L’isola di Leonte: viaggiatori elisabettiani in Sicilia 

 E poi c’è quest’isola, che ha un effetto magico 
su tutti quelli che vi mettono piede 
Nazareni o credenti. 
Di fronte agli stessi problemi diventiamo tutti siqillyani . 

Tariq Ali, Un Sultano a Palermo, 2005. 

La tradizione tipicamente anglosassone del grand tour, col quale i giovani rampolli delle famiglie aristocratiche e della borghesia istruita completavano la loro educazione, si afferma in Inghilterra a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. Ma in realtà si tratta di una consuetudine che nasce già al tempo di Elisabetta I, dettata inizialmente dalla necessità di creare una classe di abili diplomatici che rappresentassero l’Inghilterra presso le corti straniere. Tappe obbligate di questo percorso educativo-turistico erano Venezia, Firenze, Roma e Napoli. Apparentemente la Sicilia era esclusa da questo circuito, almeno fino all’età risorgimentale, sia per la ‘distanza materiale che per la carenza di infrastrutture di trasporto e ricettive. Una terra, dunque, conosciuta dagli elisabettiani solo come astratta e remota entità geografica, avvolta nei soporiferi vapori delle memorie classiche, e, come afferma Gentile, «sequestrata, a causa del mare e della scarsezza dei commerci, da ogni relazione col resto del mondo»1? 

Così non sembra, se solo consideriamo che già nella tardo-duecentesca carta di Ebstorf, una delle più singolari rappresentazioni geografiche, l’Isola è raffigurata a forma di cuore del mondo, se Shakespeare la sceglie come sfondo del suo Winter s Tale, e Milton pone la sede dell’Inferno del Paradise Lost nell’Etna. Gli Inglesi, fin dal Rinascimento, furono tra i visitatori più assidui, seppure talora occasionali, dell’Isola, e dei loro viaggi sono rimasti diari, taccuini privati, scritti scientifici e corrispondenze intime, un vastissimo repertorio di documenti che attestano la centralità della Sicilia come «cuore pulsante» del Mediterraneo, battuto e vitale crocicchio nel circuito dei pellegrinaggi e di quel Grand Tour, che già comincia a ad affermarsi come fondamentale esperienza formativa del gentleman inglese. 

Quale era l’immagine delle Sicilia e quali le informazioni su cui gli scrittori delle età elisabettiana e giacomiana (XVI-XVII sec.) potevano contare? Per lo più si tratta di diari e taccuini di viaggio scritti da pellegrini e diplomatici che facevano scalo nell’isola durante i viaggi in Terrasanta. 

La descrittiva irrazionalità dei compilatori delle cosmografie del ‘ 500 e del ‘600 ne facevano una terra mitica, percorsa da miniere aurifere e caverne sulfuree, battuta da mandrie di cavalli bradi, dominata in modo sproporzionato dalla gigantesca montagna fiammeggiante dell’Etna che sputava vapori e lapilli per spazi immensi. 

E tuttavia, proprio in virtù di tali curiose divagazioni, o loro malgrado, la Sicilia entrò in quel periodo nei codici formativi dei giovani d’alto lignaggio che dall’Inghilterra stuoli di familiari e di precettori guidavano alla scoperta del mondo. Le loro peregrinazioni si incrociavano con i transiti per l’Isola dei pellegrini che da Occidente si recavano in Terrasanta e con gli scali nei suoi porti delle navi dirette a Malta. 

È l’Etna, più d’ogni altro luogo dell’isola, che accende la fantasia e scatena l’immaginazione dei poeti e degli scrittori inglesi del Rinascimento. Scrivendo del vulcano, nel 1599, GeorgeAbbot afferma: «Questo è il luogo dove Empedocle si gettò perché lo si credesse un dio. Qui è dove Virgilio creò Enea. Dove i poeti dicono essere la fucina di Vulcano; dove i Ciclopi forgiavano i tuoni di Giove; e infine, qui è dove alcuni dei nostri maggiori papisti non hanno tema di immaginare possa trovarsi il purgatorio2.» 

In una tarda traduzione italiana degli scritti del leggendario John Mandeville, si legge: «Item in questa isola è il monte Ethna el quale sempre arde & chi amase Mongibello e Vulcano oue ardeno dui fochi e gettano di verse fiamme de diuersi cholori. Et per la mutazione de queste fiamme sanno le gente del paese quando sera carestia e bona de rata fredo e caldo humido secco: e uniuersalmente conoscano a che modo se governa il tempo de Italia. E questo Vulcano sono XXV miglia; e dicese che questa bocca e de lo inferno3.» 

Mandeville fu un cavaliere inglese del XIV secolo, viaggiatore e protagonista di straordinarie avventure dal 1322 al 1356 nel Mediterraneo, in Turchia, in Persia, in Egitto e in India. In passato si riteneva fosse realmente esistito, invece pare si tratti di un personaggio immaginario inventato dal medico francese Jean de Bourgogne che gli attribuì un apocrifo Voyage d’outre mar. In realtà questo testo, apparso tra il 1357 e il 1371, risulta essere una compilazione da varie fonti che godette di ampia fortuna e fu tradotta in varie lingue, tra cui latino, inglese, italiano e tedesco. Come, del resto, tutte quante le peripezie e i viaggi di questo fantasioso cavaliere inglese, anche la descrizione della Sicilia è quasi certamente frutto di pura immaginazione o almeno di notizie ricavate da fonti in buona misura inattendibili. (Tra le altre notizie curiose, Mandeville riporta che nell’isola esisteva una specie di serpenti usati dagli abitanti per vedere se i loro figli erano legittimi o meno: se il serpente li mordeva significava che erano stati concepiti fuori dal matrimonio). 

Uno dei più antichi Travel Books inglesi a parlare della Sicilia è il diario di Sir Richard Torkington, gentiluomo del Sussex, che intraprese come tanti suoi compatrioti, un viaggio in Terrasanta all’inizio del Cinquecento. L’isola per lui non rappresentò che una breve tappa di transito durante il viaggio di ritorno, nel marzo del 1518, quando passando allargo della costa catanese, assistette a una terribile eruzione dell’ Etna, dalla cui sommità «usciva fuoco che scorreva giù come un’inondazione d’acqua sulla città e bruciava molte case e anche navi che si trovavano nel porto e metteva in grande pericolo la città»4. Che, riferisce Sir Torkington, fu salvata dall’eruzione grazie al sacro velo di S. Agata. 

Nell’immaginario collettivo degli elisabettiani e ancor più dei Puritani nel secolo successivo, l’Etna era una gigantesca montagna fiammeggiante, e nella visione classico-rinascimentale costituiva la dimora mitologica del dio Vulcano e una vera e propria porta dell’inferno. 

Lo stesso Shakespeare cita l’Etna come sede dell’inferno sia in The Merry Wives (III, 5, 131) che nel Titus Andronicus (III, 1, 241). 

Anche John Milton, che pur avendo viaggiato molto in Italia non visitò mai la Sicilia, in uno dei passi più belli del Paradise Lost, utilizza il mito di Tifeo tratto dalle Metamorfosi ovidiane per spiegare il volo di Satana e quando descrive l’inferno si rifà alle descrizioni dell’Etna dei viaggiatori inglesi dell’epoca. Tifeo, gigante mostruoso, figlio di Gea, sconfitto da Giove, venne schiacciato da questi sotto la Sicilia. Qui sotto vomita fuoco attraverso il monte Etna che gli grava sul volto, tenta di scuotere la terra per liberarsi e fa traballare montagne e città che gli sono sopra. Così anche Satana si ritrova volando ad atterrare su di un «lago di fuoco liquefatto, / e di tale colore appariva; come quando la violenza / del vento sotterraneo solleva una collina / strappata dal Peloro, o dal fianco squarciato / dell’Etna che rintrona, le viscere sempre nutrite / di combustibile e pronte a concepire fuoco / sublimato di furia minerale, porgono aiuto ai venti / e lasciano un fondale abbruciacchiato, ravvolto / di fumo e di fetore.» 

Anche George Sandys, traduttore di Ovidio, poeta e colonizzatore inglese, si rifà al mito di Tifeo per spiegare l’origine del vulcano: «Tifone è un vento caldo e impetuoso che soffia non solo sulla terra ma anche nelle sue viscere e attraversando le caverne sotterranee con moto violento infiamma i materiali sulfurei e bituminosi di cui la Sicilia abbonda.» 

Sandys intraprese nel 1610 un viaggio verso la Terrasanta e sulla strada del ritorno ebbe modo di visitare anche la Sicilia. Nel suo racconto troviamo una delle prime attestazioni sulla Sicilia che la «Travel Literature» dell’età moderna ci abbia trasmesse. Sono brevi descrizioni intercalate da citazioni classiche – dall’Eneide, da Silio Italico, da Lucano – dei sei giorni che Sandys trascorse nell’isola. Nell’insieme, è ancora una volta una Sicilia ambigua, dove il fascino della mitologia si lega alla bellezza del paesaggio e alla fertilità del suolo: «Viti, canne da zucchero, miele, zafferano e frutti di ogni tipo si producono gelsi per nutrire i bachi da seta da cui traggono un gran ricavo; cave di porfirio e serpentina. Sorgenti calde, fiumi e laghi pieni di pesce: tra questi ve n’è uno chiamato Lago di Goridano, un tempo l’ombelico della Sicilia, poiché si trova al centro dell’isola; ma più antico ancora è Pergusa, famoso per il leggendario ratto di Proserpina.» 

Una immagine della Sicilia ambivalente, insomma: da un lato essa è una specie di nuovo Eden, in cui i raccolti sono abbondanti e numerosi e dove i frutti della terra crescono spontanei; dall’altro è un luogo quasi sovrannaturale, pieno di insidie, dominato dai vulcani, abitato dai Ciclopi, scosso da terremoti e battuto dai forti venti che attraversano lo stretto. 

Uno dei viaggiatori inglesi più singolari è il barbiere-chirurgo William Davies, di confessione luterana, che venne catturato nel 1598 dalle galere del Granduca di Toscana mentre si trovava a bordo di una nave inglese allargo delle coste tunisine. Davies in quel periodo fu in Sicilia e più volte visitò Palermo (At this citie I have beene very often in the time of my slavery) che descrive popolosa e fiorente di commerci. Fu anche a Trapani: «in which towne there is a monastery, wherein they affirme that the Pillar of Salt that Lots Wife was tumed unto comming out of Sodome is». 

E a proposito dell’Etna scrive: «Questa alta montagna che incombe sulla città si chiama Mongibello, e sta nella parte orientale dell’isola, la sua cima brucia perennemente notte e giorno, e a causa della ferocia del fuoco ha consumato molti villaggi. La ragione di questo fuoco è una pietra sulfurea che essendo posta in alto, come tutti possono immaginare, viene accesa dal calore del sole.» 

Naturalmente non sempre i racconti di viaggio sono frutto di testimonianze reali, come nel caso di Davies. In qualche caso il viaggio era limitato alla biblioteca cittadina, dove consultando autori latini e francesi si faceva opera di trascrizione o di raccolta di materiali diversi che andavano dai racconti mitologici a traduzioni, spesso molto personali, in inglese di autori classici come Virgilio e Omero, Ovidio e Lucrezio. 

Tra le città più citate dai viaggiatori inglesi tra ‘ 500 e ‘ 600 ci sono quelle della costa orientale: Catania, Messina, Siracusa, che si trovavano sulla rotta per l’Asia Minore e la Terrasanta. 

Sandys approdò a Siracusa il 25 giugno del 1612 veleggiando da Malta, e vi sostò una giornata ma non fa cenno delle attrattive della città; il giorno dopo, rimessosi in viaggio, fu a Catania, di cui si limita a dire: «a city more ancient than beautiful». Anche qui trova poco che sia meritevole di attenzione, se non l’Università e la campagna fertile, mentre trova modesto il commercio e scarsa la presenza dei nobili. A proposito di Messina, parla invece di una città al culmine della prosperità: i messinesi, scrive, vivevano in all abundance and delicacy, having more then enoughlood and Iruites of all kinds. Trovò nell’aspetto delle case e nella ricchezza delle carrozze durante il passeggio serale (the men on horseback and the women in large carrosses) una condizione di benessere che testimoniava lo splendore della città. 

Sir Thomas Hoby, diplomatico e letterato inglese che esercitò a Parigi la carica di ambasciatore della regina Elisabetta, fu in Italia due volte: la prima, a vent’anni, nel 1550, in cui oltre a visitare Roma e Napoli si spinse fino in Sicilia; la seconda volta, nel 1554-55 si fermò solo nelle regioni settentrionali. Egli delle città sic’iliane non sempre dice cose lusinghiere: spesso, anzi, l’ antico splendore è in contrasto con la desolazione presente. 

«Questa città [Catania] giace sulla riva del mare ai piedi del Mongibello. […] È stata una città famosa nel passato ma oggi c’è poco da vedere, tranne le rovine di un vecchio acquedotto.» E poi: «Questa [Siracusa] è la città famosa di tutti gli scrittori, sia greci che latini, che era reputata una delle principali città della Grecia. […] Il nome rimane ancora, ma la bellezza e la maestà che le appartenevano sono del tutto decadute9.» 

Sir Torkington descrive invece l’opulenza di Messina. «Questa Messina, in Sicilia, è una bella città e ben cinta da mura, con molte belle torri e diversi castelli, il più bel porto per i naviganti che io abbia mai visto, c’è anche abbondanza di ogni genere di cose necessarie agli uomini, eccetto le stoffe, che costano molto care, perciò gli inglesi le portano lì per mare dall’Inghilterra, è un viaggio molto lungo10.» 

Interessante è anche la descrizione della Sicilia fatta da William Lithgow (1582?-1645?) viaggiatore scozzese e fervente anticattolico, dalla vita avventurosa. Lithgow visitò l’isola nell’estate del 1614, durante un viaggio in Europa, Asia Minore, Africa e fu proprio nei mari della Sicilia che operò la cattura della ciurma di una nave pirata turca. Vi tornò nell’autunno dello stesso anno ma fu costretto a fuggire per avere ucciso in duello due giovani baroni. 

Lithgow è uno dei primi a soffermarsi, oltre che sulla descrizione delle città, sul carattere degli abitanti. «I Siciliani sono per la maggior parte oratori esperti, ché gli Apulei li definiscono uomini dalle tre lingue. Inoltre sono pieni di frasi argute e gradevoli nel raccontare, eppure fra di loro essi sono pieni di invidia (la gentilezza che vi dicevo è rivolta agli stranieri), sospettosi e pericolosi nella conversazione, inclini alla rabbia e alle offese e pronti a vendicarsi di ogni torto subito: ma devo confessare, più generosi degli italiani, che uccidono i loro nemici di notte, perché essi si affrontano in duello e lo fanno da uomini, senza pratiche fraudolente11.» 

In molti casi questi resoconti riferiscono di testimonianze e letture precedenti, senza che l’autore abbia mai messo piede nei luoghi di cui parla. Di Palermo, che mai visitò, George Sandys afferma che fosse piena di begli edifici e frequentata da studenti, notizia questa che non trova conferma documentata poiché al tempo l’Università non esisteva ancora. Allo stesso modo, pur non avendo avuto alcun contatto con gli abitanti delle zone montane, scrisse che essi erano «così inospitali verso gli stranieri che tra di essi non si può viaggiare via terra senza una robusta guardia; derubano e uccidono chiunque riescano ad acciuffare facilmente»12. 

