Rinnovamento e continuità nella poetica  architettonica siciliana dal 1930 al 1950 

Gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale furono, per l’attività edilizia, anni di antinomia. Si ricercava, infatti, un equilibrio tra la necessità di operare e l’istanza di approntare un disegno organico di ciò che si dovesse fare. Le scelte operate in quegli anni affondano le proprie radici nel clima culturale che si era formato durante il ventennio fascista. In Italia, tra il ’20 e il ’30 si assiste ad una scarsità di contatti con l’Europa, accentuata dal protezionismo culturale del regime (che, in economia, doveva portare all’autarchia). Pochi, prima di Edoardo Persico, si erano resi conto di quello che succedeva nelle aree d’oltralpe. Questo clima è reso manifesto dalle sorprendenti parole con cui Marcello Piacentini descrive la situazione tedesca: «In Germania non si palesa ancora un carattere dominante e preciso: ancora perduta, in mezzo a grandi incertezze, la lotta tra la linea orizzontale e verticale»1. È soprattutto a partire dagli anni trenta che 1’Italia mostra notevole attenzione verso le nuove espressioni artistiche provenienti dal resto d’Europa. Le istanze di cambiamento, avanzate da più parti del nostro paese e caldeggiate in un primo momento anche dal regime, sembra possano coniugarsi alle novità in ambito architettonico promosse dal razionalismo; questo non risparmierà, tuttavia, di Raimondo Piazza l’accendersi di un dibattito tra i sostenitori del «tradizionalismo», inteso come la via più breve verso la soluzione dei problemi, e i promotori «dell’internazionalismo architettonico», secondo la definizione di Giuseppe Samonà2, che auspicheranno una concreta rivoluzione del linguaggio architettonico, nei metodi d’insegnamento e nell’ambito professionale. Entrambe le posizioni si pongono «come interpreti della modernità e fautrici di un ordine nuovo»3. 

L’accentuarsi delle posizioni conservatrici della dittatura e il conseguente intensificarsi del sentimento nazionalista, spinge comunque gli architetti verso la creazione di uno stile nazionale, fondato sulla riscoperta dell’architettura classica, ricco di toni celebrativi del potere del duce, scenografico e monumentale. L’imperativo del «ritorno all’ordine », contro l’eclettismo che aveva caratterizzato l’architettura del passato, in Sicilia si identifica con il superamento delle esperienze precedenti. 

Qui, come scrive Ettore Sessa, «l’ideale astratto di classicità assume quei connotati di “razionalità mediterranea” che, pur nelle dicotomiche valenze italico- monumentali [ … ] e italico-vernacolari […] ne assicurano l’appartenenza a quella “terza via dell’ architettura contemporanea” comune a Francesco Fichera e nella quale rientrano, fra le altre tendenze, il “classicismo moderno” scandinavo e il panslavismo architettonico di Kotera a Plecnick»4. 

Forse il maggiore esponente palermitano della nuova poetica architettonica è Salvatore Caronia Roberti, la cui sede del Banco di Sicilia a Palermo (1932-1938) ne è certamente l’esempio più paradigmatico. 

Lo scoppio della guerra frena com’è naturale, il maturare di una coscienza architettonica. Con la liberazione dell’ Italia, l’impegno maggiore cui vengono chiamate le forze della cultura riguarda non solo la ricostruzione materiale dell’isola, ma si rivolge anche ad una sorta di rieducazione delle masse affinché prendano coscienza del ruolo di cittadini della nuova Italia democratica: nuovi slogan predicavano un progressivo sviluppo culturale capace di mutare quelle condizioni esasperate che fino ad allora avevano favorito il fiorire del degrado. Anche gli architetti sono chiamati a svolgere il loro lavoro con un mutato spirito: dovranno farsi interpreti del cambiamento con le loro opere e sperimentare nuovi schemi funzionali, adatti a soddisfare le urgenze provocate dalle distruzioni della guerra. 

Per quanto riguarda l’edilizia residenziale, le prime costruzioni sono realizzate principalmente grazie ai finanziamenti del «Piano incremento occupazione operaia», attuato dalla legge Fanfani. Queste realizzazioni, in genere, sono improntate all’applicazione dei canoni del Razionalismo e attingono dalle esperienze degli anni venti, portate avanti dal Movimento Moderno nei «quartieri manifesto» tedeschi. Nel recupero, comunque, di quell’ eclettismo ereditato dall’Ottocento, ma avvilito dal progetto di unità stilistica nazionale messo a punto dal fascismo, vengono ripresi elementi tratti dalla tradizione costruttiva mediterranea, che contrassegnano molti quartieri abitativi. 

Dopo il conflitto, infatti, l’architettura cerca di rigenerarsi attraverso la storia che la letteratura ufficiale aveva ignorato, cioè rileggendo le manifestazioni spontanee dei luoghi. L’interesse per queste opere, per le tecniche costruttive tradizionali, che coinvolge progettisti come Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi, Giuseppe Samonà e molti altri, rivela la volontà morale di instaurare un discorso con la realtà semplice della vita quotidiana. È soprattutto nell’abitazione che verranno alla luce i primi frutti di questo rinnovato rapporto con la storia5. Abbandonata l’immagine della città-giardino degli anni venti, si tenta di ricreare l’unità e la ricchezza d’immagine dei centri storici, recuperando forme tradizionali di scale esterne, ritmi di finestre, deviazioni che disegnano strade non rettilinee, slarghi e piazze6. In qualche modo si cerca così di fondere schemi razionalisti ed elementi caratterizzanti della cultura vernacolare. 

In un clima culturale che non manca di evidenziare incertezze, come denota lo stesso bando di concorso per la creazione della nuova via del Porto a Palermo (1949), si può identificare nel progetto dell’Istituto tecnico nautico di Palermo (1948) di Giuseppe Spatrisano (con V. Ziino, A. Bonafede, P. Gagliardo), la prima opera dove si approfondisce il metodo progettuale sostenuto dal Movimento Moderno, che comporta l’abbandono dei localismi. 

Il nuovo Istituto doveva inserirsi in un’area particolarmente delicata in quanto densa di emergenze architettoniche e fomentatrice di relazioni spaziali complesse. Come scrive Edoardo Caracciolo nel 1950, «la sistemazione verso il mare risolve egregiamente la funzione di cerniera. La rigida massa parallelepipeda nella quale è incastonata la vecchia loggia dell’ospedale continua la “parete” formata dai palazzi sulle mura, dal De Seta al Trabia, e la conclude. Il tumulto di superfici, più che di masse, verso la cala, stacca nettamente la composizione aulica precedente e preannunzia i volumi frammentari estendentisi lungo l’ansa del vecchio porto»7. 

Edoardo Caracciolo mette in evidenza, inoltre, uno dei caratteri progettuali moderni dell’istituto, ovvero la scomposizione dell’edificio in «masse diverse a seconda delle esigenze funzionali interne»8. 

Il linguaggio aggiornato e sensibile dell’ Istituto nautico, sostiene Gianni Pirrone, «sembrava dovesse dare il via ad un nuovo corso dell’architettura palermitana»9. 

Il progetto, il cui nitore cristallino ricorda le opere dei milanesi Mario Asnago e Claudio Vender, viene però mutato in corso d’opera, forse per motivi economici, mortificando lo spirito dell’idea originaria ed evidenziandone, in definitiva, i difetti. Pur con le sue deviazioni dall’idea originaria, tuttavia, l’opera può essere considerata il primo tentativo cosciente di un’ interpretazione antiletteraria dell’architettura, forse il modo più corretto di inserimento in un luogo così delicato, analogamente alla stazione ferroviaria Michelucci, costruita a Firenze dietro le absidi di Santa Maria Novella. 

Creare un’ architettura per l’ uomo, fruitore dell’ opera dell’ architetto, è il motto che impera fra la maggior parte degli architetti italiani già all’indomani della guerra. Un imperativo che punta alla democratizzazione dell’ architettura e che proviene da lidi lontani, come l’America e la Finlandia. Le nuove vie dell’architettura indicate da maestri come Wright o Aalto hanno larga eco nell’Italia postbellica, promosse da Bruno Zevi con la fondazione dell’ Apao. 

In Sicilia, l’adesione al movimento fondato da Zevi, viene accolta come un momento d’ incontro e di collegamento con le vicende che si svolgevano altre lo Stretto; a Palermo nel 1949 si tiene una riunione dell’ Apao, alla quale partecipano i nomi di spicco dell’architettura locale. Qui la lezione organica viene assimilata e rivisitata alla luce di quella atavica tendenza conservatrice, che opta per una rilettura dei nuovi canoni lessicali e per un loro accostamento ad elementi tipici dell’ architettura mediterranea. Si può dunque parlare di un’esperienza che acquisisce toni originali in quanto si lega alla riscoperta del concetto di sicilianità. Il confronto tra l’Istituto tecnico nautico, del 1948, e il posto di ristoro sul Monte Pellegrino, del 1954, dello stesso architetto, evidenzia chiaramente la mutata concezione architettonica. 

Tuttavia l’idea di dover fare (o di non dover fare) un’architettura organica, che si contrappone a quella definita razionalista, porta con sé anche aspetti piuttosto negativi, poiché abitua a pensare la tradizione moderna in termini indebitamente ristretti. Infatti, il dibattito si sposta inavvertitamente sui vecchi temi culturali e la storia dell’ architettura moderna appare allineata con quella dell’architettura antica come una successione di indirizzi formali, che si soppiantano tra loro all’infinito 10. 

La vastità degli stimoli formali, sia essi riferiti all’ architettura internazionale, sia riferiti a quella mediterranea, porta, in antitesi con le istanze iniziali, a trattare ogni tema più come occasione isolata che come proposta per il rinnovamento organico della città. Si apre così una nuova strada, che è quella della ricerca della perfezione qualitativa della singola opera o del singolo complesso. 

La momentanea conciliazione di tradizione e modernità mostra, a distanza di tempo, che solo una parte di questa attività vale come contributo alla soluzione di alcuni problemi della città moderna – la museografia11, l’ambientamento di nuovi edifici nei quartieri antichi monumentali, la ricerca di una identità regionale -, mentre alcune limitazioni implicite hanno pesato negativamente sulle esperienze successive in misura notevole. Tra queste, l’ abitudine di trasferire l’esigenza della continuità storica sul terreno formale e spaziale e soprattutto la difficoltà di affrontare sopra una determinata scala i problemi che condizionano sempre più urgentemente la vita della città moderna, quindi la mancata continuità tra l’impegno architettonico e urbanistico. Questa diviene il punto cruciale della cultura architettonica, non solo siciliana, che mostra i propri esiti nella scarsa vivibilità di molte città italiane. 

Raimondo Piazza

NOTE 

1 M. Piacentini, Architettura doggi, Roma 1930, p. 34. 
2 M. C. Ruggieri Tricoli, Salvatore Caronia Roberti architetto, Palermo 1987, p. Il. 
3 M. Capobianco. Gli anni quaranta. “La via più dura» dellarchitettura italiana, in M. Capobianco (a cura di ), Architettura italiana 1940·1959, Napoli 1998, pp. 61·145, cit. p. 70. 
4 E. Sessa, Salvatore Caronia Roberti. Opere e poetica, Dipartimento di Storia e Progetto dell’Università degli Studi di Palermo, «Bollettino della Biblioteca», n. 2, gennaio-dicembre 1993, pp. 130·133, cit. p. 131. 
5 Cfr. C. Conforti, Roma, Napoli, Sicilia, in F. Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura italiana, il secondo Novecento, Milano 1997, pp.176-241, cit. pp. 178-179. 
6 V. Fontana, Profilo dell’architettura italiana del Novecento, Venezia 1999, p. 219. 
7 E. Caracciolo, il teatro marittimo di Palermo, «Urbanistica», n. 3, gennaio-marzo 1950, pp. 75-77, cit. p. 77. 
8 Ibidem. 
9 G. Pirrone, scheda «Istituto tecnico nautico», in Architettura del XX secolo in Italia, Genova 1971, pp. 122· 123, cit. p. 122. 
10 Si veda a tal proposito: B. Zevi, Saper vedere larchitettura, Torino 1948. 
11 Si veda, per esempio, la sistemazione museale di palazzo Abatellis a Galleria nazionale di Sicilia, realizzata a Palermo da Carlo Scarpa negli anni 1953-54.

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 22-26.




 Architetti dei «centri minori» in Sicilia:  Salvatore Costanzo 

Giancarlo Lunati, presidente del Touring Club Italiano, definisce «centri minori» quelle città che, seppur di piccole dimensioni, hanno svolto una funzione di controllo del territorio circostante ed espresso significativi momenti di civiltà urbana. Qui si riscontra spesso una considerevole tipicità in termini architettonici e urbanistici, dovuta alla presenza di individui dotati di ingegno e sensibilità che, per motivi diversi, scelgono di operare lontano dalla ribalta delle grandi città. Di costoro, talvolta magistrali registi delle metamorfosi dei luoghi, la storia con difficoltà tenta di ricostruirne criticamente l’operato, anche per la dispersione del materiale documentario. 

La definizione di Lunati calza perfettamente a Mussomeli, «centro minore» della provincia di Caltanissetta, noto soprattutto per il trecentesco castello chiaramontano. 

Qui, tra i protagonisti della scena urbana si distingue l’architetto Salvatore Costanzo; attivo per gran parte dell’Ottocento – scompare il 29 gennaio 1889, all’età di settant’anni -, è tra gli ultimi professionisti ad operare in contatto con una committenza colta ed esigente, attenta ai problemi del «decoro urbano», prima che le modificazioni del centro abitato e del territorio divenissero preda di speculatori e di politici privi dei più elementari strumenti culturali e morali. 

Le fonti letterarie su Costanzo ne evidenziano1 il ruolo incisivo assunto all’interno di quel processo tendente alla modernizzazione di Mussomeli, consono ai progressi urbanistici, architettonici e tecnici di un secolo caratterizzato da profondi cambiamenti in molti settori della società, della scienza e dell’ arte2. 

Si può ritenere che la formazione accademica dell’architetto avvenga a Palermo tra la seconda metà degli anni trenta e i primi anni quaranta del sec. XIX. In questo periodo, la cattedra di architettura civile è tenuta da Carlo Giachery3, che dà un taglio tecnico ai suoi corsi, e affronta anche la trattazione dell’opera di Francesco Milizia (1725-98), uno dei più significativi teorici del Neoclassicismo. 

Il percorso universitario fornisce all’architetto mussomelese anche quelle basi culturali che lo inducono, certamente per inclinazione personale, ad essere al contempo pittore, cesellatore e poeta, nonché cultore di letteratura e storia, di scienze fisiche e naturali4. 

L’ambito cronologico in cui si forma ed opera Costanzo è certamente tra i più complessi della storia dell’architettura: da un lato, le scoperte archeologiche conducono al risveglio del classicismo; dall’altro, le evoluzioni della tecnica, l’adozione di nuovi materiali costruttivi come la ghisa e il vetro, la necessità di nuove tipologie edilizie adatte alle nuove istanze del progresso, spingono verso la formazione di nuovi linguaggi espressivi in grado di rispondere pienamente alle esigenze della vita contemporanea. L’Ottocento, pertanto, oscilla tra pionieristiche fughe in avanti e consolatori rifugi nel passato, che nella seconda metà del secolo sfoceranno nel vario e ampio formalismo architettonico dello storicismo e dell’eclettismo, talvolta con abili compromessi. Giovan Battista Filippo Basile e Giuseppe Damiani Almeyda riassumono perfettamente le contraddizioni dell’epoca5. 

Come molti progettisti che operano nell’Ottocento, Costanzo tiene disgiunta la nozione di arte da quella di tecnica, per cui la sua abilità ingegneristica si applica ad opere di carattere utilitario, altrimenti viene dissimulata in una veste architettonica d’ispirazione prevalentemente classica. 

Tra il 1867 e il 1882 l’architetto si cimenta in opere che denotano approfondite conoscenze nel campo dell’idraulica: la riforma dell’impianto idrico comunale, il pubblico lavatoio, le fontanelle a getto intermittente6. 

Nel 1871 si inaugura la strada che collega Mussomeli con la costruenda stazione ferroviaria di Acquaviva Platani; nel 1882, lungo tale strada, ad appena un chilometro fuori dall’abitato, Costanzo realizza la cappella funeraria Sorce-Malaspina, dedicata alla Madonna del Riparo. Si tratta di una piccola costruzione in pietra a faccia vista, a pianta quadrata, sormontata da una cupola emisferica, con ingresso a fornice affiancato da paraste ioni che; la paraste, due per lato, danno solidità visiva ai cantonali e reggono una trabeazione che si svolge lungo il perimetro. Sopra la cornice, in asse con le paraste, volute lapidee a quarto di cerchio creano un felice contrasto con la curva della cupola. I fondamenti storici – e quindi culturali – che qui presuppongono l’attività di progettazione rimandano ad esempi romani e rinascimentali. 

Il rigore geometrico dell’impaginato architettonico conferisce una solennità all’opera che ben si adatta a perpetuare la memoria delle virtù umane di chi vi è sepolto: nella cappella riposa, infatti, il cav. Vincenzo Sorce Malaspina, fondatore dell’omonimo orfanotrofio. Nella parte sommitale, oltre all’opera di Palladio, il riferimento più prossimo che Costanzo adotta è presumibilmente il gymnasium dell’ Orto botanico di Palermo, progettato da Leon Dufourny nel tardo Settecento. L’accostamento della cupola alle volute con opposta curvatura, infatti, ricorda da vicino l’opera palermitana dell’ architetto francese. Comunque sia, Costanzo dimostra di assimilare nella propria architettura la lezione della storia che, attraverso una considerevole abilità grafica nell’articolazione delle forme e un forte senso di equilibrio nella composizione volumetrica, trascende il passato con nuovi apporti non privi di originalità. 

Analoghe considerazioni possono farsi per il palazzo del barone Mistretta, in piazza Umberto I. 

Il palazzo Mistretta, anch’esso realizzato in muratura portante con pietra a faccia vista, si articola su tre livelli: piano terra, piano nobile e mezzanino. Il prospetto sulla piazza riflette l’uso interno dei piani ed è quindi tripartito: il piano terra, destinato a magazzini, si presenta con una teoria di aperture a fornice; l’ingresso principale è inserito in un leggero risalto che comprende tutte le elevazioni. Il piano nobile è articolato da coppie di paraste ioniche e lesene pensili, alternate a balconi a petto in asse sia con le aperture sottostanti sia con quelle del mezzanino, ed è concluso da una evidente cornice che lo separa dal piano superiore, presumibilmente destinato alla servitù. 

La tipologia trova ancora echi nell’arte del Cinquecento, ma l’astratto rigore geometrico del secondo rinascimento, che Costanzo adotta nella cappella Sorce-Malaspina, ha qui lasciato il posto ad un pregevole virtuosismo grafico, in particolare nelle mostre e nei decorativi rilievi sopra i balconi; non si può escludere che sia stata la stessa committenza a richiedere una maggiore enfasi formale quale simbolo evidente di un solido status economico. Osservando il palazzo con attenzione, si nota come il risalto centrale paradossalmente non sia al centro. Ovvero, sul lato destro si trovano due moduli di balconi compresi tra paraste binate, mentre sul lato sinistro si trova un unico modulo. Tuttavia, esaminando la cornice del lato destro, si nota che rigira ad angolo retto per attestarsi come limite laterale del palazzo. La cornice del lato opposto, invece, prosegue rettilinea per un breve tratto oltre le ultime paraste, segno che la costruzione sarebbe dovuta continuare nel sito oggi occupato da un altro fabbricato, il cui fronte equivale proprio ad un modulo del palazzo. Anche nel paramento lapideo è evidente la predisposizione all’ammorsamento con altra struttura laterale, cioè con il modulo del palazzo forse originariamente prevista, ma non realizzata. Non sappiamo per quale motivo il palazzo venga ridimensionato; fortunatamente, il risalto centrale, poco accentuato, rende meno evidente lo squilibrio della facciata, che rimane, però, degna di merito per il rapporto proporzionale tra piano terra e piano nobile e per l’eleganza degli intagli, pur notandosi qualche forzatura compositiva proprio nell’innesto del risalto sulla facciata. Questo palazzo è solo il prologo dell’intervento che più di qualunque altro caratterizza urbanisticamente l’espansione di Mussomeli extra moenia: «la bella e moderna via Palermo», per citare l’articolo del 1955 di Raimondo Piazza sull’architetto mussomelese. 

L’idea di un tessuto stradale che costituisse la matrice della nuova espansione edilizia non è estranea alla cultura siciliana: validi esempi si riscontrano a Palermo nella settecentesca addizione regalmicea o nella via della Libertà che si realizza a metà dell’Ottocento7. E certamente sulla base di questa nuova cultura urbanistica che Costanzo immagina la strada capace di regolare la nuova espansione all’abitato verso est e collegarsi con la provinciale che porta alla stazione ferroviaria e alla statale Palermo-Agrigento. Ma maggiori pregi di questa nuova strada si ritrovano soprattutto nelle qualità dello spazio, nelle proporzioni complessive della sezione, nel confluire elegante verso la piazza Umberto I. 

Nonostante l’importanza architettonico-urbanistica, l’approvazione del nuovo tracciato stradale non è immediata. Pare che l’architetto trovi forti resistenze non solo da parte dei proprietari delle aree da espropriare, ma persino da parte dell’ Amministrazione comunale, che difficilmente può comprendere lo spreco di tanto suolo edificabile. Superate le resistenze e i particolarismi, l’opera viene realizzata. Purtroppo oggi, il valore di exemplum viene trascurato: l’attuale sviluppo urbanistico dell’abitato mette in evidenza soprattutto atteggiamenti speculativi che, per soddisfare interessi personali, ignorano quella che è la più elementare istanza di una società civile: la qualità ambientale. È proprio vero, come scrive Giuseppe Spatrisano, che «ogni epoca esprime la propria condizione materiale, morale e spirituale [ … ] nell’architettura, per quel rapporto fisico e profondamente umano che essa ha con la società»8. 

I lavori di cui si è detto costituiscono solo frammenti dell’intensa attività progettuale dell’ architetto Costanzo. Ad esempio, nel 1867, per tutto l’anno solare, l’architetto si occupa delle «fabbriche di campagna dello Stato di Mussomeli di proprietà degli eredi del principe di Trabia»9. Un documento dello stesso anno conferma la sua presenza anche nel castello, per interventi di manutenzione10. Nel 1870 è incaricato dal Comune del completamento della piazza Sant’Antonioll . Nel 1872, in esecuzione della legge del 1865 sulla sanità pubblica, che vieta la tumulazione dei defunti nelle chiese dell’ abitato, l’architetto redige il progetto per la costruzione del cimitero. Il complesso funerario comprende anche la costruzione di una cappella, di una stanza mortuaria e una per il custode, cui si è accennato. 

