Francesco Boneschi, parlando di Cardarelli – poco prima che il Maestro morisse – così scriveva: «Non si diventa grandi poeti nella felicità (felicità in senso comune, perché l’artista, disperato fin che si voglia, gode pur sempre una sua altissima felicità). Tutto ciò che è bene per la vita è male per la poesia. Non si nasce artisti, ma solo sensibili. Artisti ci si mantiene alimentandoci continuamente e coraggiosamente di dolore»(1).
E non può essere diversamente. Solo chi ha provato a sue spese le amarezze della vita e il dolore, può capire e comprendere, e da artista parlare al cuore, a caldo, senza bisogno di cercare altri modi e parole, perché le sue parole e i suoi modi, realmente sperimentati, sono fatti propri dagli altri, e assurgono ad una forma d’arte elevata, divenendo canto spiegato, dove tutto sa di musica e di spontaneità, non essendoci il freddo lavoro di calcolo da laboratorio.
Romano Cammarata è uno di questi artisti (pochi, in verità) che «ha preso il fuoco/con mani di gelo» e trova la sua linfa nel dolore: e la sua opera nasce dal bisogno di estrinsecare la propria esperienza, perché sia di giovamento a tutti lungo la strada comune. Ma se questo è il motivo che lo spinge a calarsi col ricordo nel dolore che è, poi, un riviverlo con sofferenza, l’Autore fa di tutto perché la sua sia anche una denuncia, volendo così contribuire al miglioramento delle condizioni di vita di quanti soffrono, dovunque essi si trovino, negli ospedali, per esempio, o nelle carceri. Sicché, parafrasando Boneschi, il dolore alimenta l’arte, è vero, ma è anche vero che apre alla vita, facendo scoprire quelle dimensioni che spesso, pur essendo in superficie, non vengono considerate e apprezzate, e così noi riacquistiamo fiducia nel mondo e nella vita che, tutto sommato, vale veramente la pena di vivere.
Questo ottimismo è frutto dell’apertura verso gli altri. Cammarata crede nella bontà dell’uomo, perché crede nel dialogo, nella forza della parola che, come la pioggia insistente o il vento, scava in profondità, e concilia e accomuna nei sentimenti più nobili.
Romano Cammarata è autore di una sola opera: il suo stile, ora asciutto, ma disteso e pacato, ora sferzante e mai indulgente; e la sua scuola è la vita, l’aperto scenario dove si susseguono come in una moviola le alterne vicende dell’uomo e delle cose illuminate da un sole che non sempre riscalda e non per questo è meno desiderato.
La vita, passata al setaccio dal dolore, e purificata, assurge ad arte e parla all’uomo, facendolo fremere di commozione e di gioia per la riacquistata serenità che lo porta a considerare la sua condizione identica a quella di tanti altri uomini che, però, perché non sono stati direttamente travolti dal vortice impetuoso della sofferenza, spesso non si rendono conto di niente.
«Tra la folla ignara della nostra pena, camminiamo
nell’aria trasparente del crepuscolo, ancora una volta
insieme, consapevoli che ci stiamo inoltrando nel buio»(2).
Nel nostro autore, la vita perviene a dignità d’arte per un dono che è della vera poesia, e nella sua opera non c’è mai il compiacimento solipsistico che, a lungo andare, anche nelle sue forme più alte, stanca. Ed è veramente lontano D’Annunzio con la sua concezione della vita come arte! Ci troviamo dinanzi ad uno scrittore e poeta che, preso dal suo lavoro, tutto avrebbe pensato che darsi alla scrittura e all’arte figurativa per comunicare! La molla, invece, la farà scattare la malattia che, ad un certo punto, lo spingerà a scrivere la sua avventura da un ospedale all’altro, ora in momenti di abbandono che farebbero pensare subito al peggio, se non fossero sostenuti dalla presenza di spirito che lo attacca alla vita, ora in altri più pacati, dove il miraggio della guarigione è vivi1ìcato dagli affetti puri che solo in circostanze del genere vengono nobilmente rinsaldati e messi in risalto nella loro luce più vera.
“Dal buio della notte”, metaforicamente parlando, non è facile venire al giorno pieno: non è di tutti guarire dal cancro. Ebbene, quasi per un evento inspiegabile, ma anche per l’accanirsi dell’uomo dinanzi al male, a cui non vuole soggiacere, in una lotta impari contro il tempo minaccioso, l’Autore ne esce vittorioso, rapendo, alla maniera del Foscolo, ma per illuminare il giorno, una “favilla al sole”:
«Un giorno, nuvolo e grigio, mi trovo solo in quel
cortile. A un tratto il cielo si apre a un raggio di sole,
che viene a scaldare la mia solitudine. Gli offro il volto
ferito, deturpato, quasi felice di quella inattesa carezza.
Per quanto tempo non so. Dopo, passato lo stordimento,
provo la sensazione di aver rubato quel raggio di sole
caduto distratto dal cielo fin giù nel cortile, perché con
geloso egoismo l’ho tenuto nascosto, non l’ho diviso con gli
altri compagni tenuti come me nel chiuso dolore.
Per questo sento di dover chiedere loro scusa,
raccontando del raggio di sole.
Mi guardano con aria attonita, non capiscono questa mia
preoccupazione, non intuiscono questo sentimento che
invece a me dà la misura dell’umanità nuova che la
sofferenza sta facendo crescere dentro di me»(3).