I siciliani descritti da Sandys sono incolti, superstiziosi, brutali, gelosi, vendicativi e soprattutto pigri., tanto da vendere la canna da zucchero ai Veneziani per poi ricomprare, col ricavato, lo zucchero raffinato13. 

Nella sua Cosmographie del 1652, in cui la Sicilia occupa un intero capitolo, Peter Heylyn afferma: «Il terreno è incredibilmente fertile di vino, olio, miele minerali di oro, argento e allume assieme ad abbondanza di sale e zucchero; quest’ultimo bene gli indigeni lo vendono in canne ai veneziani e lo ricomprano da loro dopo che è stato raffinato, lasciando così che gli stranieri intaschino la maggior parte dei loro guadagni; così generalmente fanno con tutte le altre mercanzie, che permettono di esportare piuttosto che prendersi da sé il disturbo di commerciare all’estero con nazioni straniere14.» 

Ma riconosce ai Siciliani creatività e genio: «Sono stati famosi finora per molte notevoli invenzioni, Aristotele attribuisce loro l’arte dell’ oratoria, e le prime egloghe pastorali, Plinio degli orologi (o meglio le clessidre) e Plutarco delle macchine militari15.» 

Lithgow aggiunge che mai durante la sua permanenza nell’isola vide qualche siciliano to begge bread or seeke almes, tanta è l’abbondanza della terra, e aggiunge che essi sono generally wonderfull kind to strangers. 

Questo è il quadro della Sicilia come appariva agli occhi degli inglesi al tempo di Elisabetta I e del suo successore Giacomo I. Una terra ambivalente e piena di metafore, fertile luogo dell’abbondanza, ma al contempo pericolosa e infida. Così la racconta Shakespeare: «Leonte, re di Sicilia, nutre una ingiustificata gelosia nei confronti della moglie Ermione, sospettando che abbia una relazione clandestina col suo amico Polissene, re di Boemia. Ossessionato dalla gelosia, insiste nel credere nella colpevolezza della moglie anche quando l’oracolo di Apollo ne dichiara l’innocenza. Nella sua follia, la fa processare e ne ordina la morte assieme a Perdita, la bimba data alla luce da Ermione in carcere e che egli ritiene figlia illegittima di Polissene. Ma Antigono, incaricato di uccidere la bambina, la salva abbandonandola sulle coste della Boemia. Sedici anni dopo, la principessa Perdita, che è stata allevata da un pastore, si innamora di Florixel, figlio di Polissene, e con lui fugge in Sicilia, dove avviene la riconciliazione tra i due giovani e i loro genitori, e dove anche Ermione, creduta morta, ricompare sana e salva.» 

Questa è la trama di The Winter’s Tale, uno degli ultimi drammi di Shakespeare, ambientato per tre atti in Sicilia. Nella fonte originale dell’opera, il romanzo pastorale di Robert Greene intitolato Pandosto, l’azione principale era ambientata in Boemia e quella secondaria in Sicilia. Shakespeare inverte rapporto e sceglie la Sicilia per fare da sfondo ad uno dei suoi romances più ambigui, in cui si mescolano mitologia, dramma pastorale, magia, follia, ritrovamenti di figli perduti e riconciliazione. Questo forse perché ha bisogno di un luogo ambiguo e senza tempo, dai contorni vaghi, in cui prevale l’elemento magico, per dar voce alla follia di Leonte da un lato e alla possibilità della riconciliazione tra genitori e figli dall’altro, quasi a smentire il motivo centrale dei grandi drammi precedenti come Amleto e Otello, nei quali non esiste rimedio al male compiuto. 

Nel Racconto d’inverno, nonostante la presenza del Male, dettato dalla follia umana, si intravede per l’umanità un recupero dell’innocenza perduta. Per ciò Shakespeare si rivolge a una terra suggestiva, piena di connotazioni simboliche, metafora composita e isola mitica di giganti e di dei, di vulcani e terremoti dove egli, al pari di molti contemporanei, riteneva che una fiaba a lieto fine fosse possibile nonostante tutto. 

P. Bruna Scimonelli 

 

BIBLIOGRAFIA 
M. Capuzzo, Milton e la Sicilia, Libreria Dante, Palermo, 1987. 
M. Marrapodi, L’Odissea di Pericles: saggi e discorsi dagli elisabettiani a D. H. Lawrence. Bulzoni, Roma, 1999. 
NOTE 
1 G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Sansoni, Firenze, 1963, p.S. 
2 George Abbat, A Briefe Description of the whole Worlde, London, 1599. «This is the place whether Empedocles Ihrewe himselfe, Ihal he might be repuled a God. This is it, whereof Virgil dolh make his tract called Aenea, which the Poels did reporl to be Ihe shop of Vu/can: where the Cyclops did frame the thunderbolts for Jupiter: and to conclude, this is it which some of OLtr grosse Papistes haue notfeared to imagine to be Ihe p/ace of purgatorie.» 
3 Ioanne de Mandavilla, nel quale si contengono di molte cose marauigliose, Venezia 1567. 
4 R. Torkington, Ye Oldest Diarie of Englysshe Travell: being the hitherto unpublished narrative of the pilgrimage of Sir Richard Torkington to Jerusalem in 1517. «Cam owt fyer ronning downe like as it ad be a flode of watyr into the Citye and brent many howses and also shippes Ihat war in the havyn and put the city in grett juberte.» 
5 J. Milton, Paradise Last, I, 229 – 235 (edizione curata da R. Sanesi, John Milton, Paradiso Perduto, Arnoldo Mondadori, Milano, 1984). 
… Lake with liquidflre, 
And such appeared in hue; as when the force 
Of subterranean wind transports a Hill 
Tomfrom Pelorus, or Ihe shattered side 
Of thundring Aetna, whose combustible 
Andfeweld entrails thence conceiving Fire 
Sublim ‘d with Mineral fury, aid the Winds, 
And leave a singed bottom all involv’d 
With stench and smoak. 
6 George Sandys, A relation of ajourney begun An. Dom. 1610. Fovre Bookes. Containing a description of the Turkish Empire, of Aegypt, of the Holy Land, of the Remote parts of Italy and Ilands adionying, London, 1615. «Typhon physically is a hot and impetuous wind, not onely aboue but vnder the Earth, which rushing through her hollow cavernes, with violent motion injlames the sulphurous and bituminous matter wherewith Sicilia aboundeth. 
7 George Sandys, cit. «Vines, sugar canes, hony, saffron, and fruites of all kindes it producete: mulberry trer::s to nourish their silke-wormes, whereofthey make a great income: quarries of porphyre, and serpentine. Hot bathes, riuers, and lakes replenished with fish: amongst which there is one called Lago de Goridan; formerly lhe nauell of Sicilia, for that in the midst of the Iland; but more anciently Pergus, famous for the fabulous rape of Proserpina.» 
(8) William Davies, A true Relation of the Trauailes and most miserable Captiuitie of William Dauies, Barber-Surgeon of London vnder the Duke of Florence, London, 1614. E a proposito dell’Etna scrive: «This high Mountayne that hangs ouer the Citie is called Mungebella, and standeth in the East part of the Island the top of it burning continually both night and day, and by reason of the fierceness of the fire hath consumed many Uillages. The reason of this fire is a Brimstone, or a Sulphure Mine, which being high, is, as all men imagine, set afire by the heathe of the Sunne.». 
9 Thomas Hoby, The travels and life of Sir Thomas Hoby, Kt, of Bisham Abbey, Written by Himself. 1547-1564, «This towne [Catania] is placed upon the seea side at the rootes of Mongibello. […]hath bine a famous citie in times past, but now there is little to be seene abowt it, except the ruines of an old aqueduct.» […]«This [Siracusa] is the towne so famous in ali writers both greeke and latin, which hath bine esteemed one the principallest cities of all Greece. […] The name of it doth stili remaine, but the bewtee and majstee of it is cleane decayed.» 
10 R. Torkington, cit. «This Missena, in Cecyll, ys a fayer Cite and well wallyd wt many fayer lowers and Divse caste Il, the fayerst havyn for Shippers that ev I saw, ther ys also plente of ali maner of thyngs that ys necessari for man except clothe, that ys very Dere ther, ifor englyssh men brynge it thedyr by watyr owt of and a Enlong [England], it ys a grett long wey.» 
11 William Lithgow (1582?-1645?), The Totall Discourse of the Rare Aduentures and painefull Peregrinations of long nineteene Yeares Trauayles, from Scotland, to the most Famous Kingdomes in Europe, Asia and Africa, London 1632. «The Sicilians for the most part are bred orators, which made the Apulians tearme them men of three tongues. Besides they are full of witty sentences, and pleasant in their raconteurs, yet among themselves, they are full of enuy (meaning their former kindness was unto strangers) suspicious and dangerous in conversation, being lightly giuen to anger and oifences, and ready to take revenge of any iniury committed: But indeed 1 must confesse, more genùously than the Italians, who murder their enemies in the night, for they appeale other to single combat, and that manfully without fraudolent practices.» 
12 George Sandys, cit. «so inhospitable to strangers that betweene them both there (was) no travelling by land without a strong guard, who rob and murder whomsoever they can conveniently lay hold on.» 
13 George Sandys, cit. A people greedy of honour, yet giuen to ease and delight; talkatiue, meddlesome, dissentious, iealdus and reuengeful. So supinely idle that they sell their sugar as extracted cane to the Venetians; and buy what they spend of them againe, when they haue refined it.» 
14 Peter Heylyn, Cosmographie. In foure Bookes etc., Londra, 1652. «The soyl is incredibly fruitfull in Wine, Oyl, Honey, Minerals of Gold, Silver and AlIom, together with plenty of Salt and Sugar; which last commodity the Natives sell in the Canes unto the Venetians and buy it again of them when it is refined, and thereby letting strangers go away with lhe best part of their gains; as they generally do in all other Merchandize, which they permit to be exported, raher then putting themselves to the trouble of Trafficking abroad in Foren Nations.» 
15 Peter Heylyn, op. cit. «They have been famous heretofore for many notable iniventions, Aristotle ascribing to them the art of Oratory, and first making of Pastorall Eclogues, Plinie of Clocks (or rather Hourglasses) and Plutarch of Military Engines … »

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 13 – 19.




 Linea di ricerca nell’opera di E. Giunta 

L’itinerario artistico ed intellettuale di Elio Giunta poeta, ma anche critico letterario, autore di teatro e soprattutto uomo-poeta calato nel tempo esistenziale, traccia un immaginario che vuole rappresentare la dimensione di un altrove spaziale e temporale all’interno del quale vengono mirabilmente conservati intatti i legami con la storia e il presente. 

Il tratto comune dell’opera complessiva del poeta è dato dal suo porsi, anzi dal suo essere-in-situazione nella concretezza dell’esistenza, per usare un’immagine cara a Sartre. Tale tratto emerge con chiarezza e precisione dalla lettura di Recuperi Possibili1. Riprendendo la prefazione di Mario Luzi, il quale sottolinea con grande efficacia l’angoscia dell’interrogazione delle cose e della concretezza esistenziale, si vede, infatti, come il poeta volge la sua attenzione analitica sia verso il privato che verso il sociale con salda posizione morale e civile. 

Basta leggere, in tal senso, le poesie «Sferracavallo» e «Vi sono deserti», per meglio comprendere l’essere-in-situazionedi Elio Giunta e il suo portato linguistico, che ne traduce perfettamente la dinamica, pur registrandovisi la presenza attiva, ma ricreata, della memoria leopardiana del «borgo» e dello spirito del sofferto travaglio sofocleo. 

Il Filottete2, infatti, è un’opera teatrale di chiara derivazione (forse sarebbe meglio dire rivisitazione) sofoclea che testimonia ancora dell’attenzione di Giunta all’attualità dell’esistenza-politica. L’opera consuma, infatti, il dramma eterno tra la nobiltà d’animo, rappresentata da Neottolemo, e la bassezza di Ulisse, il dramma cioé tra etica e politica, tra morale e ragione di Stato. 

Il Filottete è forse l’opera che meglio interpreta la temporalità storica (nonostante l’archetipo metafisico del testo originale) la tematica del presente. Una tematica attualissima (si pensi all’attestazione del mondo contemporaneo, dopo l’evolversi del mondo geopolitico e delle scienze genetiche e non, su un nuovo ripensamento dei problemi dell’etica e dei suoi rapporti con la politica) e contestuale al conflitto perenne e permanente appunto tra etica e politica. Si tratta, comunque, in Elio Giunta, di un «attuale» raccordato al passato e propedeutico al futuro. Un futuro, però. che nel suo variabile ed eterno processo di «giostra» ed intreccio di eventi (il cosiddetto tempo-vita-storia) sfugge, sebbene per ragioni sempre diverse. sia all’uomo di ieri (il greco) sia all’uomo di oggi. Sfugge al greco, uomo di ieri, in quanto divino, sacro, impenetrabile per i mortali e persino per gli stessi dei, se si pensa che l’«ordine universale» era sottoposto e governato dall’ineluttabile invisibile ananke, la necessità del fato greco e dell’ordine immutabile delle cose; sfugge, il futuro. all’uomo del nostro tempo, perché il tempo, non più divino e fascinoso, è diventato laico e secolarizzato, quello del disincanto, dove il sacro e l’ineluttabile ha ceduto il posto alla causalità e all’aleatorio della contingenza altrettanto imprevedibile e non manipolabile come «il fato greco», i cui effetti, però, non sono meno angoscianti e paranoici di quelli dell’età greca. 

Se «Sferracavallo» era la testimonianza più certa dell’esser-ci del presente e della terra di Elio Giunta, «Palermo» e «la febbraio 1986», due delle poesie che fanno il nuovo libro di Giunta3, sono la prova più evidente ed incontestabile di questa testimonianza umana dell’autore alla concretezza dell’esistenzialità che si fa lavoro poetico ed artistico prodotto con essenzialità linguistica. In Elio Giunta l’essenzialità linguistica. infatti, è un portato strutturale di tutta la sua scrittura poetica, la quale risulta, contemporaneamente, intrecciata sia all’uso di certe figure retoriche che ad una «certa» ironia. L’emozione è infatti controllata e dominata dal distacco di una ironia che analizza, riflette, si fa spazio vuoto nell’affascinante figura retorica della «sospensione» o si concretizza in una saporita salacità o in un originale riadattamento semantico mai scenico. 

I temi di Elio Giunta non finiscono e non si esauriscono mai, infatti, nel paesaggistico, non ingabbiano la poesia dello scavo e della costruzione artistica tra le maglie della crosta superficiale della facile e gratuita retorica, perché la qualità poetica attraversa, connota e struttura, generalmente, tutti i testi dell’autore. 

Luigi Sciacca 

l. E. Giunta, Recuperi possibili, Forlì, Forum/Quinta generazione, 1983. 

2. Filottete, Palermo, Vittorietti ed.. 1978.

3. E. Giunta, Bivacco immaginario, Forlì, Forum/Quinta Generazione, 1989.

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 31-32.




Savonarola e la Scuola di Torino 

Il prof. Rizza del Liceo «Mazzantini » di Torino ha scritto un libro, in collaborazione con Augusto Del Noce, Una possibile letteratura alternativa della cultura di Torino (1985), in cui trae delle conclusioni con il seguente allarme interrogativo: «Torino è morta? Torino non ha più speranza, come è accaduto ad alcuni dei suoi vecchi maestri ?». Il prof. Rizza risponde: «Forse no, se Torino ricorderà e farà tesoro delle parole che S. Agostino rivolgeva, in un’epoca altrettanto angosciosa, ai Romani che piangevano sulla loro città distrutta, sulla fine del loro mondo antico». 