Nel 1883 Costanzo si occupa del progetto di rifunzionalizzazione dell’ex convento di San Domenico, destinato a scuola elementare. Giuseppe Sorge, nelle sue Cronache, scrive che l’architetto, nell’esercizio professionale, dirige lavori di costruzione per conto del municipio, delle chiese, dell’amministrazione Trabia e di altra committenza12. 

Possiamo supporre, pertanto, la sua influenza, se non proprio il suo intervento, nei prospetti delle chiese di Sant’Enrico e soprattutto di Sant’Antonio, ascrivibili agli anni della sua attività e stilisticamente coerenti con la sua poetica. La facciata della chiesa di Sant’Antonio, ad esempio, oltre ad essere ispirata morfologicamente e sintatticamente all’arte del Cinquecento, presenta in sommità quelle singolari volute a quarto di cerchio che abbiamo già osservato nella cappella Sorce-Malaspina. Si evidenzia in queste opere una predilezione per l’esibizione dei materiali naturali, soprattutto la pietra, modellata con singolare maestria. 

L’opera di Salvatore Costanzo connota profondamente l’attuale morfologia dell’abitato. I risultati ottenuti nel campo della tecnica, del restauro, dell ‘ architettura, dell’urbanistica, dell’ arredo urbano, almeno nell’accezione ottocentesca dei termini, impongono uno studio approfondito della sua operal3, congiuntamente a quella di molti altri architetti operanti all’ombra di «centri minori». In questo modo emergerebbe un quadro più esaustivo di quello che, senza dubbio, può essere considerato tra i più complessi e contraddittori, nonché fecondi, periodi della storia dell’architettura: l’Ottocento. 

Raimondo Piazza

NOTE 

1 La prima pubblicazione di rilievo, dove si trovano notizie sull’architetto Costanzo è dello storico Giuseppe Sorge, Mussomeli nel XIX secolo, 1812-1900, Palermo 1931; una seconda è dello studioso Raimondo Piazza, La bella e moderna via Palermo, testamento ideale di Salvatore Costanzo, «Giornale di Sicilia», 3 setto 1955, p. 5. 
2 Pur non volendosi sminuire la dimostrata attendibilità degli autori, poiché le notizie riportate nelle fonti bibliografiche non sono riconducibili a documenti di archivio, saranno presi in considerazione solamente i dati ritenuti attendibili sulla paternità e la datazione di alcuni progetti. 
3 La cattedra di architettura tecnica viene affidata, nel 1837, all’appena venti sei enne Carlo Giachery, che la manterrà fino al 1852. 
4 R. Piazza, La bella e moderna , cit. 
5 Lo stesso Costanzo dimostrerà di cogliere questa valenza revivalistica nella modesta chiesa del cimitero di Mussomeli (1872), dove mutua elementi desunti sia dall’ architettura gotica sia da quella paleocristiana, forse con l’intento di conferire una maggiore spiritualità ad un luogo così sacro. Allo stato attuale degli studi, la chiesa del cimitero costituisce soltanto l’eccezione di una visione prevalentemente classicista dell’architettura. 
6 Il primo intervento in cui Costanzo mostra approfondite conoscenze tecniche e di idraulica è la riforma dell’impianto idrico comunale attraverso una nuova conduttura d’acqua che dalla contrada Bosco confluisce in una fontana posta nel centro dell’abitato di Mussomeli, dinanzi al palazzo Trabia, oggi piazza Roma (1867). L’architetto sostituisce la precedente conduttura in tubi di argilla con elementi in ferro fuso, che possano resistere alla pressione di ben sedici atmosfere, importati direttamente dell’Inghilterra, all’avanguardia in Europa. Il percorso studiato dall’ archi tetto per la nuova conduttura attraversa ambiti irregolari e scoscesi, come i burroni nella zona dell’ Annivina, conseguendo una sostanziale riduzione della lunghezza complessiva delle tubazioni rispetto all’impianto precedente, che portava l’acqua nell’attuale piazza Umberto I. Alcuni anni dopo, Costanzo progetta il pubblico lavatoio presso la fontana dell’Annivina (1872), nel periodo in cui la zona viene dotata della strada carrabile di circonvallazione. Il lavatoio merita particolare interesse per i rilievi lapidei che vi sono integrati. Nel 1874, poiché l’Amministrazione comunale vuole rendere agevole agli abitanti la presa dell’acqua per uso domestico, egli progetta delle fontanelle a getto intermittente che vengono collocate in vari punti del paese e in cui confluisce, attraverso diramazioni realizzate con tubi in ghisa, l’acqua della condotta principale. Altra conduttura viene realizzata nel 1882, insieme a un abbeveratoio nella «via del Signore», presso la chiesa di Santa Maria. 
7 Si consideri la riqualificazione parigina con arterie spaziose e rettilinee ad opera del barone Haussmann, prefetto della Senna dal 1853 al ’69, che assume in Europa un valore ecumenico. In Italia sono poche le città dove non si realizzi una strada in linea retta fra il centro e la stazione ferroviaria: via Nazionale a Roma, via Indipendenza a Bologna, via Roma a Torino e Palermo, mentre nella Firenze capitale d’Italia l’intervento è ancora più comprensivo. 
8 Cito in Vincenza Balistreri (a cura di), con scritti di Raimondo Piazza e Agnese Sinagra, Giuseppe Spatrisano architetto (1899 – 1985), Palermo 2001. 
9 Archivio di Stato di Palermo, Fondo Trabia, Serie A, voI. 509: comprende fasc. 1-2-3-4, Mussomeli. Cautele e spese 18561868, fasc. 4, f. 38, anno 1867: «Nota di giorni di servizio prestati dall’architetto Salvatore Costanzo per le fabbriche di campagna dello Stato di Mussomeli di proprietà delli eredi del Principe di Trabia da gennaio a dicembre». 
10 Ivi. 
11 Archivio Storico di Caltanissetta, Deliberazioni comunali, delibera 1085 della Prefettura di Caltanissetta, 11 luglio 1970. 
12 G. Sorge, Mussomeli nel sec. XIX. 1812-1900. Cronache, Palermo 1931, p. 139. 
13 Molti sono, infatti, i punti ancora da chiarire: ad esempio, ci si chiede perché i suoi primi interventi documentati risalgano al 1867, quando l’architetto ha quasi quarant’anni; qual è stata la sua attività, anche progettuale? In quale ambito territoriale opera? 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 33-38.




 L’osservatorio astronomico di Palermo 

Chiara testimonianza scientifica e patrimonio storico, l’osservatorio astronomico di Palermo si eleva su un’ala dell’antico Palazzo Reale, valida immagine che, alla fine del XVIII secolo, rappresentò il mezzo più significativo dell’astronomia moderna italiana. 

Con la determinazione del moto proprio di oltre 1000 stelle e, nel 180l, con la scoperta del primo asteroide, Cerere, collocato in un’orbita tra Marte e Giove, l’astronomo abate Giuseppe Piazzi portò l’osservatorio di Palermo all’attenzione del mondo scientifico di allora, facendogli occupare uno dei primi posti in Europa nella ricerca e studio del cielo settentrionale. 

Piazzi nacque nel 1746 a Ponte in Valtellina (Sondrio) e nel 1789 fu il primo ad organizzare a Palermo l’osservatorio astronomico. La scoperta di Cerere gli procurò una vasta simpatia e particolarmente quella dell’ammiraglio inglese William Hemy Smyth, che si trovava a Napoli per alcuni lavori di idrografia. Nel 1819, lo stesso ammiraglio diede ad un suo figlio il nome di Charles Piazzi Smyth, il quale divenne, in seguito, regio astronomo per la Scozia e direttore dell’osservatorio di Edimburgo; a lui si attribuisce il calcolo delle misure della piramide di Cheope. Si sottolinea che l’istituzione dell’osservatorio astronomico di Palermo sollecitò l’interesse delle altre città italiane, tanto da dare un impulso alla costruzione di una serie di alquanto modesti osservatori, aggregati alle rispettive Università di Bologna, di Pisa, di Torino, di Milano, di Padova e di Firenze. 

Oggi, uno dei più importanti cataloghi stellari è quello pubblicato nel 1803 da Piazzi, in edizione riveduta nel 1814 e messo in commercio nel 1933, dopo essere stato sottoposto ad un lungo e laborioso esame e poi ridotto da Francesco Porro per le sole ascensioni rette e, ulteriormente, completato nelle declinazioni. 

Giova precisare che 1’osservatorio di Palermo nacque su un progetto scientifico elaborato nel 1786, contemporaneamente alla istituzione di unacattedra di Astronomia presso l’Accademia dei Regi Studi1 e costruito, in appena otto mesi di lavoro, nella Torre di S. Ninfa, o Pisana, del Palazzo Reale. Ufficialmente fondato il l° luglio 1790, l’osservatorio s’impose subito come uno dei migliori esistenti in Europa, sia per la sofisticata strumentazione che per le felici ricerche scientifiche. Dopo la morte dell’abate Giuseppe Piazzi, ebbe la direzione dell’osservatorio di Palermo il suo stretto collaboratore Niccolò Cacciatore e dopo, nel 1842, il di lui figlio Gaetano. 

Nel 1853, a causa dei moti rivoluzionari del 1848, l’astronomia in Sicilia e bassa Italia subì un arresto, risvegliandosi soltanto per opera dell’astronomo Domenico Ragona che, nel 1855, acquistò il rifrattore equatoriale Mertz di 25 cm. di apertura, attualmente esistente nella cupola grande della Torre Pisana. Con l’unificazione italiana, l’astronomo Gaetano Cacciatore, prima allontanato dall’incarico e incarcerato (1849), quale rivoluzionario, venne reintegrato nella carica di direttore dell’osservatorio di Palermo e riprese la sua intensa attività, sviluppandola, ulteriormente, nelle tre sezioni, di Astronomia, Meteorologia ed Astrofisica. Nella sezione di Astrofisica, dal 1863 al 1879, si distingue il primo astronomo aggiunto Pietro Tacchini, il quale, dopo circa dieci anni di giacenza in magazzino, riesce a montare (1865) l’equatoriale Mertz e a dare inizio, primo in Italia, allo studio spettroscopico delle protuberanze solari. La figura di Pietro Tacchini s’inserisce fra quelle appartenenti a scienziati di fama mondiale, specialmente per essersi trovato fra i sostenitori e poi fondatori degli spettroscopisti italiani, che diedero origine all’attuale «Società Astronomica italiana» (S.A.It.). 

Purtroppo, l’osservatorio di Palermo è una costruzione che sempre è stata soggetta ad oscillazioni quotidiane per la sensibile escursione termica, dalla notte al giorno e viceversa, nonché a deviazioni del piano meridiano; elementi questi che influenzarono gli errori sulle osservazioni fatte dal Piazzi e che oggi si assommano alle cattive condizioni ambientali esterne ed interne. 

I palermitani, passando per Piazza Indipendenza e per le aree adiacenti, ammirano l’argentea cupola astronomica di Palazzo Reale e si domandano che se n’è fatto del vecchio e famoso osservatorio e se ancora oggi ha la sua giusta funzione nello studio della sfera celeste accanto ad altri osservatori nazionali. 

La risposta, purtroppo, sarebbe molto deludente per il profano, anche se confortata da vecchi attributi di gloria. Allo stato attuale, anche quando se ne avesse la volontà, non si potrebbe intraprendere alcuno studio stellare, neppure a livello didattico, ad eccezione di osservazioni visuali dei grossi corpi solari, come la Luna, Venere, Giove e Saturno. A questa limitazione concorrono soprattutto l’inquinamento atmosferico e le abbondanti luci cittadine. 

Nonostante quanto si è detto, la cupola più grande (m. 12 di diametro), continua ad ospitare, con muta dignità, il già menzionato rifrattore di di 25 cm., mentre quella più piccola, un recente Schmidt-Cassegrain di 35 cm. di diametro, che viene usato dall’Istituto universitario. 

Il vecchio e prezioso «Cerchio di Rarnsden», costruito dallo stesso Ramsden, sotto gli occhi del Piazzi e con cui l’abate aveva studiato le stelle e scoperto Cerere, illuminato da una flebile lampada elettrica, resta relegato in un angusto ambiente, immeritato destino di un valoroso guerriero, chiuso in prospetto da una impolverata e grande vetrata, attraverso cui il lucente ottone dello strumento viene intravisto dall’ammirato nostalgico. 

Ma la tristezza non s’addice ai giovani scienziati che dirigono l’osservatorio di Palermo, tanto che, negli ultimi cinque anni, lo studio della fisica solare rappresenta l’unico orientamento tradizionalistico dell’osservatorio astronomico che, sotto la guida degli illustri astrofisici G. Vajana e S. Serio, non può non aspirare ad una rapida rimonta per riprendere il posto fra gli osservatori più importanti d’Europa. Certamente, un’adeguata attrezzatura operativa, dislocata in area montana del palermitano, dove un fotometro a 4 colori potrà scandagliare il cielo nel lontano infrarosso, stabilirà i meriti che competono alla specola siciliana. 

A. Pezzati 

1 L’Accademia de’ Regi Studi era un settore della pubblica istruzione, organizzato dalla «Deputazione de’ Regi Studi», organo creato dal governo borbonico nel 1778. 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 43-45.




Ponzio Pilato: vile indeciso o illustre magistrato? 

 Un personaggio da sempre discusso e criticato, accusato di viltà e di aver impunemente fatto condannare e crocifiggere nientemeno che il Cristo, può all’improvviso essere riabilitato? La risposta è senz’altro negativa, se si analizza la questione impiegando categorie contemporanee e notizie vulgate, se si chiudono gli occhi della mente per non-volontà di approfondire gli studi riguardo al personaggio o per la mancanza del coraggio necessario per accettare o affermare una teoria nuova e rivoluzionaria. In tal modo non si accettano le verità né si smentiscono le bugie, ma si imbrattano solo fogli di carta con l’illusione di aver scritto qualcosa di nuovo, ma, nella maggior parte dei casi, non si fa altro che perpetuare ignobili calunnie o presunte verità. È più opportuno, invece, chiedersi le ragioni degli eventi e dei comportamenti, cercando testimonianze attendibili che illuminino, al di là di ogni dogma o pregiudizio, la mente non solo dello studioso, ma anche dell’uomo della strada. 

Nel caso di Ponzio Pilato, il preambolo appena terminato era addirittura indispensabile, perché ci si trova in presenza di un personaggio discusso e bersagliato come “una testa di turco contro cui lanciare palle di stracci” per non aver avuto la forza, il coraggio o l’autorità di far assolvere Gesù. È opportuno, allora, riprendere la questione ab imis fundamentis, secondo i dettami della Filologia Sperimentale e, facendo tabula rasa di tutto ciò che si sa (o che si è accettato finora). cercare di ricostruire l’identità dell’uomo e il carattere del magistrato. 

Dell’esistenza di Ponzio Pilato si è assolutamente certi a causa di una epigrafe ritrovata nel 1961 durante gli scavi del teatro romano di Cesarea di Palestina dalla Missione Archeologica Italiana diretta da Antonio Froval. 

L’iscrizione, mutila sul lato destro e sinistro, dice: 

………..TIBERIEVM 
…….TNS PILATVS 
……ECTUS IVDAEE 
……E . 

Il filologo sperimenttale Davide Nardoni ricostruisce l’iscrizione, traducendo: “Ponzio Pilato Prefetto della Giudea, levava sacello in onore dell’Imperatore Tiberio nella città di Cesarea Marittima, sede della Prefettura di Giudea”2. 

Del Prefetto di Giudea conosciamo il cognome (nomen): Pontius e il soprannome (cognomen): Pilatus, ma non il nome proprio (praenomen). 

Il cognome Pontius consente di inserirlo nell’antica famiglia Pontia, di chiara origine sannitica, come è testimoniato da due iscrizioni presenti nella città d’Isernia3. Il cognomen Pilatus indica che Ponzio era stato un Pilus, ossia un Centurione Primipilare severissimo, poiché usava il pilum, il giavellotto e non il ramo di vite per esercitare il suo diritto e dovere di punire i soldati imbelli, percotendo le loro natiche scoperte4. Ciò consente già di delineare alcuni caratteri del personaggio: era Centurione Primipilare; consente, inoltre, di smentire con assoluta certezza la prima accusa, quella di viltà, infatti la carica di Centurione Primipilare si guadagnava sul campo, combattendo con valore degno di decorazione in almeno trenta occasioni. A ricoprire tale carica i Centurioni giungevano crescendo di grado, dal decimo al primo manipolo degli astati, dal decimo al primo manipolo dei principi, dal decimo al primo manipolo dei triari. 

Il Centurione Primipilare, oltre ad essere il capo di tutti i centurioni, aveva grandissima autorità ed era tenuto in conto di “cavaliere” (Eques)5. Ciò gli consentiva di aspirare ed, eventualmente, di ricoprire la carica di Prefetto di Giudea, che era risezvata agli uomini di rango equestre. 

Secondo quanto è dato sapere, Pilato conosceva tre lingue: il latino appreso da bambino, il greco appreso in età scolare e l’aramaico appreso durante il servizio militare in terra semitica6. Questa circostanza e l’indiscutibile valore di condottiero, oltre alle favorevoli presentazioni all’Imperatore da parte degli illustri parenti che frequentavano il Palatium, Ponzio Nigrino e Ponzio Fregellano, indussero Tiberio ad affidare a Pilato la Prefettura di Giudea. 

I Prefetti che precedettero Pilato furono Coponio (in carica dal 6 al 9 d. C.), Ambibulo (in carica dal 9 al 12 d.c.), Rufo (in carica dal 12 al 15 d. C.) e Grato (in carica dal1S al26 d.c.). Come si può vedere, se si esclude l’ultimo, nessuno di essi rimase in carica più di tre anni, a testimonianza della severità con cui l’Imperatore giudicava i suoi amministratori e i suoi magistrati. Il “cavaliere” Ponzio Pilato rimase in carica, invece dal 26 al 36 d. C., per ben dieci anni, e ciò prova che egli seppe bene interpretare la categoria romana suprema: l’imperium. Tale categoria che in origine indicava un “atto concreto di parificazione”7 e non il 

L’imperium, parte costitutiva della patria potestas era retaggio dei patres familias che morendo lo lasciavano al figlio maggiore o erede con l’ultimo bacio. 

I “padri di famiglia” che esercitavano l’Imperium come “potatori” nella vigna e come “aratori” nei campi, lo stesso imperium: “autorità suprema” che li rendeva sacri, esercitavano nella Curia nell’interesse di Roma, esercitavano nei castra sulle Forze Combinate Romane nell’interesse superiore della Pax Romana. L’obiettivo dell‘Imperium esercitato nelle vigne e nei campi era la “parificazione” delle viti potate ad occhi pari nei due tralci perché portassero uve per il nuovo vino, era la “parificazione” del terreno con aratro, erpice e rastrelli perché portasse buon grano. 

L’Imperium esercitato dai patres familias nell’ambito familiare mirava ad assicurare la “parità” dei diritti e dei doveri tra tutti i componenti: i figli liberi e i figli degli schiavi venivano educati alla “pari”: sub imperio matris. 

L’Imperium esercitato dagli Imperatores tra i legionari mirava a rendere “pari” le Forze Combinate Romane davanti alle fatiche di guerra, davanti al bottino di guerra, manubiae, davanti ai premi, alle promozioni e alle pene. 

L’Imperium esercitato nella sfera politica sui popoli “interni”, all’Orbe romano, mirava a dare ai popoli la “parità” dei diritti e dei doveri, concedendo a quanti se ne dimostravano degni la cittadinanza romana: ius civitatis.

comando, era esercitata nei riguardi di tutti coloro che, obbedienti alle leggi di Roma, si dimostravano degni di godere dello ius civitatis. L’atto di aggregazione era considerato un principio fondamentale della politica di diffusione dell’Impero; infatti, secondo quanto dice Virgilio nell’Eneide, lo stesso Giove aveva proclamato alla figlia Venere la missione assegnata dal Fatum a Roma e ai Romani: agire in vista della “parificazione” dei popoli: Imperium sine fine dedi8. 

La missione eterna assegnata dal Fatum a Roma veniva ripetuta dal padre Anchise al figlio Enea, nel lucòre dei Campi Elisi: 

Tu regere imperio populos, Romane, memento! 

“Romano ricorda di guidare i popoli al parime”9. 

Lo stesso padre Anchise al figlio Enea svelava le tre “arti” esercitando le quali Roma avrebbe dato la “parità” del diritto a tutti i popoli: 

1) Paci imponere morem10; 
2) Parcere subiectis 11; 
3) Debellare superbos12. 

I Romani, agendo in accordo a tal direttive di imperium, cercavano sempre e innanzitutto di applicare la prime e la seconda con l’intenzione di stabilire le condizioni, affinché potesse regnare la pace e di rendere produttivi i popoli sottoposti. Solo quando le prime due risultavano inefficaci, solo quando la pervicacia non poteva essere vinta con altri mezzi, Roma ricorreva alla debellatio, annientando la tracotanza con azione bellica violentissima. Si sa che l’applicazione della prima e della seconda “arte” d’imperium era lasciata alla discrezione dei vari governatori, amministratori e prefetti dei territori “aggregati”, mentre la terza poteva essere decisa solo dal potere centrale. 

La temibile debellatio, come la storia c’insegna, fu applicata nei riguardi del popolo giudeo tramite le legioni stanziate in Siria, che, nell’anno 70, rasero al suolo la città di Gerusalemme. Ciò indica con chiarezza quanto difficile fosse il compito di Pilato, il quale venne a trovarsi tra gente che nulla faceva per farsi intendere dallo straniero e che nulla faceva per intendere lo straniero. Pilato veniva a trovarsi tra gente che non poteva amare il “barbaro” venuto da città lontana ad amministrare la terra e il popolo che riconosceva una sola autorità, quella dell’unico dio dei Padri: Jahwéh. 

Pilato veniva a trovarsi tra gente che nulla avrebbe fatto per facilitare al Prefetto il suo compito; tra gente sempre pronta a mandare rapporti a Roma per levare lagnanze contro la condotta del prefetto davanti all’Imperatore. 

II compito posto sulle spalle del Prefetto mandato da Roma, era gravoso. 

Il compito di amministrare e reggere la Giudea comportava incombenze per il Prefetto, che si concretizzavano in atti che a tempo e luogo dovevano essere fatti. 