Una prosa concisa e densa al tempo stesso di significati profondi. Non sembra proprio vero di avere sotto gli occhi una prima opera. Eppure, a leggerla, sin dall’inizio, si ha la sensazione, e subito dopo la conferma di un dettato squisitamente padrone di sé, che non si fa prendere la mano da compiacimenti di ogni sorta. La parola ubbidisce senza alcuna forzatura e si costruisce le immagini con una sobrietà invidiabile, raggiungendo l’effetto desiderato. Intendiamoci, Romano Cammarata non fa letteratura, narra con la sua voce di sempre il vissuto. Ed è proprio dalla sua esperienza di dolore (l’Autore altruisticamente non lo augura a nessuno) che la parola acquista il tono giusto e, a tratti, si eleva, e diviene musica, fortificando, col suo straordinario potere catartico, l’animo stanco del poeta, e di quanti si accostano al libro, e consola.
L’effetto consolatore della poesia! A dirsi, l’accostamento al Foscolo viene da sé, ma è puramente casuale. Se nel poeta ottocentesco è facile rilevare il compiacimento letterario, nel Nostro questo non c’è, perché la sua è una poesia sbocciata, giorno dopo giorno, lungo la strada d’un calvario doloroso.
«La morte di un compagno è sempre qualcosa che ti
sconvolge. Sai dell’attesa, dell’arrivo della Signora, lo
presagisci lo senti con l’istinto delle bestie e poi vedi
circondare uno dei letti con un paravento: è calato un
altro sipario sulla vita di un uomo»(4).
C’è in queste parole una partecipazione silenziosa, sofferta, dello scrittore che non richiede alcun commento, ma c’è anche il senso ritrovato di una umanità profonda che non conosce limiti. Il compagno morto, la foglia che cade, gli alberi agonizzanti, il pianto per la sua e altrui sventura, sono semplici immagini di un uomo che nella sofferenza scopre la poesia e la pietà fraterna, il mondo, in poche parole, degli uomini, quale dovrebbe essere: un lavoro onesto, l’amore verso il prossimo, il rispetto della natura che, come l’uomo, vive una sua vita.
Se il dolore rende l’uomo molto sensibile, è pure vero che non sempre lo abbatte e lo fa scivolare troppo in basso. Ci sono risorse tali che anche sull’orlo del precipizio danno una forza e un coraggio che da soli bastano per risollevarlo. L’attaccamento agli altri (Leopardi scarta l’idea del suicidio perché, diversamente, arrecherebbe danno a coloro che gli vogliono bene, e il papà di Andrea, così si chiama il protagonista di Dal buio della notte, dirà:«Nessuno di noi appartiene completamente a se stesso…»), l’amore coniugale, l’affetto patema, sono l’ancora della salvezza e il supporto psicologico che lo fanno insistere e lottare. D’altronde, cosa varrebbe la vita se non ci fosse questa altalena così variegata che la rende accettabile e desiderata?
Il dolore, in un’opera come questa, prende la parte del leone: esso viene contemplato nelle varie sfaccettature, e nel suo vortice non c’è solo il protagonista, ma tanti che – come lui – per un verso o per un altro soffrono nel silenzio le proprie pene: i compagni di stanza, il vecchio padre venuto dalla Sicilia, e poi Francesca, la moglie, che non lo lascerà un istante. Anche il figlioletto ne subirà le conseguenze e si sentirà insicuro. Causa di altro dolore per Andrea che vorrebbe aiutarlo e non può, poiché lui stesso ha bisogno “di qualcuno che [lo] tenga per mano”.
Ma questa sofferenza, visibile e no, è sopportata con virilità, senza ripiegamento né abbassamento di armi. Anzi, Andrea, con coraggio, denuncia ora le disfunzioni ospedaliere (ritardi negli accertamenti, pessime condizioni di ricovero in corsia, e gli ammalati trattati in malo modo) ora le persone, incapaci di svolgere i ruoli di loro competenza (professori che prendono lucciole per lanterne, sofi senza scrupoli né un minimo di psicologia che non hanno rispetto per i degenti, certe suore e portantini che tutt’altro dovrebbero fare invece che lavorare negli ospedali). È una denuncia che non usa toni forti. perché schiva della passionalità che in occasioni del genere si manifesta. Andrea, nella sua umanità, prova pena per quanti agiscono disonestamente ed anela ad un mondo di serena fraternità.
Dante dovette ricorrere al sogno per calarsi nell’aldilà; Cammarata, più realisticamente, ad occhi aperti e quando meno se l’aspettava, ha provato su questa nostra terra l’inferno e ne ha espiato anche le pene. Senza bisogno di ricorrere alla fantasia, ha riscoperto l’uomo nell’umanità più vera e il mondo più bello che mai. Da qui il suo inno alla vita, l’attaccamento alla natura e alle cose, il senso dell’amicizia, e l’amore coniugale corroborato “dal buio della notte”.
«Quante notti è rimasta accanto a me su una sedia,
pronta ad ogni mia necessità, quante volte alla incerta
luce dell’alba l’ho trovata a dormire col capo reclinato
sul mio petto, stringendomi la mano nell’attesa di un
altro giorno.
Povera Francesca, quante preoccupazioni, quanto
dolore nella tua giovane esistenza, e io egoista che ho
desiderato di andarmene, di lasciarti»(5).
E qualche pagina dopo, continua:
«Subisco dopo tanta inattività e immobilità una
esaltazione lirica che mi fa amare tutto ciò che è
vivo, che si muove, che scorre: i fiumi d’acqua, i
fiumi di pensieri, il sangue delle vene, il vento tra
le foglie, le immagini entro gli occhi, il sole tra le
dita, il ricordo che scorre nella memoria, la vita nei
nostri corpi, e il tempo che scorre su tutto»(6).
Dal buio della notte è un’opera densa, straziante, scritta con sincerità da uno dei poeti più veri e originali di questo fine secolo. Essa sta a dimostrare come siano incerti e provvisori i confini tra la prosa e la poesia. E ciò si nota tutte le volte che ci troviamo dinanzi a poeti autentici.