Il testo di S. Agostino è il seguente. 

«Forse Roma non andrà in rovina, forse Roma è stata soltanto flagellata, non uccisa; forse è stata soltanto castigata, non distrutta. Forse non andrà in rovina, se non rovineranno i Romani. I Romani infatti non andranno in rovina se loderanno Dio; andranno in rovina se bestemmieranno Dio. Poiché che cosa è Roma, se non i Romani?». E, applicandolo a Torino, il prof. Rizza dice: «Forse forse Torino non andrà in rovina se non andranno in rovina i Torinesi; perché che cosa è Torino, se non i Torinesi?». 

Roma poi non morì come si vede. E non morì non solo perché divenne la sede indefettibile del “maggior Piero”, ma anche perché intorno alla sua idea – che è un’idea di Dio – si strinsero a volta a volta i suoi Santi, i suoi Martiri, i suoi Uomini migliori. Anche Torino è un’idea di Dio, che entrò in orbita appena di recente, quando divenne sede del primo Risorgimento in funzione dell’unità d’Italia, e da stella potrebbe diventare un sole, come sede del secondo Risorgimento in funzione dell’unità europea: dall’URSS al Commonwealth Britannico alla Quarta Sponda africana. 

Ora io sono qui per dare il mio contributo, il quale si chiama Savonarola. Non un Savonarola da strapazzo, s’intende; e neppure soltanto il grande Savonarola emerso dalle classiche biografie del napoletano Pasquale Villari, del bavarese Giuseppe Schnitzer, del fiorentino Roberto Ridolfi, con la magistrale integrazione critico-biografica del palermitano Mario Ferrara; e neppure ancora il Savonarola che si svela dalla sua Opera Omnia che possediamo ormai in splendida Edizione Nazionale critica di 25 volumi, grazie ai Laici di Firenze, capeggiati da Giovanni Papini e da Giorgio La Pira. 

Il mio Savonarola è in sopra più quello cioè letteralmente scoperto da coloro che nel complesso chiamerò la Scuola di Torino. Una Scuola senza edificio, di soli peripatetici, con una tradizione però secolare alle spalle, che risale ai tempi stessi del Savonarola, come ho illustrato in mio recente articolo Savonarola nella tradizione dei Domenicani di Piemonte e Liguria, in “Palestra del Clero”, Rovigo, agosto 1985, nn. 15/16. La quale Scuola presenta, ovviamente come tutti, il Savonarola nato in questo mondo a Ferrara, e per il cielo a Firenze, tra i bagliori del martirio; ma presenta, in più il Savonarola che va trovando, oggi, pienezza storica qui a Torino: in questa Torino il cui fondamento remoto è il culto del toro Apis degli antichi Egizi, e il cui orizzonte prossimo è l’inizio del Terzo Millennio cristiano. 

Tale Millennio inizierà con il solenne giubileo già indetto da papa Giovanni Paolo II con l’Enciclica sullo Spirito Santo Dominum et vivificantem, e avrà come preludio il V Centenario della morte di Girolamo Savonarola e dei suoi due Compagni Martiri, addì 23 maggio 1998. L’attesa è grande per entrambi gli eventi che la Provvidenza sembra avere così abbinati. 

Questa Scuola di Torino ha avuto un precursore e un maestro. Il precursore è il prof. Paolo Luotto di Villafranca d’Asti (1855), il maestro p. Pera dei Domenicani di Torino, nato a Pietrasanta (1889). 

Paolo Luotto, professore di lettere e filosofia nei licei classici, scrisse un grosso volume il cui titolo dice tutto: Il vero Savonarola e il Savonarola di L. Pastor (1887). Tracciò il solco e gettò la prima semente. Morì a soli 42 anni, pianto dai suoi colleghi, specialmente dal fraterno amico Salvemini, vero eroe della causa per la quale diede la vita per l’enorme dispendio di energie profuso oltre gli impegni di scuola e di famiglia. 

P. Pera può essere definito l’Aristotele della Scuola peripatetica savonaroliana di Torino. Apprezzato personalmente da papa Paolo VI Montini, p. Pera è passato alla storia con un suo modesto studio sull’identità di Dionigi il Mistico e Dionigi Aeropagita la quale significherebbe il nodo tra la patristica greca e quella latina e la vera chiave della sintesi di San Tommaso d’Aquino che la Chiesa ha eletto a suo Dottore ufficiale. 

Portando a maturazione le idee del Luotto, p. Pera diede una dimostrazione magistrale pubblicando il carteggio intercorso tra papa Alessandro VI Borgia e Savonarola, commentandolo con “postille”, come egli volle chiamarle, ma che in verità sono squarci teologici, giuridici e storici di incomparabile sapienza. Il suo lavoro comparve in una magnifica edizione curata dall’Accademia d’Oropa nel 1950, con la cornice di validi collaboratori quali il presidente del sodalizio dr.Venanzio Sella, il prof. Serafino Dezani dell’Università di Torino, mons. Luigi Quaglia, promotore di Giustizia nell’arcidiocesi torinese, lo stesso cardinale Fossati, arcivescovo che volle tenere a battesimo tale impresa con una pubblica lettera che figura in appendice del volume. 

Le idee “nuove” che la Scuola di Torino ha portato avanti a raggiera, durante e dopo la morte di p. Pera, sono almeno 7, come i sette doni dello Spirito Santo. Le riassumiamo per sommi capi. 

Alcune prove sono le seguenti. A metà agosto 1496, dopo la verifica promossa dal breve del 16 ottobre 1495, papa Alessandro VI offriva a Savonarola la porpora di cardinale. Non si offre la porpora a un eretico, a un disobbediente, a uno scomunicato. 

Alessandro VI protestò apertamente presso il Cardinale di Perugia, quando venne pubblicata la scomunica contro il suo consenso: «omnino praeter mentem suam». Quando Savonarola viene arrestato dagli Arrabbiati di Firenze, che s’erano impadroniti del potere con un colpo di Stato, Alessandro VI ordina ripetutamente che Savonarola gli venisse consegnato a Roma. Minaccia persino l’interdetto a Firenze. Il che vuol dire che Savonarola valeva più di Firenze, che pur da secoli era guelfa e banca del Vaticano. 

Morto Savonarola, Alessandro VI si lamentò presso il nuovo Generale dei domenicani di essere stato ingannato; e in un concistoro dichiarò che avrebbe volentieri iscritto fra Girolamo nell’albo dei Santi. Tutto questo è contestato, per ultimo, da Ridolfi; ma la Scuola di Torino ha risposto per le rime (G. A. Scaltriti, Papa Alessandro VI Borgia, in “Palestra del Clero”, Rovigo, 1984, nn. 13/14). 

Non deve sfuggire l’enorme importanza culturale dei rilevati rapporti tomisti, eckhartiani, savonaroliani, 

per il pensiero del mondo occidentale contemporaneo e per l’attuale incidenza, rilevata anche da scrittori asiatici, sull’Oriente induistico e buddistico, nonché sull’Islam dei grandi mistici di Allah – “il solo Grande” – e dei determinanti commentatori di Aristotele, da Al Kindi ad Averroé «che il gran comento feo». 

In conseguenza la Scuola di Torino si è caratterizzata nel promuovere la causa di glorificazione di Savonarola e Compagni Martiri, come coronamento delle speranze accese dal Vaticano II, sostenendo altresì che da sola tale causa varrebbe più di un Concilio. In ogni caso, sarebbe l’indispensabile premessa per il nuovo Concilio, specialmente se lo si volesse tenere o a Mosca o a Tokyo o in Brasile. 

Al tempo di Savonarola era viva la disputa tra “principato” (o stato tiranno, dato anche come buon tiranno) e “governo civile” (o stato popolare, quasi che lo stato popolare, così detto, coincidesse con la civiltà; categorie che storicamente, quindi non identicamente, corrispondono alle nostre di Stato dittatoriale e di Stato democratico a suffragio universale. Peraltro, come Savonarola non è un precursore della riforma protestante, così non è un antesignano dei diritti dell’uomo, secondo la rivoluzione francese o del primato della classe operaia, secondo il marx-leninismo. 

È d’obbligo il riferimento del messaggio socio-politico-economico di Savonarola all’Apostolato dei Laici quale indicato dal Vaticano II, e alla tradizione mazziniana per quello che di meglio il grande Genovese vedeva nel cattolicesimo del Frate; e alla disputa tra monarchia e repubblica che Savonarola dirime saggiamente nel primo Trattato del Reggimento della città di Firenze, sulla trama del De regimine Principuum dell’Aquinate, indirizzato alla Regina di Cipro il cui titolo, guarda caso, era vantato dai Savoia, ai quali va il merito indiscutibile dell’unitàd’Italia, come avvertì l’Eroe dei Due Mondi. 

C’è un testo, tratto dal Trionfo della Croce di Savonarola, che per l’alta teologia cristocentrica è chiave di tutta la Storia che segretamente anima popoli e nazioni. 

«La congiunzione dell’umana natura nella persona divina è maggiore cosa che non l’unione dell’intelletto a Dio come oggetto. Perciò dopo l’incarnazione di Cristo, gli uomini cominciarono a emergere in modo più evidente e ad aspirare sempre più intensamente alla vera felicità» (Lib. III, cap.VII). 

Questo pensiero, sviluppandosi storicamente, storicizza quanto è dato di leggere nel Commento all’Etica a Nicomaco di San Tommaso, che p. Pera amava rileggere tra le righe di Savonarola. L’uomo ha un fine proprio naturale che si realizza pienamente nell’ordine civile che l’uomo deve raggiungere con scienza civile e arte civile, per usare i termini di San Tommaso, ossia con la politica la quale è scienza principalissima e, tra tutte, la più architettonica (Lib. I, cap. 2). 

La Buona Novella di Cristo dischiude il Regno dei cieli dando potestà all’uomo di divenire simile a Dio; però affinchél’uomo sia perfetto, come persona eterna, come uomo storico, come polis o come societas, secondo che si prenda il modello-atomo dei Greci o quello cosmico dei Romani. 

Sull’onda della Storia che con l’umanesimo e la rinascenza riesumava e già rilanciava tali istanze, il profeta Savonarola afferma che «lo Stato popolare è migliore d’ogni altro in Italia, massimamente se Cristo è suo capo». Perché ne consegue la libertà per tutti che vale piùdell’oro e dell’argento; la dignità cui ogni uomo, degno del nome ha diritto di essere signore nella propria città ricco del proprio lavoro, sufficiente per mantenere la propria famiglia, per coltivare le scienze e le arti, per godersi in campagna la dolce comunione dell’amicizia con gli amici del cuore. 

Questo è scritto in tutte lettere, con coerenza non inferiore al rigore di Machiavelli, nel Reggimento di Firenze, che Savonarola scrive (o abbozza) per invito della Signoria, reputando tale invito non contrario al suo ufficio sacerdotale e consonante alla carità verso la Patria (Proemio al Trattato III, cap. 2). 

Savonarola rifiuta come calunnia l’accusa di volere mettere al bando i nobili per favorire la plebe. Savonarola vuole che ognuno sia vero cristiano o almeno schietto uomo naturale e che, per il bene di tutti, chi più sa e chi più può deve servire il bene di tutti onde la libertà non sia un privi1egio, ma il bene di tutti e di ciascuno (“Scritti apologetici”, in Opera Omnia, pag. 244, lin. 15 ss). 

Nulla di utopico. Il modello civile suggerito da Savonarola venne attuato con scienza propria dai Fiorentini nel 1494, durò un decennio, finché tornò a prevalere il Principato dei Medici. Ma nel 1527, quelli che erano stati i giovani di Savonarola, ora fattisi adulti, insorsero e restaurarono lo stato popolare, nella precisa linea indicata da colui che Santa Caterina de’ Ricci, fiorentina di quella generazione, chiamava l’”invitto Martire”. Soltanto la coalizione di tutti i potenti d’Europa, stretti attorno all’imperatore Carlo V d’Asburgo, e per il tradimento di papa Clemente VI de’ Medici, la Repubblica fu soffocata nel memorabile assedio del 1530, in cui emerse la gloria di Francesco Ferrucci. 

Tutta la critica storica concorda nel riconoscere che con la fine della libertà di Firenze si spegneva la libertà d’Italia. Perciò si spiega come i patrioti più d’avanguardia del Risorgimento guardassero all’assedio di Firenze per riviverne le gesta e ravvivare nel popolo d’Italia le mai spente speranze di una resurrezione: sono i sullodati d’Azeglio e Mazzini, poi Garibaldi che definisce Savonarola «uno dei grandi benefattori dell’umanità», Niccolò Tommaseo, Pasquale Villari, Gino Capponi, il p. Curci, fondatore de “La Civiltà cattolica”. 

Quando la moderna Torino cominciò ad espandersi oltre il “pian del ferro”, ossia la ferrovia Torino-Milano che cingeva la città il Consiglio comunale diede al primo viale che così si disegnava, il nome di Francesco Ferrucci, Condottiero. Firenze ha dato il nome di Francesco Ferrucci al Lungarno; Torino gli ha fatto dono del Pian del Ferro. 

Nulla di utopico, soprattutto dalla più alta visuale della fede, quella a cui il profeta continuamente orienta gli atti umani. Quella fede che vince il mondo e arde nel cuore di chi si è fatto semplice come Dio e libero da ogni male. 

Il capitolo ottavo del Vangelo secondo San Giovanni riassume ad altissimo livello la teologia della storia che il profeta intende con questa Parola del Divino Maestro: «Voi morirete nei vostri peccati se non credete che Io sono» (8, 25). E Savonarola ha ben capito quanto subito dopo Gesù afferma: «La Verità vi farà liberi». Poiché la Verità è Lui, Via e Vita. 

Qui, o Torinesi, «si parrà la vostra nobilitate». L’ottavo giorno della creazione è in atto tra le scene di cartone del tempo che passa. Questa è l’ultima lezione di Savonarola e che la Scuola di Torino tramanda: l’operosa attesa di Gesù che torna sulle nubi del cielo «per fare nuove tutte le cose» (Apoc. 21, 5). 

p. Giacinto Arturo Scaltriti o.p. 