Il compito del Prefetto di Giudea erano uguali ai compiti di tutti i governatori: alcuni compiti solo dei “prefetti” della Giudea: 

l) Risiedere a Cesarea Marittima: 
2) Salire a Gerusalemme durante la Pasqua; 
3) Cooperare con le autorità locali; 
4) Controllare i “pubblicani”; 
5) Inculcare il culto dell’Imperatore; 
6) Mantenere l’ordine pubblico; 
7) Tenere in ordine l’archivio; 
8) Dare l’allarme al governatore della Siria; 
9) Chiedere delucidazioni a Roma; 
l0) Aggregare la Giudea a Roma; 
11) Fare i lavori pubblici; 
12) Conservare nella Baris i paramenti del Sommo Sacerdote; 
13) Vigilare sulla condotta del Sommo Sacerdote e sulle Autorità locali; 
14) Riscuotere le tasse per l’erario e per il fisco; 
15) Amministrare la giustizia(13. 

Appena assunta la carica di Prefetto, Pilato fece il suo ingresso in Gerusalemme di notte e ad insegne spiegate. Come dice giustamente il Nardoni14, tale gesto aveva due spiegazioni: 1) le insegne recanti l’immagine dell’Imperatore, alzate nella Città Santa costituivano “sacrilegio” intollerabile agli occhi degli israeliti della Madrepatria e “profanazione” agli occhi dei credenti della Diaspora; 2) Le insegne con l’immagine dell’Imperatore, piantate nel cuore di Gerusalemme, agli occhi di Tiberio, di Seiano Praefectus Praetorii, del Prefetto, dei legionari posti a difesa dell’Impero e di tutti i romani, costituivano il primo tentativo del Prefetto per fare accettare ad Israele Roma e per “aggregare” territorio e popolo all’Orbe romano. 

Con quel gesto Pilato, dimostrando la sua intenzione, chiariva la sua azione nella Giudea: rispettasse la Giudea Roma come Roma rispettava la Giudea sine ullo discrimine15: senza differenze, senza discriminazioni. 

In opposizione a tale gesto, gli Israeliti manifestavano il loro disappunto e il loro rigetto alla proposta di “aggregazione”, sostando per ben cinque giorni in pacifica dimostrazione davanti alla sede della Prefettura di Cesarea Marittima ed ottennero la rimozione delle insegne. Tiberio non batté ciglio, non criticò Pilato: egli stava tentando di applicare la prima direttiva d’imperium. 

A Pilato è stato anche fatto il rimprovero di essersi impossessato del Tesoro del Tempio, Korbonàs, per costruire l’acquedotto di Gerusalemme. Non è difficile smontare anche quest’altra accusa. Si sa, infatti, che il Korbonas16, che era stato costituito da tredici casse o ceste contenenti gli “scicli” della tassa del Tempio e delle elemosine si trovava nell’azarah, nel cortile delle donne, ossia nella parte più interna del Tempio, alla quale i Romani, Gentiles, Goyìm, “infedeli”, “miscredenti”, giammai sarebbero potuti pervenire senza compiere un grave atto di profanazione che il Sommo Sacerdote avrebbe immediatamente denunciato a Tiberio. Ciò non accadde. Neppure le fonti ebraiche Filone Giudeo e Flavio Giuseppe lamentano tale profanazione. La conclusione è, quindi, semplice: i Romani non avevano preso in modo coatto il Tesoro, ma lo avevano ricevuto dal Sommo Sacerdote Caifa, il quale, anche in altre occasioni, dimostrerà di intendersela politicamente con l’illustre funzionario di Roma. 

Il secondo tentativo di far accettare agli Ebrei la presenza di Roma, Pilato lo fece esponendo i clipei virtutis sul Palazzo di Erode, sede del Prefetto. Tali scudi non recavano l’immagine di Tiberio, ma solo la sua “nominatura”: 

Ti. Claudio Neroni, divi Aug. F., Imp.? 
Con.? Trib. Potest.? P.P. 

Anche ciò fu ritenuto un oltraggio dagli Israeliti, i quali ne chiesero l’immediata rimozione e, poiché Pilato non esaudì tale richiesta, gli stessi inviarono un rescritto a Tiberio, il quale ordinò al suo magistrato di togliere i clipei. Pilato obbedì. L’Imperatore non rimosse il Prefetto dalla sua carica, dimostrando chiaramente di aver capito quale era la funzione politica della sua mossa. 

Altra accusa comune diretta al celebre Ponzio è quella di essere stato spietato e sanguinario. A sostegno vengono addotti due passi del Vangelo. Il primo è quello in cui Luca dice: “In quel tempo. alcuni presenti riferivano a Gesù di Galilea, il sangue dei quali Pilato aveva mescolato con il sangue delle vittime sacrificali” 17, volendo dire che le forze legionarie profanarono addirittura il Tempio massacrando i Galilei mentre compivano i loro sacrifici. Ancora il Nardoni18 fa giustamente ed acutamente notare che la voce greca “Thysiòn”, genitivo plurale di “Thysia”, indicando le “vittime da sacrificio”. non fa alcun riferimento al luogo del massacro. Lo stesso evidenzia che. poiché Israele era suddiviso «in tanti maamadoth con il compito di fare i sacrifici nel Tempio, questi quel giorno toccavano ad un maamad galileo. Salivano i rappresentanti del maamad galileo a Gerusalemme ma prima che entrassero nella Città Santa venivano affrontati dalla forza Romana in ricognizione perché allarmata. Romani e “Galilei” si affrontavano; dopo lo scontro, sul terreno “Galilei” uccisi e bestie sgozzate. Il massacro avvenne fuori del Tempio». 

L’altro episodio, riferito da Marco19, parla di una repressione operata dalle forze romane contro “ribelli che avevano commesso assassinii durante una rivolta”. 

Mi sembra che in entrambi i casi non si possa parlare di “sete di sangue” del “prefetto”, ma semplicemente di due azioni di polizia tese a preservare l’ordine pubblico. compito questo che. come si è già detto. era fondamentale per il Prefetto e per tutti i magistrati e governatori di Roma. 

Oltre agli eventi citati, se si fa eccezione per l’esecuzione di Cristo, di cui parleremo ampiamente. non si rilevano altri eventi di spicco in Giudea durante il mandato di Pilato e, sembra, durante il regno di Tiberio, che fu un periodo di quies, come sostiene l’insigne storico Tacito20. 

Prima di affrontare la difficile analisi delle vicende di Cristo, è opportuno ricordare che, al tempo di Pilato, vigeva la Magna Charta Libertatum, che Cesare aveva concesso agli Israeliti, come riconoscimento dei validi aiuti ricevuti durante il Bellum Alexandrinum, grazie ai quali era riuscito a vanificare gli attacchi di AchUla, il generale di Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra Filopàtore21. La Magna Charta riconosceva agli Israeliti il diritto di professare liberamente la loro religione sia nella Madrepatria che nella diaspora, nonché il diritto di giudicare ed eventualmente di condannare a morte (pena che le legioni avevano l’obbligo di eseguire), coloro che fossero risultati rei e condannati a tale pena dal Grande Sinedrio; il Bet Din haGadol. La forza romana e quella giudaica avevano, quindi, una chiara, rigida sfera d’azione entro la quale agire: l’una giudicare secondo lo ius romano, l’altra secondo la Torah, la Legge dei Padri. 

Quando mancavano pochi giorni alla Pesach, la Pasqua degli Ebrei, Gesù fu arrestato da una forza “combinata” di guardie del Tempio e di legionari dell'”Antonia” (n.d.r.: la torre Antonia, la Baris, fungeva anche da carcere locale), in presenza dell’ “accusatore”, Giuda22, che, come si sa, non poteva mancare, dal momento che la legge e la prassi romana non accettavano le denunzie anonime, segno di tirannia e corruzione23. Poiché Cristo non aveva commesso reati contro Roma, l’impiego di una forza “combinata” è giustificato dal tentativo di Pilato di mantenere l’ordine nella città di Gerusalemme in un periodo particolare, quello della Pasqua, in cui confluivano nella Città Santa, fedeli da tutte le comunità ebraiche, locali e non. La prova di ciò sta nel fatto che il Cristo fu condotto in giudizio dinanzi ad Anna24, suocero di Caifa e capo del Bet Din (Piccolo Sinedrio), e non dinanzi al magistrato romano. Inoltre, il fatto che Gesù non fu lapidato, come accadeva di solito in presenza di un sacrilego (perché tale era l’accusa contro Gesù, tacciato di essere un “bestemmiatore del nome di Dio e un nemico del Tempio” per essersi proclamato Rex Judaeorum e la lunga durata nella carica di Sommo Sacerdote di Caifa durante la Prefettura di Pilato, testimoniano una tacita intesa tra il Sacerdote e il Prefetto. Dopo la condanna del Bet Din, Gesù fu condotto, per un giudizio scontato, dinanzi a Caifa, Sommo Sacerdote in carica e capo del Bet Din haGadol25. Condannato, fu condotto da Pilato26, perché il Prefetto, nelle cui mani era lo ius gladii, procedesse all’esecuzione. Sappiamo, infatti, che i due Sinedri avevano la capacità giuridica di arrestare, processare e condannare chi si macchiava di colpa religiosa, ma non quella di eseguire la sentenza. Sappiamo anche che nessuna delle due parti, ebrea e romana, avrebbe tollerato che l’altra ne usurpasse le competenze. Il Sommo Sacerdote e i suoi complici sapevano che il Sinedrio, non avendo potere politico, non poteva pronunciare condanne su chi era accusato di aver commesso un reato politico. Sapevano anche che sarebbe stato perfettamente inutile portare Gesù dinanzi a Pilato accusandolo di colpa religiosa, perché lo stesso, senza infrangere le rispettive sfere di azione, li avrebbe liquidati dichiarando che l’accusa non era di sua competenza, Era indispensabile che Gesù venisse riconosciuto colpevole di reati politici, perché Pilato fosse costretto ad agire. Per queste ragioni, Gesù fu condotto dal Prefetto sotto l’accusa di essere un malefactor27. Dopo l’interrogatorio, Pilato proclamava l’innocenza di Gesù davanti a Roma con la frase: Ego nullam invenio in Eo causam. Il Prefetto, dichiarato Gesù innocente verso Roma. credendo di poter chiudere l’affare, chiedeva se poteva rimettere il libertà Gesù: “Re dei Giudei”.28 La risposta del popolo fu: Non Hunc, sed Barabbam/29. “Non Lui, ma Barabba!”. 

Come rileva giustamente il Nardoni30. •Giovanni non parla di un aut-aut posto dal Prefetto alla folla: Gesù o Barabba: Giovanni non dice neppure che Pilato abbia liberato quel latrò di Barabba: Giovanni dice il vero e si deve credere a Giovanni se Pilato non poteva mettere sui piatti della stessa bilancia l'”Innocente” verso Roma e il latro sicarius- (“terrorista”) nemico dell’Urbe; “Barabba era stato arrestato dagli uomini dell’Antonia-, Gesù, invece, “dagli uomini del Tempio e dai legionari dell’Antonia; Pilato non avrebbe potuto giustificare agli occhi di Tiberio la liberazione di un sicarius e la condanna di Gesù. Pilato non desisteva dal tentativo di rimettere in libertà l’accusato, perché è dovere del giudice -liberare gli innocenti e punire i colpevoli-o Anche la flagellatio, a cui fu sottoposto il Cristo, fu un ultimo tentativo di dimostrarne l’innocenza. Pilato, mostrando l’uomo inerme al popolo, gridava, Ecce Homa31, ripetendo per altre due volte: Ego non invento in Eo causam32. 

Pilato con quel brachicologico: Ecce Homo! voleva significare ai Giudei che Gesù di Nazareth non era un Rex, se lo era mai stato, se la flagellazione ne aveva dimostrato l’innocenza nell’inesistenza delle pretese regali. 

Gesù dichiarato “Uomo”, cadeva l’accusa politica presentata dal Tempio e, caduta l’accusa, Pilato poteva procedere a liberarlo: Ponzio tentava di rimetterlo in libertà ma non ci riusciva: la legge non gli dava questa facoltà. Caduta l’accusa politica, restava l’accusa religiosa che, restando in piedi con la condanna che ne derivava33, costringeva Pilato a procedere all’esecuzione. La “Legge” dai Romani era rispettata in modo assoluto anche se essi sapevano che: Summa Lex summa iniuria34. Inoltre, in risposta alla ennesima richiesta rivolta al popolo e tesa alla liberazione di Gesù, a Pilato furono ironicamente ricordati i suoi obblighi di rispettare la Magna Charta Libertatum, alla domanda: “Crocifiggerò il vostro Re?”, il popolo rispondeva: “Solo Cesare è nostro Re”’. È chiaro che, dato l’odio nutrito dagli Ebrei nei riguardi dei Romani, considerati infedeli al punto che gli stessi Ebrei facevano lunghe abluzioni purificatorie anche dopo aver solo toccato un Romano, non si può che dare alla frase il significato di: “Ricorda ciò che Cesare ci ha concesso e che tu devi rispettare!”. Pilato infatti, sapeva che se avesse violato la Legge, il Sinedrio, che ne aveva facoltà, lo avrebbe fatto rilevare al governatore della Siria e allo stesso Imperatore con rapporti e legazioni. La punizione da Roma sarebbe giunta implacabile: reprimenda, rimozione dalla carica. processo e, forse. il perentorio codicillo seca venas! Pilato non aveva scelta e, anche se cosciente di commettere una grave ingiustizia, da buon magistrato. applicò la legge attirando su di sé l’enorme quantità di critiche e damnationes, che gli sono piovute addosso nel corso dei secoli. Ciò nonostante, fino al momento in cui i calones non inchiodarono il Messia alla croce, egli ebbe grande rispetto per la persona del Cristo, sia dal punto di vista umano che da quello giuridico. Egli non lo fece flagellare per la seconda volta, come si faceva di solito con i colpevoli politicamente, non lo fece maltrattare durante la Via Crucis, gli consentì di avere un titulus con la nominatura completa sulla croce (JESUS NAZARENUS REX JUDAEORUM). cosa che non era concessa ai peregrini. Ciò prova che Cristo, non colpevole verso Roma, godeva ancora dello jus civitatis, e Pilato lo fece rispettare sino alla fine, facendolo crocifiggere da Romano e non da straniero da quel buon magistrato e amministratore della Lex Romana quale era, nonostante le accuse rivoltegli. A riprova di ciò è il fatto che Tiberio non censurò le sue decisioni. Pilato, infatti, rimase in carica per altri tre anni e fu destituito solo quando commise l’errore di attaccare i Samaritani, alleati dei Romani (e nemici giurati dei Giudei) a Tirathana, forse con l’intento di procurarsi simpatie tra gli Israeliti. Da Samaria partiva legazione al Governatore della Siria, Vitellio, il quale riconobbe che Pilato aveva attaccato un popolo amico senza nessuna valida giustificazione e, depostolo dall’incarico, lo inviò a Roma affinché fosse sottoposto al giudizio dell’Imperatore. 

Ma, -navigando da Cesarea verso Ostia e Roma, Ponzio Pilato si perdeva dalla storia35. ed entrava nella leggenda. 

Adolfo Panarello 

1. Cfr. A. DE GRASSI, Scritti vari d’Antichità, Venezia, 1967, vol. III, p. 268.
2. D. NARDONI, Sotto Ponzio Pilato, Roma 1987, p. 10. 
3. Cfr. M.J. OLLIVlER, Ponce Pilate et /es Pontii, in RB 5 1986, pp. 247-254; pp. 594-600. 
4. Cfr. D. NARDONI. op. cit., p. 15, nota 16. 
5. Cfr. AG.H. NIEUPOORT, Rittum apud Romanos explicatio, Venezia 1749, Sect. V, Cap. II, § 2 p. 357: Optima quoque praemia capiebat et pro equite erat. 
6. Cfr. D. NARDONI, op. cit., p. 18. 
7. D. NARDONI, op. cit., p. 28, nota 34: “Imperium: “atto concreto di parificazione”, “Pàrime”, “Oleichgeltungsreich”, “Ausgleichungsreich” ancor prima che “comando”, “impero”. Nel Sermo rusticus: parlata dei campi, dal quale tutti gli altri sermones derivavano le espressioni: imperare vitibus, imperare arvis indicavano l’attività del “potatore” nella vigna e dell’ “aratore” nei campi; nello stesso sermo rusticus, la voce imperator indicava il “potatore” nella vigna e l’ “aratore” nei campi; la voce imperium: “attività parificatrice” indicava l’attività del “potatore” nella vigna e dell’ “aratore” nei campi. 
8. Cfr. VERG., Aen, I, 279. 
9. VERG., Aen, VI, 851. 
10. VERG., Aen, I, 852. 
11. VERG., Aen, I, 853. 
12. VERG., Aen, I. 853.
13. Cfr. D. NARDONI, Op. cit, p. 37. 
14. Cfr. D. NARDONI, Op. cit., p. 115. 
15. VERG., Aen, I, 574. 
16. Cfr. D. NARDONI. Op. cit., p. 119.
17. LUC. XIII. 1. 
18. Cfr. D. NARDONI. Op. cit., p. 125-126. 
19. Cfr. MARC. XV. 7. 
20. Cfr. TAC., Hist. • 9: Sub Tiberio quies.
21. Cfr. R NEHER-BERNHEIM, Le Judaisme dans le moncle romaine, Parigi 1959, p. 27: “César, lors de son expedition d’Egypte…trouve une aide appréciable auprés des Judeéns, dont il se fait dés lors le protecteur, il autorisa notamment la reconstruction des murs de Jerusalem”; JOS. FLAV., Ant. Jud. XlV, 8. 
22. Cfr. JO. XlIX, 3; MAITH. XXVI, 47; MARC. XlV, 43; LUC. XXI, 47: Judas ergo cum acceppiset cohortem et a Pont!ficibus et Phariseis ministros venit Uluc cum latemis et Jacibus et armis. 
23. Cfr. PLIN. JUN., Paneg. Traiani: Vidimus delatorum indicium quasi grassatorum, quasi latronum Non solitudinem illi, non iter, sed templum, sed forum insederant. Nullajam testamenta secura, nullus status certus, non orbitas, non libri proderant. Auxerat hoc malum principum avaritia. 
24. Cfr. JO. XlIX, 13; MAITH. XXVI, 57; MARC. XlIII. 53; LUC. XXII, 34:Et adduxerunt Eum ad Annam. 
25. Cfr. JO. XlIX, 24: Et misit Eum Annas ligatum ad Caipham Pontificem. 
26. Cfr. JO. XlIX, 28; MATTH. XXVII, 2; MARC. XV, l; LUC. XXIII, 2: Adducunt ergo Jesum a Caipha in praetorium.
27. Cfr. JO. XlIX, 30; MATTH. XXVII, 12; MARC. XlV, 3; LUC. XXII, 3: Responderunt et dixerunt ei: si non esset malefactor, non tibi tradidissemus Eum. 
28. Cfr. D. NARDONI, Op. cit., p. 160. 
29. Cfr. JO. XlIX, 40; MATIH. XXVII, 17; MARC. XV, 11; LUC. XXIII, 18. 
30. D. NARDONI, Op. cit., p. 160-161. 
31. Cfr. JO. XIX, 5. 
32. Cfr. JO. XlIX, 38; XlX, 4; XIX, 6; LUC. XXIII, 4; XXIII, 14; XXIII, 22. 
33. D. NARDONI, Op. cit., p. 165. 
34. Ivi, p. 165. 
35. Ivi, p. 132.

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 20-30.




La radice psico-sociale della responsabilità in B. Croce 

 Parlare di radice psico-sociale della responsabilità in Benedetto Croce, potrebbe far pensare a qualcosa che contrasti frontalmente con il suo noto antipsicologismo. In realtà non è così se si tiene bene presente l’esatto significato dell’antipsicologismo emergente nel pensiero crociano. Al riguardo sembra particolarmente illuminante quanto lo stesso Croce ha modo di puntualizzare in Filosofra della pratica: «Nel rifiutare ripetute volte… il metodo psicologico, siamo stati bene attenti ad aggiungere le frasi di cautela: “metodo filosofico-psicologico”, “metodo speculativo-descrittivo” e simili, perché si avvertisse che la nostra ostilità era contro quel miscuglio, ossia contro l’intrusione di quel metodo nella filosofia, ma non contro la Psicologia stessa»l . 

Come si può agevolmente rilevare, la polemica del Croce non è contro il “metodo psicologico” o la psicologia senz’altro, ma contro la confusione che a volte si tende a fare tra psicologia e filosofia o, per usare la stessa espressione del Croce, contro il loro indebito “miscuglio” emergente ogni volta che si giudica possibile un «passaggio dall’empiria (nel caso la psicologia) alla filosofia»2 , quasi che l'”empiria” possa essere «affinata…a filosofia»3. 

Per quanto si voglia “affinare” la psicologia (giusto per stare a ciò che qui particolarmente ci interessa), questa non potrà mai tramutarsi in filosofia, per il semplice motivo che appare finalizzata ad un obiettivo specificatamente diverso da quello della filosofia: ha per scopo infatti, secondo il Croce, «di ordinare e classificare in qualche modo le infinite intuizioni e percezioni…e di ridurle a schemi pel più facile possesso e maneggio»4, non di risalire alla loro intrinseca ultima scaturtgine, e quindi «di investigare i principio»5. La filosofia, invece, si propone proprio quest’ultima cosa6 : ha, infatti, per oggetto lo stesso Spirito universale concreto, inteso come principio immanente del reale, “omnirappresentativo” e “ultrarappresentativo”7 insieme, «autocoscienza che genera e regge la conoscenza»8, ossia come ciò che, una volta intravisto nella sua intrinseca vitalità, consente di intendere il reale storico concreto come progressiva 

attuazione di questa sua vitalità, e più segnatamente delle categorie (=estetica-logica-economia-etica) che ne scandiscono le varie direzioni. 

Insomma, si potrebbe dire sinteticamente che, mentre la filosofia abborda il reale alla sorgente (e cioè lo indaga a partire dalla sua intrinseca scaturigine), la psicologia (come ogni altra scienza empirica) lo abborda alla foce (limitandosi a “ordinare e classificare” quanto da quella sorgente emana), conseguentemente con finalità teoretiche (la filosofia) e pratiche (la psicologia). Si tratta, pertanto di due discipline ugualmente giustificate, distinte però per natura e, in quanto tali, irriducibili l’una all’altra. 

