano l’actus fisico e l’inferenza pratico-induttiva posta in corrispondenza biunivoca di un dato osservato empiricamente e di un principio di valore che agisce da motivo-guida all’azione. 

Se educare, in una scuola dinamica, pluralista e in itinere continuo, significa ricercare, costruire e trasmettere valori, non si può immaginare di operare in azione, in modo propositivo e costruttivo, senza un’ adeguata preparazione teorica: l’esplicitazione pratica di un intervento mirato presuppone, infatti, una propedeutica osservazione pedagogica che sottintende uno sguardo alle problematiche epistemologiche e metodologiche capaci di rendere l’educatore autore esperto di cognizioni teoriche e attive. In questo processo, l’intenzionalità nell’azione offre l’unità ontologica di un’azione pedagogica, in un processo educativo in cui svolgere il suo ruolo in ordine allo sviluppo umano. Studiare un progetto, quindi, e partire da esso per agire, significa capire le dinamiche che stanno dietro, i riferimenti puramente teorici che ne giustificano liter attivo, le variabili esterne e interne che modificano la scelta di predefinite sottodisposizioni, in un processo in cui anche il voltarsi indietro e guardare eventuali errori è una marcia di sviluppo per il fatto che s’impara anche da un passato-storia. 

La centralità della ricerca-azione è presupposto indispensabile per un mirato iter formativo, e un modello di progetto dinamico viene veicolato, in tal modo, all’interno di un’azione educativa, affinché raggiunga, nella realtà, la potenziale libertà dell’uomo con il conseguente incremento di sviluppo. Cogliere l’altro e incontrarlo significa carpirne i dati intellettivi, gli stili cognitivi e le strategie di pensiero in atto, al fine di definire e ri-giustificare una precisa azione. Come facciamo noi, insegnanti-educatori, ad agire senza ratio? Si può anche agire, è vero, ma non significa forse giocare a moscacieca? Stabilire un rapporto di somiglianza tra azioni educative studiate in letteratura o in pedagogia e quelle in atto significa creare inferenze analogiche che ne giustifichino la proporzionalità. 

Anche questo è rapporto dialogico: se educare significa anche dialogare in un clima idoneo, compito dell’ educatore sarà quello di instaurare il dialogo con tutti coloro che ne sono coinvolti. Questo rapporto si porrà come ricerca del concetto di interdisciplinarità-interazione, proiettato a uno sviluppo umano, unico sapere oggi possibile, che in educazione si può costruire tramite il metodo clinico-dialogico, in quanto, proprio per l’importanza della teoria stakiana del microscopio e del telescopio, in base alla quale bisogna vedere bene alcune cose prima di guardare lontano, la problematica va sezionata in micro-parti, in modo da osservare da angolazioni visive diverse, e in maniera che i singoli punti di vista possano operare sinergicamente non in un semplice confronto dei risultati ottenuti, ma nell’ottica di un approfondimento e di un eventuale spostamento dello stesso punto di vista in virtù delle conoscenze emerse e acquisite cammin facendo. 

Il problema principale della ricerca-azione è, quindi, il dialogo creativo fra gli educatori-attori, nell’ottica di un modificare-modificandosi; allo stesso modo, in un progetto pedagogico, dobbiamo considerare che, se ogni individuo può divenire quello che l’insieme ambiente culturale e sociale lo stimola a diventare, l’uomo è caratterizzato a diventare quello che lo stesso so strato educativo in cui vive gli permette di diventare, più che essere determinato dal suo patrimonio genetico. Sul progetto pedagogico non agisce direttamente, quindi, una determinata concezione dell’uomo, quanto invece il progetto storico della comunità educante: è essa stessa l’anticipazione teorica di un soggetto ideale medio in una determinata età. 

Ecco spiegato il perché si parte da quella famosa e a volte criticata mappa logico-disposizionale, ovvero dalla rappresentazione grafica di una disposizione e delle sue sottodisposizioni (alias obiettivi e finalità) collegate tra loro da nessi detti «implicazioni disposizionali », in cui intervengono quelle variabili assegnate dette «condizioni di esercizio esterne, interne e rilevanti», in virtù delle quali si verificherà un evento educativo. Il passaggio da una mappa o formula alla realtà significa offrire a tutti la possibilità di impadronirsi delle proprie potenzialità e dei criteri di scelta per sviluppare il proprio poter essere; significa, parimenti, gettare in avanti le reti di apprendimenti specifici e personalizzati; pro-iettare quella «possibilità di umanarsi», ovvero la concezione «di come dover essere per quel poter accedere al proprio fondamento». 

Tutto ciò giustifica il senso stesso di tale progettazione pedagogica: ricondurre l’essere umano a se stesso, al riconoscimento della sua origine e del suo destino, a quella dimensione neotenica, che contrappesa in modo terapeutico una compromissione data attraverso una giusta stimolazione della stessa, in una vera e propria interdipendenza dinamica che conduca alla finalità-disposizione pedagogica, come le capacità cognitive, linguistiche, affettivo-emotive. L’incremento di sviluppo dipende fortemente dalla progettazione, all’ interno della quale si colgono gli elementi di ciò che si ritiene possibile in quell’ hic et nunc di riferimento, considerate le condizioni socio-ambientali e con la implicita consapevolezza di anticipare non i bisogni dell’ educando, ma le potenzialità da far emergere, nonché prevedere possibili percorsi individualizzati e personalizzati con la logica dell’attuazione, in modo da operare con mens scientifica3. 

In questo contesto si ritrova la risposta a uno dei miei quesiti iniziali: non è possibile attribuire un senso operativo all’ actus hominis (azione, cioè, priva di senso per chi la compie), ma solo l’actus humanus (azione dotata di senso) riceve significato, a prescindere dall’interpretazione dell’ osservatore. Un educatore deve essere anche ricercatore pedagogico che osservi, dall’esterno oltre che nell’interno, attraverso un’inferenza pratico-induttiva delle intenzioni e dei principi pedagogici che hanno agito da forza propulsiva dell’azione stessa. 

Non si tratta di dar ragione a Larocca o al Gruppo interdisciplinare di Trento piuttosto che ad altri pedagogisti, o di cadere nelle reti di un ragno chiamato filosofia, puramente astratto e fantasioso, quanto di dare per assodate alcune certezze latenti: inutile negare quanto importante sia il pensare a un’azione, il cogito latino che si pone come preludio teorico di una determinata realtà. Il progettare, pre-vedendo e pre-visionando, da parte di educatori chiusi, corre il rischio di forgiare animi chiusi e il progetto impositivo è proprio di una società chiusa: un progetto pedagogico aperto, invece, nasce in una società plurima le cui forze agenti sono dinamiche. 

I linguaggi simbolici utilizzati per tale trasposizione (un grafico, una formula, una mappa), non sono altro che mediatori mirati a un rinvio della realtà descritta e, in tal senso, l’educatore-ricercatore-progettista si pone come colui che sa vedere oltre quei semplici segni e, una volta che l’azione è fatta, il lettore, rapportandola al progetto, potrà dire che l’opera prova il progetto se tutto dell’opera era stato previsto. In una società caratterizzata da pluralismo e molteplicità, l’uomo è libero solo se esiste un progetto dinamico alla base che lo possa liberare dalle diverse ignoranze: se la libertà è una finalità condizionata, va progettata e realizzata mediante tutte le capacità implicate in un valore; questo vale anche per i soggetti «diversamente abili» che sono persone, ma che più di altre hanno bisogno di avere definiti obiettivi mirati ad accrescere le loro potenzialità. 

Un progetto dell’uomo sull’uomo, quindi, che pur partendo da stereotipi schematici si libera al fine di liberare. Una concezione, però, non idealistica, in cui nessuna parola parla per se stessa, ma in virtù di un tropos, ousìa di un linguaggio analogico che agglomera elementi indispensabili all’ azione: l’ad quem, l’a quo e l’id quem sono prototipi che stanno alla base di una qualsiasi formula o mappa, dove il relatore precede sia il fine che il mezzo. Il progetto pedagogico richiede la presenza di variabili che non sempre si possono controllare o prevedere: ogni bisogno può essere trasformato iter facendo, ridefinendo, in tal modo, le anticipazioni intenzionali e trasformandolo mentre la stessa azione si svolge; è vero che bisogna prevedere, ma l’anticipare in toto l’uomo su di sé è un’utopia ed è la neotema stessa che lo mette in condizione di un’ estrema plasticità. 

Il décalage piagetiano, ovvero la scomparsa del risultato di una disposizione-finalità, è uno dei problemi di educazione speciale che più si manifesta: il fatto di poter falsificare teoricamente un modello di progetto pedagogico e la micro-teoria disposizionale mirati all’incremento di sviluppo consistono nell’osservare la congruenza di una finalità e delle sotto-disposizioni con la concezione dell’ uomo che il modello assume o di considerarla a posteriori, rispettando la maturità pedagogica del soggetto e le sue strategie messe in atto per apprendere, dopo l’azione. 