1. Paolo Luotto fu il primo che mise in evidenza come papa Alessandro VI Borgia legittimasse, una volta per tutte, la posizione giuridica di Savonarola, con il breve del 16 ottobre 1495. Con questo breve il Papa accettava le ragioni che Savonarola gli aveva esposte in una lunga lettera del 19 settembre antecedente, e deponeva un piano di verifiche, al quale Savonarola si sottomise umilmente, e che al fine diedero piena ragione al Frate. 
2. Dal carteggio e dai documenti collaterali raccolti e commentati da padre Pera, risultano con chiarezza due verità capitali: a) Savonarola non ha mai disobbedito al Papa e ai suoi Superiori, perché aveva il diritto e anche il dovere di sospendere l’esecuzione degli ordini ricevuti – il che è diverso dal disobbedire – specialmente in forza dell’epicheia che San Tommaso – citato alla lettera da Savonarola – definisce «la norma superiore degli atti umani». Quindi non è una scappatoia o un cavillo, ma la controfirma della solennità del diritto. b) La scomunica di Savonarola è un falso, e un falso in atto pubblico, stilato da un falsario di professione, per conto di una banda di criminali capeggiati da Cesare Borgia. Papa Alessandro VI, che era il padre carnale di Cesare, divenne del tutto succube di costui e lo seguì in tutti i suoi misfatti (Pastor, citato nel lavoro d’Oropa). 
3. Ancora merito di Paolo Luotto, seguito in profondità da p. Pera, è l’avere rilevato come Alessandro VI, nonostante tutto, fosse costantemente guidato da una certa attenzione verso Savonarola, apprezzandone l’intelligenza, sospettandone la santità subendone il carisma profetico. 4. Con tutto ciò la Scuola di Torino non ha voluto minimamente mutare o anche solo mitigare il severo giudizio che la Storia ha proferito circa il pontificato di papa Alessandro VI Borgia. Anzi, la Scuola di Torino ha messo dolorosamente in evidenza altre colpe, le più gravi dal punto di vista pastorale, che il Pastor volutamente ignora o su cui astutamente sorvola, venendo meno alla conclamata oggettività scientifica; e cioè ben tre divorzi concessi indebitamente da Alessandro VI per puri motivi politici e di potere: a sua figlia Lucrezia Borgia, al re di
Francia Luigi XII di Valois, al re di Boemia e d’Ungheria Ladislao; e l’assassinio di Alfonso d’Aragona, erede al trono di Napoli, non essendo possibile un quarto divorzio, del principe stesso ancora da Lucrezia Borgia (G. A. Scaltriti, Luci e ombre del Quattrocento, Editore Fiory, Napoli, 1983, capp. VII, VIII, IX, X). 
5. La Scuola di Torino ha scoperto e messo in evidenza il nesso che esiste tra Maestro Eckhart e Savonarola. Entrambi pervenuti nella linea autentica di San Tommaso d’Aquino e tutti e tre quali veri discepoli di San Domenico che non parlava se non «o con Dio o di Dio»: il famoso Dio di Eckhart, il solo esistente, nella speculazione apofantica; e il non meno famoso Dio di Savonarola, il solo esistente nell’azione teopatica. Il tutto scientificamente provato, con testi alla mano, autenticati, per così dire, da testi identici di Santa Caterina da Siena, loro sorella in bianco e nero, la quale si inserisce storicamente tra i due, come l’altra anima di colui che Essa chiamava con incomparabile dizione «il dolce Spagnolo nostro», vale a dire il “suo” San Domenico di Spagna. 
6. La Scuola savonaroliana di Torino ha pure messo in evidenza come Savonarola sia il termine d’arrivo di quella che può ben definirsi la pre-riforma cattolica, rimasta poi bloccata e infine dimenticata, per due motivi precipui: a) L’improvviso cataclisma del protestantesimo – non improvviso per Savonarola, – e l’altrettanto rapido dilagare del neo-paganesimo. La Chiesa si trovò in salita e dovette cambiare marcia. Però da allora in poi, si parlò soltanto più di controriforma, fino al Vaticano II. b) I1 soffocamento, con il martirio, della fastidiosa voce del profeta Savonarola, sicché quanto egli andava predicando, affinché si compisse nella Chiesa, fu realizzato da Lutero, con mille ragioni, ma con un solo torto, quello cioè di mettersi fuori della Chiesa. 
7. Il Profeta, nel senso cattolico del termine, ha il compito di richiamare concretamente al fine ultimo della salvezza universale gli atti degli uomini, vale a dire la Storia, di cui pertanto il Profeta ha coscienza migliore che qualunque altro. P. Pera ha messo particolarmente in evidenza questo punto da cui deriva l’intuizione profetica dello Stato popolare. La Scuola di Torino ha sottolineato tale aspetto, preceduta in questo da Massimo d’Azeglio, nel suo Niccolòde’Lapi, tanto ammirato da Giuseppe Mazzini. 

 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 27-32.




Riflessione sull’essere, sulla morte e sulla vita di p. Giacinto M. Scaltriti o. p.

Riflessione sull’essere, sulla morte e sulla vita

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 11-16.




Echi biblici in Leopardi 

 La Bibbia esercitò sempre una notevole suggestione sull’animo di Giacomo Leopardi; tale suggestione fu certo dovuta al fascino, tutto romantico, suscitato nell’animo del poeta dalla poesia primitiva. Il mito romantico della popolarità dell’arte non poteva non trovare rispondenza nel Leopardi fin dagli anni della sua fanciullezza. «Mi dicono, scriverà più tardi, che io fanciullino di tre o quattro anni stava sempre dietro a questa o a quella persona perché mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io in poco maggiore età era innamorato dei racconti e del meraviglioso che si percepisce con l’udito e con la lettura»1. Da questo gusto del meraviglioso derivò la sua consuetudine con la Bibbia che, più di tutte le grandi opere dell’antichità, stimolava la sua fantasia, colpiva la sua immaginazione di precoce poeta. «Gli episodi della storia sacra nutrivano, accanto all’anima pia, quella fantasiosa del fanciullo e trasformavano il mondo in un altare adatto ai riti dell’immaginazione»2. 

Nello Zibaldone3 il Leopardi insiste nel dire che negli anni della sua fanciullezza ebbe grande predilezione per l’immaginoso, per Omero e per la Bibbia che, «essendo i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della verità•. Il fascino della Bibbia, precisa il poeta, sta nella sua capacità di conciliare «l’immaginazione orientale e l’immaginazione antichissima». Tra l’altro c’è da tenere presente anche il fatto che la Bibbia era il testo su cui i figli del conte Monaldo facevano le loro prime esercitazioni letterarie e il conte amava le Sacre Scritture al punto da avere dedicato ad esse un importante settore della sua biblioteca. Nella produzione leopardiana, specie in quella dell’adolescenza, ricorre frequente l’ispirazione biblica, non tanto per profondità di sentire religioso, quanto per la convinzione che «la religione nostra ha moltissimo di quello che somigliando all’illusione è ottimo alla poesia». Il gran numero di canti giovanili ispirati alla Bibbia denota, oltre che un’intima attitudine alla poesia, anche una profonda congenialità tra il pessimismo biblico e quello del giovane poeta già provato dalle prime delusioni. 

Nel 1809 il Leopardi undicenne compone una prosa in latino, Adami creatio4 dove rivela, oltre ad una notevole e sorprendente, per quell’età, capacità di scrivere in latino, una fervida fantasia dominata dalla visione biblica di un Dio giusto e terribile: c’è l’eco di bibliche punizioni, la coscienza dolorosa della fragilità dell’uomo troppo debole di fronte alla grandezza terribile di Dio. 

Anche nel Balaamo5, dove viene ripreso il racconto biblico dell’asina parlante, il gusto, classico ed illuministico insieme, della chiarità degli squarci paesistici si accompagna alla compiacenza che il poeta sente nel rappresentare la natura così come pensava che fosse nei tempi primordiali della storia umana. 

Ne Il Diluvio Universale6 viene rappresentato il diluvio con colori cupi: la coscienza della fragilità dell’uomo è incupita dal sentimento di colpe antiche che debbono essere espiate. 

Ci sono notizie di altri scritti, andati perduti o comunque ancora sconosciuti, ispirati sempre alla Bibbia, come il poemetto Paradiso Perduto e il canto L’incendio di Sodoma, oltre alle prose Il Lamento di Agar su Israele, La sconfitta di Sennacherib, La morte di Jezabel. 

L’Inno ai Patriarchi, che ha la struttura dell’antico inno greco nel quale si raccontavano le vicende degli eroi e degli dei, è una galleria di patriarchi dell’Antico Testamento: Adamo che per primo contemplò «il giorno e le purpuree faci delle rotanti sfere e la novella prole dei campi»; Noè che salvò «dall’etra infesta e dal mugghiante equoreo flutto l’iniquo germe»; Abramo giusto e forte, padre dei pii; tutti rappresentanti di un’età in cui fu «amica un tempo al sangue nostro e dilettosa e cara questa misera piaggia ed aurea corse questa caduca età». Lo stupore di Adamo, la suggestione favolosa dei paesaggi biblici, la pietà di Abramo obbediente sempre alle leggi del Signore sono le immagini più felici, dettate dalla nostalgia dei tempi aurorali della storia dell’uomo: «la verginità aspra del paesaggio e delle forze naturali, vista attraverso gli occhi del primo uomo, ha il fascino di una sbigottita barbarie»7. Questo è il tema di più vera poesia che scaturisce dalla nostalgia del mondo primitivo che l’uomo non aveva ancora contaminato con la sua presenza. 

La suggestione esercitata dalla Bibbia è dovuta alla sua antichità: «L’antico è un principalissimo ingrediente delle sublimi sensazioni, siano materiali, come una prospettiva, una veduta romantica etc. etc. o solamente spirituali e interiori. Perché ciò? Per la tendenza dell’uomo all’infinito. L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’anima uno spazio di molti secoli produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato dove l’anima si perde»8. Il mondo biblico è bello anche perché è un mondo passato: «Il passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. Perché? Perché il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero; e tutto il vero è brutto»9.

Il pessimismo biblico – il Leopardi incominciò a leggere la Bibbia nei primissimi anni dell’adolescenza e pervenne presto ad un’ampia preparazione biblico-cristiana – fu congeniale al poeta e divenne, anche allo stato inconscio, parte integrante della sua personalità; per questo i libri dell’Antico Testamento più spesso richeggiati sono l’Ecclesiaste e il Libro di Giobbe. Nel Canto Nottumo soprattutto ricorrono i concetti biblici della vanità del tutto e dell’irrimediabile destino di dolore dell’uomo. Il pastore si chiede il perché dell’adoperarsi continuo degli uomini sulla terra, dell’eterno girare degli astri nel cielo e conclude dicendo di non sapere indovinare alcun uso, alcun frutto di tanto movimento; tutte le cose nascono e periscono, rinascono e svaniscono. Anche la Bibbia a questo interrogativo aveva dato la stessa risposta: «Generatio praeterit et generatio advenit; terra autem in aetemum stat. Oritur sol et occidit et ad locum suum revertitur; ibique renascens gyrat per meridiem etflectitur ad aquilonem. 

Lustrans universa in circuitu pergitur spiritus et in circulos suos revertitur. Omnia flumina intrant in mare, et mare non redundat; ad lacum unde exeuntflumina revertuntur ut iterum fluant»10. La risposta è identica: la ragione umana non sa spiegare niente: le conclusioni del Canto Notturno sono le stesse della Bibbia11; la battuta finale del Canto Notturno è quella di Giobbe che il Leopardi12 diceva esplicitamente di aver fatto sua. 

Ma il sentimento biblico della vanità in Leopardi assume un significato diverso perché viene filtrato attraverso !’ideologia materialistica e le conclusioni scettiche del pensiero settecentesco, mentre nella Bibbia questo sentimento nasce dal paragone tra il transeunte e l’eterno, tra il contingente e Dio. E poi mentre Giobbe conclude dicendo che «militia est vita hominis super terram», il Leopardi, non credente, si ferma alla constatazione che è funesto a chi nasce il dì natale. 

Così i motivi più importanti per i quali la Bibbia ebbe tanta influenza sul Leopardi sono: l’educazione religiosa familiare fondata proprio sul Vecchio Testamento; le moltissime esercitazioni condotte su quel libro fin dagli anni della fanciullezza; !’incontro tra il pessimismo biblico e quello del poeta; la suggestione dell’antico e dei tempi aurorali della storia umana. 

Il pessimismo presente nel pensiero illuminista e del quale, per fare un solo esempio, il Poema sul disastro di Lisbona di Voltaire, che il Leopardi certamente lesse, è una delle espressioni più significative, si arricchisce nel Leopardi di implicazioni bibliche; si realizza così una salda, anche se non appariscente. fusione tra conclusioni illuministico-settecentesche ed echi del Vecchio Testamento: le affermazioni illuministiche si colorano di suggestioni antiche. Il pessimismo del Vecchio Testamento dà al dolore del Leopardi dimensioni più ampie, risonanze più profonde e più antiche, colori più cupi; il dolore del poeta si spoglia delle situazioni contingenti e particolari, si proietta in una sfera atemporale e si assolutizza. Gli elementi filosofici di ascendenza illuministica. la sensibilità romantica del recanatese nelle sue diverse implicazioni, le vicende autobiografiche, tutto acquista un sapore di antichità. di ieraticità e, dunque, di universalità. 

Giacomo Sammartano 

(1) Leopardi, Zib. 28 luglio 182l. 

(2. M.Corti, “La Stampa”, 4 novembre 1971. 

(3) Leopardi, Zib. 11 maggio 1821; 28 luglio 1821; 28 settembre 1823. 

(4) Pubblicata su “La Stampa” di Torino del 4 novembre 1971. 

(5) Pubblicato su “La Stampa” di Torino del 21 ottobre 1971.

(6) Pubblicato su “La Stampa” di Torino del 21 ottobre 1971. 

(7) Giannessi, Letteratura Italiana. I maggiori, Milano. Marzorati II. p. 1049. 

(8) Leopardi, Zib. l agosto 1821. 

(9) Leopardi. Zib. 18 agosto 1821.

(10) Ecclesiaste III. 10. 11. 

(11-12) Leopardi, Zib. 1, 400. 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 27-30.




MARIO POMILIO  NARRATORE

Nel 1960, Pomilio così scriveva di se stesso: «Il 1953 fu per me l’anno cruciale. Ebbi preoccupazioni familiari, che mi temprarono, ma anche la fortuna di diventare intimo di Michele Prisco. Con lui, per interminabili serate, discutevo di questioni estetiche e di narrativa. E l’idea di poter contare su un vero lettore mi spinse di nuovo a tentare: la lirica dapprima (segno che ero ancora pieno di incertezze), e naturalmente a tempo perso. 

Composi una raccolta, tuttora inedita. Una sera mi balenò uno spunto: l’immagine di un uccello rimasto chiuso in una cupola. In un primo momento non voleva essere più di una comparazione, l’inizio di una lirica; in un’ora di tensione febbrile mi s’arricchì di mille implicazioni e fu il punto di partenza di una trama. Scrissi il primo romanzo «L’uccello nella cupola», tra il 1° maggio e il 20 giugno 1953. L’anno dopo il libro ottenne uno dei premi Marzotto e raccolse molti elogi. Ma, tranne due o tre casi, fu guardato dall’esterno. Se ne riconoscevano i motivi poetici, ma di rado s’entrava in merito alla tematica. Il mio tentativo di fare del romanzo essenzialmente uno strumento di meditazione sull’uomo, la mia polemica implicita contro un tipo di narrativa moralmente agnostica e povera di interessi speculativi, urtava contro i clichès, nei quali in Italia sembravano essersi adagiati i gusti correnti. Tuttavia il libro finì per essere meditato e di ciò raccolsi i frutti al momento del secondo romanzo «Il testimone», scritto tra il 1954 e il 1955 e pubblicato nel 1956. 

Il testimone mi nacque dalla suggestione d’un fatto di cronaca, dieci righe o poco più di una corrispondenza da Parigi e per un po’ fui incerto se documentarmi meglio o lasciar lavorare la fantasia. Prevalse quest’ultima soluzione, come prevalse il desiderio di dare più sul romanzesco, di scrivere cioè duecento pagine che si leggessero d’un fiato, senza però comportare rinunzie di fronte alle grandi domande che il tema poneva. S’è parlato, a proposito di questo libro, di varie fonti straniere. Se però si fosse tenuto conto della «Storia della Colonna infame» o meglio di quelle tre mirabili pagine introduttive dove il Manzoni parla delle passioni pervertitrici della volontà, come uniche responsabili dei «fatti atroci dell’uomo contro l’uomo», si sarebbero riconosciute le radici tipicamente italiane della mia storia parigina. Tuttavia l’opera fu apprezzata, il primo romanzo servì ad illuminare il secondo e viceversa, e si cominciò a parlare del mio come del mondo delle responsabilità. E non dico che la formula non sia giusta, purché si consideri che il tema che più mi tiene e che sta a fondamento del mio cristianesimo è quello della morte. È stato esso a dettarmi, non ne ho alcun dubbio, le più belle pagine, le prime settanta, per esempio, de «L’uccello nella cupola», le ultime settanta de «Il testimone», l’intero «Cimitero cinese», un racconto del 

1957 e certi capitoli del mio ultimo lavoro «Il nuovo corso», un romanzo tra simbolo e realtà, un discorso portato sul tema della libertà, al quale è stato assegnato il premio Napoli 1959 e di cui sono in corso alcune traduzioni. 