Questa distinzione, tuttavia, non significa, né può significare l’esclusione di reciproci e complimentari influssi tra le due discipline: esse, infatti, se da una parte appaiono distinte e inconfondibili tra loro, dall’altra non possono non rivelarsi strettamente connesse nella circolarità dello spirito di cui esprimono due diverse e ineliminabili esigenze vitali. 

L’analisi crociana della responsabilità rappresenta un significativo e concreto esempio di questa distinzione e, insieme, complementarietà tra filosofia e psicologia: si tratta, nel caso di un’analisi in sé tipicamente psicosociologica, subordinata, però, a un “tutto” altrettanto genuinamente filosofico. 

Ciò precisato, possiamo tentare di puntualizzare brevemente l’atteggiamento crociano sul problema della responsabilità. In Etica e politica il Croce, nell’intento di chiarirci il suo pensiero al riguardo, dopo avere accennato alle discussioni circa la libertà di arbitrio da parte dei deterministi e dei difensori di tale libertà, sottolinea l’inutilità di una simile polemica in quanto verterebbe circa un problema mal posto e come tale inesistente. L’errore qui, secondo il Croce, sta nel contrapporre come inconciliabili tra loro libertà e necessità, con l’ovvia conseguenza di negare o la libertà (è il caso dei deterministi) o la necessità (è il caso dei difensori del libero arbitrio): elementi ugualmente caratterizzanti dell’atto volitivo in sé considerato. 

Libertà e necessità – precisa il Croce – non sono due elementi contrapposti, inconciliabili tra loro, ma al contrario sono a tal punto collegati che, se esaminiamo a fondo la cosa, dobbiamo concludere con l’identificarli. La libertà coincide con la necessità, e consiste nell’agire conforme a quello che si è momento per momento. «Azione libera – così il Croce – è quella che il nostro spirito crea perché non potrebbe crearne altra, l’azione pienamente conforme all’essere nostro nella situazione determinata»9. Ciò «è comprovato – soggiunge – dalla forma perfetta del conoscere, il conoscere storico, nel quale le azioni sono spiegate, qualificate e intese, ma non lodate o condannate, e non vengono riportate agli individui come a loro autori ma al corso storico, del quale sono aspetti»10, cioè queste azioni «non vengono lodate o condannate» appunto perché, in ultima analisi, esse trovano la loro scaturigine in qualcosa che è al di sopra dei loro autori, e cioè precisamente in uno stato di necessità a cui questi ubbidiscono. 

Del resto la «stessa cosa – sottolinea ulteriormente il Croce – traluce nella tante volte notata molestia dei grandi, consapevoli di essere stati strumenti di qualcosa che li supera»11 e addirittura «nella candidezza di certi scellerati, che affermano che hanno dovuto fare quello che hanno fatto e non potevano non fare, ubbidendo a una necessità»12. 

Ma se la libertà coincide con la necessità, come si può parlare di responsabilità? «La risposta – dice Croce – è semplicissima: non si è responsabili, e chi ci fa responsabili è la società, che impone certi tipi di azione e dice all’individuo: Se tu vi ti conformi, avrai premio: se vi ti ribelli, avrai castigo; e, poiché tu sai quello che fai e intendi quel che io ti chiedo, io ti dichiaro responsabile dell’azione che eseguirai»13. 

 

Una situazione analoga si verifica nel nostro intimo «quando poniamo un ideale o un fine» da aggiungere, e cioè quando agiamo non in rapporto a ciò che siamo momento per momento, ma a ciò che ci proponiamo di diventare: «in quell’atto stesso, ci facciamo responsabili di non adempierlo o di non averlo adempiuto» 14. Da qui il rimorso che consiste nel prendere coscienza dello stacco tra ciò che abbiamo fatto e ciò che avremmo dovuto fare in base all’ideale propostoci. Se però «dall’atteggiamento pratico, dallo sforzo di volontà intento a creare il mondo», e cioè a realizzare un cambiamento in noi e nelle cose (e quindi un “fine”, un “ideale” che ci poniamo) ci fermiamo «al puro atteggiamento teoretico»l5, ossia a ciò che siamo momento per momento, ci renderemo conto dell’irragionevolezza del rimorso su tale piano, in quanto il nostro agire, di cui «ci addoloriamo», non poteva non essere quello che è stato. Esso, infatti, corrisponde a ciò che eravamo in quel momento: «quel che abbiamo fatto – precisa appunto il Croce – rappresenta l’essere nostro»l6. 

Di responsabilità, pertanto, non si può parlare in rapporto all’atto volitivo in sé, ma solo al dovere essere: in altre parole – come il Croce spiega ulteriormente – la responsabilità «è un momento della dialettica del fare»17, cioè nasce per “fini pratici”, perché ci sia responsabilità in concreto si richiede che l’individuo «abbia la capacità di intendere quel che ha fatto e quel che da lui si chiede e si pretende»18, perché solo se «è in grado di comprendere e ragionare, ha in sé la condizione per un cangiamento volitivo»19. 

In termini alquanto diversi, si potrebbe dire che noi non siamo responsabili in rapporto al volere in sé, perché questo, considerato nella sua intrinsecità, si presenta come coincidenza di libertà-necessità e perciò come creatività, sottratta, in quanto tale, ad ogni deliberazione (proprio come analogamente avviene per l’espressione estetica in rapporto al sentimento su cui nasce20. Siamo. però, responsabili in rapporto a quella che è la base di questo nostro volere (e cioè il nostro essere concreto), in quanto è nelle nostre possibilità modificarla, incanalandola in una direzione consona all'”ideale”, al “fine” che ci viene imposto dalla società o anche da noi stessi (che siamo poi società immagazzinata), in modo che il nostro volere possa risultare opportunamente orientato nella sua creatività21 . 

Questa scaturigine psico-sociale della responsabilità, secondo il Croce, non può non gettare una luce più giusta su quello che dovrebbe essere fondamentalmente l’atteggiamento della società verso il colpevole. Anche il delinquente ha agito in conformità a ciò che è. Si tratta di portarlo (attraverso un’azione di recupero) a diventare diverso da quello che è. Il dovere della società, di conseguenza, non è tanto di punirlo, ma quanto di metterlo in condizione di cambiare se stesso. e questo tanto più che quel “se stesso” trova proprio nella società gran parte della sua spiegazione. Certo, con questo non si vuol dire che non sia giustificata la pena. Oltretutto, se di responsabilità non si può parlare in rapporto al singolo atto volitivo in sé considerato, in quanto espressione necessaria di ciò che si è, se ne deve normalmente parlare in rapporto alle eventuali manchevolezze passate che hanno consentito le attuali deformazioni di chi agisce: «la verità – dice, infatti, al riguardo Croce – è che dal cuore viene anche tutto quel male che sembra prodotto di falso vedere, perché quel falso vedere essi se lo sono foggiato coi loro sofismi»22. Anche in tal senso, però, la pena, perché sia ragionevole, non deve essere mai fine a sé: deve avere di mira di «disporre diversamente la volontà dei componenti di un complesso sociale», o, ciò che è lo stesso, deve avere «un valore energetico sulle coscienze»23. Insomma, anche nel caso della giusta pena non ci si deve mai dimenticare che – non siamo responsabili, ma siamo fatti responsabili». 

L’analisi crociana sulla scaturigine del sentimento di responsabilità non si limita solo a gettare una luce nuova sul modo più giusto di intendere la pena, ma, come è facilmente intuibile, si presenta ricca di significativi riflessi anche sul poblema psico-pedagogico concreto, specie per quanto concerne lo sviluppo della coscienza morale nel fanciullo. L’intuizione crociana, infatti, qui può significare (un po’ in analogia a quanto in grande viene affermato con la positività della storia, «mai giustiziera, ma sempre giustificatrice»24 una forte motivazione in più per sdrammatizzare gli errori di percorso del fanciullo, sgombrare il suo animo da pericolosi accumuli psicologici negativi, in modo da favorire, così, il massimo equilibrio nella formazione del suo io etico-sociale. A conclusione di questo breve accenno all’atteggiamento crociano sul problema della responsabilità, sembra opportuno sottolineare che, qui, ciò che rende meritevole di particolare attenzione il discorso crociano non è tanto quello che esso si sforza di mettere in risalto, ma tanto il fatto che ciò che viene affermato, oltre che frutto di attenta analisi psico-sociologica dei fatti di esperienza, si presenta supportato dalla luce di fondamentali intuizioni filosofiche (quale, ad esempio, la positività della storia), alle quali il discorso crociano appare subordinato. 

Alberto Nave 

1.B. Croce, Filosofia della pratica, Bali, Laterza, 1973, pag. 69.
2.  Ibidem, pag. 78. 
3.  Ibidem. 
4.  Ibidem, pag. 69. 
5. Ibidem, pag. 78. 
6.  Cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia. Bari, Laterza, 1973, pag. 141. 
7. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1971, pag. 16. 
8. B. Croce, Filosofia e storiografia, Bari, Laterza, 1969, pag. 40.
9. B. Croce, Etica e politica, Bari, Laterza, 1973, pag. 102. 
10. Ibidem. 
11. Ibidem. 
12. Ibidem, pag. 103. 
13. Ibidem. 
14. Ibidem. 
15. Ibidem. 
16. Ibidem. 
17. Ibidem. 
18. Ibidem. 
19 Ibidem. Circa il sottofondo teoretico su cui si delinea l’atteggiamento crociano sulla “responsabilità”, tra gli altri, cfr. anche: D. Soleri, Ubertà e moralità nella filosofia di Benedetto Croce, Reggio C., Tip.”Fata Morgana”, 1944, pagg. 11 e ss.; G. A. Roggerone, Croce e la fondazione del concetto di libertà, Milano, Marzorati 00.,1966, in particolare, pagg.220 e ss.; L. Dondoli, Benedetto Croce: intuizione, conoscenza storica e panteismo etico, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1984, segnatamente le pagg. 43-71; V. Vitiello, Etica e liberalismo nel pensiero di B. Croce, Napoli, 1964. 
20. Cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1965, pagg. 57-59; come pure, sempre dello stesso Croce, Problemi di estetica, Bari, Laterza, 1966, pagg. 17-30.
21 Non è superfluo sottolineare, qui, che la libertà affermata dal Croce come coincidente con la necessità è la libertà intesa rigorosamente come spontaneità: essa non ha nulla a che vedere con la cosiddetta libertà di arbitrio o di scelta, di cui il Croce non mostra interesse a discutere direttamente, sia per la nausea provocata al riguardo dalle vuote polemiche del recente passato, e sia, soprattutto, perché la presuppone cosa troppo ovvia (altrimenti non si potrebbe neanche essere “fatti responsabili”). A differenza della prima, che caratterizza l’agire in sé considerato (ossia, l’agire in quanto espressione di ciò che siamo momento per momento), la libertà di arbitrio è qualcosa che caratterizza l’agire rapportato a ciò che dovremmo essere, o anche (giusto per essere più aderenti al contesto crociano) l’agire rapportato alla dialettica del fare. 
22 B. Croce, Filosofia della pratica, cit. pag. 46 
23 B. Croce, Etica e politica, cit., pag. 104. 
B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., pag.79. 

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 19-24.




 L’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico* alla luce di alcune involuzioni  presenti nello storicismo crociano 

l -Il problema del fondamento epistemologico e la crisi contemporanea dei valori 

Parlare dell’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico nel nostro tempo potrebbe significare (almeno da una certa ricorrente angolazione) un indebito accostamento di realtà culturali troppo diverse tra loro per poter avere qualcosa in comune da dirsi. E invece, se riflettiamo bene su quella che sembra emergere come una delle cause di fondo (se non come l’unica vera causa) della crisi di valori nel nostro tempo, e cioè sulla frattura, presente in larghi strati del pensiero contemporaneo, tra le istanze dell’essere e del divenire, della trascendenza e dell’immanenza, non sarà difficile intravedere come questa frattura si concretizzi prossimamente nell’impossibilità di assegnare un fondamento solido al conoscere in modo da sottrarlo al logorio del tempo, un fondamento solido che invece rappresenta il punto fermo di tutta l’impostazione agostiniana del problema della conoscenza, Il positivismo, lo storicismo, il neopositivismo e l’empiriocriticismo sono tra le espressioni più tipiche di questa frattura in atto nel pensiero contemporaneo e del conseguente naufragio della ragione teoretica, concretizzatosi, poi, a sua volta nel problematicismo in filosofia 

e in pedagogia, o più genericamente nel cosiddetto pensiero “post-moderno”. 

Venendo a mancare una base sicura all’attività conoscitiva, è evidente che tutto finisca, pressoché inevitabilmente, per avvolgersi nella fitta foschia di un relativismo a sfondo scetticizzante, rendendo precario in partenza ogni possibile discorso sui gravi interrogativi a cui direttamente o indirettamente appare collegata la vita umana nella molteplicità delle sue manifestazionil. 

L’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico emerge drammaticamente proprio dalle insanabili contraddizioni o involuzioni (con conseguenze a tutti i livelli) in cui una considerevole parte del pensiero contemporaneo, a causa del suo rigido immanentismo, finisce, suo malgrado, 

per sfociare. 

Particolarmente sintomatiche al riguardo alcune involuzioni emergenti (sempre a proposito del problema del fondamento epistemologico) in uno dei massimi teorici della filosofia dell’immanenza del nostro tempo: B. Croce. 

2 – Alcune significative analogie tra le posizioni agostiniana e crociana sul 

problema epistemologico 

Allo scopo di intravedere meglio l’indiretto risalto che queste involuzioni finiscono per dare all’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico, sembra particolarmente opportuno iniziare col porre in evidenza una certa significativa analogia facilmente riscontrabile tra alcune tipiche affermazioni crociane circa il problema epistemologico e la nota posizione agostiniana al riguardo2. 

S. Agostino, come sappiamo, pone nell’autocoscienza il punto di partenza dell’attività conoscitiva: “iudicamus… , così infatti egli in uno dei tanti passi significativi al riguardo, secundum illas interiores regulas veritatis quas communiter cernimus: de ipsis vero nullo modo quis iudicat”3. Analogamente sembra fare il Croce nell’accennare a questo stesso aspetto del problema epistemologico: “Lo spirito è … autocoscienza che genera e regge la conoscenza”4, sottolinea infatti in FilisoJìa e storiograjia, soggiungendo più oltre che “i logici predicati”, grazie ai quali si realizza il “giudizio”, e quindi la conoscenza, “sono nient’altro che l’autocoscienza dello spirito nella dialettica delle sue eterne distinzioni”5. Per l’uno e per l’altro, poi, la conoscenza vera non solo trova nell’interiorità del soggetto il suo punto di partenza, ma anche quello di arrivo, ossia si attua essenzialmente in questa stessa interiorità del soggetto. Così S. Agostino al riguardo in un passo particolarmente sintomatico: “Conceptam rerum veracem notitiam, tamquam verbum apud nos habemus, et dicendo intus gignimus; nec a nobis nascendo discendit. Cum autem ad alios loquimur, verbo intus manenti millitrerium vocis adhibemus, aut alicuius signi corporalis, ut per quandam commemorationem sensibilem tale aliquid fiat etiam in animo audientis, quale de loquentis animo nos recedit”6. Nel De Magistro, ricollegandosi alla stessa tematica, ribadisce con particolare incisività: “Verba… admonent tantum ut quaeramus res, non exhibent ut noverimus”7. Insomma, talmente la verità si realizza nell’interiorità del soggetto che essa non può essere direttamente comunicata ad altri con le parole: si può solo provocare con il linguaggio uno stimolo a che essa nasca nell’altro, come è nata in chi parla, ossia nella sua propria interiorità. Proprio come, a sua volta ribadirà il Croce, dopo aver affermato anch’egli, e a più riprese, che la conoscenza vera si realizza unicamente nell’interiorità del soggetto, per cui “l’oggettivo” nel giudizio viene a coincidere con il “soggettivo”8: “Il vero, pensato che sia da noi, è già bello e detto (detto a noi.. .ma, quanto a dirlo o comunicarlo agli altri, l’affare è serio, tanto serio che è disperato. Il vero non è una merce che passi di mano in mano… In effetto noi non 

2. Come è risaputo, il discorso agostiniano sulla conoscenza (come per altre analogie tematiche) parte dalla filosofia e si prolunga sul piano della teologia. Noi, qui, in ottemperanza all’indole della presente breve indagine, ci proponiamo di richiamarlo in causa solo per quel tanto che esso rientra nell’ambito della ragione meramente filosofica. A scanso,poi, di pericolosi equivoci, forse non è superf1uo sottolineare che dire “analogia” non è dire “identità”, tanto meno poi annullare la radicale contrapposizione delle angolazioni da cui si guarda al problema epistemologico in S. Agostino, c nel Croce. comunichiamo mai il vero, e solamente… foggiamo e adoperiamo una sequela e un complesso di stimoli per porre gli altri in condizione… di ripensare quel ver che pensammo noi. .. il problema del comunicar con altrui, del parlar…non è quello di dire o non dire il vero, ma di operare su di altrui perché operi”9. 

Questa certa analogia tra la posizione agostiniana e quella crociana su alcuni aspetti del problema epistemologico si può cogliere fino all’ammissione di un fondamento atemporale del conoscere, in grado cioè di sottrarre questo al divenire. È però nella diversa collocazione logica di questo fondamento che l’analogia svanisce per dare luogo ad una contrapposizione radicale tra i due atteggiamenti di pensiero. 

3 – La collocazione teoretica del fondamento epistemologico nell’ottica agostiniana 

S. Agostino, sulla base della sua filosofia libera da ogni pregiudiziale immanentistica, non solo ha modo di affermare con sicurezza l’esistenza di un fondamento atemporale del conoscere, ma anche di dare un supporto logico coerente a tale affermazione, agganciando l’atemporalità del fondamento a un ordine ontologico trascendente. 

“Intima scientia est qua nos vivere scimus”10, così S. Agostino nell’iniziare a scavare questo fondamento trascendente del conoscere a partire dal superamento dello scetticismo accademico. Quindi, altrove, entrando più direttamente nel merito della presente tematica, dopo aver ribadito a proposito della “verità dei numeri” che essa “non è di pertinenza del senso, ma permane idealmente immutabile ed è universale nella conoscenza per tutti i soggetti pensanti”1l, soggiunge: ” cum multa alia possunt occurrere, quae communiter et tamquam publice praesto sunt ratiocinantibus et ab eis videantur mente atque ratione singulorum quorumque cernentium, eaque inviolata et incommutabilia maneant”12. 

Nel De Trinitate, ricollegando in maniera più esplicita il problema del fondamento a un ordine ontologico trascendente, ribadisce: “sublimioris rationis iudicare de istis corporalibus secundum rationes incorporales et sempiternas; quae nisi supra mentem humanam essent, incommutabiles profecto non essente” (13). Analogamente nelle Confessioni: “Quaerens, undeiudicarem.. .inveneram icommutabilem et veram veritatis aetemitatem supra mentem meam commutabilem”14. 

S. Agostino, però, non si limita solo a sottolineare questo stretto legame del fondamento epistemologico col trascendente, ma cerca anche di scandire i termini logici secondo cui intendere rettamente la cosa, senza indebita confusione tra i due presupposti piani del reale (l’immanente e il trascendente). È quanto in sintesi si può cogliere nel seguente brano, che fa seguito al rifiuto della dottrina della reminiscenza sostenuta da Platone e da Pitagora: “potius credendum est mentis intellectualis ita conditam esse naturam, ut rebus intellegibilibus naturali ordine, disponente Conditore, subiuncta sic ista videat in quadam luce sui generis incorporea, quaemadmodum oculos carnis videt quae in hac corporea luce circumadiacent, cuius lucis capax eique congruens est creatus”15. Si potrebbe dire con parole meno impegnative, ma più semplici, che l’uomo, come ha ricevuto da Dio l’essere, così è stato da Lui equipaggiato, nella parte spirituale, di una capacità conoscitiva tale da consentirgli di incamminarsi con sicurezza sulla strada della verità, sfuggendo in ciò alla capricciosità del divenire. 

Data questa collocazione teoretica del fondamento epistemologico, si può facilmente capire quanto S. Agostino ha modo di decantare circa la “bellezza della verità e della sapienza”: “illa veritatis et sapientiae pulchritudo”, così in uno stupendo brano del De libero arbitrio, “tantum adsit perseverans voluntas fruendi, nec multitudo audientium constipata secludit venientes… nec nocte intercipitur, nec umbra intercluditur, nec sensibus corporis subiacet… nullo loco est, nusquam deest; foris admonet, intus docet… nullus de illa iudicat, nullus sine illa iudicat bene”16. 

Come si vede, nel pensiero agostiniano si delinea un fondamento epistemologico sottratto con sicurezza al flusso del divenire in quanto strettamente collegato alla scaturigine antologica trascendente dell’essere umano. Non altrettanto, invece, è dato rilevare, come presto vedremo, nell’atteggiamento crociano al riguardo. 

4 – L’ambiguità della posizione crociana sul fondamento epistemologico 

Posizione ambigua quella del Croce, perché, mentre da una parte perviene all’affermazione di un fondamento atemporale del conoscere, dall’altra non riesce a fornirne una convincente giustificazione logica all’interno della sua tipica filosofia. Per dirla in parole più esplicite, non si può affermare un fondamento epistemologico sottratto al divenire e nello stesso tempo concludere che esso non è nulla al di là del reale immerso nel divenire. È quanto il Croce, lo ribadiamo dall’insieme sembra sostenere. Ma a questo punto conviene accennare più direttamente ai termini specifici essenziali in cui la cosa si presenta nel pensiero crociano. 

È noto come tutta la filosofia del Croce parta da un rifiuto, pressocché radicale, di ogni apertura al trascendente, un rifiuto che trova nell’affermazione dell’identità di storia e filosofia la sua affermazione teoretica più significativa: “filosofia e storia – così il Croce in uno dei passi più sintomatici al riguardo – non sono già due forme, sibbene una forma sola, e non si condizionano a vicenda, ma addirittura si identificano… Né la storia precede la filosofia né la filosofia la storia: l’una e l’altra nascono a un parto”17. In questa asserita identità di storia e filosofia trova la sua prossima scaturigine il tipico storicismo crociano, con la conseguente affermazione della non definitività di ogni filosofia: “nessun sistema filosofico è definitivo (così il Croce nella Filosofìa della pratica), perché la Vita, essa, non è mai definitiva”18. 