La materia bene posseduta circola nella pagina e scorre con la fluidità propria degli stati d’animo che trovano la loro assuefazione nella parola sapientemente dosata e messa al posto giusto. Sicché basta un suo lieve spostamento o una diversa impostazione della frase per innalzare di tono il discorso o, per meglio dire, la poesia, perché Romano Cammarata, pur nei momenti più brutti, sarà sempre vigile a se stesso e non perderà mai di vista la calma interiore.
Rileggiamo il passo sopra riportato. Bastano un dosaggio più attento e il ricorso alla versificazione, perché il discorso acquisti maggiore respiro e si faccia canto che, dopo l’adagio dell’inizio, piano piano s’innalza e si diffonde, esercitando nell’animo travagliato un influsso rasserenante e liberatorio.
Amo tutto ciò che scorre
i fiumi d’acqua
i fiumi di pensieri
il sangue nelle vene
la lava entro la terra […]
Scorre il ricordo nella memoria
scorre l’azione sulla pigrizia
scorre la vita sui nostri corpi
scorre la guerra sui campi di pace
scorre la pace su inutili stragi
scorre l’amore sul ghiaccio dell’odio
Amo il tempo che scorre su tutto (7)
È bastato che il poeta utilizzasse certi accorgimenti, di cui spesso la poesia moderna si serve (l’anafora, il climax, l’accumulazione) per elevare di tono la parola poetica, raggiungendo risultati veramente sorprendenti. Allora la musica acquista la cadenza d’un canto che invade il corpo e l’anima, e noi respiriamo appieno un’aria salutare.
Ma ciò che il poeta maggiormente canta è la ritrovata fiducia in quella vita che ha sempre amato e che ora descrive coi colori più propri. L’uomo che ha sofferto l’apprezza ancora di più e trasmette questo suo attaccamento agli altri. Per dare colore al tempo nasce da questo stato d’animo e da questa esigenza, ed è la speranza che si alligna in chi ama la vita, la fiduciosa attesa del meglio, la forza che ci vuole, perché ognuno si faccia coraggio e l’accetti (la vita) così com’è.
Romano Cammarata si è dato alla poesia (poi, magari, si darà anche ai suoi lavori a sbalzo) “per dare colore al tempo”. Ma a quale tempo? Evidentemente, al tempo di sempre, anche se in particolare al tempo dell’inoperosità forzata, attanagliato dalla malattia e dal dolore, o “assediato”, come scrive M. Petrucciani nella Prefazione e, ancor prima di lui, lo stesso poeta nella lirica Piove.
Ma -dicevamo- il poeta crede nella vita e la ama. Perciò la canta, pizzicando le corde della sua chitarra che, nonostante tutto, è sensibile ad ogni sollecitazione.
Sono l’anima di una chitarra
i suoi sonori accordi
sono le mie vesti
vivo nell’intimo del legno
concavo e vibrante […]
Sono l’anima di uno strumento
che è l’anima di un uomo
e il mio canto
è il canto dell’uomo… (8)
C’è in questa, come in altre liriche, un contrasto fra la morte, rappresentata dal dolore che spesso annebbia lo spirito, e l’amore, sempre ritornante e diverso, ora per la vita con i suoi alti e bassi che ci riserva, ora per la donna, necessaria e indispensabile compagna del nostro “viaggio”. Ma la poesia di Cammarata, in ogni caso, è caratterizzata da una pensosità raccolta (“E sarò con me stesso/a discutere ancora/che vivere/vale sempre la pena/anche se c’è/un dolore che stanca”; “Noi non sappiamo/cosa sa il bambino”) che non ammette tentennamenti, ed è un atteggiamento, questo, che non gli farà perdere di vista la realtà che lo circonda. Vedi, ad esempio, Nel circo di notte: la pista del mondo, di notte, è deserta, ma ciò non esclude che non sia vegliata da qualcuno, dai “tanti pagliacci” che siamo noi, che è il poeta stesso, preso dalle ansie e dalle preoccupazioni del giorno.
La vita va vissuta, nonostante tutto. Ed allora, ecco che accanto alle note di soffusa pensosità, mai pessimistiche, al contrario di tanta lacrimevole poesia nostrana (Nel buio della notte, il Nostro farà dire ancora al papà di Andrea: « Non disperare mai: il mondo è degli ottimisti, i pessimisti non sono che spettatori »l. si fa strada la speranza (“Mattino / ho respirato il sereno / Se ti potessi fermare / sarei un fanciullo … “), con la richiesta di “un attimo in più” e l’amore. avvolto, quasi, da un senso di sacro che invita al silenzio per paura che venga profanato.
Mi sono fermato
sul tuo volto puro
ho poggiato la mano
sulla tua fronte
non turbata dagli anni […]
Vorrei
pronunciare un nome
ma le tue labbra
accennano di no
Che importa il nome?
È solo giovinezza (9)
A volte, il poeta è più disteso, e la parola, allora, acquista più scioltezza, perché essa, come una creatura, è partecipe del suo stato d’animo. Onda marina è una lirica gioiosa, direi solare per la luce che irradia e si fa nostra. Le immagini sono quelle di sempre, vive, tra la realtà e la metafora, e rese più agili dai versi brevi dei quinari e dei senari, ad eccezione di un binario e di un settenario.
Onda marina
onda d’amore
il tuo corpo il mare
il tuo· amore il vento
ed io lo scoglio
che attende l’abbraccio… (10)
L’insistenza dell’anafora ubbidisce ad un crescendo interiore, prima che si materializzi nella parola e nelle immagini, che solo nel “sonno d’amore” raggiunge il suo culmine.
Altrove c’è anche la consapevolezza che quest’onda possa sfuggire all’abbraccio. Come in Ferma il tuo sguardo, dove il tempo ha operato mutamenti e solchi profondi, e al poeta non resta che prendere atto della realtà, senza recriminazione alcuna.