La mia poetica? È presto detto: credo nei personaggi, credo nei valori, credo al romanzo come ad uno scandaglio dell’uomo, credo che il narratore dia la misura di sé solo collocandosi al centro dell’animo dell’uomo. Le altre cose: stile compreso, sono strumenti, non fini.1 

Fin qui Pomilio. Da tale presentazione di se stesso noi prendiamo le mosse, per andare oltre: per verificare fino a qual punto quelle indicazioni siano valide dopo ventidue anni; per soffermarci di più sui lavori, di cui parla brevemente l’autore; per analizzare la produzione successiva e tentare, infine, di tracciare un consuntivo dell’intera opera del narratore e della sua incidenza sulla letteratura contemporanea. 

Il metodo da noi scelto, per l’indagine, è molto semplice: analisi di ogni opera (trama, forma, contenuti), per poi giungere ad un giudizio globale sulla validità, efficacia ed attualità del messaggio che il narratore intende sottolineare. 

L’UCCELLO NELLA CUPOLA2 

Un uomo sta morendo. Marta, la sua compagna, forse alla ricerca di eventuali giustificazioni per la propria coscienza, forse per un improvviso e inconscio bisogno di Dio, si reca in Chiesa per confessarsi. Non appare però convinta di essere in colpa. Anziché mostrare sincero pentimento, sembra cerchi conforto come vittima. Ha paura, addirittura, che il moribondo sopravviva. Non ha fatto nulla per tentare di salvarlo, ha evitato di prestare qualsiasi aiuto, perché, in fondo, desidera che egli muoia, perché non lo ama più, perché non l’ha mai amato, perché è un disgraziato, perché l’ha costretta ad uccidere il figlio che stava per nascere. 

Don Giacomo, il confessore, incatenato ad una visione troppo rigida del dovere e ancora poco esperto dei profondi travagli delle anime, non riesce a comprendere la disperazione di Marta: si rifiuta di capirne le ragioni: sente soltanto che le sue colpe sono imperdonabili e la respinge, anziché aiutarla a superare le enormi difficoltà in cui si dibatte. «Voi avete fatto questo? E perché siete qui?» Marta cercava vagamente la redenzione: don Giacomo, non ritenedola capace, l’ha praticamente abbandonata al suo destino, tradendo la sua missione sacerdotale. 

Di qui due esistenze tormentate. Marta, convinta ormai che si pretenda troppo da lei, che sia inutile ogni sforzo, si affida al suo istinto e alla sua fragilità, nella ricerca di qualcosa che dia un senso alla sua vita e la riscatti da umiliazioni e sconfitte subite. Crede di trovare la salvezza nell’amore di un uomo, al quale dedica tutte le energie, i sogni e in cui ripone tutte le speranze di creatura delusa. Anche questo amore si risolve ben presto in fallimento ed è la fine. 

Don Giacomo, che fin dall’inizio della vicenda aveva avvertito il peso di una enorme responsabilità, è perseguitato dal rimorso di essere stato la causa della perdizione di Marta. Aveva tentato più volte di riparare in seguito, ma con l’identico risultato. La sua intransigenza aveva finito per allontanare sempre più Marta da ogni possibilità di redenzione: come l’uccello, che tenta invano di lanciarsi verso la luce e verso il sole, irrangiungibili al di là della cupola. 

La trama, come si vede, è semplice, come in tutti i romanzi di Pomilio. Ciò che conta in lui è una grande capacità di indagine di stati d’animo complessi e difficili. Come conta la limpidezza dello stile, la proprietà di linguaggio, la ricchezza del vocabolario, la organicità del periodare, che indubbiamente pongono Pomilio tra i classici della letteratura. 

A titolo di verifica di ciò che Pomilio diceva ventidue anni or sono di se stesso, dobbiamo dire che risulta rispettato l’assunto del romanzo come strumento di meditazione sull’uomo. 

E i valori? Anch’essi sono fortemente presenti nella sua opera: l’importanza della coscienza nell’agire umano: l’amore, la comprensione e la tolleranza per le miserie dei nostri simili; l’esigenza della grazia come contrappeso alle debolezze e ai difetti degli uomini. Coscienza, amore, grazia: i tre poli, intorno a cui dovrebbe ruotare il destino di ciascuno, spesso segnato, però, dal peso di qualche realtà misteriosa e dolorosa, che solo la fede può dare la forza di accettare senza ribellione. Questa realtà, umana e religiosa insieme, Pomilio sottopone alla nostra riflessione per il tramite di un fanciullo paralitico, al quale Don Giacomo, un giorno, raccontando l’episodio biblico di Abramo, a cui sarebbe stato chiesto da Dio il sacrificio del figlio Isacco, giustificò la presunta crudeltà di Dio con l’esistenza di una prova di ubbidienza. «Solo per questo? – reagisce il bambino. Solo per questo ha voluto che Abramo soffrisse tanto? E può Dio chiederci tanto per prova? … Oh! non mi piace la vostra storia, non mi piace». 

Il mistero del dolore, difficile interrogativo del mondo cristiano, viene affrontato, così, da Pomilio, in un episodio apparentemente insignificante, conpo che magistrali pennellate: un fanciullo che paga di persona non si sa perché: un’indiretta implorazione, un po’ amara, quasi ironica di giustizia: una rassegnazione sofferta a certi inspiegabili voleri della Provvidenza, che, comunque, il fanciullo non osa condannare. «E il pianto, finora trattenuto, traboccò ormai liberamente». 

Quest’ultimo episodio ci offre l’occasione per mettere in risalto, pur se breve- mente, la poesia che circola in tante pagine de «L’uccello nella cupola». Le frequenti e belle similitudini, che spezzano il ragionare serrato i continui ripiegamenti delle anime sulle proprie gelose intimità: il pathos, la sofferenza, l’anelito verso il bene che, comunque, accompagna l’intera esistenza dei prota- gonisti, sono altrettante espressioni poetiche, che dimostrano l’intensa parteci- 

dell’autore alle ansie delle creature della sua fantasia. 

IL TESTIMONE3 

Romanzo altamente drammatico. Una madre, Jeanne, incarcerata perché involontariamente coinvolta in un fatto criminoso, resta forzatamente lontana, per qualche giorno, dal suo piccolo, che rimane, perciò, abbandonato a se stesso. Il padre del piccolo, amante della donna, responsabile del fatto criminoso accennato, s’era potuto prender cura di lui soltanto per poche ore, perché ucciso, poco dopo, da un’auto, mentre tentava di sfuggire alla polizia. Soltanto a seguito della confessione di Jeanne sulle responsabilità del suo amante, il commissario Duclair acconsente che il piccolo venga condotto alla madre. Il bambino, allo stremo delle forze, non è più capace di succhiare il latte. La madre, non riuscendo, nonostante ogni tentativo, a costringere il figlio a succhiare, in un eccesso di delirio e di follia, lo strangola. 

Anche in questo romanzo domina il problema del male, del peccato e della morte. A differenza, però, de «L’uccello nella cupola», dove si avverte anche la potente presenza del desiderio di riscatto, di redenzione, di fede profonda in certi valori, ne «Il testimone» non c’è posto per una quasi fatale, ostinata disperazione. Mentre, tuttavia, la donna è riscattata, in qualche misura, dal suo amore per Charles e, nonostante tutto, per il bambino e dalla stessa sua improvvisa follia, per il commissario Duclair non c’è scampo: «Annaspò follemente, con nell’animo un bisogno divorante di pietà e il senso di una miseria, che non era più solo della donna o di lui, o di essi due soltanto, ma di quanto, vivo o morto, lo circondava. Come sempre succede quando la cupa irrazionalità della vita ci si scopre nella sua interezza e nulla ci aiuta a sperare nell’esistenza d’una realtà meno assurda o quanto meno nell’opera di un volere meno cieco. Cercò di raffigurarsi una dimensione diversa, nella quale tutto quello che era accaduto potesse annullarsi e quel che la donna stava soffrendo venir consolato e quel che lui aveva fatto perdonato. Ma non ne fu capace…». 

E i valori, in cui l’autore crede, dove sono andati a finire? Per contrasto essi emergono con più forza, appunto perché sottintesi, dal nudo dramma dei protagonisti: il bisogno continuo, nonostante tutto, di scavare nelle proprie responsabilità, il richiamo ad una superiore giustizia. 

IL NUOVO CORSO4 

«La Voce della verità», l’unico giornale autorizzato dall’unico partito al potere, un bel giorno proclama l’inizio d’un nuovo corso: l’inizio, cioè, della libertà. L’annuncio provoca le reazioni più complesse e varie: dal dubbio alla fede, dalla diffidenza all’ottimismo, dalla gioia alla delusione, all’attesa, rappresentate dall’autore con grande perizia e, cosa nuova in Pomilio, possiamo dire, con benevola ironia, che ci ricorda il Manzoni. A mano a mano, però, che la vicenda avanza, il sorriso sparisce e ricompare il dramma, forse più amaro che nelle altre opere. Il direttore del carcere che, all’annuncio del nuovo corso, aveva deciso spontaneamente di non dare esecuzione alla 

condanna a morte di un recluso per ragioni politiche e che aveva profondamente gioito per aver dimostrato, così, a se stesso di sapere agire secondo coscienza, all’arrivo di un telegramma delle autorità, con il quale si chiedono assicurazioni sull’avvenuta esecuzione del condannato, trova quasi naturale, senza alcuna lotta interiore, il ritorno al rispetto della legge e si precipita a dare esecuzione alla sentenza, per timore di essere accusato di scarso senso di responsabilità. 

IL CIMITERO CINESE5 

Un italiano incontra una ragazza tedesca in Belgio. Fanno insieme una gita di fine settimana in Francia. Nasce una profonda simpatia, reciproca, forse l’amore. Le circostanze, però, non consentono che esso venga confidato serenamente e liberamente. La ragazza è tormentata dal ricordo dei tanti morti causati dalla guerra, per colpa dei suoi compatrioti. In quella zona di Francia c’erano, infatti, i resti di molti bunker, un cimitero di guerra francese, uno cinese. L’italiano, che avverte l’amarezza della ragazza, preferisce rispettare i suoi stati d’animo e non forzare la mano. Un bacio solo, alla fine, suggella una corrispondenza desiderata e sofferta. 

Un quadro, una pennellata di sentimenti delicati e dolcissimi che, nel ricordo e nella cornice di tanti disastri, ci obbligano a riflettere come soltanto l’amore riesca a vincere la morte. Essa, presente in maniera drammatica ne «L’uccello nella cupola» e tragica ne «Il testimone» cede il posto ad uno stato d’animo di mestizia, di rassegnazione e, più che altro, al desiderio di vincere la morte stessa, con la vita e con l’amore. «E così compatto era il silenzio e così arioso e sereno nella sua purezza domenicale, da rendermi ad un tratto inverosimile il pensiero della morte o qualsiasi altro sentimento connesso a quest’idea. E tale stato d’animo mi si accentuò quando fummo alle spalle del tabernacolo, sul crinale dell’altura: di li si scorgeva il mare, o meglio, il confine tra cielo e mare assomigliante a una linea tra luce e luce: verso sud la natura digradava sfumando entro un velo lustro di caligine: sicché lassù, tra il biancore dei tulipani, si aveva come l’impressione d’essere sospesi tra due cieli: e che compassione o tristezza o smarrimento dovessero per forza lasciare il posto a una sorta di consolata e alleviata mestizia». 

LA COMPROMISSIONE6 

Il protagonista, Marco, professore di lettere in un liceo di provincia, alla fine della vicenda si scopre «incapace sia di rifiuti che di certezze». È il succo morale del romanzo… Un uomo si illude di credere in qualche cosa, ma sostanzialmente non crede in niente, come a mano a mano evidenzia egli stesso, raccontando, in prima persona, una parte della sua vita. Si illude di credere, perché con facilità passa da una posizione ideale ad un’altra, senza convinzione, né per la verità che lascia, né per quella che insegue e che gli sfugge sempre. Una serie indefinita di compromessi da parte di una coscienza fiacca, incapace di scelte valide e durature, disfatta e delusa, chiusa nel proprio egoismo e nella propria aridità: così di fronte ai problemi politici, come a quelli sentimentali, religiosi, esistenziali. Non esistono ideali, valori; non esiste l’amore, Dio , il lavoro, l’umanità, la stessa soddisfazione delle esigenze naturali e vitali. Tutto è frammentario, provvisorio, occasionale; tutto passa senza lasciare un segno, una traccia, se non la consapevolezza di una universale inutilità. Non un rimpianto sincero, non un rimorso, non una aspirazione, non un atto d’amore e di abnegazione, spontaneo e senza riserve. Tutto all’insegna di un’accettazione rassegnata, anzi passiva, del destino che preme, d’una insoddisfazione sempre presente, d’una povertà di sentimenti, dello spirito di contraddizione, che impediscono al protagonista di pervenire con gioia ad una qualsiasi conquista. 

IL CANE SULL’ETNA7 

Raccolta di cinque racconti: Il cane sull’Etna Il vicino Il Nemico – Il commissario La sentinella. Il contenuto, in generale, è sintetizzato nel sottotitolo «Frammenti di una enciclopedia del dissesto». Trattasi, infatti, di testi incentrati sulla solitudine, sulla paura, sullo smarrimento, sulla nevrosi, sulle frustrazioni dell’uomo, «avventizio dell’esistenza», «soggetto, per una specie di ironia, alle aporie del destino Carlo Bo sul «Corriere della Sera» scrisse: «Alcune delle pagine più ferme che siano state scritte negli ultimi quindici anni, ci rendono il Pomilio più autentico, quello che sa saldare la voce inquieta del nostro tempo a un racconto che ha la certezza dell’ordine classico». 

Il narratore, nell’introduzione del libro, non esclude che la singolarità dei personaggi possa essere attribuita, dagli altri naturalmente, a delle esigenze sperimentali. In tale cornice i racconti si presentano come pezzi di un virtuosismo linguistico e descrittivo e come sottile scavo psicologico. 

Giovanni Salucci 

(*) Il saggio Mario Pomilio narratore di Giovanni Salucci, per ragioni tecniche, è stato diviso in due. La seconda parte verrà pubblicata nel prossimo numero. Lo studio, nel suo insieme, è di estremo interesse, perché scritto quando ancora non era stata pubblicata l’ultima opera di Pomilio, che ha per oggetto alcuni momenti della vita del Manzoni (a cui tra l’altro è stato assegnato il premio Strega), fa un raffronto tra Pomilio e Manzoni. E il rapporto acquista maggior valore, perché alla critica allora la cosa era quasi del tutto sfuggita. 