Prima di falsificare un intero modello di progetto pedagogico occorre falsificare l’atto della «causazione» e la stessa programmazione; solo l’analisi dell’ eventuale non-presenza di errori macroscopici porta alla negazione del modello. Ogni azione deve essere intenzionale e tale intenzionalità va comunicata secondo un teorema deontico che vede la co-partecipazione degli altri, in riferimento all’importanza dialogica insita. Programmare significa creare ambienti idonei, capaci di offrire sensazioni concrete e piene di significato, avendo come punto di partenza una teoria da cui si deduce un progetto. 

L’educatore deve avere grandi doti di personalità che gli consentano flessibilità e capacità lungimiranti e, insieme agli aspetti cognitivi, si deve preoccupare dello stato d’animo del soggetto. L’azione che produce educazione è complessa e si può cogliere solo con un approccio collaborativo tra diversi punti di vista: è il dialogo interdisciplinare che porta a cogliere quello che ogni punto di vista di per sé non appare in grado di carpire. Ecco perché è importante che un insegnante non lavori «a porte chiuse», ma collaborando con i colleghi. 

L’azione educativa provoca un incremento di sviluppo umano in un dinamismo 

funzionale e disposizionale che vede interagire le varie condizioni necessarie in modo coerente e armonico e il binomio ricerca-azione sul campo può avere un effetto macroscopico anche sulla possibilità di incidere a livelli più ampi, fino a modificare le singole istituzioni e la mentalità diffusa. Fare acquistare senso al progetto deriva dall’importanza che si dà all’azione mirata e dal fatto che esiste un soggetto-tu che, fuori dal tempo e dalla presenza fenomenica, si realizza in merito a un dover-essere, giustificando il principio di progettazione pensato su di lui e per lui e rafforzando implicitamente l’etero e l’auto-educazione, ovvero le dimensioni dell’ ego che accompagnano il soggetto nel confronto costante tra il suo essere e il suo voler essere. L’azione non è altro che la conclusione di quest’inferenza pratica, la fine di un viaggio ascensionale iniziato con la teoria. 

D’altronde, come possiamo costruire una casa senza avere un progetto? Certo, a costruzione finita, invisibili saranno le cognizioni degli architetti e visibile sarà il risultato; senza quelli, il rischio di inagibilità crescerebbe. Lo stesso avviene nell’azione pedagogica. Anche il mio discorrere potrebbe sembrare un’inutile teoria, ma come potrebbe esserci azione specializzata senza una primaria e, a volte, anche noiosa riflessione? Come potrebbe, altrimenti; esistere quello che Schon chiama professionista riflessivo in educazione? 

Rita Vecchio 

NOTE 

(1) AA.VV., Musica in scena, a cura di C. Delfrati, EDT, Torino, 2003. 
(2) Cfr. F. LAROCCA, Nei frammenti lintero, Una pedagogia per la disabilità, Milano, Franco Angeli, 2003. 
(3) Cfr. F. LAROCCA, Azione mirata. Per una pedagogia della ricerca, in «Educazione speciale», Milano, Franco Angeli, 2003.

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 31-34.




 «L’uomo è nato libero e ovunque è in catene». Rousseau: teorico della democrazia o padre del totalitarismo? 

di Anna Vania Stallone 

Riflettere su un’immagine di democrazia quale forma di regime politico, sia pure del popolo, è necessario per prendere consapevolezza dei limiti di questa forma di governo e della sua vulnerabilità. Il fatto che della democrazia venga spesso fornita un’immagine fuorviante deve portare a comprendere fino a che punto sia lecito definire Rousseau «padre del totalitarismo» quanto piuttosto non sia opportuno continuare a considerarlo il teorico della democrazia, come si è fatto finora. La riflessione inevitabilmente deve partire da un’analisi attenta del pensiero di Jean Jacques Rousseau, anche se di democrazia e di forme di governo non fu certo il primo a parlare. 

Già Erodoto, portavoce della saggezza politica della Grecia antica, parlava di tre forme di governo: di uno, di pochi e di molti, considerando la democrazia la migliore tra queste, anche se come le altre due era soggetta a degenerazione, scadendo nella demagogia. Platone, poi, nella Repubblica teorizzava lo Stato perfetto, concependo in modo ideale l’aristocrazia o governo dei filosofi, ma, come Erodoto, contemplava le diverse forme di governo, individuando le possibili degenerazioni nella timocrazia, nella oligarchia e nella tirannide. Anche nel Politico Platone si sofferma a riflettere sulle diverse forme di governo e precisa ulteriormente che è la presenza o la privazione delle leggi a dare ad un governo un’impronta positiva o a determinarne la degenerazione. 

Seppure le leggi non possano prescrivere il bene per ognuno, considerato il loro carattere generale, Platone ne ribadisce comunque la necessità, poiché esse, data questa loro caratteristica, indicano ciò che è meglio per tutti. Fissate le leggi nel miglior modo possibile, esse vanno rispettate e conservate, poiché la loro assenza determina la rovina dello Stato. È Platone a dare lezione di autentica arte politica, individuando nella giusta misura la caratteristica dell’uomo politico che deve evitare l’eccesso o il difetto. 

Una riflessione politica di tutto rispetto viene ancora fornita, in ambito filosofico, da Aristotele, il quale, partendo dalla necessità per l’individuo della vita associata, poiché egli non basta a se stesso, si pone il problema della costituzione più adatta, affermando, nel IV libro della Politica, la necessità di un governo non solo perfetto, ma attuabile ed adattabile a tutti i popoli. Egli parte da una critica rivolta alle costituzioni esistenti per pervenire alla costituzione perfetta. Come Platone, anch’egli prende in considerazione monarchia, aristocrazia e democrazia e ne analizza le corrispondenti degenerazioni che vengono messe in atto quando il governo non ha più come fine il vantaggio comune, bensì il proprio. In modo specifico, soffermandosi sulla democrazia, egli distingue la democrazia, che si fonda sull’eguaglianza assoluta dei cittadini, da quella in cui il governo è riservato a cittadini con speciali requisiti, e quando nella democrazia prevale l’arbitrio della moltitudine, a scapito delle leggi, essa, dice Aristotele, si trasforma in tirannide. 

Facendo un salto nell’età moderna, la riflessione politica, passando attraverso il giusnaturalismo, concentra l’attenzione sul rapporto individuo-libertà, ponendo l’idea del diritto di natura al centro delle varie teorie. Dallo Stato assoluto di 

Thomas Hobbes a quello liberale di John Locke, la democrazia di Jean-Jacques Rousseau è sicuramente una delle più grandi concezioni politiche del mondo moderno. Considerare quello che la storia dall’ età moderna ad oggi ha offerto in termini di rivoluzioni e conflitti induce, non a formulare la costituzione perfetta, come è accaduto ad Aristotele, ma ad utilizzare differenti chiavi di lettura per gettare discredito su quelli che sono stati da sempre considerati i punti di riferimento ideologici del pensiero liberale, democratico o totalitario. Con molta disinvoltura è più semplice abbandonarsi a forzature revisionistiche piuttosto che ancorarsi a teorie e a principi difficilmente confutabili. 

Considerare Rousseau «padre del totalitarismo» è di certo una forma di revisionismo che disorienta il lettore comune, ma che certamente costituisce un input molto forte per chi è invece fermamente convinto che Rousseau non possa essere attaccato sui principi cardini del suo pensiero democratico. Seppure nel Contratto sociale sia egli stesso ad utilizzare espressioni che si prestano ad interpretazioni fuorvianti, come per esempio: «Il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto»1, certamente Rousseau vede la nuova condizione dell’individuo, dopo la stipulazione del patto sociale, non in termini di peggioramento, come in apparenza potrebbe sembrare, bensì come un miglioramento, in quanto, mentre nello stato di natura l’individuo era esposto all’arbitrio degli altri individui, nello stato civile il vivere nel diritto comune gli dà quella sicurezza e quella certezza che mancava nello stato di natura: l’individuo nello stato civile si sente, dunque, protetto e in questo consiste il miglioramento. 

L’origine del contratto nasce comunque da esigenze ben precise: «Trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima.» Da queste parole è facile cogliere la teorizzazione e l’esaltazione della sovranità del popolo, che fanno del Contratto sociale il testo per eccellenza del pensiero democratico. Il contratto mira, infatti, a conciliare la difesa della vita, peraltro considerata punto forte anche del pensiero di Hobbes (teorico dello Stato assoluto), con la libertà, conciliazione che segna le distanze di Rousseau dall’assolutismo di Hobbes. 

Rousseau, infatti, non considera il superamento della guerra civile come obietti va della sovranità del popolo: «usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune»2, ma obiettivo della sovranità popolare è il superamento di uno stato di schiavitù per una vita da uomini liberi, e la libertà di autodeterminarsi per l’uomo si realizza solo nella società civile e mediante il contratto sociale. Conciliare, allora, difesa della vita e libertà è possibile per Rousseau, se tutti gli uomini diano se stessi e i propri diritti a tutta la comunità: è questa la clausola fondamentale del contratto, che pone gli individui in condizione di radicale uguaglianza, poiché entrano nella società creata dal patto tutti allo stesso modo: «dando tutti se stessi». 