Se la filosofia si identifica con la storia, e quindi si rapporta essenzialmente al divenire immanentistico del reale, è evidente che non ci potrà essere più posto per una verità che si sottragga al logorio del tempo, in modo da rimanere come saldo punto di riferimento per l’ulteriore cammino del pensiero umano e, insieme, come sicura base per la fondazione di una morale che sfugga ad ogni rlativismo individualistico. Affermare,però, una cosa del genere avrebbe significato la vanificazione in radice di qualsiasi approccio al vero. Al Croce una cosa del genere non poteva certo sfuggire. Ed è per questo che, di fronte alla prospettiva di un inevitabile sbriciolamento del mondo della conoscenza nelle sabbie mobili del divenire, il Croce è indotto a fare delle precisazioni (al riguardo del presente problema) che, per certi aspetti, non possono non configurarsi come un chiaro (anche se implicito) ridimensionamento del suo abituale immanentismo. 

Nella Storia come pensiero e come azione, dopo aver precisato a proposito della “necessità storica” che si tratta di una necessità di ordine logico, consistente in ciò che il “giudizio, nel pensare un fatto, lo pensa quale esso è, e non già come sarebbe se non fosse quello che è… secondo il principio d’identità e contradizione, e perciò logicamente necessario”19 (il che, come è ovvio, già equivale ad ammettere qualcosa di ben più saldo al di là del divenire, in grado di giustifìcare questa necessità logica), più oltre, riferendosi più direttamente al presente problema, sottolinea significativamente: “La polemica contro la trascendenza, trascorrendo oltre il segno, ha portato a negare la distinzione delle categorie del giudizio, considerate anche esse una trascendenza”20. Quindi soggiunge senza possibilità di equivoci per quanto concerne un fondamento epistemologico sottratto al divenire: “Né le categorie cangiano, e neppure di quel cangiamento che si chiama arricchimento, essendo esse le operatrici dei cangiamenti: ché, se il principio del cangiamento cangiasse esso stesso, il moto si arricchirebbe. Quelli che cangiano e si arricchiscono sono non le eterne categorie, ma i nostri concetti delle categorie, che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali, per modo che il nostro concetto, poniamo dell’atto logico, è di gran lunga più ammaliziato e più armato che non fosse quello di Socrate o di Aristotele, e nondimeno dell’atto logico, se la categoria ‘logicità’ non fosse costante e ritrovabile in essi tutti”21. 

 

Subito dopo, allo scopo di spiegare meglio la cosa, riprendendo il discorso iniziale a proposito della “polemica contro la trascendenza”, prosegue: “quella polemica mostra aperto di essere trascorsa oltre il segno nella sua incapacità di rendere ragione del motivo di verità che… , in rapporto alla filosofia della trascendenza, consisteva appunto nell’esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali (buono, giusto, vero, ecc.)”22. 

Lo stesso atteggiamento si può riscontrare, sia pure in maniera per lo più solo indiretta, in numerosi altri passi. Quelli citati, però, sono senza dubbio tra i più sintomatici per la presente indagine. 

Come si può facilmente constatare, anche nel Croce emerge come indubitabile l’affermazione di un fondamento epistemologico sottratto al divenire: si parla infatti di “eterne categorie”, dell’ “esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali”… Quello che però lascia perplessi è come conciliare questo fondamento epistemologico sottratto al “flusso della realtà” con la chiusura sistematica al trascendente, alla quale, sia pure con toni diversi, il Croce rimane costantemente legato. Basti pensare che perfino nel paragrafo in cui emerge il discorso circa le “eterne categorie” si parla come di qualcosa di scontato, di “errore della trascendenza”, nel quale, proprio come “in fondo ad ogni errore”, si anniderebbe pur sempre qualche “motivo di verità”, che nel caso specifico consisterebbe “nell’esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali”23. 

È proprio per questo che abbiamo voluto parlare di “involuzioni” o di “ambiguità” nel pensiero crociano a proposito del fondamento epistemologico. 

Esula naturalmente dal nostro compito seguire fino in fondo queste involuzioni crociane. Quello che, però, preme qui ribadire è che sono proprio queste involuzioni la conferma indiretta più significativa dell’attualità della posizione agostiniana sul problema del fondamento epistemologico. Mentre infatti, da una parte, l’affermazione crociana di “eterne categorie”, e cioè “dell’esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali”, rappresenta a distanza di secoli una significativa riprova della perenne validità dell’istanza agostiniana di un fondamento atemporale del conoscere, dall’altra parte, la mancanza di una convincente giustificazione logica di questo fondamento all’interno della filosofia crociana conferma come la direzione seguita da S. Agostino al riguardo si riveli sempre più priva di vere alternative. 

Da questi brevi accenni, pertanto, possiamo concludere che l’affermazione 

agostiniana di un fondamento trascendente dell’attività conoscitiva, il riferimento all’ultimo “sole”24 dal quale emana la flebile luce grazie a cui gli uomini sono posti in grado di impadronirsi delle sparse briciole di verità nel vortice del divenire, si configurano, oggi più che mai, come l’unica ed irrinunziabile prospettiva teoretica in grado di consentire alla ragione filosofica di sfuggire ad uno smarrimento fatale nell’interminabile notte del tempo e seguitare, così, ad assolvere alla sua funzione di illuminatrice delle umane vicende. 

Certo, si potrà discutere sul modo di calare in un linguaggio filosofico più aderente alla realtà culturale contemporanea il discorso agostiniano, ma non sulla direzione indicata dal filosofo di Tagaste per la soluzione del problema cardine della filosofia (il problema, cioè, del fondamento epistemologico): non basta, infatti, solo affermare l’atemporalità del fondamento epistemologico (come in qualche modo si può rilevare nel pensiero crociano), ma è necessario supportare questa atemporalità con il riferimento a un ordine ontologico che si collochi al di là del contingente… Almeno che non ci si voglia rassegnare ad un inevitabile frantumarsi del fondamento ipotizzato sulle sabbie mobili del divenire25. 

Alberto Nave 

L’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico alla luce di alcune involuzioni presenti nello storicismo crociano 

(Traduzione dei passi in latino) 

Nota 3 (De lib. arb., p. 255): “si esprime il giudizio mediante le regole interiori della ideale verità che universalmente si intuiscono, ma di esse non si giudica assolutamente”. 

6 (De Trin., p. 379): “la conoscenza vera che grazie ad essa (l’eterna verità) noi concepiamo l’abbiamo come verbo presso di noi, un verbo che generiamo dicendolo al di dentro di noi e che nascendo non si separa da noi. Quando parliamo ad altri, restando il verbo a noi immanente, ricorriamo all’aiuto della parola o di un segno sensibile per provocare anche nell’animo di chi ascolta, mediante una evocazione sensibile, un qualche cosa di somigliante a ciò che permane nell’anima di chi parla”. 

7 (De Mag., p, 783): “le parole … ci stimolano alla ricerca dell’oggetto, non ce lo rappresentano alla conoscenza”. 

10 (De Trin., p. 657): “È con una scienza interna che noi sappiamo di vivere”. 

12 (De lib, arb., p. 241): “Molte altre nozioni possono presentarsi che universalmente e quasi di pubblico diritto si rendono accessibili ai soggetti pensanti e sono intuite con atto di puro pensiero da tutti coloro che sanno intuirle, sebbene esse permangono inderogabili e fuori del divenire”. 

13 (De Trin., p.465): “è compito della ragione superiore il giudicare di queste cose corporee, secondo le leggi incorporee ed eterne. Se queste non fossero al di sopra dello spirito umano, certamente non sarebbero immutabili”. 

14 (Confess., p. 207): “nel ricercare dunque la formulazione dei giudizi che formulavo giudicando così, scoprii al di sopra della mia mente mutabile l’eternità immutabile e vera della verità”. 

15 (De Trin., p. 497): “Bisogna piuttosto pensare che la natura dell’anima intellettiva è stata fatta in modo che, unita, secondo l’ordine naturale disposto dal Creatore, alle cose intellegibili, le percepisce in una luce incorporea speciale, allo stesso modo che l’occhio carnale percepisce ciò che lo circonda, nella luce corporea, essendo stato creato capace di questa luce e ad essa ordinato”. 

16 (De lib. arb., p. 261): “la bellezza della verità e della sapienza, purché ci sia la volontà di fruirne, non esclude i nuovi arrivati, anche se assediata da una moltitudine di uditori, …non si interrompe con la notte, non è intercettata dall’ombra, né soggiace ai sensi… Non è nello spazio e non manca in alcuno spazio; avverte dall’esterno, insegna dall’interno… nessuno può giudicarla, nessuno senza di essa giudica bene”. 

* L’aggettivo “epistemologico” nella presente indagine viene usato secondo la sua più estensiva accezione semantica. 
(1) Una significativa analisi delle catastrofiche conseguenze che possono derivare sul piano esistenziale, nell’era atomica, dalla mancata contemperanza delle istanze dell’essere e del divenire si può cogliere nel volume di Angela Marta Jacobelli, La responsabilità individuale nell’era atomica (Bulzoni editore, Homa, 1970), segnatamente nelle pagine dedicate all’atteggiamento jaspersiano sull’argomento.
(3) Aug., De 1ibero arbitrio, 2, 12, 34, in Opere di S. Agostino. III/2: Dialoghi, Città nuova editrice, Roma 1976, p.254. Al riguardo, degno di particolare mensionc è anche il celebre passo che si trova nel De vera religione: “Noli foras ire. In interiore homine habitat veritas” (39,75). 
(4) B. Croce, Filosofia e storiografia, Laterza, Bari 1969, p. 40. 
(5) Cfr. Ibidem. 
(6) Aug., De Trinitate, 9, 7, 12, in Opere di S. Agostino, IV, Città nuova editrice, Roma 1976, p. 378.
(7) Aug. De magistro I l, 37, in Opere di S. Agostino, cit., p.782. 
(8) Cfr. B. Croce, Problemi di estetica, Laterza, Bari, 1966, p. 153. Inoltre: Teoria e storia della storiografta, Laterza, Bari, 1973, p. 76: Il concetto della storia, Antologia a cura di A. Parente, Laterza, Bari, 1970, pp. 77-79. 
(9) B. Croce, Etica e politica, Laterza, Bari 1973, pp. 32-33. 
(10) Aug., De Trinitate, 15,12, 21, in Opere di S. Agostino, IV, cit., p.656. 
(11) Aug. De libero arbitrio, 2, 8, 24, in Opere di Agostino, III/2, cit., p.241. 
(12) Ibidem, 240. 
(13) Aug. De Trinitate, 12, 2, 2, in Opere di S. Agostino, IV, cit. , pp. 464-466. 
(14) Confess., 7, 17, 23, in Opere di S. Agostino, I, Città nuova editrice, Roma 1956, p. 206. Cfr. anche De ordine, 2, 8, 25. in Opere di S. Agostino. III/I: Dialoghi, Città nuova editrice, Roma 1970, p. 320.
(15) Aug., De Trinitate, 12, 15, 24. in Opere di S. Agostino, IV, cit., p. 496. 
(16) Aug., De libero arbitrio, 2, 14, 38, in Opere di S. Agostino, IlI/2, cit., p. 260. Nei Soliloquia, dopo aver precisato che “la verità e vero sono due tcrmini distinti” (Soliloquia, 1, 15, 27, in Opere di S. Agostino, IlI, ciI. p. 425), ribadiscc nella stessa direzione : “Est autem vetitas, et non est nusquam” (Ibidem. 1, 15, 29, p. 426).
(17) B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari 1971, p.192. 
(18) B. Croce, Filosofia della pratica, Laterza, Bari 1973, p. 406. 
(19) B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1970, p.18. 
(20) Ibidem, p. 28. 
(21) Ibidem.
(22) B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., pp. 28-29. 
(23) Cfr. Ibidem, p.29. 
(24) Cfr. Aug., De libero arbitrio, 2. 9, 27, in Opere di Sant’Agostino, III/2, cit., pag.245. 
(25)A riguardo della presente tematica (tra i vari studi) cfr. anche: C. Boyer S.J., L’ideé de vérité dans la philosophie de Saint Augustin, Paris 1915, pp.198 ss.; C. Boyer, Sant’Agostino filosofo, pp.97-130; J. Hessen, Augustin Metaphysik der Erkenntnis, Berlin und Bon 1930, segnatamente le pagine 208-212; B. Bubacz, St. Augustin’s Theory of knowledge: A contemporary analysis, The Edwin Mellen Press, New York and Toronto 1981, pp. 133 ss.; F. Piemontese, La veritas agostiniana e l’agostinismo perenne, Marzorati editore, Milano 1963, in particolare le pagine 189-211; G. Di Napoli, Essere e verità in S. Agostino e in Heidegger, in AA.VV., S. Agostino e le grandi correnti della filosofia contemporanea (Atti del Congresso italiano di filosofia agostiniana), Edizioni agostiniane, Roma 1954, pp.287-296; L. Bogliolo, Significato e attualità dell’interiorità agostiniana, in AA.VV., cit, in particolare, p.322; G. Capone Braga, Il significato della teoria dell’illuminazione di S. Agostino, in AA.VV., cit., pp. 306-331; G. Bonafede, Interiorità e immanenza. in AA.VV., cit., pp. 312 ss. 

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 50-58.




The homeric question or the experimental methodology

The homeric question or the experimental methodology

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 17-35.




The Experimental Philology’s Manifesto

The Experimental Philology’s Manifesto

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 15-28.




“Qu’est-ce qu’on veut de la Philologie?” 

La demande peut tout-à-fait apparaître vaine dans l’ineptie de son insolente insolence mais elle pour les hommes de lettres cache la force de la vérité pour tous ceux qui avaient force et importance à lavérité. 

Qu’on n’a pas encore trouvé complet accord sur la semeiotique du mot: “Philologie” et sur la méthodologie qui la soutient on le sait clairment de toute la longue histoire des études philologiques et des laborieux travaux et de toutes les tentatives pour definir l’ample éventail semantique de la philologie et de sa méthodologie(1). Toute tentative est échoué! Umberto Albini à ce propos écrivait:”Basta unsemplice sguardo alle più accreditate “storie” e “introduzioni” alla filologia, classica e non, per rendersi conto di quanto sia difficile una precisa definizione del suo concetto. Un concetto che forse più di ogni altro, nel terreno del conoscere, è gravido di sfumature e implicazioni, di ambiguità e polivalenze…[il filologo] al momento di aprire lo scrigno del suo sapere per farne l’inventario è colto da dubbi e da perplessità, si trova intimidito di fronte a una realtà composita, intricata, non schematizzabile, quale la disciplina cui si è votato”(2). 

Nous qui ne sommes pas dans les petits papiers d’Umberto Albini, tout de même le remercions pour l’hardiesse et l’humilité qu’il a montré quand il a dit “discipline” la philologie que tous les autres avec allant appellent “science“, mais aucun n’a demontré que la Philologie est une science. Le même Albini mis au pied du mur et ne sachant à quel saint se vouer, déclarait: “La Filologia è quanto, detratta l’erudizione, rimane nel filologo: una “forma mentis“, dunque, una impronta attenta e sensibile soprattutto al valore della parola, ma non solo a quello” (3). 

Nous sommes de tout autre avis: pour nous la Philologie est une science, une science expérimentale et nous l’avons demontré (4). Nou savons mené à bonne fin toutes les recherches qui avaient son but dans la demonstration que la “Philologie”, mot greco presente deux aspects comme une medaille à double face:1) ”1’amour des paroles”, 2) “l’amour de l’histoire”, si ça veut dire le mot grec chez Hérodote, le père de l’histoire occidentale (5). 

Seuls deux savants osaient s’appeler:”Philologue“; un érudit greco un érudit allemande qui enfin peu convaincu de ce titre changea de choix et preferait être appelé: “Altertums swisenschajtler“, tout en refusant le épithète de “Philologue” (6). 

La Philologie ainsi etendue et rangée parmi les autres sciences expérimentales oblige, bongré malgré, à cantonner toute la philologie grecque, toute la philologie romaine, toute la philologie hûmaniste et toute a grande foule des philologies modernes qui toutes ensemble voyaient de la Philologie seulement une face: la face de “l’amour des paroles“, de la même medaille ignorant la seconde face: “l’amour de l’histoire” parce-qu’on ne voyait pas dans les “paroles” et dans la “langue” le vrai, l’unique et l’objectif vehicule de l’histoire de l’homme sur la face de la terre. 

Tous les Philologues experts de la première face et ignorants de la seconde face de la medaille philologique nous les rangeons dans la grande armée de la Philologie Statique: ces savants abusant de leur excellent acabit, abutissaient à faire de la vaine et de l’asthmatique rhetorique et tous en blocus nous les condemnons comme coupables de “lèse-parole“; les philologues qui acariàtrement refuserent d’appuer leur oeil au “cannocchiale” de Galileo Galilei, nous les condemnons les deux fois criminels: coupable de “lèse-paroles“, coupables de “lèse-histoire“; crimes impardonnables! 

Galileo inventa de toute spièces la Physique Expérimentale et depuis lors la Physique et toutes les Sciences soeur sont fait des progrès inouis tandis que la Philologie Statique dans sa miserable misère et petitesse ayant perdue sa primauté, continuait à balbutier bégayant seulement dróles des fariboles et se réjouissant dans de sottes blagues elle perdait sa force, sa valeur et son importance si nous voulons faire crédit de secoureur de la vérité au philosophe Seneca qui écrivait: “Philosophia facta est quae Philologia fuit!“(7). 

Ayant autrefois demontré que la Philologie èst sûrement une Science et tout à fait une Science Expérimentale, ayant declaré qu’on peut faire l’honneur de se faire nommer: “Philologue” seulement aux savants qui seuls sont capables en reconstituant l’histoire de la “parole” de reconstituer l’histoire de l’homme si la “parole” et l”’histoire” sont les deux créatures dumême homme qui parle, qui fait: “Factum et verum convertuntur!”. 

Qu’est-ce qu’on doit demander à la Philologie Expérimentale? A la Philologie Expérimentale on doit sûrement demander ce qu’on demande à toute Sciente Expérimentale: la vérité qui se cache dans les ”paroles”, qui est cachée dans les pages de l'”histoire“. 

La vérité philologique, la vérité historique moulent à leur tour les deux faces de la même medaille; seulement quand la Philologie Expérimentale arrive à trancher le “rhematogramme” de la ”parole”, alors et seulement alors le Philologue Expérimental a à la portée de ses mains l’aisance de pénétrer les secrets de la “parole“, les secrets de l'”histoire” comme l’astronome qui dans le “spectrogramme” a le moyen puissant pour tirer au clairles éléments des astres et l’histoire des étoiles. 

C’està nous maintenant demontrer la PhilologieExpérimentalevraieet riched’inopinées conclusions que laPhilologie Statique ne pouvait pas même soupçonner. 

LaPhilologie Expérimentale célébrera son triomphe et fêtera sa gloire lorsqu’elle résoudra desproblémesque laPhilologie Statique pour lemanque d’une adroiteméthodologieàlaissé sanssolution du sort ouavecdes solutions pitoyables sinonindigestes. 

Parmi les autres graves problèmes qui ont travaillé les Philologues de toutes les époques, nous nous comptons la:”Vergilius geburtsorifrage“, c’est à-dire: la question du lieu natal du Poète Publius Vergilius Maro, fils de “Magia Polla” et de “Vergiliomarus“, un celte de la tribus des “Andes“. 

Il y a désormais plus de mille ans qu’on prêche et annonce des chaires universitaires et des jubés culturels: le poète Vergile né dans le village alors nommé “Andes” à nos jours: “Pietole” et à present “Virgilio”, C. Tamagni et F. D’Ovidio dans leur Litérature Romaine écrivaient: “Publio Virgilio Marone nacque in Andes presso Mantova” (8). 

Dans la “PeWeKa” à propos du nom “Andes” on peut lire: l) Ortsname “Andes” olksname: la chose impossible pour ceux qui sont convaincus que dans la “langue“, chaque “parole” indique une sole idée, ayant un seul significat. “Andes“: nom de pays ou nom de peuple? “Andes“: nom celtique indiquait la tribu: “tuàth” des “Andes” et le territoire occupé par cette tribu dans la Gaule et dans la Hautepadanie deMantoue, comme les “Alpes” indiquait le tribu montagnarde des “Alpes” et la chaine des montagnes qui separent l’Italie de la France (9). 

Les braves humanistes ignoraient Alpicus” et croyaient que “Alpinus” Indiquait le gens des Alpes; de cette erreur dans la langue italienne est disparu “Alpicus” et maintenant “Alpinus” indique la population des Alpes. Parmi les “Andes” et dans le territoire des “Andes” Crassus passait l’hiver avec ses légionnaires (10): le peuple de “Andes” se groupaient à Vercingétorix dans la grande révolte contre Rome et contre César (l1). 

Le nom “Andes” aboutit in: “-es ” presque comme les autres noms des tribus celtiques (12): dans la langue celtique il n’y a pas cité ou village terminant in: “-es” (13); ça pour ôter et cantonner la force de la tradition sur laquelle on justifie l’équivalence: “Andes=Pietole=Virgilio” qui n’a pas de mur d’appui dans les références anciennes. 

Pour enforcer l’exclusion de l’équivalence: “Andes=Pietole=Virgilio” qui a de sa part seulement des références préhumanistiques et humanistiques, nous tirerons des oeuvres de Vergile tous les points de repère avec la naissance du Poète, avec la ville de Mantoue, avec le territoire de Mantoue. De Vergile nous avons: l) Mantua quod fuerat quodque Cremona prius (14); 2) Sive Mantuam/Opus foret volare sive Brixiam (15); 3) Superet modo Mantua nobis (16); 4) Infelix amisit Mantua campum (17); 5) Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae (18); 6) Referam tibi, Mantua, palmas (19); 7) Matrisque dedit tibi, Mantua, nomen (20): 8) Mantua me genuit (21). 

Nous rassemblons les références vergiliennes en trois groups: l) n. l, 3, 4, 5; 2) n. 2; 3) n. 6, 7, 8; nous étudierons les trois groups séparément.Lesréférences du premier group nous comuniquent la notice de la pertedes terres que l’aieul du Poète, que la mère du Poète, que le père du Poètepossedaient dans le territoire de Mantoue qui s’enlargeait tout près des confins avec le territoire de Crémone: “ager Mantuanus“, “ager Cremonensis“. 

Vergile regrettait la terre perdue de Mantoue et avec la perte de sa ferme tous les maux qui s’accompagnaient à la guerre civile: “En quo discordia cives/Produxit miseros” (22) sur le territoire au temps jadis occupé par les Etrusques qui furent supplantés par les Celtes à leur tour supplantés par les Romains. 