1 Da «Ritratti su misura» a cura di Elio Filippo Accrocca – Sodalizio del Libro, Venezia 1960. 

2 Ed. Bompiani – Milano 1954 (Premio Marzotto). 

3 Ed. Massimo – Milano 1956 (Premio Napoli). 

4 Ed. Bompiani – Milano 1959 (Premio Napoli). 

5 Ed. Rizzoli – Milano 1969 (già Ed. Guanda – Parma 1958). 

6 Ed. Vallecchi – Firenze 1965 (Premio Campiello).

7 Ed. Rusconi – Milano 1977 (scritto tra il 1967-68. Premio Roma Città Eterna).

Da “Spiragli”, Anno I, N. 1, 1989, pagg. 29-36




L’amara eloquenza del silenzio dello scrittore 

 Da «Il Manifesto» del 26-9-2005 riprendiamo una lettera di Nello Sàito, che ci sembra significativa della condizione dell’ editoria italiana e dello scrittore in genere. 

Cari Amici, 

non sono morto. Ma non è colpa mia se mi è stato assegnato nel 1970 il Premio Viareggio. 

Non è colpa mia se, dopo il Premio Viareggio i miei romanzi sono stati rifiutati da tutti gli editori italiani, con l’eccezione di un piccolissimo, sconosciuto editore siciliano che poi non ha voluto distribuirlo minimamente. Silenzio. 

Utopia anarchica? Può essere, dato che mio padre e mia madre sono siciliani. O perché nei romanzi era descritto il sogno di un Risorgimento siciliano che si poteva avverare riprendendo la tradizione del glorioso separatismo siciliano. 

Altro che Bossi per attuarlo! 

Ci voleva un Savonarola siciliano per una vera rivoluzione del Sud contro il Nord. Altro che ponte sullo Stretto! 

La Sicilia doveva utopicamente allontanarsi dal continente, non avvicinarsi, congiungersi. Doveva e può divenire la Sicilia del Mediterraneo con le sole sue forze. E così la finta lotta contro la mafia; è vero il contrario, semmai la mafia doveva aiutare a creare l’indipendenza, la singolarità, la diversità geniale della Sicilia, vale a dire si trattava di chiamare dall’ America e dal mondo i mafiosi a unirsi per aiutare il Risorgimento siciliano. 

Invece, da sempre si è tentato di crocifiggere, uccidere quella singolarità che non aveva nulla a che fare con il continente. 

Si è preferito inchiodarla a uno stereotipo, come per esempio i romanzi di Camilleri, di indicibile volgarità, perché questo faceva comodo alla volontà colonizzatrice del Nord, alla sua inesausta volontà di dominio. 

La Cassa del Mezzogiorno? Cos’è? La povertà innalzata a mito, così la violenza cantata, scritta, musicata del Sud siciliano in un quadro stravecchio, sempre lo stesso, soffocato da polizia, esercito, vessazioni di ogni tipo, tasse sull’intelligenza, esproprio di ogni bene, donne comprese, declassate a meretrici del cinema. 

La Sicilia? Volutamente ignorata per secoli, quando non mitizzata per violenza, mafia, povertà, bruttura. Perfino la sua origine culturale venne negata. 

L’intelligenza, la cultura, invece che dalle meravigliose colonie greche non più nominate, venne fatta iniziare più tardi, né scrittori, né architettura, né società e costumi ma piuttosto dai menestrelli di corte di Re Federico, poveretti. Addio Grecia. E i siciliani che erano stati dèi, cioè greci, fenici forse anche ebrei e soprattutto arabi, furono declassati a poveri extracomunitari cui si doveva solo elemosina e disprezzo. 

L’intelligenza è come la mondezza, si diceva in Sicilia. Ora è negata. Anche se giuristi e uomini di pregio hanno invaso il Nord donando il loro sangue, cioè la loro intelligenza che non aveva più patria. Lasciando solo la schiuma degli assassini e degli stupratori che non erano quasi mai i siciliani ma i loro oppressori. Così la Sicilia è stata lacerata, crocifissa Ci romanzi di Camilleri) e mitizzata come i Sassi di Matera di cui Togliatti, appena vistili, disse: che vergogna! Invece di distruggerli e ricostruire case nuove, decenti, umane sono stati mitizzati. 

In Sicilia invece si distrugge solo il bello, vale a dire, il barocco, le chiese, il 

paesaggio, l’idea della bellezza e dell’intelligenza (e l’intelligenza come la musica non ha bisogno di traduzione); importante è distruggere quello che poteva e ancora potrebbe essere, come ho detto, il giardino del Mediterraneo, la Mecca della nuova civiltà che al Nord sta morendo o è già morta. 

Perciò, mi ripeto: siciliani di tutto il mondo, tornate a casa; mafiosi di tutto il mondo, il vostro lavoro è qui, venite a ricostruire, a difendere la Sicilia che i coloni del Nord stanno da secoli uccidendo. 

Mafiosi, unitevi, accorrete, ne avete la forza, l’intelligenza; non soccombete ancora all’inganno che da sempre dura contro di voi. Reagite! 

Nello Sàito 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 23-24.




Significato di Dante nella società contemporanea 

 Da più parti si sostiene, e la verifica lo dimostrerebbe, che in un momento di profonda crisi sociale, morale, politica, dal messaggio e dalla forza della cultura è ipotizzabile la ricomposizione dell’immagine di una Nazione che va seriamente disintegrandosi nell’intera sua struttura istituzionale, economica, progettuale. «É, quindi, dal dibattito’ culturale che scaturisce l’immagine nuova di un Paese, perché’ il nuovo tessuto culturale e morale imprigiona le responsabilità personali che ciascuno deve assumersi- (A. Bonito Oliva). 

In questa visione, costante di ogni momento storico controverso, il recupero e l’attualità del significato di un grande, il più grande poeta italiano, Dante Alighieri, riemerge prepotente e si collega oggi, come ieri, quale paradigma di ogni stagione, buona per la sua valenza universale. Distaccato con la forza della poesia dalle passioni e dalle miserie della vita, l’ideale di umanità, di giustizia si eleva a compendiare l’umanità intera (in senso cosmico e globale), analizzando gli errori imputabili al potere temporale e a quello, spirituale, divenendo nel suo “viaggio” trascendente, profeta di una sicura redenzione dell’umanità perduta. 

Tenendo conto che la scrittura, e la poesia in particolare, per Dante va intesa secondo i quattro sensi: letterale, allegorico, morale e aJ1,Q.logico, (quest’ultimo considerato come il “sovrasenso”), determinante diviene un ulteriore significato, quello per il quale Dante si identifica in ~anto uomo, con il disordine sociale e politico, la “selva” nel Medioevo, Tangentopoli oggi; tende come anelito all’ordine e al benessere della giustizia (Mani Pulite nell’ottica odierna) “il colle illuminato”. A questo si pone come impedimento la democrazia bloccata (“la lonza”), il potere inquisito (“il leone”), il Clero corrotto (“la lupa”). Per il conseguimento del cambiamento sociale e morale occorre la scelta di un Governo-guida rinnovato (Virgilio) e quello dell’amore (Beatrice). Così soltanto, in analogia con i temi del grande poema, anche oggi l’umanità perduta potrà riacquistare la dignità smarrita, acquetare l’odio e il sangue delle guerre uscendo dall’Inferno e, pentendosi dei suoi errori e misfatti (Purgatorio), aspirare alla libertà in piena democrazia, nella giustizia e nella pace sociale, nel benessere e nella felicità (Paradiso). 

Nella Firenze della seconda metà del Duecento l’aristocrazia di sangue aveva ceduto il passo all’aristocrazia del denaro. Ma già la poesia del Dolce stil Novo, di cui Dante sarà alfiere, rispecchia un ambiente dove il mito del blasone è tramontato. Il cor gentile del poeta non è tale per lignaggio, ma per doti morali, che prescindono la nascita. Anche in questa concezione la modernità di Dante appare in tutta la sua lucidità. Contro le fazioni che generano violenza, scissioni, tendenze separatistiche, Dante accoglie la strada dell’esilio. Gli schemi rigidi contrapposti nella battaglia politica tra Papa Bonifacio VIII e Dante, che vuole ben distinti i poteri, con autonomia propria, sembrano non comprendere le grandi trasformazioni politiche che si stanno compiendo in Europa, la nascita delle unità nazionali, il tramonto dell’impero “sacro e romano”. Dal dissidio ideologico e dallo sdegno per la corruzione di molti ambienti del potere, nasce il giudizio di condanna che coinvolge lo stesso Bonifacio VIll. 

Nel corso della Commedia il modificarsi e l’arricchirsi del concetto morale, politico e religioso nell’invenzione del poema con il suo grandioso assunto dottrinale, trascendendo i propositi e la materia lirica, si espande in una sfera universale e simbolica. Il nodo di esperienze autobiografiche, che ripropone il tema del sentimento come condizione privilegiata, riassorbe nella coscienza tutti i temi e gli aspetti di una crisi che agitavano la civiltà del tempo. 

Il poema riassume in una sintesi suprema tutta la problematica della civiltà del Medioevo, dove è facile rispecchiare anche le motivazioni metaforiche della stessa problematica che investe il mondo moderno. Dante avverte dolorosamente la frattura tra il sistema e la realtà effettuale del suo tempo, proponendo la necessità e la possibilità di una sintesi intellettuale, che si proponga come mezzo di giudizio severo e guida sicura per una umanità che non può più esprimersi nell’ambito di una astrazione concettuale, ma che deve disporsi a tutte le applicazioni e compromissioni, sul terreno della realtà, ma con un’attenzione sempre più forte ed esclusiva verso i problemi etici e civili. 

L’orizzonte vastissimo della Commedia spazia e accoglie una complessità e molteplicità di temi concreti e attuali e tende a riassumere su un piano di universalità tutta l’esperienza morale ed esistenziale del poeta. La prospettiva dei fatti e dei personaggi, nella metafora solenne che è insita nell’invenzione del viaggio oltremondano, è proiettata su uno sfondo di eternità, come già vide Hegel. 

La lucida coscienza di una crisi che investe tutti gli aspetti della società confina in quell’ordine morale che tra cultura e fede deve rendere l’uomo degno di contemplare la luce di Dio, con un processo di purificazione che configura l’arduo cammino dell’umanità, sorretta dalla dottrina filosofica. 

Il vigore e l’intensità della fantasia di Dante, che traduce in termini sensibili e corposi anche i dati più filosofiCi ed astratti della sua esperienza, intervengono a imprimere poeticità ad ogni minimo particolare, in seno, ma anche oltre la trama compositiva o la struttura a monte del Poema. In questo senso la contemporaneità di Dante, la si potrebbe scorgere non solo nell’eccezionalità del suo messaggio metaforico, concettuale e tematico (quello che appartiene all’uomo di sempre), ma anche nella peculiare struttura letteraria, che non a caso riappare come puntello e modello del libro più sconvolgente e innovativo dell’era moderna, quell’ Ulysses di Joyce, che in quanto spartiacque tra la letteratura moderna e tutta quella del passato, proprio a Dante, si sente di pagare il tributo più alto. 

Il viaggio odisseico di Bloom appartiene, pure nella struttura, certo più a Dante che allo stesso Omero, che ne costituisce il referente immediato. Il peregrinare dell’Ulisse moderno tra le strade di Dublino presenta moltissime analogie, non solo strutturali, con la molteplicità di incontri che Dante effettua nel suo viaggio, ma anche la tecnica innovativa ioyceana del monologo interiore certamente appartiene allo smarrimento poetico che Dante accoglie e inquadra nella vastità e varietà di esperienze che lo coinvolgono come uomo e come poeta, investendo tutti gli aspetti della realtà dai più umili ai più alti, dai più semplici ai più complessi. 

Ancora oggi ogni lettore ritrova facilmente nella propria memoria gli aspetti vari, la casistica e la tipologia della vita umana in senso universale e, come tale, sempre attuale, perennemente contemporaneo, Dante risulta referente e faro di ogni epoca, per l’universalità della sua poesia, ma anche per l’enciclopedismo esistenziale che la sua opera contiene e come tale vive del suo presente, ingloba il suo passato e proietta il suo futuro. Non c’è esperienza intellettuale, morale, sociale, religiosa, filosofica, sentimentale, che non ci allinea in parallelo a Dante. che nel suo pensiero e nella sua poesia ha compendiato lo scibile umano e in ogni occasione ci può fornire l’analogia giusta. la citazione idonea, la similitudine efficace. Quella di Dante è l’ultima, magnanima voce dell’universalismo medievale che ancora si alza ai nostri giorni. 

Che l’ardua dialettica fra la concezione universalistica e l’insoppremibile 

necessità di dirottare verso le soluzioni dei gravi problemi attuali e sociali sia importante, nonché che la suprema dignità della responsabilità personale sia problema di fondo degli anni di Dante come degli anni di ciascuno di noi, sono le condizioni di crescita da porre di continuo, sotto le più diverse forme espressive e comunque da finalizzare ad un approfondimento dello spirito socio-culturale d’ogni uomo e d’ogni cittadino. 

L’ideale uomo che nasce dalle pagine dantesche è colui che vive con pienezza, non rifugge da alcun dovere – spirituale, morale, pratico – che la vita gli impone, affronta fermamente ogni responsabilità, anche la più rischiosa: e tuttavia non pensa mai solo a se stesso; sa che il suo .pensiero e la sua azione sono la particella d’un ordine universale. Da questo punto di vista ci si chiariscono anche il pensiero e l’azione propriamente politici di Dante. Nessun poeta è più fiorentino e più municipale di lui; da Firenze e dai suoi contemporanei trae la maggiore parte dei suoi personaggi; a Firenze vanno costantemente il suo nostalgico amore e la sua cruda rampogna. Farebbe così anche per l’Italia attuale. Ne sono certa. Eppure nessun egoismo municipale alimenta l’amore e lo sdegno: egli rimprovera Firenze peccatrice nella sua vita interna; più ancora la rimprovera quando la vede recalcitrare a lasciar sommergere la sua libertà e fisionomia comunale nell’ordine imperiale. Vissuto nella piena maturità del Comune, nel sorgere delle Signorie, cioè in un’età d’intransigenti particolarismi, si può dire che Dante non abbia occhi per quel che di fecondamente positivo pur era in quei particolarismi; giunge sino a sprezzare le nuove classi sociali borghesi, la gente intesa “ai subiti guadagni”, che del Comune erano il nerbo. 

Firenze? L’Italia di oggi? Uno Stato? Cosa cambia?, mi chiedo. Dante farebbe così anche per l’Italia attuale. L’Italia, ogni Stato del mondo, deve affrontare la propria responsabilità, in piena libertà: ma insieme sentirsi parte d’un tutto: e la meta ultima d’ogni particolare politica non può essere che il bene universale: “NOS CUI MUNDUS EST PATRIA, VELUT PISCIBUS EQUOR”, dice nel De Vulgari eloquentia. 

Eppure, è dalla continua lettura della Commedia che il lettore, a mio avviso, trae un’espressione apparentemente in sé contraddittoria: quella d’un mondo spirituale e fisico sterminatamente vario e complesso, e insieme quella d’una salda e quasi lineare ed elementare unità. Il lettore, infatti, scende nel buio seno della terra, risale all’aperto su una montagna alta e aperta alla luce, sola nell’oceano sconfinato, penetra corporeamente nella densa e pur non corporea luce del Paradiso; dovunque ci sono bufere, fetide piogge, brulicar di serpenti, guizzare di fiamme parlanti; livide paludi, paesaggi solari; ma anche visioni del vasto cielo stellato, valli fiorite, musicali foreste, infinite feste di luci: mille aperture sui più vari orizzonti, nelle comparizioni dei personaggi e degli eventi. 

E tutto ciò è racchiuso entro una struttura semplicissima: una voragine che scende verso il centro della terra, una montagna che nell’altro emisfero sale verso l’alto; nove cieli che girano veloci intorno al tutto; un decimo cielo immobile, che tutto racchiude. 