Pregnante e densa di significato e di valore democratico è l’espressione che, ancora, si legge nel Contratto: «Chi si dà a tutti non si dà a nessuno, e siccome non vi è associato sul quale ciascuno non si acquisti un diritto pari a quello che gli si cede su di sé. tutti guadagnano l’equivalente di quello che perdono e una maggiore forza per conservare quello che hanno»3. Forse è da questa affermazione finale che nasce l’equivoco di Rousseau «padre del totalitarismo»? O non è più consono riflettere sulla prima parte dell’assunto e cogliervi, piuttosto, l’esaltazione della libertà? L’individuo, infatti, perde ciò che riceve e, dunque, mantiene la libertà che aveva in origine. 

Spostando l’attenzione sul concetto di volontà generale che fa tanto discutere, poiché a tale concetto si associa. come peraltro fa lo stesso Rousseau, quello di alienazione dell’individuo, va precisato che «l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità»4 comporta che nessuno (poiché tutti si trovano nella medesima condizione di eguaglianza) ha interesse a prevaricare sugli altri e la società stessa garantirà i diritti di ciascuno e servirà gli interessi di ciascuno e di tutti. L’alienazione è, dunque, a vantaggio dell’io comune, della volontà generale, l’alienazione è di sé a se stesso: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo, inoltre, ciascun membro come parte indivisibile del tutto»5. La volontà generale è per Rousseau l’espressione del bene comune, essa è ciò che vi è di comune negli interessi particolari di ciascuno: «Soltanto la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune.» 

La fiducia totale nella volontà generale è bene evidenziata da Rousseau laddove, ancora nel Contratto, si legge: «La volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica»6, anche se tale fiducia non è condivisa dagli esponenti del pensiero liberale che paventano, proprio a partire da tale volontà, una sorta di «dispotismo della maggioranza», timore che anche Aristotele, come già detto, aveva manifestato riguardo alla democrazia, la quale, quando lascia prevalere l’arbitrio della moltitudine, rischia di trasformarsi in tirannide. A questo punto, timori e perplessità, non presenti certo in Rousseau, potrebbero portare ad interrogarsi: chi è divenuto storicamente l’interprete della volontà generale? Il partito, il fuhrer, le oligarchie … 

Che la storia offra esempi numerosi di degenerazioni delle varie forme di governo, degenerazioni già teorizzate nell’antichità classica, è un dato di fatto e, in quanto tale, inconfutabile, questo però non deve portare a pensare che chi ha teorizzato dette forme di governo debba essere etichettato a partire dalle degenerazioni e non, piuttosto, dalle idee, sane peraltro, che ha messo a punto! Sostanzialmente si vuole affermare che definire Rousseau «padre del totalitarismo », a partire da quelle che sono state storicamente le degenerazioni del sistema democratico moderno da lui teorizzato, è davvero una forzatura. Prendere in esame il periodo del Terrore e non considerarlo quale degenerazione politica della Convenzione che avrebbe dovuto governare la Francia democraticamente, mentre si è scaduti nella dittatura di Robespierre, e attribuirne la paternità a Rousseau, potrebbe portare, mutatis mutandis, a riflettere sul fenomeno fascismo e, anziché considerarlo frutto della crisi del liberalismo italiano, attribuirne la paternità a Jonh Locke. Cosicché anche Locke, come Rousseau, si vedrebbe addossata l’etichetta di «padre del totalitarismo». 

Tutto ciò rasenta l’assurdo. È lecito, semmai, concordare con Jonh Stuart Mill, quando parla della tirannia della maggioranza, che è più pericolosa del dispotismo dei re del passato, così come è lecito difendere la libertà non solo dal dispotismo ma anche dal conformismo di massa in cui sono scadute le moderne democrazie. Alexis de Tocqueville, nella sua opera La democrazia in America, è tra coloro che ritengono legittimo rispettare il majority rule, cioè il principio di maggioranza. E la democrazia, infatti, trova la sua sostanzialità proprio nella maggioranza che, sulla base dei consensi ottenuti alle elezioni, governa, mentre la minoranza costituisce l’opposizione. Questo è il sistema migliore per la democrazia. Ma la preoccupazione di Tocqueville emerge quando sostiene: «Non vorrei che il potere di fare tutto, che rifiuto ad un uomo solo, fosse accordato a parecchi»7, preoccupazione che è rivolta a quella degenerazione cui la democrazia potrebbe andare incontro sconfinando nel potere tirannico della maggioranza che comporta, per l’individuo, la perdita della libertà. 

Chiamare in causa Karl Popper potrebbe tornare utile per meglio comprendere il senso di quanto finora detto. Nell’opera La società aperta e i suoi nemici Popper ritiene che la democrazia non possa semplicemente caratterizzarsi come governo della maggioranza, ciò sarebbe, infatti, riduttivo. La democrazia si sostanzia, per Popper, nel limite che i governanti incontrano nel poter essere licenziati dai governati senza spargimento di sangue. La democrazia è tale nella misura in cui chi detiene il governo sia in grado di salvaguardare alla minoranza la possibilità di operare per un cambiamento pacifico della società, in caso contrario non si potrà parlare di democrazia, ma di tirannia. La lezione di Popper sulla società aperta, da lui considerata continuamente riformabile e migliorabile, apre la strada ad un ripristino della paternità del pensiero democratico che va, senza ombra di dubbio, attribuita a Rousseau. 

Avere definito Rousseau «padre del totalitarismo» significa essere partiti da un errore di fondo: avere considerato, cioè, gli avvenimenti storici dell’età moderna, in modo particolare la fase della radicalizzazione del processo rivoluzionario francese, non come «tentativi ed errori» della messa in atto delle teorie democratiche, ma come deliberate scelte politiche scaturite dalla coincidenza della volontà individuale con la volontà generale, scelte che avrebbero determinato una società in cui le parti, cioè gli individui, sono state subordinate al «tutto», dove il tutto ha prevalso ed ha predominato sulle parti. «In ogni campo possiamo imparare attraverso tentativi ed errori, facendo sbagli e miglioramenti […]. Dobbiamo aspettarci che, data la nostra mancanza di esperienza, saranno commessi molti errori che possono essere eliminati solo mediante un lungo e laborioso processo di piccoli aggiustamenti»8. 

Stallone Anna Vania

NOTE 

1. J. J. Rousseau, Il contratto sociale, a cura di V. Gerratana, Torino. 1977, p. 44. 
2. T. Hobbes, Leviatano, a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, 2000. 
3. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
4. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
5. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
6. J. J. Rousseau, op. cit., p. 42. 
7. A. de Tocqueville, La democrazia in America (a cura di G. Candeloro), Milano 1996, p.257. 
8. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, tr. It. R. Pavetto, Roma, 1973, p. 230.

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 17-20.




 Restituiamo a Gentile la sua identità 

Da qualche tempo si assiste ad un lavorio intellettuale finalizzato ad una sorta di riesumazione del passato, di quel passato che non passa, cui appartiene la figura del filosofo castelvetranese Giovanni Gentile, che alla neonata repubblica italiana appariva il filosofo scomodo, il simbolo del fascismo, il filosofo del «manganello». A distanza di oltre mezzo secolo Gentile non fa più paura, e si tenta di rivalutarlo, squarciando il velo dell’ostracismo che l’aveva coperto, per cogliere aspetti più o meno evidenti all’interno del suo pensiero filosofico-politico. Che si tratti di revisionismo storico è possibile, un giudizio storico infatti non è mai pronunciato per l’eternità; anche la più scrupolosa delle interpretazioni è suscettibile di mutamenti. 

Il revisionismo gentiliano presenta caratteristiche peculiari, anche se per certi versi simili a quello del tedesco Nolte. Se Nolte ha cercato di relativizzare i crimini nazisti (La guerra civile europea dal 1914 al 1945) interpretandoli come una derivazione-imitazione di quelli comunisti staliniani, allo stesso modo assistiamo ad un relativizzare la posizione di Gentile all ‘ interno del fascismo per mettere in evidenza aspetti della sua filosofia legati piuttosto all’ideologia marxista o liberalsocialista. 

Una pagina del revisionismo gentiliano è quella che ha cercato e scavato nelle opere del nostro filosofo, sottolineando quello che sicuramente in epoca fascista non poteva venire alla luce. Ecco allora che Gentile è diventato ispiratore del movimento liberalsocialista, lo vediamo sostenitore dell’antirazzismo (caso Kristeller), lo consideriamo aperto alle stesse istanze dell’antifascismo nel «discorso» del 24 giugno ’43, che ha ispirato interpretazioni diverse, talvolta contrastanti. Ma chi fu veramente Gentile? Perché mettere in secondo piano, o addirittura sconfessare, da parte di certa critica gentiliana, l’intima convinzione fascista del filosofo? Forse la sua centralità nel mondo intellettuale del ‘900 filosofico verrebbe a essere offuscata? 

Eppure studiosi di grande portata rifiutano l’immagine di Gentile filosofo del fascismo, sostenitore del totalitarismo, e cercano di accreditare l’opposta figura di un Gentile paladino della libertà. Se è vero che, dopo il delitto Matteotti, Gentile prese le distanze dal fascismo, è anche vero che la sua adesione al fascismo sopravvisse a questo difficile momento. Tanto che nel 1943, aderendo al governo fantoccio, dimostrerà sicuramente la sua coerenza morale, ma anche la sua fedeltà al regime. 