Il punto più alto di questa lirica va visto, a parer mio, nell’attacco che segue i primi versi:
Che vale il desiderio
se esso è tormento
è angoscia
se richiama solo fantasmi
se ti mostra
crudo violento e spoglio
un reale che non è tuo
che ti raggela dentro
che strappa allo spirito
urla ribelli … (11)
L’uomo è troppo provato per cedere alle lusinghe delle illusioni, e se è vero, com’è, che il dolore tempra gli animi, la poesia li sublima. E il lettore si sentirà come trasportato e spinto nel vortice di un tumultuare che sembra dover esplodere da un momento all’altro.
Il procedere, apparentemente prosastico, sempre ricco di accorgimenti tecnici, ma sempre tendente all’essenziale, si ascrive nell’ambito di una scrittura poetica tra le più riuscite del Novecento europeo. Un influsso? A parte la lezione dei classici rivisitati con un’ottica tutta moderna, un posto di rilievo occupa quella di Verlaine delle Poesie saturnine e, più propriamente, dell’Arte poetica. E tanti altri potrebbero essere citati (nella lirica sopra riportata, ad esempio, scorgiamo un’affinità col Cernuda dei Piaceri proibiti de “La realtà e il sogno”, per non parlare dei nostri (Ungaretti, Quasimodo, Cardarelli, Montale). Ma, a che vale? Ogni grande poeta deve necessariamente qualcosa agli altri, riprendendone, anche senza cercarli, i motivi, e li amplia e li sviluppa, facendoli propri, cantandoli con voce sicura e modulata. D’altronde, cosa han fatto gli antichi poeti? Eppure, ognuno di essi ha una fisionomia che lo distingue e lo connota; in poche parole, ha uno stile suo, personalissimo. Com’è questo di Romano Cammarata che impronta di sé ogni pagina, perché la parola è levigata dal caldo del suo sentire.
La sua tematica è quella della poesia di tutti i tempi e, anche se nasce dal dolore, si colora di vita e si scalda d’amore. Vita e amore, però, entrambi condizionati dal tempo, vigile impassibile delle cose e dell’uomo, inteso ora come contrasto’ fra il giorno e la notte. tra la luce e il buio, ora tra presente e passato.
Riprendiamo la già citata Mattino:
Mattino
ho respirato il sereno
Se ti potessi fermare
sarei un fanciullo
Mattino
ieri fiaccola
a fugare atroci sogni
oggi speranza
di un altro giorno
da aggiungere alla vita (12)
Ma il tempo passa inesorabile (“Mi fermo a guardare/il giorno che muore/come sempre come tanti/eppure io trovo/nel sole che cade/qualcosa di umano/qualcosa che è mio”). Allora la morte acquista contorni precisi e si delinea in tutta la sua realtà. Il poeta l’osserva soltanto. anzi l’aspetta e, rivolgendosi alla sera, dice:
Sei ora una scadenza:
ad ogni tuo apparire
cancello un giorno amaro
del mio diario (13)
E, con una bella immagine. antica e sempre nuova, perché rivisitata con sensibilità moderna, il Nostro si paragona alle foglie e agli alberi “molli di pioggia”:
Ho visto gli alberi
molli di pioggia
piangere soli
Ho pianto con essi
anch’io
solo come la foglia che il tempo
con mano crudele
stacca dal ramo
solo come l’albero
avvolto dall’umida nebbia (14).
Bisogna provare per credere, si dice comunemente! E, in verità, Romano Cammarata, sull’orlo del percipizio, si è trovato nelle condizioni di constatare com’è triste per l’uomo dire al mondo addio. Ma – vogliamo sottolineare un concetto che riteniamo fondamentale per la comprensione dell’opera cammaratiana – il poeta non piange perché il giorno gli è “amaro”, nel senso comune del termine. No, non si lamenta per questo, cosa che farà dire ad Ungaretti:«La morte si sconta vivendo»; è perché sente di dover lasciare questo mondo che, tutto sommato, ama intensamente. E se, per Ungaretti, la morte diviene quasi una liberazione, non così è per Cammarata, attaccato com’è alla vita, anche se c’è un sentimento di soffusa malinconia, dovuto, molto spesso, all’impossibilità di viverla come vorrebbe.
Così la stessa notte, nei momenti migliori, perdendo la connotazione di cui parlavamo sopra, diviene il tempo dell’amore. Si veda, ad esempio, La notte, bellissima lirica, dove un alone di mistero e di sogno avvolge il corpo della donna “cercato frugato/illuminato appena/da riflessi di stelle”. Il poeta è pervaso da una gioia interiore che non è godimento dei sensi, ma l’aprirsi di un’anima innamorata “alla ricerca di ombre/che non sono/quelle della notte”.
Notate come il climax e gli enjambements, ricorrenti in tutto il testo, danno una vivacità inconsueta, propria del canto che niente concede alle stonature e, tanto meno, alla provvisorietà.
Dopo
sarà bella la strada
ancora avvolta
nel buio
riempirla di noi
strapparla dal sonno
come ho fatto con te
raccontare alle strade
ai lampioni, ai gatti randagi
una storia d’amore
e dire che è bello il tuo corpo… (15)
E così, in qualche altra lirica, dove la notte è uno scenario aperto alla vita, forse, più disteso, ma è sempre la vita che pulsa, magari, con i suoi dolori e con i soprusi che la caratterizzano. Si veda ancora Nel circo di notte o, meglio, Notte siciliana, dove gli uomini ipotizzano, andando dietro alle loro aspettative represse, un mondo migliore.
Il presente è visto nella sua realtà contingente. A volte, intriso di dolore (“Presente/ponte ai giorni/pilastri crudeli/piantati nella carne/ogni lastra/ogni bullone/è grido di uomo/sacrificato/alla memoria”), ma la speranza vi raffiora sempre, come lo scoglio dall’acqua (“Mattino/ieri fiaccola/a fugare atroci sogni/oggi speranza/di un altro giorno/da aggiungere alla vita”).