Così per la nostra società contemporanea. Non c’è moto della sua anima e dell’intelligenza umana, nel male e nel bene, che Dante non rappresenti: l’ebbrezza della passione di Francesca e la sozzura della meretrice Tàide (metafora della morte per dedizione come dei cittadini consacrati all’onestà e alla correttezza, nonché al sacrificio della propria vita, e metafora della perfidia umana e dell’ingordigia dei nostri politici capaci da soli, pur di divenire i favoriti, di distruggere lo stesso palazzo delle poltrone rosse da loro occupate); l’amor di 

patria e il doloroso peso della responsabilità fermamente assunto da Farinata e la grandezza fosca e colpevole di Bonifacio VIII (metafora di chi contribuisce, in questa società, attivamente, alle vittorie quotidiane sui sorprusi degli stessi cittadini indirizzati a scelte poco corrette e un po’ mafiose (si può scrivere questa parola?), a costo di esser condannati come eretici d’una giustizia solo agognata, e la metafora della grandezza dell’esercizio della giustizia: la Clericis Laicos (bolla del 18 Nov.1302) proibiva al clero di versare a qualsiasi autorità laica denaro a titolo di tasse e sovvenzioni (e le tangenti di oggi, dove le mettiamo?); gli occhi lucenti di lacrime di Beatrice e la sconcia cennamella di Barbariccia (metafora della purezza, la prima, e dell’ambiguità diabolica di chi suona apparentemente note dolcissime e si gonfia, invece, come otre per finire quindi nella quinta bolgia del cerchio ottavo dell’Inferno, e dell’inferno dei miserabili, ascrivo); e ancora, la tracotanza violenta e disperata di Capaneo e di Vanni Fucci e la fragilità di Pia e Piccarda (metafora della sfIda al Dio, e agli dei, alla religione o al credo, dunque, e la metafora nella remissività strappata anche con violenza alla promessa di fedeltà agli ideali); il generoso ardore di conoscenza di Ulisse e l’aspettare neghittoso di Belacqua (metafora della prodezza e sagacità, contrapposta alla pigrizia, alla lentezza e all’essere infingardi di molti responsabili della cosa amministrativa); lo strazio paterno di Ugolino e la dolcezza del ricordo e della nostalgia di tanti amici evocati, specie nel Purgatorio (metafora di chi può, paternamente straziato, ispirare trentaseiesimi e più canti dell’Inferno e dell’inferno della quotidianità, come ogni padre che non sa quale avvenire garantire, oggi, ai propri figli, e la metafora di quanti, come noi, si proiettano nel passato, e nel ricordo di tempi più sereni, per sperare bene nel domani assai incerto): dunque, ansia di conquistare fama presso coloro che questo tempo chiameranno antico, e coscienza che il “mondan romore” non è altro che fiato di vento. Rappresentazione, allucinante per evidenza di particolari, delle mutazioni e trasmutazioni dei ladri e delle mutilazioni dei seminatori di discordie, e delucidazione dei più ardui e astratti veri scientifici, filosofici, teologici: il vUlanello che si batte l’anca disperato nel vedere il suo campo coperto di neve, e il volo dell’aquila romana, voluto da Dio. L’infinitamente piccolo e sfuggente e labile, quindi, e l’infinitamente grande ed eterno. 

Dante è poeta di ogni società. Nessun dubbio turba mai il poeta, che pure sa e rappresenta la fragilità del cuore, il pericoloso pencolare della superba intelligenza degli uomini verso l’errore. Esamina e giudica, inflessibile, piccoli e grandi; i singoli e tutto il suo tempo: Impero e Chiesa: e il lettore di oggi non si domanda mai se quel giudizio così reciso sia legittimo: non ha mai l’impressione che sia pretenzioso e fatuo e unilaterale: tanta è la saldezza della fede e delle convinzioni da cui deriva, che essa passa nel lettore, il quale avverte che a giudicare non è Dante: che egli è solo l’interprete sicuro d’una legge che deve potere essere indiscutibile anche per noi. Nessuno più razionale, quadrato, consequenziale di Dante. Ma la sua razionalità sbocca nel sentimento, e si fonde con esso. E una volta raggiunto – quali che siano stati i travagli sentimentali e intellettuali che l’hanno caratterizzata -, quello che conta è che diventi poesia. Annullato ogni dissidio, come in Dante, si plachi il nostro, sino ad annullarsi nella poesia, e ogni cosa si comporrà nella morale. Naturale e tipico è, infatti, lo sprezzo dei poeti di oggi e di sempre, per gli ignavi, per chi rifugge dall’assumersi delle responsabilità della piena vita, delle decisioni supreme, cioè dell’azione. 

Dante del Convivio e della Commedia ha pietà: di chi non ha amore per la scienza, e non solo quella teologica, ma anche quella fisica e naturale, e non solo lusso di erudizione e di sottigliezza, ma senza l’impegno morale, la scienza, pane degli angeli, non sarà mai gustata, e chi non ne gusta, resterà un misero e un infelice. 

In questa società scienza, morale e religione sono oggi, come la poesia, una sola cosa. E ancora: la salvezza spirituale s’identifica con la libertà individuale, cioè con la conquista di se stesso, con la capacità dell’animo a vincere le battaglie. Beatrice ha mosso Virgilio, ma è da lui preceduta nell’opera di elevazione e di sublimazione di sé e di tutti gli uomini che Dante canta nel suo poema. Il simbolo della stessa regione è un poeta; pensiero e sentimento non cozzano tra loro, ma costituiscono una salda unità: e la stessa poesia è concepita non come sogno, ma come una battaglia, con precisi obiettivi pratici di ammaestramento e ammonimento che Dante ha e, ancora oggi, cura di mettere in luce, ricordandoci che, nonostante il disordine delle passioni umane, c’è un ordine supremo e che ogni creatura, seppure per poteri diversi, giunge sempre ad un’unica riva e che la corda dell’arco divino porta ogni essere irresistibilmente al sito per lui decretato, che è la felicità e la perfezione; e se taluno dèvia, ciò è per colpa sua; perciò non ha fatto il suo dovere. Di qui la concezione dell’ordine dell’universo che giunge fino a Dante, esule immeritevole, colpito dall’ingiustizia, tradito dagli uomini per il suo amore per essi, e spettatore lucido e angosciato del male sempre caratterizzato dalla sua virile certezza di giustizia. 

Ma questa giustizia, a noi, da chi verrà? Dante si fa profeta della certezza che essa può e deve venire solo da Dio, che cielo e terra si salderanno. Noi lo speriamo davvero. E mi sento d’asserire che il primo e più alto messaggio del poema dantesco è forse proprio questa certezza. 

L’attualità di Dante ancora oggi diviene il referente più accreditato da parte della cultura nipponica, con le recenti dichiarazioni del più grande scrittore giapponese vivente, Kenzaburo Oe, che, vincendo il premio Mondello, ha sottolineato come dal nostro più grande poeta sia possibile realizzare un’esperienza eccezionale e unica, per la capacità di estrarre dal suo poema un’infinita catena di immagini e di metafore. Da ogni sua terzina, afferma Oe, è possibile ricavare più materia di un racconto. Da certe figure di angeli è possibile trarre immagini fortemente indipendenti, sia dalla parte di Dio, sia dalla parte di Lucifero. La profondissima nostalgia e la fortissima tensione accompagnano la stesura dei romanzi di OE, ed è da Dante che deriva la sua esaltante iniziazione alla letteratura europea. 

Un altro grandissimo autore contemporaneo, certo il più grande autore irlandese vivente, anche lui premiato con il Mondello, si è dichiarato innamorato di Dante, il cui itinerario attraversa in filigrana l’intera tessitura del suo capolavoro“Station Island”, per il modo in cui la Divina Commedia riesce a conciliare la sfera politica a quella trascendente. Per lo scrittore irlandese, Dante, diviene esempio senza eguali, tanto che da questo amore scaturtranno delle mirabili traduzioni, come quella celeberrima del Conte Ugolino, sull’insegnamento dei romantici inglesi e del modernismo di Thomas Eliot o Ezra Pound. 

Se immensa è l’influenza e la significazione del messaggio di Dante nella vita, nella politica, nella tematica, altrettanto sterminata appare, come mostrato con i due esempi succitati, quella sullo sviluppo e sulle componenti strettamente letterarie di tutto il Novecento. Come dire che la Commedia diviene madre di tutte le poetiche, passate, presenti e future. 

Lina Riccobene

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 29-36.




 La poesia di Matilde Contino * 

Matilde Contino, docente di lettere e traduttrice dal greco e dal francese, è anche una raffinata poetessa che per la prima volta accetta di veder presentate pubblicamente le sue opere. 

Le sue raccolte poetiche sono tre, ed hanno già riscosso un lusinghiero successo di critica; molte sue poesie, inoltre, sono state pubblicate in giornali e riviste e sono state tradotte in diverse lingue straniere. È da sottolineare, infatti, l’apertura internazionale dei suoi interessi culturali: Matilde Contino ha sempre partecipato a iniziative, incontri e manifestazioni legate soprattutto al mondo mediterraneo, e in questi ambiti è già molto conosciuta ed apprezzata. 

Il suo primo volume di liriche Symbiosis aveva già rivelato in lei notevoli qualità poetiche e la capacità di condensare anche in brevi composizioni una grande ricchezza di immagini, secondo la migliore tradizione dei lirici greci, dei quali l’Autrice – greca da parte di madre – ha saputo cogliere l’eredità. La sua è sempre una poesia limpida e meditativa, concisa e densa, in cui la passione interiore è filtrata attraverso il rigore formale derivante dalla profonda formazione classica. 

Molto ricca la gamma dei sentimenti rappresentati: la natura fa sempre da sfondo ed offre lo spunto per limpidi quadretti (secondo la migliore tradizione degli idilli, anche questi legati alla letteratura greca: non dimentichiamo che idillio significa, etimologicamente, quadretto, bozzetto, breve composizione lirica avente come sfondo la natura). In questi quadretti la materialità dell’immagine si stempera nel lirismo o offre all’espressione poetica sembianze ore di aerea levità, ora calde e terrene, in cui si manifestano sia l’attaccamento alla natura sia la tendenza a sublimarsi e a fondersi nella natura stessa, per cogliere in questa, come dice un verso, la perpetua cosmica armonia. 

Nella lirica “Il pianeta e il satellite”, l’immensità è resa con delicatezza, anzi perfino con grazia, nella raffigurazione della danza dei pianeti: «Il nord diventa sudi e i poli si invertonoI ma senza catastrofil i nostri pianeti si muovono/ danzano intorno all’altro/ in perpetua cosmica armonia>!; era difficile rappresentare con più levità una situazione da catastrofe cosmica che invece ispira immagini di armonia legate anche a quella “musica delle sfere” di cui parlava Platone. A Platone si richiama anche un critico straniero che ha parlato della poesia di Matilde Contino, Pascal Ghilewski, di cui vorrei riportare un giudizio sulla prima opera poetica: “La stessa Autrice e le sue poesie sono un cuore pensante, un’Anima che si identifica con l’Amore, un’espressione d’amore nel suo significato migliore, che raggiunge gli eterei orizzonti platonici, agognando l’ideale, la bellezza e il bene (…). Nella fluida simbiosi tra erotismo e ideale si genera questa poesia alle cui basi si trova un elemento fisico, una pietra angolare: il mare, il sole, il vento, il battello, le stelle, il frutto, la flora e la fauna, tutto in una fantastica e beata armonia, in una splendida unità di tutti questi elementi mediterranei, volta a un solo scopo: dar luogo all’amore”. 

A volte però la natura fa da insensibile sfondo a elementi di tristezza, di amarezza, di nostalgia. La malinconia è quasi una costante, ma è spesso abbinata a immagini delicate, sullo sfondo, come si è detto, di una natura impassibile e tuttavia bella, sempre oggetto di attenzione e di ammirazione: «Sui miei occhi erranti! a ricercar la luna/ sui profili scuri dei monti/ scendi malinconia/ mi avvolgi di un velo inestricabile/ bozzolo tu, baco io/ senza speranza/ di divenir faifallw. L’accostamento tra natura e sentimenti è particolarmente evidente nella lirica “Primo/Secondo”, dedicata ai giovani di Praga: «qui la pioggia precipita nel mio cervello/ e lava ogni pensiero>! e il tempo nero e le nuvole grigie corrispondono ai sentimenti dell’Autrice «grigio il mio cervello/ nero il cuore>!. La pioggia è anche, nella stessa lirica, «pioggia di schiavitù/ e di giovanile coraggio/ pioggia d’eroismo segreto/pioggia di sangue nero/pioggia di ultimatum/ e di guerre ingiuste>!: e la stessa ripetizione, incalzante come un ticchettio o come un crepitio di mitra, a cui infatti è paragonata la pioggia, rende in modo quasi onomatopeico l’effetto di parallelismo tra i due fenomeni , quello naturale e quello determinato dall’uomo. 

Qualche volta la tristezza e l’angoscia assumono toni di una passionalità che accentua lo strazio e la sofferenza: anche in questi casi la lirica diventa estremamente espressiva, ma sempre con una scelta di immagini e di termini che rivelano un accurato labor limae. 

La meditazione si fa gradualmente più intensa e la passione assume toni vibranti anche se sempre contenuti; si tratta, spesso, di una poesia d’amore, in cui la delicata sensibilità femminile si traduce in una densità metaforica particolarmente efficace. Amore e sentimento materno sono espressi, a volte, con una dolcezza particolare, come nella lirica “Ninna nanna”, altre volte con un traboccare di emozioni sempre però stemperate in immagini poetiche che le sublimano, richiamandosi anche al mito: la donna che ama, ad esempio, è paragonata ad una Nereide che circonda l’amato con fluide braccia, e anche il dramma di Paolo e Francesca, pure inquadrato nella tempesta e nella bufera, contiene attimi di delicatezza: «I nostri sguardi si fondono/ le dita si sfiorano/ per un breve attimo/ il lampo di un sorriso”. In quel lampo di sorriso, che non esiste nella rievocazione dantesca sta la dolcezza gentile con lui la poetessa rappresenta in pochi tratti la tragedia della coppia. 

Non mancano poesie di ispirazione civile, come quella già citata “Primo/Secondo” dedicata ai giovani di Praga, o “Appello alle donne” o “Foglie”, ispirata alle donne di Sarajevo e ai bambini e ai vecchi di Dubrovnik: la meditazione sul mondo d’oggi ha toni spesso drammatici, ma è pervasa da un profondo amore per l’umanità che si traduce in immagini ed espressioni di particolare forza. 

Il lirismo delicato ritorna nella terza raccolta Dove soffia il vento con una intensità poetica ancora più densa di risonanze. 

Le composizioni sono brevi ed incisive come Hai-Kai giapponesi dei quali hanno le stesse caratteristiche, quelle di condensare il grande nel minimo e di operare una trasposizione dal mondo materiale ad un’idea trascendente, fondendo l’immagine, sempre nitida e precisa, con la risonanza che questa ha nello spirito. In pochi e sicuri tocchi il rapporto tra uomo e natura si sublima ancora una volta in un lirismo delicato e vibrante, in cui le metafore si spogliano di ogni corposità per divenire spesso di una raffinata delicatezza, rivelando, come nelle opere precedenti, il gusto estetico dell’Autrice e la sua chiarezza e limpidezza di evidente impronta classica. È sempre presente, come nelle raccolte precedenti, una passionalità intensa ma contenuta, caratterizzata da un equilibrio anche 

questo di stampo classico. Alcune immagini ricorrenti – quelle dell’acqua, delle gocce, della pioggia, delle onde – accentuano la fluidità poetica dei versi e rivelano un’ispirazione legata a una natura sempre varia, come l’elemento liquido, simbolo di vita e di perenne mutevolezza, di perennità e di varietà nello stesso tempo. 