Un momento di riflessione su qualche pagina di Genesi e struttura della sociepotrebbe aiutarci a restituire a Gentile la sua vera identità. Là dove si legge: «La forza del volere, in quanto forza che si chiama diritto (dura lex sed lex), è il volere voluto, che si pone come limite alla libertà», emerge una concezione che riduce il diritto alla forza, che si concretizza nella realtà politicamente organizzata, cioè nello Stato. Visione del diritto che porta Gentile verso posizioni antitetiche rispetto a quelle su cui poggia invece il liberalismo moderno, che si fonda, al contrario, sul diritto naturale. 

È il diritto naturale che fa da substratum a qualunque diritto positivo e che a questo conferisce validità. 

Gentile filosofo della libertà? Ciò che sostiene Gentile è distante, addirittura, dalla stessa visione del diritto di Hobbes, da sempre considerato teorico dell’assolutismo, ma che, in questo caso, sarebbe di un assolutismo, direi, più moderato rispetto a quello gentiliano. Hobbes ha riconosciuto, infatti, come via d’uscita dell’uomo, dalla guerra di tutti contro tutti, quella di un diritto naturale che comunque non è infallibilmente realizzata. Il «volere voluto» che leggiamo in Gentile è il diritto come forza, che si è realizzato, che si è tradotto in legge, non un diritto come dover essere, ma come identificazione di dovere essere e essere, come identificazione di norma e realtà. 

Questo è sicuramente l’insegnamento che Gentile ha ereditato da Hegel e che, come Hegel, lo distanzia dalla stessa concezione kantiana del diritto. Hegel prende le distanze da Kant per il quale il diritto è «l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell ‘uno può accordarsi con l’arbitrio dell’ altro, secondo una legge universale della libertà». Secondo questa teoria, diritto naturale e diritto positivo non differiscono, ma la loro di versità consiste nel fatto che il diritto naturale si fonda sui principi a priori e il diritto positivo nasce invece dalla volontà del legislatore. 

Hegel sosteneva che, accolta la volontà del singolo, la sua individualità particolare, il suo particolare arbitrio, siamo scaduti nella «superficialità» del pensiero da cui sono scaturiti gli orrori della rivoluzione francese, ed è a questa e alle teorie illuministiche che Hegel sferra il suo attacco. 

Dentro l’influsso del pensiero hegeliano matura la riflessione etico-politica di Giovanni Gentile, che ancora in Genesi e struttura della società continua a parlarci di «limite necessario» che non può mancare. Questo, per Gentile, «è il momento del diritto, dello Stato come autorità, che è volere potente, innanzi a cui deve cedere l’arbitrio», parole che si commentano da sole, forti, che segnano la distanza dalle teorie liberali alle quali Gentile è stato forzatamente avvicinato. Le leggi vengono a limitare così le libertà degli individui, singolarmente presi. Ogni arbitrio individuale deve cedere di fronte alla volontà universale dello Stato, «lo Stato è lo stesso individuo nella sua universalità». In questa visione diventa costitutiva, dello Stato la forza, l’autorità. Una vera e propria ripresa della concezione hegeliana del primato dello Stato sugli individui, di contro al pensiero liberale che, rivendicando la priorità dei diritti individuali, intende salvaguardarli dalle eccessive ingerenze dello Stato. 

È questa l’identità che Gentile rischia di perdere e che, pur non condivisa da tutti, non pregiudica «il convincimento che il filosofare gentiliano è prima di tutto una condizione speculativa anche per quanti militano, per così dire, sotto altre bandiere filosofiche» (N. Abbagnano). 

Anna Vania Stallone

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 20-21.




 Monarchie, Stati Generali e Parlamenti 

Re Riccardo: « … i leoni domano i leopardi.» 
T. MOWBRAY DUCA DI NORFOLK: «Sì , ma non possono cambiare le loro macchie.» (Riccardo II, l, 1,5-6.) 
Machiavelli fu bandito dal Parnaso «perché fu sorpreso di notte con un gregge di pecore a cui insegnava ad usare falsi denti di cani così che in futuro esse non potessero essere rido Ile all’obbedienza col fischio e con la frusta». (Traiano Boccalini. Ragguagli di Parnaso, LXXXIX) 

PROLOGO 

Lo Stato. che nasce per rendere possibile la vita, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice. (Aristotele. Politica, libro l, cap. 2) 

ELEUTHERlA – L’epigramma di Aristotele costituisce la più rivoluzionaria definizione di Stato nella storia del pensiero politico, La maggior parte degli Stati e, ancora di più, la maggior parte degli imperi sono stati fondati e governati per il bene dei governanti o per il bene della tribù. Sia la tribù che i governanti hanno sempre cercato di giustificare la loro azione di governo come volontà degli dei o di Dio. Si riteneva, naturalmente, che la volontà degli dei fosse per il bene dei sudditi. Tutto ciò era, nel migliore dei casi, un ripensamento o, più spesso, semplice propaganda. 

Non che il pensiero di Aristotele fosse originale. Perché almeno 250 anni prima del suo scritto la vita felice era già equiparata all’eleutheria, la libertà, definita sia come libertà del governo da regimi esterni che come libertà dei cittadini dalla tirannia, dal dominio senza leggi di un singolo governante o, a volte, di gruppi di governanti. Ciò che i Greci inventarono nel loro ordinamento politico, fu la cittadinanza, la polis o città-stato, vale a dire la partecipazione dei cittadini alla vita civica nel promulgare o far rispettare la legge, nell’approvare tasse e spese, nel prendere decisioni sulle relazioni con le città vicine e, se necessario, nel prestare servizio nell’esercito. Tutto questo avveniva tramite il dialogo, l’attività reciproca di parlare e ascoltare e le conclusioni razionali che scaturivano da tale attività. Era una relazione dinamica, aperta, incerta nelle sue conclusioni e che sempre correva il rischio di essere sopraffatta dal suo opposto: governo e servitù, comando e obbedienza, certezza e accettazione. 

Per i Greci solo la vita di questa cittadinanza partecipativa costituiva una vera libertà politica. In pratica, essi trovavano questa libertà – che Machiavelli nel XVI sec. avrebbe chiamato un vivere politico – difficile da raggiungere e quando ci riuscivano era solo all’interno del circolo ristretto della polis e dei suoi cittadini a pieno titolo. Donne, stranieri e schiavi erano esclusi, sebbene le donne fossero considerate libere se sposate con un cittadino. Aristotele era interessato solo alla polis. Quando mandava i suoi studenti a studiare le costituzioni fuori di Atene – uno dei maggiori programmi di ricerca mai intrapreso nel campo delle scienze politiche – li mandava solo in altre città-stato del Mediterraneo. 

La cosa rivoluzionaria era la sua definizione del principio dello scopo di uno Stato: la vita felice. 

Sin dalla riscoperta della Politica da parte della Cristianità latina, nel XII sec., essa ha avuto una profonda influenza sulla pratica e sul pensiero politico in 

Europa e, recentemente, in quelle civiltà al di fuori dell’Europa influenzata dal pensiero europeo, anche nei casi in cui tale influenza non è stata apertamente riconosciuta. A volte questo principio è stato deliberatamente ignorato, anche nella nostra epoca e, di solito, con conseguenze disastrose per gli abitanti dello Stato stesso e di quelli vicini. 

Nel Medioevo il principio di Aristotele cadde su un terreno fertile. I princìpi dell’eleutheria non erano mai andati del tutto perduti nell’Impero Romano. Negli Stati che nacquero dalle sue ceneri, questi princìpi furono rafforzati dalla pratica dei re germanici di convocare i propri liberi guerrieri in assemblee generali, per discutere le politiche perseguite dai re e per il consiglio (consilium) e l’aiuto (auxilium) che i vassalli potevano fornire. 

RAPPRESENTANZA – Tutto ciò andava bene per unità politiche relativamente piccole e questa pratica sopravvisse in alcune parti marginali d’Europa. In molte vallate alpine e in alcune aree costiere meno accessibili della Frigia, della Norvegia o dell’Islanda. Il problema era inventare una forma di relazione partecipatoria nelle unità politiche più grandi. La soluzione al problema era sfuggita agli abitanti della Grecia classica o, meglio, essi non l’avevano considerato un problema. Concentrando la loro discussione politica sulla polis, avevano considerato i grandi Stati, come l’Impero persiano o la Macedonia, in ogni caso privi del principio dell’ eleutheria. 

Nell’Europa medievale i principi della relazione feudale tra signore e vassallo non erano di per sé una base per l’eleutheria. La principale virtù medievale, l’ideale verso cui tutti i giovani uomini venivano educati, era tipicamente la lealtà. Non era un ideale da mettere in discussione. Il signore, o il re, era solito rivolgersi ai suoi vassalli per consigli e aiuto; ma per le discussioni e i dibattiti si circondava solo di pochi individui scelti con cura. C’era bisogno di qualcos’altro che potesse associare sezioni molto più ampie della società alla politica del re. Da questo bisogno nacque il principio della rappresentanza. 