Déplorant la triste expropriation de ses terres dans l”‘ager Mantuanus” contigu à l”‘ager Cremonensis“, le Poète ne fait pas allusion à Mantoue et à Crémone come lieu de sa naissance et Vergile sans doute savait bien ouil étaitné: dans le territoire de Mantoue. 

Les références du second group nous parlent de l’histoire de Mantoue. Vergile dans ses vers célébre l’ancienne gloire de Mantoue qu’il avec toute bonne raison dit étrusque mais ne pouvait pas célébrer celtique la ville de Mantoue qui à son temps était romaine comme romain était aussi le même Poète. 

Dans l’épitaphe sur lefunèbre monument élevé au Poète dans la routequi courait de Naples à Pouzzoles, “ad tertium lapidem”, on lisait: “Mantua me genuit“; l’expression génante pour tous ceux qui ignorent la langue latine, n’entrave pas ceux qui veritablement sont maitres de toutes les finesses du “sermo forensis” qui était des hommes érudits, des hommes des lettres et pour eux dans le cas en question le nom: “Mantua” peut signifier: l) “la ville de Mantoue“, 2) “le territoire de Mantoue” et clairment Virgile voulait dire: “On m’a engendré quelque part du territoire de Mantoue” s’il n’a jamais fait allusion à Mantoue comme son lieu natal et le Poète savait bien, sûrement ou il était né dans le “Magianum” ou ferme des “Magii Mantuani” qui étaient proches parents ou parents éloignés des “Magii Cremonenses“. 

Vergile usait le nom de “Mantua” comme Marcus Tullius Cicéron parlait de la ville d'”Arpinum” qui était le “municipium” de la zone et l’orateur savait bien qu’il n’était pas né dans la ville d”‘Arpinum” s’il était né dans la fermede sa famille qui occupait la terre de l’isle du fleuve “Fibrenus” tout près de Sora. 

Des références du Poète noustirons sans crainte de doutes ou d’équivoques que Vergile n’est pas né à Mantoue ou à Crémone mais quelque part du territoire de Mantoue: “ager Mantuanus” touchant au territoire de Crémone: “ager Cremonensis“. 

Si des références du Poète nous apprenons que Virgile: l) était né dans le territoire de Mantoue qui s’enlargeait tout de près et tout le long du territoire de Crémone, des références du Poète il n’est pas possible defixerla terre natale de Vergile dans le territoire de Mantoue: “ager Mantuanus“. 

Clarté à percer les l’obscucité tenébreuse nous vient d’un petit poème écrit par Vergile qui paraphrasant le catullien: “Phaselus ille“, prônait les grands hauts faits du muletier Sabinus qui avec son mule allait à la volée jusqu’à Mantoue, jusqu’à Brixe. Le Poète nomme les deux villes come le “terminus ad quem” des envolées de Sabinus et de son mule brave et vaillant mais il ne donne pas de renseignement sur le “terminus aquo“; le point de depart des courses du mule et du muletier. 

Sabinus était connu dans toute la Haute Padanie de Mantoue et tout le monde savait que s’ilallaitindifféremmentàMantoue et àBrixe,ildevaitindefféremment partir d’un point àdemie-distancedeBrixe et deMantoue. 

À ce point de la recherche si nous sommes en état des avoir que la ferme: “vicus” du Poète se trouvait à demie distance de Mantoue et de Brixe, nous ne sommes pas à même de fixer ces terres dans la mappe de Mantoue pour la ténuité de l’information. 

En résumant, du Poète nous pouvons tirer que: l) il n’était pas né à Mantoue; 2) il était né quelque part du territoire de Mantoue; 3) cette part du territoire de Mantoue bordait le territoire de Crémone; 4) la terre et la ferme du Poète étaient à demie distance de Mantoue et de Brixe. 

Ayant revisité les références de Vergile et d’eux ayant tiré les necessaires consequences, nous passons à revisiter les références de la source indirecte: les anciens commentateurs de Vergile; d’eux nous tirons: l) Vico Andico qui abest a Mantua milia passuum XXX (23); 2) In pago qui Andes dicitur et abest a Mantua non procul (24); 3) In pago qui Andes dicitur et abest a Mantua haut procul (25): 4) Vico Andico qui abest a Mantua milia passuum III (26); 5) Civis Mantuanus quae civitas est Venetiae (27); 6) Mantua Romuleae generavit flumina linguae (28); 7) A rure Mantuano Poeta (29). Les réferences qui nous viennent des commentateurs nous les groupons en rangées differentes: l) dans la première rangée le n. l, 2, 3: 2) dans la seconde rangée le n. 4; 3) dans la troisième rangée le n. 5, 6, 7. 

Le n. l, 2,3 ont faite place à une querelle interminable que la Philologie Statique n’est pas encore reussie à calmer; à present est encore ouverte la discussion et toute le monde savant et érudit se montre divisé par deux: les uns croyant à la mesure de”trente milles romaines“, les autres croyant à la mesure de “trois milles romaines“. 

La Philologie Expérimentale, qui réfuse catégoriquement le prèncipe d’authorité et accepte la tradition seulement si accompagnée de preuves valides et inconstestables, procéde avec ordre pour preuver quelle de deux mesures acceptable ou refusable. 

Nous traçons sur la mappe du territoire de Mantoue une circonference avec rayon de “trois milles romaines” et centre dans la ville de Mantoue. Tous les “vici” circonscrits dans la dite circonference se trouvant à la distance de “trois milles romaines” de Mantoue peuvent validement se porter candidats à l’honneur d’avoir vu naitre le Poète. Mais ici il y a une grosse difficulté: tous les “vici Andici“circonscrits dans la circonference avec rayon de “trois milles romaines” n’ont pas le droit de s’emparer de cette gloire parce-qu’ils sont tous en bloc exclus de cette illustre compétition si à bon escient ils ne confirment pas la parole du Poète qui écrivait que ses terres, son village ou sa ferme étaient près du territoire de Crémone: “ager Cremonensis“; ça nous obligeà couper en deux la circonference avec rayon de “trois milles romaines” et la part à l’est de Mantoue c’est loine de Crémoneet la part à l’ouest de Mantoue c’est trop voisine à Mantoue et trop loine de Crémone. 

Qui a donné et continue à donner raison et crédit à Egnatius et ajoute foi et credibilité au manuscript perdu de Bobbio, sans doute et sans cesse il foule à ses pieds les références de Vergile qui savait ou était situé le village ou la fermede sa naissance et n’aurait pas pu accepter cette distance de “trois milles romaines” que le maitre Merula ou son disciple Egnatius, tousles deux en bonne foi, croyaient l’unique, la vraie distance du “vicus Andicus” de la ville de Mantoue. 

L’inacceptable distance de “trois milles romaines” si pousse hors du concours tous les “vici Andici” circonscripts dans la même circonference,elle pousse horsde la joute “Andes=Pietole=Virgilio“, village qui se trouve circonscript dans la circonference de “trois milles romaines” et dans le territoire de Mantoue opposite au territoire de Crémone. 

La Philologie Statique ayant fait echec et mat, la Philologie Expérimentale ne démordre pas et cantonnant la formidable référence des autres manuscripts qui portent la distance de “trente milles romaines” que Egnatius et ses fauteurs ont nié et combattu jetant mille cris de joie “veluti invento Api in Padania“. 

Nous traçons une autre circonference sur la mappe du territoire de Mantoue mais avec rayon de “trente milles romaines” et centre dans la ville de Mantoue. À circonference tracée, tous les “vici Andici” circonscripts dans la dite circonference peuvent justement se glorier d’avoir vu la naissance du Poète; parmi tous ces “vici” seulement un peut avoir cette gloire et cet honneur. 

Pour atteindre la vérité et pour “donner à César ce qu’est de César” nous signons quattre cadrans dans la circonference de “trente milles romaines” avec le centre en Mantoue; nous numéroterons les quattre cadrans en manière anti-horaire: contre le mouvement des aiguilles de l’horloge:1, 2, 3, 4 et pour faire déférence au Poète nous devons cantonner le cadrans n.1 et 2 parce-qu’ils dans l’ancienne mappe de Mantoue occupaient celle partie du territoire qui s’allongeait à l’orient de la ville et bien loin du territoire de Crémone qui exproprié sous ordre d’Auguste causa au Poète la perte de ses terres et de sa ferme justifiant le douleureux et pénible cris: “Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae“(30). 

Nous demeurent les cadrans n.3 et 4 et le choix entre les deux est surement difficil parce-que les deux touchent au territoire de Crémone: “ager Cremonensis“, comme disait Vergile quand il parlait de sa ferme: “Rus Magianum“, qui occupait les terres du territoire de Mantoue: “ager Mantuanus” tout près du territoire de Crémone. 

Bien, tous les “vici Andici” qui se trouvent dans les cadrans n. 3 et 4 peuvent avancer la 

candidature pour avoir la gloire et l’honneur d’avoir vu la naissance de Vergile. De ce grand nombre à nous le choix! 

Nous avons déja fixé que le lieu natal du Poète devait se trouver: 1)distant de Mantoue “trente milles romaines“; 2) dans celle partie du territoire de Mantoue: “ager Maniuanus” qui bordait la frontière du territoire de Crémone: “ager Cremonensis“; 3) à demie distance de Mantoue et de Brixe; tout ça nous porte dans les terres de Castel Goffredo et de Casalpoglio qui repondent entièrement aux trois requises et conditions appuyées du Poète. 

Les références de la source directe et de la source indirecte sont confirmées par trois inscriptions trouvées dans le territoire contenu dans le cadran n.3 et précisément à Castel Goffredo, Casalpoglio et Calvisano: un autel votif trouvé à Castel Goffredo avec l’inscription dédicatoire: “P. MAGIUSIO VI V. S. L. M. QUINTUS EUBULUS ET PETRONIANUS PRO SE ET SUIS; une stèle funèbre trouvée à Casalpoglio avec l’inscription: “P. MAGIUS MANI (us) SIBI ET ASELLIAE M. F. SABINAE UXORI ET SATRIAE M. F. TERTIAE CASSIAE P. F. SECUNDAE MATRI”; un ex-voto trouvé à Calvisano avec cette inscription dédicatoire: “MATRONABUS VERGlLIA C. F. VERA PRO MUNATIA T. F. CATULLA V. S.L.M.”. 

Les trois inscriptions (la première est perdue, la seconde et la troisième sont conservées dans le Muséum de Brixe) sont toutes particulières et pour deux raisons:1) elles portent noms qui rappellent la famille du Poète; 2) elles ont été trouvées dans les pays ou portent toutes les requises et les conditions suffisantes et nécessaires pour fixer le lieu natal de Vergile dans le territoire de Mantoue. 

A la fin du travail obligés à cantonner avec le du respect tous ceux qui ont defendu la tradition plus que millenaire, tous ceux qui ont déplacé ailleurs la place natale du Poète, nous tenons à déclarer le Poète de Rome, des Romains et de toute la Romanité né dans les terres de Calvisano, de Castel Goffredo et de Casalpoglio et qui nie la tradition confirme son inébranlable croyance dans la Philologie Expérimentale et réfuse la Philologie Statique qui accuse echec et mat devant les résultats inouï de la Nouvelle Philologie. 

Davide Nardoni

1) D. Nardoni, The Experimental Philology’s Manifesto, “Spiragli”, A. I, n. 3, luglio-settembre, pp. 15-28, Marsala, 1989. Id., The Homeric Question or The Experimental Methodology, Spiragli”, A. I, n. 1, gennaio-marzo, pp. 17-35, Marsala, 1990. 
2) U. Albini, Quale Filologia? Atene e Roma, Firenze, 1985, pp. 22-25. 
3) Id. 
4) D. Nardoni, The Experimental Philology’s Manifesto, art. cit. 
5) À notre avis, Hérodote en écrivant les “Histoires” donnait ampie espace à la Philologie vue dans ses deux face: I) Philologia“: amour de la parole; 2)”Philologia“: amour de l’histoire, faisant compte des langues des peuples et de l’histoire des peuples qu’il avait visité. 
6) Eratosthénes de Cyrène amait être appelé “Philologos”; “Wolf was the second in the long arch of time to employ the name: Philologia” in his registration’s demand: “Studiosus Philologiae” in the Gottlngen University.Wolfinasecond time, to the name: “Philologia” preferred the german compound name: “Alter thumwissenschaft” (D. Nardoni,The Homeric Question or the Experimental Philology, art. cit., p. 26). 
7) Sen. in G. Penzo, Invito al pensiero di Nietzsche, Milano, Mursia, 1990, p. 30. 
8) C. Tamagni- F. D’Ovidio, Storia della Letteratura Romana, Milano, F. Vallardi, 1874, p. 352. 
9) La langue latine présente deux adjectif: l) “Alpicus” à indiquer la population des “Alpes“, tribu, “tuàth” montagnarde qui vivaient dans les Alpes; 2) “Alpinus” à indiquer le lieux montagneux de la chaine des Alpes.10) César, De Bello Gall., II, 35; III, 7. 
11) César, De Bello Gall., VII, 4, 6. 75, 3. 
12) Ex. gr.: “Allobroges“, “Alpes“, “Anartes“, “Ancalites“, “Andes“, “Bigerriones“, “Bituriges“, “Brannovices“, “Carnutes”, 
Caturiges”, “Cenabenses“, “Ceutrones“, “Cocosates“, “Coriosolites“, “Druides“, “Eburones“, “Eburoviees“, “Elutes“, “Gates“, 
Harudes“, “Lemovices“, “Lingones“, “Namnetes“, “Nantuates“, “Nemetes“, “Nitiobriges“, “Pictones“, “Redones“, “Senones”, 
Sibuzates“, “Sotiates“, “Suessiones“, “Tarusates“, “Tectosages“, “Tolosates“, “Trinovantes“, “Vangiones“, “Veliocasses“, 
Vocates“. De ces noms de tribus aboutissants en: “-es” dérivaient deux adjectifs: l) in “-icus” pour indiquer la tribu, 2) in”-inus 
pour indiquer le territoire occupé par la tribu; ex. gr.: “Santonicus” ad Santones pertinens; “Turonicus” ad Turones pertinens; 
“Bigerronicus” ad Bigerrones pertinens etc. Les umanistes qui préféraient la forme: “Andinus” à la forme: “Andicus” en la 
considerant barbare se trompaient et forgeant l’erreur il sont forgé tous ceux les ont suivi dans cette préférence; à propos, nous 
colportons le passage suivant: “Ma è un fatto che la tradizione umanistica – come ha reagito a lungo andare al falso, grossolano, 
barbarico “milia passuum XXX” della “Vita”-così non ha voluto inchinarsi alla tradizione manoscritta della “Vita” per questa forma 
“Andicus” forse anch’essa barbarica e ha proclamato la regolarità della forma “Andinus” (E. Paratore, Una Nuova Ricostruzione 
del “De Poetis” di Suetonio” Bari, Adriat. Editr., 1949, p.133). “Andicus“, “Andinus“; les deux formes sont parfaitement régulières 
et elles indiquent choses bien différentes, inconnues aux Humanistes et aveugles disciples et fauteurs. 
13) “Admagetobriga”, “Agendicurn”, “Alesia”, “Atuauca”, “Avaricurn”, “Bibracte”, “Bibrax”, “Bratuspantium”, “Cavillonum”, 
“Cenabum”, “Decetia”, “Durocurtorurn”, “Genava”, “Gergovia”, “Gorgobina”, “Lutetia”, “Matisco”, “Narbo”, Noreia”, 
“Noviodunum”, “Ocelum”, “Octodurus”, Sa-marobriva”, “Tolosa”, “Vellaunodunum”, “Vesontio”. 
14) Kataleptòn VIII. 6. 15)KataleptònX,4-5. 
16) Verg. Eclog.IX.27. 
17) Verg. Georg.Il.198. 
18) Verg. Eclog.,IX.28. 
19) Verg. Georg.III.12. 
20) Verg. Aen.,X.200-20l. 
21) C. Hardie,op.cito,p.32. 
22) Verg. Eclog.l,71-72. 
23) C. Hardie, op. cit., p. 32. 
24) C. Hardie, op. cit., p. 3. 
25) C. Hardie, op. cit., p. 32. 
26) “P. Vergilii Maronis, Opera: Bucolica, Georgica, Aeneis“, ed. I. B. Egnatius, Venetiis, 1507. 
27) C. Hardie, op. cit., p. 17. 
28) C. Hardie, op. cit., p. 26. 
29) Macr. Sat. V, 2.