Analoga funzione ha il tema del vento, presente nel titolo: anche questa immagine accentua l’ariosità e la freschezza delle liriche, in cui non mancano però i momenti di tensione, cosi come il soffio leggero del vento può trasformarsi improvvisamente in vortice o bufera. Ma le rappresentazioni del mondo fisico sono inserite sempre in un’atmosfera quasi metafisica, in cui il contingente e l’eterno suscitano il perenne interrogativo senza risposta sul destino dell’uomo: «Nello spazio stellato/ come una mezza luna/ resterò in eterno/ freccia scoccata/ senza bersaglio/ in perenne parabolica/ traiettoria, puro desiderio/ quesito senza risposta/ tentativo senza esito”. 

Il tema dell’infinito e del mistero dell’esistenza umana, considerata come un viaggio verso l’ignoto, ritorna nella lirica “Scatola nera”, dove il viaggio nello spazio acquista una drammatica rilevanza con l’ossessionante e martellante ripetizione: «stiamo ancora percorrendo/ questo lungo ignoto viaggio/ verso l’autodistruzione/ verso l’autodistruzione/ verso l’autodistruzione…”. 

Altrove l’immersione nella natura raggiunge, come era già avvenuto nelle raccolte precedenti, tocchi di aerea levità: la donna si scioglie in «dolcezza, tenera come un filo d’erbai umido d{ rugiada, gli occhi dell’amato sono perle da berei con la vista del cuore, il vento insegue tra le foglie degli eucalipti la luna inafferrabile/ come il mio sognoll • 

È frequente anche l’immagine della librazione nell’aria, come «un acrobata/ sulfilo della vita; tutto questo traduce sempre la tensione spirituale, il desiderio di ascesa e l’ansia di chi cerca un appiglio e insegue un desiderio di certezza. Anche la musica del sirtàki, tanto amata dalla poetessa di origine greca, diventa fonte non solo di godimento, ma anche, attraverso la vivacità gioiosa del ritmo, fonte di elevazione e di spiritualizzazione: «Musica anch’io divengo/ volteggio nell’aria leggerai nota libera, ti aleggio intorno/ e comprendo il mondo intero”. 

Un’altra immagine frequente è quella del fruscio del vento che interrompe il silenzio, rendendolo subito dopo più intenso: ma il vento serve anche a spezzare un momento di incantata contemplazione. Come diceva un grande poeta francese, Paul Claudel, grande interprete della spiritualità orientale, nelle sue Cento frasi per ventagli, poesie nello stile degli HaiKai giapponesi, la poesia è come un tocco sull’acqua, destinato a suscitare immensi cerchi concentrici, è come la corda di uno strumento musicale che, vibrando, suscita una lunga risonanza, come una piccola pastiglia di incenso che sprigiona a lungo il profumo: ecco perché un piccolo tocco o una delicata immagine possono suscitare l’idea del mistero che aleggia intorno alle cose e destare nello spirito una lunga eco, come avviene appunto in queste liriche. 

Perfino elementi negativi come i rifiuti possono suscitare parallelismi con la vita e con i sentimenti umani. I rifiuti e le immondizie erano già entrati nella poesia con Baudelaire, che aveva espresso il fascino del negativo e le frisson galvanique, il brivido galvanico nato dal contrasto tra il ripugnante e lo spirituale; ma qui tutto è avvolto ancora in un’atmosfera di delicatezza a cui si accompagna, come sempre, un fondo di tristezza e di vuoto: «una buccia di banana/ un osso/ unafoglia seccai un pneumatico nero/ una bottiglia di plastica/ una lattina contorta/ un vuoto nell’anima/ un buco nel cuore”. 

Come nelle raccolte precedenti, è sempre presente anche un’altra fonte di ispirazione, quella legata ai temi della guerra e della violenza, In “Lager” e in “Lettera dal fronte”, il dolore è rappresentato soprattutto attraverso la sofferenza di madri, vecchi, e bambini: questi ultimi in particolare, con la tenerezza che ispirano e con l’immagine dell’innocenza ferita con «grandi, grandi occhi/ e piccoli, piccoli cuori” rendono ancora più drammatico e patetico questo tema. 

La lirica dedicata al padre, con l’immagine possente del vecchio leone, invitato a resistere contro tutto e contro tutti, o la lirica “Cintura nera” in cui il corpo traduce l’energia della natura e induce a poetici ed efficaci paragoni con le forze fisiche e naturali, hanno toni forti e decisi, diversi dalla delicatezza delle altre composizioni: si passa quindi, in questa raccolta, dall’aerea levità alla vibrante passionalità ed alla forza incisiva delle liriche ispirate a una passione civile; ma anche questa capacità di variare stile e linguaggio è segno di quella padronanza dei mezzi espressivi di cui l’Autrice ha sempre dato prova. 

Ida Rampolla

* Relazione della prof.ssa Ida Rampolla tenuta a Marsala il 30 Maggio 1998 presso l’ex Convento del Carmine per il Centro Internazionale di Cultura “Lilybaeum”.

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 28-32.




Lovecraft 

 Le cronache di cent’anni fa non ci informano se, la notte del 20 agosto 1890, gli astronomi avessero notato qualche spaventoso fenomeno celeste. Comunque, le streghe superstiti dai roghi dei secoli precedenti dovevano essersi riunite in un frenetico sabba attorno alla casa n. 454 di Angel Street, a Providence, nello Stato di Rhode Island. Qui, infatti, stava per venire alla luce Howard Phillips Lovecraft, certamente il più grande evocatore di spettri e misteriose angosce. 

Una fotografia di un paio di anni dopo ce lo mostra nelle vesti, secondo le usanze del tempo, di una graziosa bambina. Nulla lascerebbe presagire che quel bimbo dai folti boccoli biondi1 sarebbe diventato un brutto adulto che, a causa della mascella fortemente prognata, sembrava la reincarnazione dei Borboni di Spagna così bene immortalati da Velazquez2, e il genitore incontrastato della moderna letteratura del terrore. 

Ma la sua vicenda umana e artistica merita certamente qualche cosa in più dei soliti brevi cenni che si riservano agli scrittori di “genere”. Lovecraft è altrimenti noto come “il solitario di Providence”; pure nella sua breve vita3 riuscì a produrre una sterminata corrispondenza. Con le sue centomila lettere. inviate un po’ in tutti gli Stati Uniti. lo si può considerare, fino a prova contraria. il più grande epistolografo di tutti i tempi: l’epistolario di Voltaire ammonta a soltanto ventimila lettere4. 

A proposito della sua autentica passione per i contatta epistolari, vale la pena di citare il commosso ricordo di un suo caro amico, Samuel Loveman: “Un semplice biglietto /… / poteva evocare / da parte di Lovecraftl risposte di quaranta o cinquantanta pagine fitte. Erano lettere davvero stupende: si facevano leggere di un fiato, rivelavano un’erudizione prodigiosa e una grande umanità”5. 

Proprio la sua grande erudizione e una totale incapacità di dedicarsi ad attività produttive hanno imposto l’immagine di un Lovecraft simile ai personaggi creati dalla sua fervida e stralunata fantasia6. Eppure egli sapeva anche godere delle piccole gioie che le sue misere finanze gli permettevano7. Se la golosità si può considerare una bizzarria, tra le tante di Lovecraft va annoverata anche la passione – che l’accomuna a Leopardi, un altro grande infelice della letteratura – per i gelati. Se la spietata e ciclica ristrutturazione urbanistica statunitense ha lasciato ancora in piedi la gelateria di Julia Maxwell, a Warren, su un muro della stessa gelateria ci deve essere ancora appeso l’attestato che afferma che Lovecraft aveva assaggiato in un tranquillo pomeriggio tutti i ventisei gusti disponibili8. 

Le concessioni politiche di Lovecraft erano per lo meno originali. Provava un’assoluta fedeltà per la vecchia Gran Bretagna, e biasimava con estrema energia la Rivoluzione Americana: “Quando James Ferdinand I Morton, nipote dell’autore di My Country ‘tis of Thee / ed io sostammo davanti alla tomba del soldato rivoluzionario che cadde per primo in quella memorabile e deplorevole circostanza / la battaglia di Lexington/, mi tolsi il cappello e chinai la testa. ‘Possano perire così tutti i nemici di Sua Maestà Re Giorgio Terzo’, gridai”9. 

A queste pulsioni nettamente reazionarie Lovecraft univa un non ben comprensibile interesse, del tutto accademico, per il New Deal. Per un periodo di sei o sette anni trattò questo argomento per lettera con Ernest A. Edkins, che così ci illumina: «Le congetture di Lovecraft prevedevano adeguati compensi per gentiluomini e studiosi indigenti, generose elargizioni alla classe contadina più povera, consistenti aiuti economici per coloro che desiderassero dedicarsi alle arti e alle scienze, un severo esame che verificasse chi potesse usufruire o meno del diritto di voto, e, infine, la graduale sostituzione dell’attuale “aristocrazia della ricchezza” con un'”aristocrazia dell’intelligenza”»10. 

È evidente che Lovecraft dava una grande importanza alla valorizzazione del ruolo degli intellettuali, e considerava positivamente un governo essenzialmente paternalistico, costituito da leader che appartenevano a un ceto destinato per nascita a comandare, da lui ritenuto “un’autentica dittatura dell’intelligenza anzicché del proletariato”11. 

Lovecraft, come chiaramente spiegano Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, “era un ‘materialista meccanicista’, refrattario ad ogni forma manifesta d’inclinazione verso la spiritualità, l’animismo, il sentimento religioso, e spiegava questo atteggiamento dicendo che, poiché il mondo è puro caos privo d’ordine, non è possibile postulare entità trascendenti ordinatrici dell’essere”12. 

Il Nostro – che aveva mille e una ragione per non amare il mondo in cui era costretto a vivere – sembra confermare un’affermazione di Mircea Eliade: «si indovina nella letteratura, ancor più che nelle altre arti, una rivolta contro il tempo storico, il desiderio di accedere ad altri ritmi temporali diversi da quello in cui si è costretti a vivere e lavorare»13. I mostri evocati da Lovecraft nelle sue opere sembrano quindi avere il compito di riordinare la realtà, o, meglio, di giustificare l’altrimenti inspiegabile disordine. Per de Turris e Fusco. “L’elemento costante della sua narrativa è la ricerca di punti fermi nell’instabilità del caos universale”14. 

Ha perciò ragione Giorgio Galli quando afferma che «Lovecraft ha capito che la storia della terra come frammento del cosmo è vecchia di decine di milioni di anni, che l’umanità è solo una delle forme di vita intellettiva che vi si sono sviluppate. Ma la sua percezione esistenziale di questo passato è pervasa di orrore»15. Ma non si può più seguire il brillante politologo milanese quando sentenzia: «La paura del diverso lo domina, così come lo domina la paura del diverso specifico che è la donna (il suo matrimonio fu ovviamente un fallimento: così egli stesso lo definisce)»16. Ma era essenzialmente la paura di se stesso che perseguitava il solitario di Providence. Lovecraft si percepiva infatti proprio come un diverso. Un’isola arcaica spuntata per caso nel gran mare della modernità, o, per rubare un’espressione a de Turris e Fusco, «un nucleo di materia ostinata che non si dissolve nell’acqua corrosiva del caos»17. 

Il fallimento del suo matrimonio fu dovuto soprattutto a insanabili problemi economici, come ci dice, con ‘fastidiosa’ abbondanza di particolari e ansia autogiustificativa, la sua stessa moglie18. Possiamo anzi pensare che la separazione non sia stata causata dal “terrore della donna relegata ad un ruolo subalterno e demoniaco”19, ma piuttosto dall’esatto contrario: Lovecraft non riusciva a concepire la mascolinizzazione della donna20. Non poteva farsi mantenere da sua moglie21. Aveva, insomma, una concessione del tutto romantica (piccolo borghese, se vogliamo) della femminilità e della famiglia. Chissà quali mostri avrebbe partorito la sua fantasia, se gli fosse stato concesso di vivere in questa nostra epoca post-femminista? 

Gaetano Radice 

1. Lovecraft «portò i capelli come una femminuccia fino a circa sei anni. Quando finalmente non volle più saperne e s’impuntò perché glieli tagliassero, sua madre lo portò da un barbiere, piangendo amaramente perché le forbici ‘crudeli’ l’avevano privata I sic I degli adorati boccoli». Sonia H. Davis, moglie divorziata di H.P.L., The Private Life of H.P. Lovecraft, manoscritto custodito alla John Hay Library della Bruwn University, Providence; ora, in traduzione italiana di Claudio De Nardi, in AA. VV., Vita Privata di H.P. LovecraJt, Trieste, Reverdito Ed.1987. 
2. «Howard attribuiva la sua attuale fisionomia I… I a due incidenti: il primo si riferiva ad una caduta con la bicicletta, allorché aveva quindici o sedici anni l . .. I, il secondo era dovuto al fatto che aveva trascorso moltissime notti a scrutare il cielo e le stelle con il suo telescopio». Ibid. 
3. Morì il 15 marzo 1937, a quarantasei anni, forse per un tumore intestinale. 
4. Fino a oggi l’Arkham House ha pubblicato cinque volumi di Selected Letters, e il professor S. T. Joshi ha curato un libretto di Uncollected Letters. 
5. Samuel Loveman, H.P. Lovecraft, ora in trad. it., op. cit. 
6. «Era / … / privo di ogni interesse nei confronti di cose come la solidità economica, il lavoro, la posizione sociale, quindi in netto contrasto con lo spirito puritano della Nuova Inghilterra». Gianfranco de Turria e Sebastiano Fusco, A posteriori, -Linus», luglio 1981. Cfr. anche di Fusco e de Turris il fondamentale Lovecraft, Firenze, la Nuova Italia, 1979. 
7. «Le sue entrate erano ridotte praticamente a zero ed era costretto a vivere con venti centesimi al giorno /si parla dei tardi anni venti/: anzicché impiegarli per mangiare, di solito li spendeva in francobolli». W. Paul Cook, H.P. Lovecraft: An Appreciation, trad. it. op. cit.; Cfr. anche la nota 20.
8. Donald Wandrei, Lovecraft in Providence, trad. it., op. cit. 
9. Samuel Loveman, op. cit. 
10. Ernest A. Edkins, Idiosyncrasies of H.P.L., Trad. it., op. cit. 
11. W. Paul Cook, op. cit. 
12. Gianfranco de Turris / Sebastiano Fusco, op. cit. 
13. Mircea Eliade, Mito e Realtà, Milano, Rusconi, 1978. 
14. Op. cit. 
15. Giorgio Galli, Le Coincidenze, Linus, aprile 1981. 
16. Ibid. 
17. Op. cit. 
18. Sonia H. Davis., op. cit. 
19. Giorgio Galli, op. cit. 
20. Circa i difficili rapporti di H.P.L. con la madre Susan, cfr. M. W. Vita Privata di H.P. Lovecraft, op. cit. passim; e G. de Turris c S. Fusco, Lovecraft. op. cit. 
21. «Non solo gli inviavo settimanalmente degli assegni, ma ogni volta che tornavo in città gli davo abbastanza denaro perché non dovesse rinunciare né ai pasti, né ad alcunché gli potesse servire» (Sonia H. Davis, op. cit.).

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 30-33