Essa era in origine una pratica apolitica derivata dal diritto romano, in cui un avvocato rappresentava il suo cliente o clienti nelle cause civili. Non sorprende che tale pratica si trovi per la prima volta tra gli uomini di Chiesa, cioè, tra quella parte di società che conosceva il latino. I grandi ordini religiosi internazionali trovavano utile la rappresentanza per incrementare la reciproca coesione tra le varie case religiose. Così. nel XIII sec., i Domenicani svilupparono un sistema complesso formato da una gerarchia di consigli elettivi che rappresentavano le singole case, le assemblee provinciali e, infine, l’intero ordine. 

Anche prima che i Domenicani sviluppassero pienamente il loro sistema di rappresentanza, i papi del XII sec. convocavano i prelati dagli Stati papali per consultarli. Nel 1213 Innocenza III fece un ulteriore passo in avanti. Nel convocare il IV Concilio Laterano, egli invitò non solo il clero cristiano, rappresentato dai prelati. i vescovi e gli abati dei grandi monasteri, ma anche gli ambasciatori dei re e di alcune città-stato italiane. 

In modo ancora più incerto, i governanti cominciarono anch’essi a convocare i grandi vassalli in persona e talvolta i rappresentanti del clero e delle città. Se non l’avessero fatto, le conseguenze avrebbero potuto essere imprevedibili e nefaste. Nel 1158 l’imperatore Federico I Barbarossa convocò una grande assemblea feudale, una dieta, a Roncaglia, in Italia, per ottenere tasse su un certo tipo di commercio, sulla zecca e sui diritti delle miniere. Esse erano considerate tradizionalmente prerogative del re o dell’imperatore, le regalie. I notabili di Federico, per la maggior parte tedeschi, non ebbero difficoltà nell’imporre queste tasse alle città italiane dell’Imperatore. Ma queste città non erano state consultate. Esse formarono leghe contro l’Imperatore e lo contrastarono con successo, finché non ottennero virtualmente l’indipendenza dal suo dominio. 

Con maggior successo, alcuni principi riunirono delle assemblee in cui i prelati, i nobili e le città erano tutti rappresentati. Tale fu la prima Corte Spagnola del re di Leòn nel 1188. Questi incontri erano ancora sporadici e non istituzionalizzati. Furono i teologi, specialmente gli avvocati di diritto canonico, dal XII al XIV sec., a sviluppare teorie sistematiche sulla rappresentanza, collegandole all’ assunto aristotelico che lo Stato esiste per il bene dei suoi cittadini (sebbene i notabili e i prelati non avrebbero certo approvato questa affermazione) e furono essi ad impegnarsi in un dialogo moderno sul modello greco con i loro principi e tra loro stessi. 

C’erano buone ragioni perché il pensiero politico ecclesiastico del tardo Medioevo insistesse su quest’ argomento. Per cominciare, c’erano le parole di Gesù, secondo cui bisognava dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Ma questo precetto da solo non bastava a spiegare lo sviluppo di elaborate teorie politiche. Niente del genere avvenne nella teologia bizantina né nella sua erede, la Chiesa russa ortodossa. Nell’Impero bizantino e in Russia (e a fortiori negli Stati islamici successi vi all’Impero Romano) qualsiasi reale opposizione tra l’Imperatore e la Chiesa (o tra i califfi e le leggi dell’Islam) era impensabile. Ma in Occidente il collasso dell’Impero Romano nel V sec. aveva reso il capo della Chiesa, il papa, virtualmente indipendente dall’Imperatore. Anche se per gran tempo non si pensò in termini di opposizione, era impossibile che a lungo andare i loro interessi, politici o teologici, coincidessero sempre. 

Ci vollero parecchi secoli prima che venissero pienamente apprezzate le conseguenze intellettuali di questa situazione contingente e, nella prospettiva della storia mondiale, anomala. Ciò divenne inevitabile, però, quando dall’XI al XIV sec., sia i papi che gli imperatori del Sacro Romano Impero, e in seguito anche i re degli Stati europei indipendenti, cominciarono a richiedere la supremazia. Ogni tanto ci fu guerra aperta e in tutto quel periodo si ebbe un’ accesa campagna di propaganda da ambo le parti. Tutti i protagonisti del dibattito scrivevano in latino e tutti si rifacevano alla Bibbia come la fonte più autorevole in questo campo. Questa situazione costringeva gli uomini ad argomentazioni razionali. Inevitabilmente, specie dopo la riscoperta della Politica di Aristotele. che divenne un testo base nella formazione universitaria di diritto civile e canonico, queste argomentazioni razionali dovevano occuparsi della natura dello Stato e dell’ autorità politica. Ci si trovò a discutere in maniera fondamentale sia sul locus che sui limiti dell’autorità e su quali rimedi ci fossero se un tiranno ne abusava. Poiché, sebbene Gesù avesse affermato che tutto il potere viene da Dio, rimaneva da risolvere la questione pratica di come i re ottenessero il potere: se direttamente da Dio o indirettamente dalla volontà del popolo. E se il potere veniva dal popolo, che diritto aveva il popolo di toglierlo a un re tirannico o, perlomeno, di limitarne i poteri? Chi aveva l’autorità di fare le leggi? E il principe era soggetto alle leggi che lui stesso o i suoi predecessori avevano promulgato? In pratica, quali leggi poteva emanare, come imporre certi tributi, che non fossero in conflitto con le leggi naturali di Dio? E la legge naturale comprendeva significativamente i diritti sulla proprietà. 

Tali discussioni non venivano necessariamente portate avanti in ogni assemblea che il principe convocava. Ma costituivano le questioni fondamentali che determinavano lo scopo e le prerogative delle assemblee rappresentative. Esse erano sostenute da un principio derivato dal codice di Giustiniano: quod omnes tangit ab omnibus approbetur: ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti. Ancora una volta questa era già stata una procedura puramente tecnica nel diritto romano. Si applicava nelle cause civili, come la tutela di un minore da parte di diverse persone. Ma nel corso dei secoli XIII e XIV questo cavillo tecnico, qualche volta formulato in maniera leggermente diversa, diventò un principio politico. Si sarebbe rivelato un principio dagli effetti sconvolgenti. Era usato da coloro che adunavano le assemblee allo scopo di trovare sostegno da parte dei sudditi; fu questo il caso di Edoardo I d’Inghilterra quando convocò il Model Parliament nel 1295. Questo principio veniva usato regolarmente da coloro che ritenevano di dover essere convocati. Perché dare consigli aveva un duplice aspetto: era il dovere del vassallo nei confronti del suo signore o principe e finì per essere considerato un diritto. Così il principio del quod omnes tangit, associato a quello della rappresentanza, finì per riproporre il principio greco della partecipazione alle decisioni politiche cui si arrivava grazie al dialogo razionale e «approvato da tutti». 

ASSEMBLEE RAPPRESENTATIVE – Nel tardo Medioevo il principio della rappresentanza si diffuse in tutta l’Europa cristiana cattolica. Si adattava bene sia alle necessità dei principi che alle tradizioni dei vari governi locali. Queste tradizioni differivano enormemente dalla partecipazione dei lati fondisti inglesi alle corti della contea, all’autogoverno virtuale delle comunità dei villaggi in varie parti d’Europa e, soprattutto, alle corporazioni cittadine, con i loro statuti reali o episcopali, che stabilivano sia la natura che i particolari dei loro diritti. 

I principi, da parte loro, avevano bisogno di tutto l’aiuto possibile da parte dei loro sudditi nella feroce competizione militare che era diventata la norma in Europa dopo che i grandi imperi dei Franchi e dei Danesi erano scomparsi, sepolti in un irrepetibile passato. I principi ricevevano sia informazioni che aiuto dalle loro assemblee. Nel corso del XIII sec. divenne più comodo adunare non solo i notabili ma anche le città; perché erano proprio queste ultime a poter fornire più prontamente denaro per le imprese belliche dei loro prìncipi. 

Per le città era fastidioso e costoso mandare i propri rappresentanti alle assemblee; ma era anche una buona opportunità per far approvare i propri statuti, discutere argomenti di interesse comune, come i rapporti commerciali con le potenze straniere o il conio locale e, soprattutto, tenere il fisco entro limiti ragionevoli. Le città potevano formare leghe, come le hermandades di Castiglia, che si riunirono regolarmente a partire dal 1282 e che, alla fine, svilupparono istituzioni stabili per regolare la loro lega. Nelle Fiandre, i rappresentanti dei quattro membri, le città principali di Bruges, Ghent, Ypres e la zona degli agglomerati urbani e dei castelli tra Bruges e il mare, chiamata la Franc de Bruges (het Vrije van Brugge) tennero più di 4000 incontri tra il 1384 e il 1506, spesso in luoghi diversi e contemporaneamente. In Olanda, tra il 1401 e il 1433, si tennero più di 700 assemblee. Loro scopo principale era discutere di questioni commerciali. Nei principati più estesi e nelle zone prevalentemente rurali gli incontri erano per lo più gestiti dai notabili laici ed ecclesiastici, anche quando vi partecipavano alcune città. Queste riunioni erano molto meno frequenti, a volte con intervalli di parecchi anni, ma a differenza delle assemblee urbane erano molto più complesse e formali. Spesso le presenziava il principe in prima persona. 