Il futuro è una terra lontana e inconoscibile. Ma il poeta non sembra interessarsi tanto del futuro. Egli vive nel presente e, perciò, l’accetta, così com’ è, perché non può essere diversamente, ma criticamente lo passa al setaccio della sua esperienza e può anche non condividerlo.
Cammarata non ama i colori forti, anche se in lui c’è una vera propensione per la luce:
Luccichio di mondi lontani
l’impossibile che non si compie
se non al tramonto.
Ho sete di luce
attendo l’estate e non so
mi smarrisco
in un gioco ostinato (16).
Preferisce, piuttosto, la mezza tinta, sia perché vuole soffermarsi meglio a guardare la realtà che lo circonda, sia perché il non definito corrisponde ad una sua particolare intima attrazione. Sicché alle stagioni dense predilige la primavera e l’autunno: la vita al suo sbocciare e l’inizio della fine.
La natura vive, come l’uomo, il suo giorno, ora nei colori più vivi, ora nel grigio che ingiallisce le foglie.
È aprile!
intorno
la vita si arrampica
su per la luce
si scalda di sole
Un grido
mi lacera dentro
mentre scendo
scale d’angoscia (17)
Ma il poeta soffre; sente che la vita gli pulsa dentro, con i sensi disposti a darsi e che, intanto, niente può fare, se non gridare il proprio dolore. A chi? E allora lo reprime, lo tiene per sé, mentre tutt’intorno sa di nuova luce. A questo punto, comincia a propendere per l’autunno. Vedi Foglie sparse, Mi sei passata accanto, Ho visto le foglie cadere, dove il Nostro, pur consapevole di ciò che ci aspetta, è colto da una malinconia dovuta piuttosto alla vita che se ne va e non alla morte che s’avvicina.
Mi sei passata
accanto
senza guardarmi…
Ho sentito
lo stesso vento
che stacca le foglie
dal ramo
nell’autunno (18)
L’immagine dell’albero che diviene spoglio e delle foglie che cadono è tanto cara al Nostro che la ripropone con insistenza. Nella sua umanità, li sente non dissimili a noi, come creature accomunate dallo stesso destino. Un’immagine, questa, a cui tanti poeti, nel tempo, sono ricorsi (basti ricordare Dante, Arnault e Leopardi, suo insigne traduttore, Verlaine, Cardarelli, entrambi molto vicini per sensibilità e canto a Cammarata), e in ognuno di essi acquista connotazioni diverse, sempre nuove, che le distinguono e le fanno apprezzare per la loro aderenza alla realtà delle cose e della vita.
In Mi sei passata accanto la sillabazione rigorosa ubbidisce ad una musicalità sciolta che assorbe e fa proprio il realismo umanissimo del poeta, perché la poesia nasce e si alimenta del vissuto quotidiano, per il dono che è suo di renderlo liricamente, grazie alla parola che – come abbiamo detto prima – fedelmente esterna e traduce i suoi stati d’animo.
Cammarata, comunque, non indugia sul reale; esso è solo un punto di partenza, l’angolo di osservazione che gli permette di esprimere l’essenziale che gli urge dentro. Anche nelle liriche più palesemente realistiche, il dato di fatto è solo un pretesto che richiama il noumeno. Si veda la più volte citata Nel circo di notte, dove il poeta non è attratto dal circo in sé, ma dalla vita che vi è racchiusa.
Lo spettacolo è da poco terminato, e il poeta s’aggira per la pista ormai deserta che ancora sa di urla e di giochi, un pagliaccio che col suo fare disinvolto e distaccato sino a poco prima aveva divertito il pubblico, ora non può più contenere la sua malinconia. E se ne sta lontano dagli altri “con in mano il violino/che più non ha note”.
Suona un violino
un pagliaccio innamorato
leva il suo pianto
tra corde e tamburi […]
Dagli occhi che ridono
lacrime nere di cera
cadono giù a bagnare
la pista del circo
È il mondo
racchiuso in un circo di notte (19)
La parola, nella sua levità, acquista un valore simbolico e vuole si legga sotto aspetti diversi, nonostante sia fruibile e aperta a tutti. Conferma che, questa di Cammarata, è una poesia pervasa dalla sensibilità propria della migliore lirica contemporanea.
Il verso libero, poi, ha un suo rigore logico, e il ricorso alle figure retoriche mira sempre a suscitare sensazioni nuove e imprevedibili in ciascuno di noi. E il pregio di una poesia siffatta è che non solo si dà all’ascolto, ma vuole che si senta e si faccia propria.
Ritornando ora al motivo del tempo, il passato acquista una sua luce nel ricordo. A volte, il poeta è invaso da un senso di malinconica tristezza, di vuoto che lo lascia disorientato (“e quando un uomo/non ha più ricordi/né idee né il caldo di un abbraccio/quest’uomo è niente”), altre volte, rievoca con pacata dolcezza una visita. Qui le parole, ridotte all’essenziale, disegnano immagini di squisita freschezza:
Il sapore struggente
di quell’abbraccio di sposa
e di quello festoso e leggero del bimbo!
Sapeva di primavera quell’abbraccio
come le margherite raccolte nei campi
a riempirmi il cuore e le mani (20).
Più spesso il ricordo lo riporta alle sue origini, all’infanzia, alla sua terra di Sicilia. Come ne I ricordi, ove tutto sa di sfumato e, quasi, di antico.
I ricordi
uccelli migratori
tornano sempre
all’origine
attraverso l’oceano
della vita passata […]
torno all’isola
circondata di ignoto
cerco un tempo
uno spazio
vecchie dimensioni… (21)
Ma il tempo opera irreparabilmente e non sempre il desiderio di approdo viene appagato (“Non trovo i margini/i nomi delle cose…), sicché il poeta deve scavare nella sua memoria per trovare agganci con un passato ormai lontano. Così, in Vecchia strada, si paragona ad uno “stanco viandante”, a cui solo i ricordi fanno compagnia, spinto dall’intimo bisogno di ritrovarsi nei luoghi che gli appartennero.