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 22-31




The Experimental Philology’s Manifesto Physics and Philology

The Experimental Philology’s Manifesto Physics and Philology from hour to hour are pushing away from each other; nowadays the gap separating the two Sciences is widening; there shines no hope of filling the widening gap: the Physics landing men and machines on the lunar soil, sending dogs, monkeys, men and women up in the skies and hurling in the space computerized observatories to look at Mars, Venus and the other planets; the Philology spending time, money and brains to study Moon, Mars, Venus and the other planets seen only as source of poetical inspiration, seen as pagan deities with all their myths. Today, satellites and nuclear bombs rotating in the skies, we blame the Physics for the nuclear menace; gods and goddesses dead and buried with all their myths, we reproach to the Philology its inertia. The causes of the existing gap between the physical and the philological field, are two: 1) the employ of a new and sound Methodology by the Physicists; 2) the obstinate refusal of the inertial law by the Philologists. The First Law ofMechanics: the fundamental dos pa sto of the Physicists1 and anathema for the Philologists, assured success to the Physics and condemned the Philology to ineffectiveness2. The lack of a sound and renovate Methodology in the philological studies has blocked the Philology and there is no hope of awakening it from its sleep and slumber. The Philologists of all times, of the various countries and of the different schools, strenously proclaimed and proclaim the possess of truth and by every means, by hook or by crook they defended and defend their contrasting conclusions. As the czech poet Machar wrote of the Greeks, the Philologists talk and talk; having no intention to put an end to their quarrelings about the greek and roman writers, about their life, ideals and works, they do not confess to ignore the substance of the greek and latin language and the particularities of the two societies which invented and used and transformed the respective language. We owe to the Philologists the dispersion of the dilapitaded substance of the greek and latin culture, of the greek and roman societies. Between society and language we understand an interdipendent interchange: the mutations of the society corresponding to the diachronic mutations of the language, there are for the Philologist two possibilities: 1) know the society necessary to the Science of the language; 2) know the language necessary to the Science of the society… tertium non datur! The Physicists long ago repudiated the aristotelian doctrine and the aristotelism; so pushing apart the absurdities of the syllogism, they founded the new Physics and went up the skies and penetrated the atoms, moving from the inertial law; the Philologists refusing Aristoteles but not the aristotelism and for it refusing the inertial law, now pay the fault of their haughtiness and they still go the wrong way not knowing whence they move, where they stay, where are and which their aims and goals. The Philology lacks a sound and renovate Methodology. The Philologists consider the parole, consider the langue as the fundamental base of their Science and of their Methodology but many and controversial being the definitions of the parole and of the langue there is not a universally accepted Methodology in the philological field. To found a new and valid Methodology, first we must uncover the nature of the parole, establishing its structure, fixing its mutations in the form and changes in its meaning, duly marking its disappearance, following the parole along all its way to fossilization: all chapters must be studied an duly ruled only after the parole has been understood deeply and profoundly defined3. The parole has material nature and corporeal effects. There is no doubt about the materiality of the parole; the Stoic School teached the corporeity of the parole and so informed Seneca4 and wrote Sextus Empiricus5: authors who acknowledged their debt to the rhetoricians and grammarians of the Stoic School. Of the materiality or corporeity of the parole were aware the Romans who refusing disquisitions and subtilities, settled the problem using two different words but with the same root: res to indicate the abstract parole and ver+bum to indicate the concrete or material parole6. The materialty or corporeity of the parole clearly explains the birth, the diachronic growth, the slow orrapid changes of the parole, its disappearance and its fossilization at the extreme stadium of its long or short life7. Now, how to explain all the mutations of the parole beginning with its birth and finishing with its death or better with its fossilization if a new force does not resuscitate it to new life for a new meaning in a renovated society? The parole being material or corporeal is subjected to all the physical forces like all other object, body or particle; subjected to the impact of the physical force, the parole does not stop changing along the diachronic process of time. The force operating upon the parole bears the explanation of the causes of all the mutations of the parole. The existence of the postulated cause, the operating force, the changes of the parole, the materiality or corporeity of the parole together justify the employ of the First Law of Mechanics in the philological field: the inertial law proclaims:«The particle will remain in a state of rest or of uniform velocity (that is of motion in a straight line at constant speed) until it is compelled to change that state by an impressed force»8. In consequence of the premise, we dare change the galilean-newtonian inertial law applying it to the philological field so passing from Physics to Philology:«The parole remains in its state of rest until it is compelled to change that state of rest by an impressed force which constrains it to move in the straight line of constant entropy». The galilean-newtonian law wich changed the Physics did not change the Philology because it was ignored and strenously fought by the unanimous chorus of all the contemporary Philologists who with the ineffable Cremonini, refused to put their eyes to the lens of the cannocchiale of Galileo Galilei, so blocking and enervating the philological studies and not comparing the state of rest of the Philology to the state of motion of the Physics in the marvellous line of its stupendous achievements. The Philologists who earnestly refused to introduce the First Law of Mechanics in their studies, they also refused the new Physics Methodology in their philological inquiries so procuring detriment and damage to their Science, letf a long way behind the detested Physics. The want and lack of a new and sound Methodology in the philological studies, is evidenced by the same Philologists who ore rotundo proclaim to have and to use the surest Methodology while they all are still disputing about the name of their Science. The Philologists still quarrel about the name of their Science, calling it by various and different names: Semasiology, Sematology, Clossology, «Rhematics», «Rhematolog, Semantics and, last but not least, Philology9. The name: Philology has affirmed itself over the other names and nowadays the Science is known and is cultivated by the name of Philology, In this troublesome context and situation, the necessity of clarifying compels us to revisit the ancient name: Philology given to the Science of the paroles, to see if it applies welI to the Philological Science. Philology for us is not the Science of the sole paroles because the greek compound name bears a double meaning so restoring the greek word: lògos at its true signification. Philology is the Science of the paroles: lògoi, not extinguishing itself in the paroles but amplifying itself in the description of the various aspects of the people, of the society which the parole and the langue invented, used and transformed in the time’s process. This is the double meaning of lògos and lògoi as we read in the Historiai of the greek Herodotus, the father of history. Philology: the Science of the paroles, the Science of the history; there are not two separated Sciences but one Science for an unitarian but twofold study of the paroles to penetrate the secrets of a given society, of the history of the society in order to reconstitute the eventually missing links of the language. Society and language: twofold faces of the same money! To establish the Methodology for a new Philology, we formulate the following axioms: 1) The parole: a perfect mirror reflecting the society at a given moment; 2) The parole changes as changes the society at a given moment; 3) The parole falls, declines, disappears as falls, declines and disappears the society which invented and used the parole in the short or long arch of time. In order to demonstrate valid the axioms and to give a reaI demonstration of the new Methodology in the philological studies. we have chosen at random fourwords: paroles: two greek and two latino The preference given to the greek and latin paroles is not due to the love for Greece and Rome but because it is easier to follow their diachronic process than to study the paroles of the modern languages in continous mutations. The first parole we propose, is the latin word: bellum. Bellum in all dictionaries is translated with: guerra, guerre, Gefecht, gevecht, slag, war, Krieg: translation inexact because it is misleading not alerting the scholar or the student of the enormous distance existing between the latin word: bellum and the words of the modern languages. There a clear demonstration of the proverb: Translate is betray!; we must not confound the paroles if we do not want confound the societies: the modem society is very different from the roman society as bellum differs from the parole: guerra of the italian vulgar language. Who believes rigth the translation, he does not comprehend the exact meaning of the latin word: bellum infiltrating into it the meaning of the barbarian and gerrnan word: werra which had and has nothing in common with the latin word as the barbarian society had nothing in common with the roman society. Tracherously infiltrating in the latin word: bellum the meaning of the foreign and barbarian word: werra, there was made with extreme subtility and with extreme degree of ignorance a grave offence to the latin language, to the Roman people as a whole and to the roman society wich till now lies under the blow of this inacceptable translation and injury. Bellum=Duellum not to be translated werra; bellum = duellum was at its beginnings, at the beginning of the roman society the fight of two, indicating the recourse to arrns to solve the contrast between two peoples as we read of the bellum between Romans and Albans resolved by a duel sustained by the Horatii and Curiatii at Albalonga. as we read of the bellum = duellum between Romans and Sabini in the roman Forum; in those ancient time, there was not war but duel of chosen champions and after between two peoples at variance, in order to settle their dispute with the assistance of the national gods and with the sacred function of the respective priests. Slowly but constantly in the course of time. Rome enlarged its territory and we read of other bella=duella by which the Romans settling the disputes with the neighbouring peoples, never aimed at destroying them as was the aim of the barbarian werra. So bellum=duellum slowly changed from figh of two champions to «fight of two peoples»; losing its singularity of the plurality of the fighters but preserving its sacred nature if till the times of the emperor Trajan. Optimus Princeps Incomparabilis, the declaration of war was the duty of the Feciales, who opened the hostilities, hurling a blood-stained lance in the ager hostilis not far from the walls of Rome. There carne the Barbarians and the Romanorum Imperium collapsed, declining and falling under the violent onslaught of the Gofhs, Ostrogoths, Eruli, Vandals and Langobards. Fell and disappeared the Imperium and with it fell and disappeared the roman society and down went the latin language slowly substituted by the rising vulgar tongues. Of the changing politics, of the disappearance of the society and of the fossilization of the latin language, we uncover a direct proof in the new paroles invented and used by the new societies in their new langue. In the english vocabulary, all the words alluring to war: helmet, shield, bow, dart, sword and so on, are not oflatin matrice but ofbarbarian and saxon mould. The same variation in the vulgartongues: all the paroles alluring to war are not of latin matrice but of german root. With a few words in the vulgar tongues remained but with different meaning the word duellum; duello, duel, which for the Knights of the Round Table signified the will to fight for the poor and weak in defence of the ideals of the Knighthood and of the Holy Graal: at the time of la belle Epoque, duel signified a fight of two for personal offence or for the beauty of the dame: nowadays there are no duels, the parole being near to its disappearance it is used only metaphorically: the slow falling of the parole into fossilization. The passage from the latin langue to the vulgar tongues, the disappearance of the words alluring to war, are clear testimonies of the predominance of the barbarian elements in the spanish, french, portuguese, roumanian, and italian societies: in the changing meaning of the paroles we must see the changing thought of the changing societies. The idea of the war as duellum changed in the idea of the war of destruction if the aim of the Barbarians was the complete destruction of the opposing foe overthrowing the affirmed society. The historian writing the history ofthe Roman people only ifhe knows the meaning of the parole; bellum=duellum shall not deviate from the right way, shall not deviate confounding the reader instilling in his mind the invented idea of Rome continually on the battle-fields, always assaulting external and pacific peoples, enjoying a state of perpetuaI war; the historian should give credit to the proverb: Romanus sedendo vincit. Fighting its wars, Rome applied one or all the three moments ofits politics: 1) parcere subiectis; 2) paci imponere morem; 3) debellare superbos, i.e.: 1) raise the prostrated foe; 2) habituate peoples to peace; 3) take away the weapons of the superbs; and that was a different politics: bellum=duellum being the preamble ofpeace and the prelude of progress. The passage from the latin to the vulgar vocabulary bears a direct testimony of the extemal force operating upon the paroles, of the same force operating upon the society, renewing the language, renewing the society under the onslaughts of the barbarian invaders who with their war-cries imported in the south of Europe blond hair and blue eyes and the practice of the war of destruction10. Rome founded by people of dark hairs and dark eyes and dark complexion was and is different from the Rome of the historians! To demonstrate the effects of an internaI force upon the «paroles», we have picked the parole: Εκκλησια, from the greek vocabulary11 . Εκκλησια: at the origin indicated an assembly duly summoned: in the heroic times, as we read in the Homeric poems, the parole: Εκκλησια indicated in the Iliad the assembly of the fighting heroes to discuss military matters: the parole: Εκκλησια, in the Odyssey, indicated the assembly of the Notables at court to discuss political matters and the decision ofsending back to his homeland the foreigner Odysseus with dark eyes, dark hairs and dark complexion, bom as all the Pheacians from the same mediterranean stock. When the greek polis affirmed its political status and its power the parole: Εκκλησια passed to indicate the popular assembly; the popular assembly lost its importance when it was dispersed by the tyrants, as we read of the Thirty Tyrants. The dispersed popular assembly did not reappear in the hellenistic times, the ellenistic sovereigns preferring their private council to the blundering popular assembly. To escape death and to avoid fossilization, the parole: Εκκλησια, changed its meaning and in the hellenistic time, indicated the assembly of thesons of Abraham in the place of prayers: the Synagogue; the change of mearning from the political to thereligious acception of the word testimonies the presence ofthe Izraelites in all the territories of the hellenistic monarchies12. In the NT, the parole: Εκκλησια: Ecclesia indicated the first group of the believers in Christ. The Apostles preaching the Gospel in all the countries and cities of the Mediterranean Ekumene, the parole: Εκκλησια, Ecclesia indicated the whole of the believers living and praying together. In the Cod. Just., the christian church being well established, the parole: Εκκλησια, Ecclesia, indicated the place of prayers of the christian believers. The transposition of the parole: Ecclesia in the italian word: chiesa, spanish: iglesia, french: église bearing reference only to the building of prayers and not to the christian belief, indicates the disappearance of the pagan worship and the destruction or transformation of the pagan temples. The new religion converted the Gentiles of the Imperium and Rome, superb of its many temples, had Ecclesiae and Basilicae dedicated to the martyrs of Christ. Another proof of the internal force or cause operating upon the parole we find in the latin parole imperium. The substantive: imperium and the verb imperare were in continual use during the Regnum, during the Res publica, during the Imperium, during the Dominatus; if the paroles: imperium and imperare were used under different political regimes by the different roman societies, the two paroles indicated something that could not be changed by the changing political regime or by the changing society of Rome: then the parole: imperium indicating what was stable and fixed, represented the substance of the antiqui mores Romani: the sound and perfect motor of all the roman political actions. Imperium: the special and particular endowment of the pater familias who had sucked it from the mouth ofhis dying fatherwith the last, cerimonial kiss13. Imperium, assuredly a strong constituent of the patria potestas wich derived its authority from imperium, of imperium being a private manifestation and exercise. The patria potestas accomplished many tasks in the familiar ambitus as in the political field. The pater familias was the fami1y priest; was commander-in-chief of the family combat-group in the field; was the provisor of the living means for all the family components; was the protector of the clients; gave the daughters in matrimony; elected the wife for the sons; legittimated the newbom son; condemned to death the guilty; gave freedom to the slaves; adopted a foreigner into the family14. If those the tasks the pater familias carried on in his life, they were also the base of the political tasks the pater exercised in the Roman Senate; the familiar tasks were automatically transformed in political tasks. To ascertain the origin of the parole: imperium, we must search the literary sources. There being strong ambiguity, the Philologists and the Historians gave and give to imperium the meaning of: «Supreme Command of the Combined Roman Forces in the battle-field» and to imperator the meaning of: Victorious Commander in chief: a right interpretation indeed, but a reductive and incomplete translation because it is partial, supporting only one of the many tasks of the pater familias in the family ambitus and of the pater in the Senate15. We find the most ancient source of the parole: imperium in the realm of the sermo sermo rusticus: Ovid, Vergil, Columella, Pliny the Older, Cicero and Tacite used the word: imperium, imperare in their works16. Imperium, imperare in the agricultural language indicated the necessity for the tillers along the left bank ofthe blond river Tiber to work plain the soil an for the wine-dressers of the hills to prune equal the wine-branches if the wanted good grain from the soil and good wine from the wine-yards17. So the patres familias worked the soil and pruned the wine-branches and the same work was done by the patres in the Senate for all the Roman people and for the externae nationes in the aim of rendering all equal before the law. The roman imperatores and the other authorities endowed with «imperium: maior potestas cum imperio; minor potestas sine imperio» among the military tasks had the power to give the civitas Romana to the people pruning them and separating the worthy from the unworthy. As the pater familias adopted a foreigner into the family group so the imperatores and the praefecti made citizen the foreigner incorporating him in the roman society, in the Roman Arrny. The parole: imperium restored to its ancient and true meaning, is to be considered the motor of the roman growth and the explanation of the greatness of Rome; only imperium thus interpreted explains the presence in Rome ofkings who were racialiy not Romans; explains emperors who were not Italians, like Traian, Septimius Severus, Diocletian and Philip the Arab who celebrated the first millenium of Rome: explains the coesistence of so different Romani cives from all the countries of the Imperium. There were roman citizen of Italy and Illyria, of Africa and Arabia, of Greece and Macedonia, of Syria and Palestine, of Spain, Gallia and Britannia, of Germany, Noricum, Pannonia and Dacia, all of them collaborating with arms and brains to aggrandize Rome and to defend the roman imperium and their countries. The state of civis pleni juris was a juridical, not a racial category! In the first period of the roman history, the parole: imperium changed under the impact of an internal cause and not of an external force. After the Antoninian Edict: «Omnes in orbe Romano qui sunt: cives Romani facti sunt» the imperium began to change, there being no more necessity to make new citizens, all being citizens by law and imperium losing the principal of its tasks. In the times of the dominatus, the parole: imperium accelerated its changing under the impact of an external force: the invading Barbarians, from imperare ut passing to imperare facere to give greater resonance to the militaty command of the Roman Army. In the word entropy we see the changing of the parole, the changing of the roman politics, the sign of the collapse and the commencement of the end of Rome and of the decline of the Roman Empire and the ruin of the roman society and the fossilization of the latin langue as we read in the Langobard King Rotari’s Edict and in the famous «Carte Capuane» and in the documents of S. Mary in Cinglis and of S. Salvatore in Cucuruzzo. The fourth and last parole by us subjected to inquiry following the Methodology of the Experimental Philology18, is the greek parole: Γεωμετρια, transposed as: Geometry in all the modem languages but not translated because what indicates nowadays Geometry, it is not what at the beginning indicated the greek word: Γεωμετρια. The greek historian Herodotus: the father of history wrote in His Historiai and we refer His thought not His words: greek philosophers had introduced in the greek poleis and gave as fruit of their mind what was a genuine product of the Egyptian priests. Among the other Sciences thus deceitfully smuggled from Egypt to Greece, there was Geometry. Geometry was effectively developed in the egyptian soil, by egyptian hands and minds of the state-experts who had the duty and the task of measuring the tillable soil along the two banks of the sacred river Nile, after the two annual inundations. in order to reassign the arabIe soil to the legitimate owners. The science of Geometry in the hands of the egyptian priests aimed at the exact survey of the tillable country soil in order to avoid strifes, quarrels and bloody fights among the tillers if peace in the fields meant more grain in the public granary for the starving people. The science of Geometry from Egypt passing in Greece, the parole lost its original meaning and changed because in the greek country and lands there was no use for Geometry: science measuring the soil, because in Greece there were no inundations. Losing its contact with the everyday reality, necessities and uses, the Geometry became an abstract science: «ne of the three principal branches of mathematics (the other two being algebra and analysis) may be described as the branch which deals with the properties of space»19. Euclides wrote his treatise of Geometry and for a long, long time He was the top and enjoyed the authority of the ipse dixit. Nowadays there are other Geometries which deal with space and its properties but from different points and differents prospectives: the Differential Geometry, the Projeetive Geometry, the Inversion Geometry, the Synthetie Geometry, the Analytic Geometry; there are also non-euclidean geometries derived from the studies of Saville, Saccheri, Lambert, Gauss, Lobachewski, Bolyai, Riemann, Helmholtz, Beltrami. Geometry gives a good example of a parole which at the beginning was subjected to an external cause but in Greece changing into science began its long voyage upon the writing-tables of the Scientists where it was subjected to a transcultural force: the force of all its corttinuous transformations. At end of the proposed inquiry about the four paroles, we affirm and we are sure of our affirmation, that the results obtained with the four paroles are the results obtainable from all the paroles if subjected to the same Methodology of the same Experimental Philology. Concluding our work and the paper, we dare signalize the ten axioms of the Experimental Philology: 1) The parole is material; immaterial is the meaning of the parole; 2) the material parole is subjected to internal, external, transcultural force which in short or long time modifies parole and meaning; 3) the force causes the entropy; decay of the parole; 4) the force operates upon the material parole as operates upon the material object, body and particle; 5 the parole is itself only at the point of a considered time; the meaning is itself only in the point of a considered time; 6) the parole changes in its diachronic process as changes the meaning as changes the society which invented and used the parole and the langue; 7) parole is consumed by the entropy as the objects are consumed by attrition; 8) the parole reflecting the society as a loyal mirror, is a two faced money to be spent only by the man who knows the meaning of the parole and the history of the society; 9) objective history of mankind relies only upon the paroles; 10) the Science wich studies together the parole and the society, is the Experimental Philology known also as the Dynamic Philology20. Davide Nardoni Note 1 Dos pas sto; da mihi ubi consistam: it was the doric motto of the famous Archimedes of Syracuse in the Magna Graecia of Sicily. 2 For a clear and limpid demonstration we could say without contradiction: we read books and treatises, articles and essays about the life and works of the mantuan Poet Vergil but we continue to ignore who were His parents, His relatives, His birthplace and the origin and the meaning of His nomenclatura: praenomen: Publius, nomen: Vergilius, cognomen: Maro and the Philologists have as yet not put an end to their quarrelsome diatribes about the celtic blood of Vergil derived from His parents: Magia Polla of the Volsci and Vergiliomarus of the celtic tuàth: tribe of the Andes. 3 The assertor of the Experimental Philology does not accept all the philological conclusions of the famous Linguist F. De Saussure; in the same time acknowledges the validity of the simple but profound intuition of the: parole and of the: langue. It is understood that the Experimental Philology is inclined to antepone for its particular methodology, the parole to the langue. 4 Quid est enim vox nisi intentio aeris ut audiatur, linguae formata percussu? (Sen., N.Q., 2,6,3). 5 Sext. Emp., Against the Logicians, II, 12. 6 Res ab original signified the parole understood as the ultimate decision of man; the man who formulated it expressed his res by verba as the gods expressed their will by indicating it to the human beings with signs appropriated to the fatum. Fatum the parole of god; res the parole of man introduce a new chapter in the roman theology. 7 The diachronic process of the parole for the Experimental Philology is entropy or decay, every parole being positive at the beginning and negative at the end of the process. 8 Encycl. Britan., W. Benton, Chicago 1963, vol. 15, p. 147, s. v.: Mechanics. 9 «Les grammariens avaient déjà dépuis le début du XIX siécle, le terme: «semasiologie» ou étude des significations, toujours formé sur le radical grec sema (signe). Le linguiste français Michel Bréal lui substitue le mot sémantique pour désigner «la science des significations» et de «loís qui président à la transformation des sens»; «étude (nous dit-il) si nouvelle qu’elle n’a même pas encore reçu de nom»; en fait elle relève – en le renouvelant et en l’enrichissant, de la sémasiologie. Les deux mots se confondent et employés concurrement, éliminent de nouveax termes: sématologie, glossologie, rhématique, rhématologie etc. qui ne font que des apparitions sporadiques. Sémantique-adopté ici-est en train de supplanter sémasiologie, au moins en France et dans les pays de langue anglaise». (P. Guiraud, La Sémantique, Press Univer. de France, Paris, 1955, p. 8). 10 It is not a rifie of a bagatelle: put an end to the long querelle which from the times of Pisistratus and Aristarchus till our days has fatigued minds and brains trying to ascertain the Iliad older than the Odyssey and vice-versa. The ExperimentaI Philology proclaims older the Odyssey than the Iliad moving from the difference of hairs and eyes in the heroes of the two epic poems. In the Odyssey the hero Odysseus has dark hairs, dark eyes, dark features in his dark complexion; in the Iliad we read of heroes who havc blond hairs, blue eyes and candid features in a white complexion. Odysseus is the sea-farer hero of the society of Mycenae and Crete which at the time was at its apex as we see in the paintings of Haghia Triada, Cnossos and Festos. Achilles is the blond protagonist of the fightning madness of the Iliad; the blond hero is the specimen of the blond people of fighters who invaded the Greece from the north and subjugated the native pcople of dark featurcs: the mediterraneans. To the invasion of this multitude of blond fighters is referable the exstinction of the mycenean culture and society. 11 «Εκκλησια»: Ecclesia: is a compound greek name; it results from: εκ: from and κλησια, from the verb: καλεω signifying: calling from; i.e.: from the house, from the place, from other places. 12 In Alexandria of Egypt there was a very florid diaspora of Ebrews; there, the Bible was translated from aramaic into greek by Seventy Experts: the so called: Εβμηxοντα: Septuaginta: the Seventy. 13 «More veterum, apud quos parens proximus, cognatus aut amicus intimus, admoto ad os morientis ore, extremun eius spiritum quasi excipere et haurire velle videbatur» J. Juvenco, P. Virgilii Maronis, Opera Omnia, A. Delalain, Parigi, 1810, p. 277, n. 685). 14 «Servitute liberabantur servi per manumissionem quae erat vel justa cum justam libertatem et plenum jus civitatis Romanae consequebantur vel minus justa cum ex lege Junia Norbana fiebant Latini Juniani quibus iriferiores etiam erant qui ex lege Allia Sentia fiebant liberti dediticii, qui scilicet: aliquando ob gravius crimen stigmate notati vel graviore poena affecti essent:». (A.O.H. Nieupoort, Rituum apud Romanos Explicatio, O. Tibernino, Venezia,1749, pp. 442-443, sect. VI, c.V., § 3). «Adoptio in specie talis est: eorum qui in aliena potest:ate sunt et a patris naturalis familia in adoptivi familiam transferuntur… Arrogatio est eorum qui cum sui juris sint, se in potestatem alterius tradunt. (A.G.H. Nieupoort, op. cit., p. 446, sect. VI, c.i., § 4). 15 «Res de quibus ad Senatum referebatur, erant omnes quae Rei publicae administrationem spectabant, praeter creationem magistratum, lationem legum et belli vel pacis arbitrium, quarum rerum potestas penes Populum erat» (A.G.H. Nieupoort, op. cit., pp. 28-29, sect. I, c.II, § 6). 16 Verg., Georg. I, 98-99; II, 362-370; Co1um., De Re Rust., 3, 3, 6; 4, 24, 21; 4, 28, 12; Plin., N.H., 17, 22, 178; Sen., Dial., 9, 12, 5; Tacit., De Germ, 26; Cic., Cato Major, 51; Ovid., Fast., 2, 296. 17 «Sic imperant vitibus ut eas palmitibus onerent nec posteritati consulant» (Colum., De Re Rust., III, 3, 6) . «Temerarium est imperare vitibus ante crassitudinem pollicarem» (Plin., N.H., 17, 22, 178). 18 The name of Experimental Philology was given to the Philological Science by the late prof. Nicola Petruzzellis, emeritus of Theoretical Philosophy in the University of Naples. To this Man of Science we are boundby special respect and profound admiration because he compelled us to prefer Experimental to Dymanic. 19 Encycl. Britan., W. Benton, Chicago, 1963, vol.10, p. 174, S.V.: Geometry. 20 Dynamic Philology is the name we prefer to indicate tbe new Philology and its new Methodology as opposed to the old Philology and its Methodology. Experimental Philology is justified by the Experimental Physics; Dynamic Philology is justified by its inexhaustible attempts to penetrate the paroles in order to reconstitute the society which invented and used the paroles leaving them as the true society’s photos for the future generations.

 

 THE HOMERIC QUESTION or THE EXPERIMENTAL METHODOWGY 

From the obscure beginnings to our foggy days among the Philologists days among the Philologists olds out vivacious debate about the nature and around the structure of the ir Discipline, about the immediate aims and the ultimate goal of their beloved Philology. 

Great, large confusion in the philological field and no light shines to guide in the labyrinth and chaos of ideas, suggestions, ypotheses and convictions, everybody and everyone at the best of his means fiercely trying to condemn the new ideas: fruit of a sinful sinner’s mind! 

Woe to the apostates! 

The roman priest sermonizing deplore and condemn the sinners in viting them to repent going the way of virtue and leaving the way of vice; the Universities ‘Professors: laical priests of the new religion of Philology, from the high podiums of their minds superciliously pick up the heresies and scornfurly condemn the apostates and the heretics blaming them fortheir: «folle audacia e temerario ardire» in opening new ways or damning the bold innovators to absolute «silence» worse than death. 

For apostates and heretics no piety; apostates and heretics don’t enjoy good time: «Mala tempora currunt!», not inside and outside of the Church but inside and outside of the Universities giving credit to the saying «Freelancer: great provoker!». 

We suggest a point: among the ancient and the contemporary Philologists lacks unanimity; if questioned: «What’s Philology?», they would differently answer to the proposed question. 

Not all but many of the modern and contemporary Philologists, leading the questioner by the nose, would shun the question leaving stunned the reader at such conclusion: To the question: «What’s today Philology?», are possible two classes of answers: 1) «the philological field is open»; 2) «the philological field is closed», so giving no answer to the proposed question. 