La cosa sorprendente è che le città-stato italiane, pur sviluppando la loro indipendenza nella lotta contro gli imperatori tedeschi, non presero parte al movimento di costituzione delle assemblee rappresentative. Le loro leghe, come la Lega Lombarda che combatté Federico Barbarossa, erano poco più che alleanze di unità indipendenti, proprio come lo furono più tardi i membri della Lega Anseatica nel nord Europa. Questa Lega teneva i suoi raduni occasionali: assemblee dei rappresentanti di alcune città anseatiche, ma raramente vi parteciparono tutte. Queste riunioni non si trasformarono mai in istituzioni formali, con membri fissi. 

Le città-stato italiane svilupparono una forte tradizione di libertà politica. Proprio come l’eleutheria per i Greci, questa libertà era vista sia come libertà dall’oppressione straniera che come libertà dalla tirannia interna. I teorici politici umanisti italiani, compreso Machiavelli, non dubitarono mai che la vera libertà dovesse essere repubblicana. Le loro discussioni riguardavano piuttosto la natura del regime repubblicano: se dovesse essere aristocratico, democratico o misto. La rappresentanza era propria delle monarchie e dunque non era considerata un vivere politico, sebbene Machiavelli ritenesse che quando veniva perduta doveva essere ristabilita da un uomo di «virtù». 

Ma c’erano ragioni pratiche perché le città-stato in Italia rifiutassero la rappresentanza. Nei confronti delle aree circostanti il loro contado, esse si comportavano come principi. Le soggiogavano, le tassavano e le usavano come basi di arruolamento per i soldati che avrebbero combattuto per loro. Né le città del contado né la nobiltà rurale venivano consultate per queste guerre e i nobili erano convocati solo quando era necessaria la loro presenza individuale nell’esercito. Per quanto riguarda le città suddite, una che ne aveva in gran numero, come Firenze, non avrebbe mai convocato i rappresentanti delle città toscane insieme, dando loro modo di allearsi l’una con l’altra contro la città «imperiale». Questa tradizione anti-stato era così forte che impedì lo sviluppo delle assemblee rappresentative anche laddove una città-repubblica era diventata principato, come accadde a Milano e Verona e in altre città. Così, né una prevalenza di città, né di relazioni feudali, e nemmeno l’abbondanza di corporazioni ecclesiastiche e la presenza di giuristi canonici, possono da sole spiegare la comparsa di istituzioni rappresentative. Perché ciò avvenisse era assolutamente necessaria un’ulteriore condizione, un elemento inerente all’idea stessa di rappresentanze di località, corporazioni e Stati che si riunissero in assemblea. Mancava il senso della comunità di una struttura politica. Al di fuori delle città, che certamente svilupparono sentimenti comunitari, ma dove, come detto, la rappresentanza non si sviluppò, tale sentimento in origine poteva essere di tipo tribale. Ma più spesso, durante il Medioevo, le origini tribali vennero dimenticate in favore di tradizioni di cooperazione politica e militare e di obbedienza al principe locale. 

Nel 1128, durante una crisi dinastica nelle Fiandre, i membri della nobiltà e molte grandi città formarono leghe per gestire la crisi ed eleggere il nuovo conte delle Fiandre. Fino a quel momento le leghe non erano assemblee rappresentative (anche se alcuni storici le hanno considerate veri e propri pre-parlamenti) e non ci sono prove che la massima quod omnes tangit venisse applicata. Ma tali eventi costituivano in sé una collaborazione tra la nobiltà e le città ed evitarono che le Fiandre si spezzettassero in una serie di città-stato indipendenti come accadde in 

Italia settentrionale. Ciò è più sorprendente se si considera che le città principali, Bruges, Ghent e Ypres, si comportavano in buona misura come se fossero città-stato, dominavano e sfruttavano le campagne e i villaggi circostanti come un contado italiano. A partire dalla fine del XII e per tutto il XIII sec. i conti furono spinti a cooperare regolarmente con le assemblee dei loro Stati per potersi difendere dai re di Francia che cercavano di ristabilire il loro dominio nel Paese. 

In questo caso, come spesso accadeva nei rapporti tra i principi e le loro assemblee rappresentative, il corso degli eventi e l’equilibrio finale dei poteri non furono determinati soltanto dalla storia interna del Paese in questione, ma anche dall’intervento esterno. La storia dei principi e dei parlamenti non si svolge quasi mai in un sistema chiuso. 

Questo vale anche per i parlamenti delle isole. La storia della Magna Carta forse sarebbe stata diversa se la rivolta dei baroni contro re Giovanni , nel 1215, non fosse stata sostenuta dalla Francia. Nello stesso tempo, e ciò evidenzia in maniera cruciale lo spirito di comunità che c’era nel Paese, i diritti e i privilegi che i baroni estorsero al re, specialmente il processo davanti ai propri pari secondo la legge. sarebbero valsi per tutti gli uomini liberi della nazione. Alla morte di Giovanni, il governo di reggenza per conto del figlio minore riemanò la legge altre tre volte. Anche se le tre versioni differivano in alcuni dettagli, le copie furono inviate a tutti i tribunali delle contee, quindi coinvolsero deliberatamente la comunità di tutto il regno. 

Fu questo il modo in cui la Magna Carta finì per essere interpretata. I parlamenti successivi insistettero per promulgarla ancora. La reputazione del parlamento e della Magna Carta, entrambi considerati a salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini inglesi, si rinforzavano l’un l’altro, e si svilupparono insieme fino a formare la tipica simbiosi dell’idea di governo di diritto, dei diritti e privilegi dei sudditi e della rappresentanza dell’intera comunità. 

Ci volle tempo perché venissero stabilite in Inghilterra adunanze regolari del 

Parlamento e lo stesso valeva per le altre assemblee rappresentative sul Continente. Inevitabilmente esse si svilupparono in tempi diversi, dal XIII al XV sec. Vi erano i tre stati classici: clero, nobiltà e popolo; ma vi era anche il principato d’Olanda in cui le assemblee erano di solito limitate alla nobiltà e alle sei città maggiori (sebbene a volte venivano convocate anche le città più piccole) e non aperte al clero. In Polonia solo la nobiltà veniva considerata come rappresentativa della comunità. Le città venivano lasciate fuori dalla Sejm, la dieta di tutto il regno, anche se dominavano l’assemblea provinciale della Prussia Reale. In Svezia, al contrario, il clero era costituito non solo dai prelati ma anche dal clero locale, e c’era persino uno stato dei contadini. Molto dipendeva dallo sviluppo degli stati come gruppi o raggruppamenti auto-consapevoli all’interno dello Stato stesso, come la divisione tra notabili (ricos hombres) e bassa nobiltà (hijosdalgo) nelle Cortes di Aragona. 

C’erano assemblee rappresentative dappertutto al di fuori delle città-stato, a parte alcune comunità contadine nelle valli alpine e le paludi della costa settentrionale della Frigia, nel mare del Nord, che conservavano antiche tradizioni di riunioni degli uomini liberi. 

Le assemblee rappresentative non erano mai democratiche. Solo in Inghilterra c’era qualcosa di simile alle elezioni dei membri effettivi del Parlamento e nessuno immaginava che queste elezioni fossero democratiche. La democrazia era apprezzata da alcuni umanisti. Ma, al di fuori di alcune città-stato italiane e svizzere e delle poche comunità contadine indipendenti, la democrazia era disprezzata ed evitata. La rappresentanza era presente negli ordini ecclesiastici e nelle monarchie. Certamente aveva il compito di coinvolgere le comunità nella vita politica, ma mai nessuno pensava che dovesse cambiare la struttura sociale della comunità. Era rivoluzionaria nel senso aristotelico che dava l’opportunità di una vita felice difendendo le libertà, i privilegi particolari di corporazioni e gruppi, all’interno della comunità. Doveva preservare la comunità dal governo arbitrario del principe. Ma la rappresentanza non era intesa come uguaglianza o uguali diritti. La forma esatta delle assemblee e i loro rapporti col principe dipendevano dalla struttura sociale delle comunità che rappresentavano. Questi rapporti, a loro volta, erano spesso influenzati dalle alleanze e dall’intervento delle comunità limitrofe. Una volta stabilite, le assemblee tendevano ad assumere una forma istituzionale. Come tali, cominciarono a sviluppare una loro vita propria con certe forme tradizionali talora rigide, e ciò accadeva persino quando le condizioni socio-politiche originarie erano cambiate. Se la comparsa delle assemblee rappresentative dipese dall’esistenza di un certo senso della comunità, le assemblee aumentarono questo sentire. 