I ricordi come sassi
sparsi alla rinfusa
seguono la strada.
Li ritrovo nella notte
questi ricordi
sulla strada illuminata
di polvere di luna
quando la solitudine
mi spinge stanco viandante
a ricercare ancora
luoghi che sono lontani
perduti forse laggiù
lungo la strada
illuminata di polvere di luna (22).
L’inizio è quasi una supplica. Ma, perché, cosa cerca il poeta? Forse, se stesso bambino fra tanti altri suoi coetanei; forse, quel mondo isolano che s’era lasciato dietro, coi volti scavati dalle fatiche, con le cantilene che vorrebbero essere canti e sono voci strozzate dai secolari soprusi.
Notte siciliana è una sintesi delle “vane coordinate” che il poeta tira sul filo della memoria per ritrovare sé e quel mondo lontani per sempre.
Notte siciliana
accordi di chitarra
echi di canti lenti
che nel buio vanno
a cercare la vita… (23)
E non rievoca soltanto; la sua è anche una denuncia che nasce da un bisogno di giustizia che vorrebbe ridare all’uomo (“ritornate all’uomo/e allo strumento”) la sua dignità.
La lirica di Romano Cammarata, oltre a segnare un momento particolare della sua condizione umana ed esistenziale, diviene anche mezzo di riscatto e impegno contro ogni [orma di stortura che tanto condiziona la società. Sempre col suo timbro di voce originalissimo e familiare, che dà il senso e la misura di una poesia dotata di un solido equilibrio umano ed estetico.
Il tema della denuncia, presente in Dal buio della notte e Per dare colore al tempo, diviene protesta e sfida in Violenza, oh cara, pubblicato da Sciascia nel 1986.
Il titolo è provocatorio, ma il libro è tutta una provocazione contro le ingiustizie e i mali che travagliano la società. L’Autore non risparmia nessuno, nemmeno lo Stato che, come detentore di potere, spesso usa violenza, piuttosto che tutelare il diritto dei cittadini a vivere la loro vita.
La storia che narra è un fatto di cronaca giudiziaria come tanti, e sarebbe passato inosservato, se Agostino Bertoni, il protagonista, non avesse voluto andare sino in fondo. È accusato di sequestro e la prova sono le banconote da centomila che la posta gli ha dato al momento di riscuotere la pensione, e che spendeva per le sue esigenze quotidiane.
Una vita normale, da uomo-pensionato qualunque, vedovo, senza pretese, con le solite passeggiate giornaliere (più che altro per portare a spasso Eva, la cagnetta bastarda che gli era stata affidata da un bambino e a cui s’era particolarmente attaccato) e la solita lettura del giornale. E le giornate sarebbero passate così, sempre uguali, se due poliziotti non l’avessero prelevato e portato al vicino commissariato, e subito dopo in carcere.
Bertoni protesta, ma dinanzi all’ottusità gretta e meschina del commissario, preferisce non insistere. Quello che più lo preoccupa è la cagnetta Eva che costituisce il suo unico problema; per il resto, non deve rendere conto a nessuno.
«Un uomo decide della sorte di due altri esseri
avviandoli a luoghi diversi: uno al carcere, l’altro al
canile; luoghi che forse si differenziano nel nome, ma
che hanno in comune lo stesso fine: di rinchiudere
esseri che per mala sorte sono divenuti chi randagio, e
chi si è fatto ladro, chi ha azzannato per fame o per
odio o per rabbia, e tutti con lo stesso destino: quello di
venirne fuori quando, e se sarà, cani rabbiosi»(24).
È una riflessione amara che, per un verso, dà la misura della profondità di sentire del protagonista, per l’altro, intacca il modo di far giustizia, il sistema che non funziona con tutti i mali che ne derivano.
Risolto il problema della cagnetta (che sarà affidata, dietro sua richiesta, ad un agente), Agostino Bertoni si rasserena, ed è allora che, contrariamente al Meursault di Camus, nel silenzio della cella decide la sfida allo Stato, alla Giustizia, perché adoperi le leggi nel rispetto del cittadino. Da qui scatta la molla della protesta ad oltranza, visto che lo si incrimina di un fatto non commesso: che sia lo Stato a provare la sua colpevolezza. Lui, Agostino, farà da spettatore a questo dramma che, per certi aspetti, potrebbe dirsi assurdo, ma non lo è. Ed è inutile fare degli accostamenti ad autori che hanno affrontato questo tema, perché è la vita con le sue sfaccettature che, ad un certo punto, acquista connotazioni diverse e che solo un ossevatore attento mette in risalto.
Romano Cammarata è uno di questi, e la sua interlocutrice è la vita, che va vissuta, giorno dopo giorno, con serietà di intenti, se si vuole un’esistenza migliore. Per questo, Agostino non differisce per forma mentis dal personaggio di Andrea, anzi ne continua l’azione, tutta improntata del suo ritrovarsi fra gli uomini e di impegno nel sociale. E se Andrea aveva lottato per uscire dal buio, e partecipare alla vita, Agostino si dà alla lotta perché non vuole essere un passivo, e desidera che sia fatta giustizia alla libertà del vivere. Il chiudersi in sé, il riflettere, che vedono Andrea intento al recupero di sé, e alla comprensione della vita e del mondo che lo circonda, per Agostino. sono la valvola di sfogo di un uomo che a stenti si riconosce nella società in cui vive. Sicché. entrambi i protagonisti formano un tutt’uno positivo. entrambi seguono lo stesso percorso che li vede impegnati contro ogni sorta di stortura che condiziona e reprime.