I principi avevano un atteggiamento ambivalente verso le loro assemblee. Le consideravano utili per assicurarsi il sostegno della comunità, l’osservanza delle leggi e in misura ancora maggiore, per la concessione di denaro sotto forma di tasse. Nel 1282 i Siciliani rovesciarono il loro re della casa francese di Anjou (Vespri Siciliani) e si rivolsero al re d’Aragona perché prendesse la corona e li aiutasse a mantenere la loro indipendenza. Pietro III d’Aragona, pur reclamando la corona di Sicilia per diritto ereditario, convocò molti parlamenti in Sicilia per farsi confermare re. Questi parlamenti evitarono che il regno si spezzettasse in una miriade di città-stato, come nell’Italia settentrionale, e così ottennero da re Pietro un certo numero di privilegi, in cambio di somme di denaro per finanziare la guerra con la casa di Anjou che si trovava ancora a Napoli. Non sorprende che Pietro d’Angiò abbia convocato anche un’assemblea nel suo principato di Catalogna allo scopo di ottenere supporto finanziario per la sua politica in Sicilia. 

Eppure i principi erano ben consapevoli del pericolo costituito dalle assemblee che potevano diventare potenziali rivali dell’autorità. Sia essi che i loro avvocati erano sempre molto suscettibili a questo argomento. Se la massima romana del quod omnes tangit era ormai generalmente accettata, lo era anche quella del diritto romano che considerava il principe come legibus solutus, al di sopra della legge. Secondo alcuni giuristi, questo principio era rinforzato dal detto del Codice Giustinianeo: quod principi placuit leges habet vigorem, poiché piace al principe ha forza di legge. Cosa realmente significassero queste massime romane era un argomento di costante dibattito e di sottili e colte argomentazioni da parte di magistrati civili e canonici. Più comunemente, si sosteneva che solo il principe aveva il diritto di formulare le leggi che poi l’ assemblea rappresentativa aveva il dovere di confermare. 

Ma cosa accadeva alle leggi che risultavano dalla presentazione di lamentele? Questa presentazione era una delle funzioni riconosciute alle assemblee. I principi erano ansiosi di non perdere il proprio diritto di accettare o rifiutare i suggerimenti delle assemblee. Talora, specie, quando si trattava di una disputa dinastica, le assemblee si riunivano di loro iniziativa. Ma i principi scoraggiavano simili azioni indipendenti e insistevano che solo essi avevano il diritto di convocare, prorogare o sciogliere il parlamento. Ma i parlamenti e le assemblee rappresentative non erano uguali ad un consiglio regale. In assenza di una vera e propria amministrazione civile, i parlamenti tornavano utili alla politica proprio perché rappresentavano interessi, informazioni e autorità indipendenti da quelli del principe e del consiglio che lui nominava. Essi costituivano un’opportunità di dialogo politico per la comunità. 

CONCILIARISMO – L’ambiguità fondamentale di questo equilibrio dei poteri tardo-medievali, divenne evidente nella prima metà del XV sec. nella storia dei grandi consigli ecclesiastici e del loro confronto con la monarchia papale. Non era un confronto intenzionale. I leader dell ‘Europa cristiana, sia religiosi che laici, decisero di porre fine allo scisma papale (1378). Un concilio a Pisa (1408-’09), convocato da un gruppo di cardinali, fu rigettato da entrambi i papi e finì per aggiungere un terzo papa ai due in lotta. Il concilio successivo a Costanza (1414-1418) fu convocato su iniziativa del Sacro Romano Imperatore e vi parteciparono un certo numero di re e principi europei o i loro rappresentanti, oltre una sfilza impressionante di prelati e teologi. Allora i papi e gli antipapi furono deposti con successo e ne fu eletto uno nuovo, Martino V, che fu accettato da tutti. Questo è molto simile all’operato delle assemblee rappresentative locali, come quello delle Fiandre, che aveva deposto un principe indegno e ne aveva eletto uno nuovo. Adesso, col Concilio di Costanza ciò era avvenuto su scala più vasta. Frequentato o, perlomeno, seguito avidamente dal fior fiore degli intellettuali europei, il concilio produsse naturalmente una giustificazione teorica alle sue decisioni. Essa si trova nel famoso decreto Haec Sancta (6 aprile 1415), dove si afferma che il concilio derivava la sua autorità direttamente da Cristo e questa autorità era superiore a quella del papa, il successore di San Pietro e vicario di Cristo. I padri della Chiesa erano attenti a reclamare tale autorità solo per le questioni di fede, ma come si potevano distinguere tali questioni da quelle organizzative e politiche? Il concilio procedette a riorganizzare la Chiesa e ad eleggere un nuovo capo. 

Questi erano i problemi fondamentali sulla natura dell’ autorità che i teologi avevano dibattuto per secoli in senso astratto. Erano problemi essenzialmente analoghi a quelli dell’autorità del principe e dell’assemblea rappresentativa. Il confronto divenne più aperto nel corso del concilio successivo, a Basilea (1431-1449). Naturalmente gli scontri ora si svilupparono per il tentativo del papa Eugenio IV di sciogliere il concilio, mentre quest’ultimo replicava che solo lo stesso concilio poteva decretare il proprio scioglimento o la propria proroga. Si finì per formulare un decreto ancora più innovativo dellHaec Sancta, in cui si stabiliva che il concilio aveva semplicemente un’autorità superiore a quella del papa. 

La posizione conciliare fu discussa soprattutto nelle università, in special modo nella facoltà di teologia di Parigi. Alla fine i teologi non poterono opporsi al potere del papa di usare le diverse potenze temporali l’una contro l’altra. Inoltre, egli aveva il vantaggio, nella propaganda spirituale, di avere concluso da poco un accordo apparentemente riuscito con la Chiesa greca ortodossa (1437). Già a metà del XV sec., il papato era riuscito ad emergere come monarchia autocratica dal confronto con i principi della rappresentanza dei conciliaristi. Nessuno poteva prevedere che il papato diventasse ora vulnerabile, non solo a causa dei riformatori della Chiesa – tutti concordavano nella necessità di riforme – ma anche nella ricerca da parte dei principi di indipendenza ecclesiastica e di controllo sulle loro chiese. 

A riflettere sul dibattito del XV sec., l’aspetto sorprendente non è la partita persa dal movimento conciliarista. Gli interessi dei protagonisti erano troppo diversi. Le mere dimensioni dell’ operazione conciliare e l’enorme territorio sul quale doveva essere coordinata, erano troppo persino per i più accaniti sostenitori. Così Nicola di Cusa, una delle menti più brillanti di quell’epoca, abbandonò i conciliaristi e si schierò dalla parte del papato. La vera sorpresa invece è quanto in avanti fossero riusciti a spingersi i conciliaristi. Era un segno della vitalità dell’idea di unità dei Cristiani, un segno analogo a quello comunitario che sarebbe stato essenziale per la nascita della rappresentanza nei singoli Stati europei. 

Allora l’idea di rappresentanza fu sconfitta assieme all ‘ idea di conciliarismo? La storia non è così logica né così simmetrica. La nozione di un concilio sopravvisse come idea, come aspirazione, come un mezzo per guarire i mali del tempo. Era ancora un’idea forte nella prima generazione della Riforma, e rimase tale da ambo le parti del dibattito riforrnista. Ma poi la connessione tra concilio e rappresentanza svanì sempre più sullo sfondo, cedendo alle sempre maggiori certezze dei dogmi di entrambi gli schieramenti. Al Concilio di Trento (1545 – 1564) pochi erano interessati alla rappresentanza, tranne che per la necessità dei Protestanti di far udire la propria voce e dei Cattolici di negarla. 

STATI COMPOSITI E STATI GENERALI 

I concili ecclesiastici del XV sec. furono dei grandiosi, ma inefficaci, tentativi di creare un’istituzione rappresentativa composita. L’idea stessa, comunque, era tutt’altro che morta, né i Concili di Basilea e di Costanza furono i soli esempi. Le assemblee rappresentative composite furono la conseguenza logica della comparsa di monarchie composite o multiple. Nel tardo Medioevo, queste monarchie erano diventate la forma più importante di organizzazione politica in Europa. Più era potente la monarchia – e il potere era l’obiettivo internazionale nella maggior parte delle monarchie – meno probabile era che fosse uniforme. 

Le parti costitutive di una monarchia multipla, nella maggioranza dei casi, si univano insieme per volere comune, come nel caso della Sicilia o d’Aragona, o più spesso per eredità dinastica o di matrimonio, come la maggior parte dei domini della Casa d’Austria, o nel caso dell’Inghilterra e della Scozia con la successione di Giacomo VI e I nel 1603. 

In tutti questi casi il principe giurava di osservare le leggi e i privilegi preesistenti del suo nuovo Stato. Nel XV sec. queste leggi e questi privilegi di solito comprendevano un’assemblea rappresentativa che considerava suo dovere difendere i propri interessi e quelli dei suoi membri. Nei pochi casi in cui una monarchia acquisiva uno Stato o una provincia per conquista, si riteneva ci fosse il diritto di abrogare tutte le leggi e i privilegi preesistenti. In pratica, comunque, i poteri della monarchia erano limitati dalla necessità di riconciliare a sé almeno una parte dell’élite del nuovo territorio. Machiavelli consigliava al suo principe o di distruggere la nuova provincia, o di risiedervi lui stesso (e dispensare generoso patronato ai nativi), oppure lasciarla vivere secondo le proprie leggi. Persino quando gli abitanti di una provincia, che passava da una mano all’altra, non venivano consultati sul cambiamento, ci si aspettava che queste leggi venissero osservate. Nel 1482 Maria di Borgogna fu costretta dai suoi Stati Generali a firmare il Trattato di Arras e cedere l’Artois e la Franche-Comté alla 

Francia, come dote per la figlia neonata che avrebbe sposato il delfino. Al futuro sposo (che nel caso specifico non sposò mai la principessa Margaret) fu chiesto «di tenere in particolare considerazione le contee di Artoi s e Borgogna e i poveri abitanti che troverete essere i migliori e più leali sudditi» . 

In questo modo i principi potenti, abili o semplicemente fortunati , potevano aggiungere alloro regno provincia su provincia, e Stato su Stato, ognuno con le sue leggi e le sue istituzioni ben consolidate. Per ottenere una maggiore coesione dei suoi domini, il principe spesso trovava utile convocare insieme tutti i membri delle assemblee rappresentative. Non poteva dare per scontato che tutte le province sostenessero la sua politica, specialmente la guerra che per il principe era essenziale. Così nel 1485 le terre della Prussia Reale, una provincia di lingua tedesca che sin dal 1466 viveva felicemente sotto il regno di Polonia, rifiutarono di sostenere la guerra con i Turchi Ottomani. Essi affermavano persino che, secondo i loro privilegi, il re di Polonia era obbligato a proteggerli dall’aggressione, ma non il contrario. 

La monarchia francese aveva già fatto esperienze simili nel XV sec. Alcune delle province francesi non avevano alcun interesse nella guerra contro l’Inghilterra e preferivano tenere per sé le proprie risorse. I re francesi allora convocarono molte assemblee in tutto il Paese, les états généraux, solo raramente e non sempre con grande successo. Inoltre c’era il pericolo che gli Stati Generali, un’assemblea composita per un regno grande e complesso, potessero diventare molto potenti e cominciare ad usurpare l’autorità reale. Ciò accadde in Francia anche quando re Giovanni II fu fatto prigioniero dagli Inglesi nella battaglia di Poitiers (1356). Gli Stati Generali approvarono l’imposizione di tasse per poter continuare la guerra e per pagare l’enorme riscatto per liberare il re. Nello stesso tempo cercarono di riformare il governo centrale la cui incompetenza aveva portato alla disfatta militare. Ma gli Stati Generali per un Paese così esteso e vario come la Francia si rivelarono troppo impacciati, e il nuovo energico re Carlo V preferì regnare facendone a meno. La monarchia francese era l’unica, a parte alcuni principati italiani, che era riuscita a mettere su un’amministrazione tributaria che funzionasse nella maggior parte del Paese. Sin dal tempo di Carlo V, esso aveva acquisito la reputazione di dominium regale, un regime che poteva imporre liberamente tassazioni importanti. Al contrario, in un dominium politicum et regale la monarchia non aveva tale diritto. La linea di demarcazione tra i due tipi di regime non era sempre così netta, ma gli esperti del tempo indicavano chiaramente che tale differenza esisteva e anche da quale lato si poneva la Francia. 

Forse la situazione si può meglio riassumere con l’aneddoto di un ambasciatore veneziano, che Francesco I era solito ripetere. Egli diceva che l’imperatore Massimiliano gli aveva riferito che lui, l’imperatore, era il re dei re, perché nessuno eseguiva i suoi ordini; Ferdinando il Cattolico era il re degli uomini, perché gli uomini gli obbedivano solo quando decidevano di farlo; ma Francesco, re di Francia, era il re delle bestie, perché tutti gli obbedivano sempre. 

Questa battuta era ovviamente un’ esagerazione. Lo storico ha ben ragione di chiedersi, però, perché Francesco lo raccontasse così spesso. Il giudice Fortescue, a cui si deve la pal1icolare formulazione della definizione dei due diversi tipi di regime nel XV sec., non si inventò certo l’idea. L’aggettivo «politico » derivava dalla Politica di Aristotele ed era usato di frequente sul continente per indicare un regime limitato o misto. 

Se i governanti delle monarchie multiple nutrivano sentimenti ambivalenti verso le assemblee rappresentative multiple, così era anche per le proprietà delle singole province. Quelle degli Asburgo d’Austria, nell’Europa centrale, erano spesso riluttanti a mandare i loro deputati al di fuori dei propri confini. I Boemi, per esempio, si rifiutavano di andare in Austria. I privilegi che i governanti avevano giurato di mantenere erano sempre i privilegi locali di quella particolare provincia. Non si mettevano da parte tali privilegi con leggerezza, per paura di perderli del tutto. Se si riteneva necessario farlo, si pretendevano altri privilegi maggiori. Se negli incontri degli Stati Generali le province più piccole in genere seguivano le indicazioni di quelle più grandi, per esempio, nella concessione di tasse, tutti opponevano strenua resistenza verso qualsiasi mozione di voto di maggioranza, specialmente in questioni finanziarie. 

Questa è un’altra ragione per cui, con pochissime eccezioni, gli Stati Generali funzionavano solo in territori contigui. Una striscia di mare tra due territori sotto la stessa corona, costituiva un serio ostacolo. Ma anche in questi casi, le storie di Inghilterra e Irlanda, di Svezia e Finlandia e di Aragona e Sardegna dimostrano che il mare non era una barriera assoluta. Questi esempi, però, erano relativamente rari e la ragione principale era che i membri degli 

Stati Generali, ancor più di quelli delle unità singole, insistevano nel restringere i poteri dei deputati e pretendevano che sulle questioni importanti essi si consultassero con coloro che li avevano mandati. C’erano buone ragioni per tutto ciò. I borgomastri, i sindaci e i segretari comunali trovavano naturalmente più facile far valere il loro coraggio all’interno della propria comunità, rispetto a quando si trovavano a viaggiare come deputati e ad affrontare i grandi signori del consiglio reale o persino lo stesso re o il suo reggente. Respingere le richieste dell’autorità era più facile se si poteva affermare di non avere il potere di decidere personalmente. Al contrario, era più facile per il governo intimidire i singoli deputati che dover affrontare l’intero consiglio di una grande città. Nonostante ciò, non era sempre chiaro chi rappresentassero i deputati. Le assemblee provinciali o le città parlamentari e le corporazioni ecclesiastiche? Né era sempre chiaro il ruolo dei notabili nelle assemblee, specialmente se essi facevano parte anche del consiglio del re. La storia degli Stati Generali non può quindi essere separata nettamente dalla storia delle assemblee delle province costituenti di una monarchia multipla. Gli uomini non cedono volentieri il potere che esercitano o che pensano di dovere esercitare. Se l’ideale di dominium politicum et regale era cooperare per il bene della comunità, ci potevano essere idee molto diverse riguardo a chi e che cosa fosse la comunità. 

Ci potevano anche essere svariate e appassionate idee riguardo a cosa fosse il bene, aristotelico o meno. E se queste differenze conducevano a conflitti aperti, come spesso accadeva, era inevitabile che gli Stati vicini fossero coinvolti in tali conflitti. Lo storico, dunque, osserva certe tendenze e certe regolarità in queste storie. Ma le contingenze influenzavano sempre il risultato. Ciò che lo storico non può fare è predire l’esito di queste storie, né per l’Europa né per i singoli Stati. 

Una storia comparata ed esaustiva degli Stati Generali sarebbe quindi equiparabile alla storia politica dell’Europa moderna. Anche se fosse possibile scriverla – e finora non esiste – non ci fornirebbe una legge generale dei rapporti storici tra monarchia e parlamento. Per questa ragione ho scelto un formato diverso: quello di descrivere in modo approfondito  i rapporti fra la monarchia e gli Stati Generali dei Paesi Bassi in un periodo di duecento anni. La ragione di questa scelta è la storia infinitamente varia di questo rapporto. Ci troviamo davanti a un’organizzazione politica multipla all’interno di uno Stato multiplo, aperto sia alle idee che all’ intervento esterno. Il leone per una volta è riuscito ad alienare tutti i leopardi dal suo comando. Metà di loro scelsero di ritornare a lui, per svariate ragioni, non ultima quella della paura di pecore con denti di cane. L’altra metà dei leopardi scelse di non ritornare sotto il comando del leone perché scelse di non nascondere le proprie macchie. Tutti scelsero di tenere le pecore, con o senza i denti, all’oscuro. Il Riccardo Il di Shakespeare riassume quest’atteggiamento quando caratterizza la stranezza della ribellione di Bolingbroke: 

Ho avuto modo di osservare io stesso, 
e con me anche Bagot, Green e Bushy, 
com’ ei riesca a corteggiare il popolo, 
e penetrare in fondo ai loro cuori 
con umili ed affabili maniere; 
e prodigarsi a loro in grandi gesti 
corteggiando quei poveri artigiani 
con l’arte del sorriso. 

RICCARDO Il (I, 4) 

(Trad. italiana di Bruna P Scimonelli) 

Helmut Koenigsberger

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 5-17.