Agostino è un uomo solo, non ha altri rapporti se non quelli occasionali, Carmela, la donna che periodicamente gli riassetta la casa, e con lui ha vissuto momenti intensi e felici, non è più che una cara amica che finisce per soddisfare soltanto le intime esigenze del corpo. Ma, per il resto, non gli dice niente e, forse, versa più alletto su Eva che sugli altri suoi simili.
Questa di Agostino è la solitudine dell’uomo moderno, che fa chiudere agli altri. Perciò parla col suo io, discute tra sé e affronta certi discorsi esistenziali che hanno una loro logica e che è quella di chi, non assorbendo passivamente ciò che gli si presenta, rielabora ora constatando ora criticando. Sicché, letto con superficialità, a qualcuno potrebbe sembrare che il romanzo sia un mosaico di tesi ben costruite e saldate; e invece non è così, perché, di riflesso, è la vita – come dicevamo -, anzi il travaglio d’un uomo che, ad un certo punto, reagisce al negativo che la quotidianità presenta. Si veda, a proposito, la pagina dedicata ai “randagi”, o quella in cui parla di democrazia o, ancora, l’altra dove discute di violenza. È una profondità di pensiero di uomo “qualunque”, ma consapevole, di chi, insomma, tenendo saldi i piedi a terra, non si serve di spicciola retorica, ma del vissuto individuale che, come tale, per la sua realtà, spesso, assurda, coinvolge tutto il tessuto sociale.
Violenza, oh cara è un libro di ampio respiro, e si sviluppa con un movimento a spirale che ha dell’imprevisto. L’uomo solo Bertoni, uscendo allo scoperto, crea rapporti tali che ci ripropongono valori che sembra siano scomparsi. E la positività di questo personaggio sta soprattutto qui, non solo nel rifiutare la violenza che gli viene propinata. Bertoni ispira fiducia, perché è spontaneo; perciò, chiunque gli si avvicina, attinge il meglio che può e lo fa suo.
L’incontro con l’avvocato d’ufficio, che poi sarà il suo legale di fiducia, fa instaurare un rapporto di amicizia e di ammirazione reciproca che attenua, se non dissolve del tutto. nel più giovane, il contrasto, antico e sempre nuovo, tra padri e figli. Nel giro di poco più di due pagine, (autori come Turgenev, ad esempio, vi hanno dedicato interi libri), il Nostro, in una prosa ricca di tanta umanità, perviene a risultati sorprendenti.
«Noi figli, per la generazione che ci separa, per il tipo
di rapporto che esiste, difficilmente riusciamo a
comprenderli, e poi, come mi sta accadendo ora, un
estraneo mi parla mi dice le stesse cose e subito lo
capisco, ne accetto le idee.
Credo che stasera farà felice mio padre, perché lo
saluterò con più rispetto e credo che sarò più in grado di
comprenderlo, di ascoltarlo. Grazie per questa lezione» (29)
Altro incontro importante, decisivo, che lascerà un’impronta duratura nell’uno e nell’altro, è quello con Carlo, un giovane recluso, divenuto “randagio rabbioso” per violenza subita, con cui Agostino discute e parla con tutta sincerità, cercando di chiarire – prima di tutto a se stesso – i lati oscuri della loro vicenda di uomini. E nessuno si sarebbe immaginato che i due siano legati tra loro più di quanto non sembri: la loro condizione, o meglio, la loro salvezza dipende da un gesto di dedizione e di amore verso il prossimo: Carlo, venendo a conoscenza del reato, di cui è accusato l’amico, per lui, padre più che confidente, si dichiara colpevole e complice del sequestro Gerlandi, scagionandolo dall’accusa.
Il romanzo è tutto scatti imprevisti, come questo del “gesto sublime” di Carlo, movimento di ritorno che disorienta e commuove, perché il lettore tutto avrebbe previsto, ma non che l’amicizia potesse dare una così nobile prova. E questo avviene perché Agostino ha posto resistenza alla violenza sopraffattrice; ora vince, perché ha operato con dignità nel bene.
Il male si può sconfiggere, questo è il messaggio umano dell’Autore: occorre scavare nelle coscienze, perché è lì che si alligna molto spesso, quasi inavvertitamente, senza che ce ne rendiamo conto. D’altronde, lo stesso giudice Perri non è colto dall’imbarazzo e dal dubbio, non ha momenti di perplessità e di rimorso (“E se fosse realmente innocente? Se fosse, come sembra e ne ha tutta l’aria, uno di quei poveri diavoli…”), mettendo anche lui le dita sulla piaga d’un sistema che non funziona?
Questo di Romano Cammarata è un mondo che non conosce pessimismo, perché diversamente sarebbe la resa, il chiudersi in sé, la disfatta; e, invece, è apertura, confronto e darsi disinteressatamente. Un mondo in cui l’essere coerenti viene premiato, e fiduciosi, quindi, bisogna guardare avanti senza titubare. Sotto questo aspetto, il Nostro si pone tra quegli scrittori (Ionesco vi tenderà con le sue ultime opere, pur partendo da altre premesse) impegnati al recupero di un umanesimo nuovo, mirando, ciascuno a suo modo, ad elevare moralmente e socialmente la nostra travagliata esistenza. Ne deriva che Violenza, oh cara, è basato tutto sul contrasto fra la violenza e l’amore, ma è l’amore, nel senso più ampio, che predomina incondizionato.
Bertoni avrebbe dovuto da lì a poco riprendere la sua vita abituale, e gli si presenta dinanzi un’altra donna, vittima, stavolta, di una ben più atroce violenza: Sofia, la moglie dell’agente di polizia che aveva preso con sé Eva, la cagnetta, ed ora vedova e sola, con una bambina da mantenere e da allevare, perché il marito è stato ucciso in un conflitto a fuoco con alcuni delinquenti.
L’incontro di Agostino Bertoni con la donna è di una straordinaria delicatezza e di grande sensibilità umana e artistica insieme.
«La porta si socchiude, poi si apre, e Agostino si
trova di fronte una giovane donna, pallida nella cornice
dei capelli neri e dell’abito nero che mette in risalto una
contenuta bellezza»(26).
Ed è anche una pagina di singolare bellezza. La donna ci ricorda la madre di Cecilia, di manzoniana memoria: bella nell’aspetto, dignitosa nel portamento, ben tagliata nella sua figura provata dalla sofferenza.
Cammarata è un artista a cui bastano pochi tocchi di cesello, perché un’immagine s’imprima bene nella nostra mente e non Si dimentichi mai. E come si può dimenticare la tragedia eli cui Sofia è rimasta vittima indifesa? Agostino, l’alter ego dell’Autore, uscito da poco dalla pesante prova che conosciamo, adesso non ha più pace, non si spiega e non vorrebbe ammettere come mai la società cada così in basso; ne soffre, perché anche lui ha toccato con mano una violenza di altro tipo, ma sempre violenza che intacca profondamente l’anima e rende partecipi dell’altrui disgrazia.
Agostino, indirettamente coinvolto in questo dolore, non si riconosce e non accetta più la sua filosofia eli vivere; la solitudine, sinonimo di egoismo, che finora ha caratterizzato la sua vita, non ha modo di esistere, perché sa che potrà essere utile agli altri. E l’idea che già gli ritorna spesso nella mente, di prendere con sé madre e figlia, non lo lascia un istante. Eppure vuole esserne certo: ne parla con Carlo durante un colloquio e ne parla anche con Carmela che, nonostante si profili la possibilità di perderlo, lo incita, come Carlo, a compiere “un gesto bello”.
«“Ma che aspetti, Agostino, vuoi che te lo dica io, quando
lo sai benissimo”. Interviene Carlo, interrompendo le
ultime battute onnai intuiie, che l’amico stava per fare,
“Perché non compi anche tu un gesto bello, meraviglioso, e
offri loro la tua casa, la tua compagnia, la tua presenza e
sicurezza di uomo?! Lo credi possibile? Realizzabile? Se sì fallo subito»(27).
Il dettato è appropriato, sicuro, come se la fluidità del discorso avesse trovato l’alveo proprio. È la foga di dire di chi, uscendo da una situazione dolorosa, si compenetra nel dolore altrui e vuole che le cose vadano per il verso giusto, per eliminare dal vivere quotidiano tutte quelle violenze, piccole o grandi, che a lungo andare mortificano e disorientano.
Ma anche questo libro, come gli altri di Romano Cammarata, è tutto da leggere. Le parole e i commenti dicono poco, quando si ha da fare con un vero libro. È preferibile ascoltare, leggere con grande umiltà, pagina dopo pagina, per gustarne la bellezza e meditarlo. Allora ti prende un tumultuare interno che è l’immedesimarti in ciò che i personaggi dicono e fanno, il ricrearteli dinanzi con la loro dignità cii uomini provati ma non vinti, sicuri di sé, fruitori di valori che. nonostante i rumori effimeri della nostra età, ‘godono pur sempre cii una luce di cui la nostra misera umanità ha bisogno. E così, con Agostino, sei porlato a constatare come la violenza sia portatrice di una sua felicità, e sia ‘·cara”. Certo, perché apre alla realtà che ci circonda, perché fa scoprire con gli occhi del cuore e della mente verità che non stanno in superficie, perché. insomma, pernlette di acquistare piena consapevolezza della vita e avvicina agli altri con più disponibilità e dedizione, come è capitato ad Agostino che, fra l’altro, ha riscoperto l’amore.
Dicevamo all’inizio di questa lettura che Romano Cammarata è artefice di una sola opera: il suo stile. La prosa di Violenza, oh cara ubbidisce agli impulsi interni del suo autore e di essi. lontana da ogni artificiosità, vive e si sviluppa. Sicché, ora è misurata, quando più è meditativa, ora è disinvolta e agile, quando più è discorsiva e colloquiale. In ogni caso, sempre in tono alto, nel rispetto della tradizione, che qui – come altrove – viene nobilitata dal tocco proprio della modernità di sentire del Nostro. Riprova, questa, di una raggiunta maturità umana e artistica non indifferente che certamente segna un punto di richiamo obbligato a quanti vogliono avventurarsi nel mondo dell’arte, senza, per questo, perdere di vista la realtà nel suo eterno f1uire.
Salvatore Vecchio
(1) F. Boneschi, L’ultimo Cardarelli, in “Italia che scrive”, febbraio 1959, pag. 47.
(2) R. Cammarata, Dal buio della notte, Roma, Armando ed., 1983, pag. 36.
(3) Ivi pagg. 76-77.
(4) Ivi, pag. 47.
(5) Ivi, pag. 75.
(6) Ivi, pag. 79.
(7) R. Cammarata, Per dare colore al tempo. Caltanissetta-Roma, Sciascia ed.,1985, pag.94.
(8) lvi, pag. 24.
(9) Ivi, pag. 32.
(10) Ivi, pag. 83.
(11) lvi, pag. 90.
(12) lvi, pag. 30.
(13) lvi, pag. 48.
(14) Ivi, pag. 99.
(15) lvi, pag. 50.
(16) lvi, pag. 36.
(17) lvi, pag. 75.
(18) lvi, pag. 92.
(19) lvi, pag. 52.
(20) lvi, pag. 93.
(21) lvi, pag. 51.
(22) Ivi, pag. 92.
(23) Ivi, pag. 27.
(24) R. Cammarata, Violenza, oh cara, cit., pagg.30-31.
(26) Ivi, pag. 153.
(27) Ivi, pag. 164.
(29) Ivi, pag. 57.
Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 13-35.