To the reader stupefied, feeling to fall from an absurd to other absurds, the reader tossed by the breaking wawes of doubt loses the hope of the shore of salvation. 

From the Philologists we find no answer to the proposed question from the days of ancient Greece to our days which have witnessed the formidable succes of Physics and the persistent ineffectiveness of Philology. 

The Philologists are still trying to find a valid definition universally accepted of their discipline: their effort inefficacious. There being as many definitions as there are Philologists, we find justified the ancient maxim: «Quot capitum vivunt, totidem studiorum milia», so obliged to believe: «The Philology is not a Science!». 

In this chorus of «etemenankian» discordance, not having the thread to disentangle our selves from the skein of so different voices, not knowing what to believe but still hoping to find a correct answer to the unanswered question we shall spend brain and time to demonstrate: «The Philology: a 

Science» and «The Philologist: a Scientist of higest degree». 

The Greeks of ancient times were used to begin by Jove: not believing to the pagan deity we’ll begin from the beginnings of Philology. Philology is old as old the man who took abode upon the mother earth. Philology and Humanity contemporary: the Man making Philology: Philology making Man! 

There, in the Mesopotamian land, between two large rivers, peoples lived their lives and left ruines of cities and amounts of tablets with cuneiform writing: leaving records and making history, they made Philology respecting the double-faced meaning of the greek compound name: «Philology»: 1) «The love of the parole: lógos»: 2) «The love of history: lógoi». 

There, along its sandy banks flowed the sacred river Nile and from its rich and inundating waters the «fellahim» sucked their nutriment and gave their lives to the reigning Pharaoh erecting monuments and building tombs for the eternal peace of the Pharaoh’s «Kâ», for the merriment of the thieves and for the glory of the present day Archaelogists. 

In the egyptian tombs and monuments engraving jeroglyphs the Egyptians made History and 

made Philology respecting the double-facedmeaning of the greek compound name: «Philology». 

There, in the land of Egypt lived the Izraelites. Guided by Moses, the Izraelites left the Egypt’s soil and crossed the Red sea waters, went wandering in the Sinai’s desert solitudes eating «mana» and adoring the serpent: the egyptian «aspis nigricolla» or «naje aje»: the theriomorphic symbol ofAmmon-Rà. God bymeans ofMoses gave to His People the Sacred Law: «Thoràh»; died Moses and Joshuà brought the Elected People in the Promised Land. The Izraelites made History, made Philology respecting the double-faced meaning of the greek compound name. 

There, in the sea-shores of Phoenicia lived and traded Phoenicians who prefering the seas’s ways to the land’s routes, went by sea trading and establishing far away colonies and settlements. The Phoenicians invented the «alphabet» and passing it to other peoples they made History, made Philology respecting the double-faced meaning of the greek compound name. 

There, in the mountainous land of Greece and in the luminous islands of the Mediterranean sea lived a people of dark eyes, dark hair and dark complexion: the mediterranean stock of humanity who enjoyed peace and loved music and dancing and left memories of its existence and of its social 

organization ad activity in the ample ruines of Haghia Triada, of Knossos, of Festos and of Thera and in the «murales» of their palaces they rapresented men and women with dark hair, dark eyes and dark complexion while in the gigantic remains of Mykenae and Tyrinth they left marks of their power so making History, making Philology respecting the double-faced meaning of the greek compound name. The Odyssey: the epic poem of Odysseus the navigator hero fixed the great saga of this sea-farer people. 

There, in the land of Greece reflected in the sparkling waters of the Ionian and Aegean sea penetrated bringing war and destruction the Achean warriors who had blond hair, blue eyes and white complexion. 

The barbarian warriors looking for the first time at the sea called it «Thálatta» using the Aborigenes’ language: they had no name for what they ignored. The blond Acheans made wars home and abroad and the «Iliad» celebrated their bellicose deeds and they made History and made Philology respecting the double-faced meaning of the greek compound name. 

Odyssey and Iliad: two poems and two societies between them as distant as the moon from the earth; the first the saga of the dark people; the second the saga of the blond people: two different histories of two different peoples in the same land, in the same islands but in different times. 

In time’s process the greek People divided himself in: Ionians, Dorians and Attics; from them arised and proceeded the greek miracle: the miracle of literature, of philosophy, of science, of beauty, of culture and civilization. 

There, in Halicarnassus lived his young years Herodotus: the father of History; to Him we owe the definition: «Philology: the love of the «parole»: «lógos»; «Philology: the love of history:«lógoi». 

The greatest Wanderer of Antiquity wrote and passed to the future generations what the scribes translated to Him: the Wanderer wrote the History of the peoples He visited and His «parole» was and is a «parole» of Truth: He made Philology. He made History respecting the double-faced meaning of the greek compound name. There, in Athens lived Plato and Aristotle; the two celebrted philosophers did not neglect Philology or what they understood to be Philology. 

There, in Athens happened something noteworthy: Plato and Aristotle marked the end of the double-faced meaning Philology burying it under studies of ample extensions and of diversified interests. The two philosophers studied and solved grammar’s problems: Plato distinguished the name from the verbo of the verb enhancing numbers, genders and times; in the Cratylus He discussed etymologies and discussed about the nature and quality of poetry in the «Politeia», and «Phaedrus» and forcibly He rebuked the «rapsodes» burlesquely constraining Ion to reconoitre Homer as the greatest greek poet but not the master-expert in all the fields of Science. 

For the first time and fighting the «authoritative principle»: the «autos ephe». Plato in His way and by His means opened the «Homeric Question» but He did not close what He had tentatively 

opened. 

Aristotle in His Grammar’s studies, discovered the conjunctions and in His Poetics systematically studied the Poetry. 

The two Philosophers: for his own part each of them made Philology but we call not philological their studies seeing in them grammatical studies, poetical studies but not philological studies if the greek compound name in its double-faced meaning still signifies: «Love of the «parole»: lógos; «love of history: lógoi». Plato and Aristotle amputated the Philology reducing it from Science to inclination, from the study of «parole» and «history» to the study of the sole «parole»: their fallacious distorsion and deceiving separation is still active with its nefastous and negative consequences. Philology is a very different matter! Plato and Aristotle had large number of followers. The Peripate and Academy’s pupils had scarce interest in Philology: they were not able to close the «Homeric Question» they never clairned to have opened. 

There, in Macedonia lived king Philip and went his way fighting the Greeks and his phalanxers’ «sarissae» conquered Greece and the barbarous king cried his victory bawling: «Demosthenes Demosthenous, Paianeus tade eipen!» = «Demosthenes son of Demostenes from Pean, said all that!». 

Philip of Macedonia made History, He did not make Philology! Alexander the Great, son of Philip, made History too but He left the Philology to the experts in the field. 

There, in Alexandria city of Egypt, Ptolemy Philadelph founded the «Museum» and the «Serapeum» books deposits and boarding-house for all the scientists of the Oekumene: the «Museum» lasted for quite five centuries: in the «Museum» lived, teached and worked the best brains of Antiquity. 

In those far away times and days, there, in Egypt, in Mesopotamia, Judea, Phoenicia and Greece worked geniuses who created marvelous monuments for the eternal glory of gods and goddesses, for the perpetual fame of the reigning sovereigns and rulers and for the continous joy of the people but they were not Scientists in the modern acception of the word. 

The ancient Science, the modern Science have little in common: they have the same aims, they aim at same goals but they hav their way by different routes and means applying a diverse Methodology. 

The difference separating the Ancient from the Modern Science is due principally to the different Methodology. The observation compell us to proclaim: «There, no Science without Methodology!» The alexandrinian men of culture catalogued the books of the «Museum» and filled the «Serapeum» 

with copies: they emended and corrected the text: they expounded and annotaded the works of ancient masters: they sketched biographies and occupied themselves with grammar and critiques’s problems. 

The alexandrianian experts were all but Philologists: they made Philology but they did not make History so not respecting the double-faced meaning af the greek compound name. There, in the «Museum» among the «Pensioners» of the Ptolemies aroused a fierce strife: coiled up in two opposed factions: «Callimacheans» and «Anticallimacheans», the cultured Alexandrinians professed a very different idea about poetry: they disputed and their disputing saw no end: they wrote elaborate epigrams and fine epills but neglecting the people, their poetry being adressed to the men of culture and doctrine, they made Philology not History so neglecting the 

double-faced meaning of the greek compound name. 

While in the «Museum» they fervently disputed, in Athen the Academic Philosophers studied Mathematics and Astronomy and the Peripatetic Philosophers studied Nature and Biology. In Alexandria lived, studied and worked Physicists of first degree who were not disturbed by the dispute raging in the hal1s of the «Museum». The alexandrianian Physicists had no time to quarrel: penetrating the marvelous word of Exact Science they scorned to lose time while pursuing the truth being pursued by it incessantly. In Alexandria, Euclides wrote his famous: «Stoicheia=Elements» 

and in 13 books He expounded the Elementar Geometry. 

In Alexandria, Aristarchus from Samos, precursor of Kopenik, Galileo and Newton, to the geo-centric opposed his helio-centric system: Aristarchus was accused of empiety; his condemnation did not alert Galileo. Conon from Samos was a famous astronomer in Alexandria and environs: Conon wrote 7 books of Astronomy and having detected in the sky a new constel1ation cal1ed it: «The Coma Berenices» honouring queen Berenice, daughter of Magas king of Cyrene and wife of Ptolemy III, to whorn Conon had dedicated his works about Astronomy. 

There, in Alexandria, Archimedes frequented the disciples of Euclides: He was a great mathematician, a great physicist, the greatest of all, inventor of the «hydraulic windlass» and of the «coclea» by Galileo defined: «not marvelous but miraculous». 

Claudius Marcellus, roman «imperator», unchaining his legionaries for the final assault against the walls of Syracuse with the geste of the «pollex versus», ordered to save Archimedes and that was very roman indeed: to save the bitterest foe who against the assaulting Combined Roman Forces had invented and manned catapults, missile throwers and grappling hooks. 

Archimedes died killed by a roman soldier, hero of His city and martyr of the beloved Physics. In 1906, Johan Ludwig Heiberg, a danish Scholar, found the text of «Method»: book containing the ways fol1owed by Archimedes in His research-work. 

Apol1onius from pamphylian Perge surnamed the «Geometer» considered the most eminent mathematician of all times, studied in Alexandria following the classes of the Euclides’ disciples; He wrote the «Conical Elements»: He defined more accurately the relation between the circumference and the circle’s diameter; He invented the «epicycles» which supported the geo-centric theory of Ptolemy. Eratostenes from Cyrene, calied «Beta» and «Pentathlete» by His defamers, ealled himself: «Philósophos» so declaring the vastness of His literary and scientific acquirements. 

Chief of the alexandrinian bibliotheca and tutor of Ptolemy Philopator, He wrote about literature and poetry; He tried to determine the dates of important historical and literary events from the traditional fall of Troy (1184 B.C.) to his days; his «Geographica» elevated geography to the rank of Science, delving systematically into ethnographical, mathematical, physical and political geography; Hecorrected the earlier measurements of the obliquity of the ecliptic; He measured the earth circumference and his Calculation only slightly exceeded the magnitude now accepted therefore. 

Eratosthenes had two sticks fixed in two wells: one in Alexandria, the other in Syene; from the angular difference of the shade and the measured distance between the two cities He calculated the earth’s circumference: a very great deed for that time! He wrote about literary and scientific matters and if He was «Beta»: a second in His literary works, He was certainly «Alfa»: the first in the scientific field; if what He wrote about Homer and the epic poetry did not close the «Homeric Question», what He wrote in the Geographical and Chronological field is still valid. 

Erophilus, disciple of Praagoras from Cos, was the founder of Anatomy. The Anatomy made considerable progress when in the «Museum» was practised the vivisection of criminals. 

In Alexandria, Pergamon, Antiocheia and Athens the Seience made progress in its different fields; no progress registered the Literature in its diversified fields; of this formidable contrast we must uncover the causes. 

There, in the alexandrinian «Museum» and surroundings lived, worked and operated a bunch and bundle of Philologists seriously occupied in studying the greek literature, the greek poets and writers; they were particular1y addicted to enlighten the Homer’s life and the two poems: the «Iliad», the «Odyssey». In the alexandrinian «Museum» they opened rightly the «Homeric Question» but they were not rightly able to close it because they laeked the right methodology and «where is not Methodology, there is no Science». 

The alexandrinian Philologists of the III century B.C. spoiled Homer: the blind Poet of all the poems of the Epic Cycle; «apertis verbis» they declared not homeric the «Margites», the 

«Batrachomiomachy» and several «Epigrams» but «ore rotundo» declared homeric the «Iliad» and the «Odyssey». 

The alexandrinian Philologists were not unanimous; in the «Homeric Question», they reflected all their culture and doctrine, all their sentiments. Xenon and Hellanicus declared Homer’s the «lliad», not the «Odyssey»; for the accomplished great deed the fellows adversaries adorned the two with the felicious but scornful surname: «Chorizontes’» repeated nowadays by the so called Philologists of our times afraid to appear inferior to the past and present stock yelding to the bandmaster of the moment. 

In the «Chorizontes’» critique the true foundation of the «Homeric Question» which holds out in our days and there is no hope that may be closed someday the infinite series of books, treatises, essays, articles and papers which flowing from the authors’ hands don’t stop filling the bibliothecas’ long and bent shelves in all the countries. 

The «Chorizontes’» voice was strangled by the Aristarchus’ authority who believed and forced all to believe: Homer author ofthe two poems: the «Iliad», the «Odyssey». The «Homeric Question» involved all the problems concerning the Poet’s life, homeland, deeds and death. 

An Alexandrinian Epigrammatist in two verses confessed his incapacity to fix the Homer’s natal city choosing among seven cities: «Seven cities strife to be the Homer’s famous home / Smyrna, Chios; Kolophon, Pylos, Sparta, Ithaca, Athens». Among the ancient and the contemporary Philologists nobody knows the native city of the greek Poet and the relative doubts not yet solved are stille intriguing the cultured minds. 

The roman Philologists, if we can consider them Philologists, following the greek erudite men, said nothing new about and around the «Homeric Question»: Horace xrote: «Quandoque bonus dormitat Homerus»; Properce exclaimed: «Nescio quid maius nascitur Iliade»; Juvenal versified admiringly: «Conditor Iliados cantabitur atque Maronis»; Alcimus meditated: «Si potuit nasci quem sequereris, Homere / Nascetur qui Te possit, Homere, sequi»; Quintilianus remarked: «Qui mihi interroganti quem Homero crederet maxime accedere: «Secundus, inquit, est Vergilius: proprior tamen primo quam tertio»; Cicero informed about the Pisistratus’ redaction: «Qui (Pisistratus) primus Homeri libros confusos ante sic disposuisse dicitur ut nunc habemus». 

The Roman Philologist had notice of the «Homeric Question» but to it they did not give attention: a greek problem to be solved by greek minds if they were able of such arduous deed! 

Passed centuries, passed years upon years and nothing new, nothing of interest was said or written about Homer and around the «Homeric Question». Nothing new from the Humanists and all of them they were very cultured fellows; nothing new, nothing of interest was said or written by the Renaissance men and all of them they were very cultured fellows. 

Everybody kept strict silence because there was nothing to say, because the «authoritative principle»: «autos ephe», «ipse dixit» was too great to be ignored or to be transgressed. Finally and centuries after, François Hédelin abbé d’Aubignac, in the year of grace 1664, reopening the «Homeric Question» firmy believed to have put a brilliant stop to the problem. The french «abbé» put the question his way: 1) the two poems too large to be transmitted orally in the absence of writing; 2) to an attentive examiner the «Iliad» presents no unity; 3) in the epic poem many contradictions. «L’abbé» reopened the «Homeric Question» but did not close it because He had not at his disposal the right Methodology. 

A few years after Giambattista Vico in his: «Principi di Scienza Nuova intorno alla Comune Natura delle Nazioni» in the third chapter: «Discoverta del Vero Omero» expressed lucidly what He tought about Homer, about the two Poems and about the epic poetry; what He tought, what He wrote is nowadays still valid because Vico looked at Homer not with the Philologist’s eyes but with His philosophic mind. 

Philology and philosophy are very different because they are about different matter treated with different Methodology. For Vico Homer was only a name: a fictitious name not a living person, not a living Poet.

 

 Note 

1 Dos pas sto; da mihi ubi consistam: it was the doric motto of the famous Archimedes of Syracuse in the Magna Graecia of Sicily. 

2 For a clear and limpid demonstration we could say without contradiction: we read books and treatises, articles and essays about the life and works of the mantuan Poet Vergil but we continue to ignore who were His parents, His relatives, His birthplace and the origin and the meaning of His nomenclatura: praenomen: Publius, nomen: Vergilius, cognomen: Maro and the Philologists have as yet not put an end to their quarrelsome diatribes about the celtic blood of Vergil derived from His parents: Magia Polla of the Volsci and Vergiliomarus of the celtic tuàth: tribe of the Andes. 

3 The assertor of the Experimental Philology does not accept all the philological conclusions of the famous Linguist F. De Saussure; in the same time acknowledges the validity of the simple but profound intuition of the: parole and of the: langue. It is understood that the Experimental Philology is inclined to antepone for its particular methodology, the parole to the langue. 

4 Quid est enim vox nisi intentio aeris ut audiatur, linguae formata percussu? (Sen., N.Q., 2,6,3). 

5 Sext. Emp., Against the Logicians, II, 12. 

6 Res ab original signified the parole understood as the ultimate decision of man; the man who formulated it expressed his res by verba as the gods expressed their will by indicating it to the human beings with signs appropriated to the fatum. Fatum the parole of god; res the parole of man introduce a new chapter in the roman theology. 

7 The diachronic process of the parole for the Experimental Philology is entropy or decay, every parole being positive at the beginning and negative at the end of the process. 

8 Encycl. Britan., W. Benton, Chicago 1963, vol. 15, p. 147, s. v.: Mechanics. 

9 «Les grammariens avaient déjà dépuis le début du XIX siécle, le terme: «semasiologie» ou étude des significations, toujours formé sur le radical grec sema (signe). Le linguiste français Michel Bréal lui substitue le mot sémantique pour désigner «la science des significations» et de «loís qui président à la transformation des sens»; «étude (nous dit-il) si nouvelle qu’elle n’a même pas encore reçu de nom»; en fait elle relève – en le renouvelant et en l’enrichissant, de la sémasiologie. Les deux mots se confondent et employés concurrement, éliminent de nouveax termes: sématologie, glossologie, rhématique, rhématologie etc. qui ne font que des apparitions sporadiques. Sémantique-adopté ici-est en train de supplanter sémasiologie, au moins en France et dans les pays de langue anglaise». (P. Guiraud, La Sémantique, Press Univer. de France, Paris, 1955, p. 8). 

10 It is not a rifie of a bagatelle: put an end to the long querelle which from the times of Pisistratus and Aristarchus till our days has fatigued minds and brains trying to ascertain the Iliad older than the Odyssey and vice-versa. The ExperimentaI Philology proclaims older the Odyssey than the Iliad moving from the difference of hairs and eyes in the heroes of the two epic poems. In the Odyssey the hero Odysseus has dark hairs, dark eyes, dark features in his dark complexion; in the Iliad we read of heroes who havc blond hairs, blue eyes and candid features in a white complexion. Odysseus is the sea-farer hero of the society of Mycenae and Crete which at the time was at its apex as we see in the paintings of Haghia Triada, Cnossos and Festos. Achilles is the blond protagonist of the fightning madness of the Iliad; the blond hero is the specimen of the blond people of fighters who invaded the Greece from the north and subjugated the native pcople of dark featurcs: the mediterraneans. To the invasion of this multitude of blond fighters is referable the exstinction of the mycenean culture and society. 

11 «Εκκλησια»: Ecclesia: is a compound greek name; it results from: εκ: from and κλησια, from the verb: καλεωsignifying: calling from; i.e.: from the house, from the place, from other places. 

12 In Alexandria of Egypt there was a very florid diaspora of Ebrews; there, the Bible was translated from aramaic into greek by Seventy Experts: the so called: Εβμηxοντα: Septuaginta: the Seventy. 

13 «More veterum, apud quos parens proximus, cognatus aut amicus intimus, admoto ad os morientis ore, extremun eius spiritum quasi excipere et haurire velle videbatur» J. Juvenco, P. Virgilii Maronis, Opera Omnia, A. Delalain, Parigi, 1810, p. 277, n. 685). 

14 «Servitute liberabantur servi per manumissionem quae erat vel justa cum justam libertatem et plenum jus civitatis Romanae consequebantur vel minus justa cum ex lege Junia Norbana fiebant Latini Juniani quibus iriferiores etiam erant qui ex lege Allia Sentia fiebant liberti dediticii, qui scilicet: aliquando ob gravius crimen stigmate notati vel graviore poena affecti essent:». (A.O.H. Nieupoort, Rituum apud Romanos Explicatio, O. Tibernino, Venezia,1749, pp. 442-443, sect. VI, c.V., § 3). «Adoptio in specie talis est: eorum qui in aliena potest:ate sunt et a patris naturalis familia in adoptivi familiam transferuntur… Arrogatio est eorum qui cum sui juris sint, se in potestatem alterius tradunt. (A.G.H. Nieupoort, op. cit., p. 446, sect. VI, c.i., § 4). 

15 «Res de quibus ad Senatum referebatur, erant omnes quae Rei publicae administrationem spectabant, praeter creationem magistratum, lationem legum et belli vel pacis arbitrium, quarum rerum potestas penes Populum erat» (A.G.H. Nieupoort, op. cit., pp. 28-29, sect. I, c.II, § 6). 

16 Verg., Georg. I, 98-99; II, 362-370; Co1um., De Re Rust., 3, 3, 6; 4, 24, 21; 4, 28, 12; Plin., N.H., 17, 22, 178; Sen., Dial., 9, 12, 5; Tacit., De Germ, 26; Cic., Cato Major, 51; Ovid., Fast., 2, 296. 

17 «Sic imperant vitibus ut eas palmitibus onerent nec posteritati consulant» (Colum., De Re Rust., III, 3, 6) . «Temerarium est imperare vitibus ante crassitudinem pollicarem» (Plin., N.H., 17, 22, 178). 

18 The name of Experimental Philology was given to the Philological Science by the late prof. Nicola Petruzzellis, emeritus of Theoretical Philosophy in the University of Naples. To this Man of Science we are boundby special respect and profound admiration because he compelled us to prefer Experimental to Dymanic. 

19 Encycl. Britan., W. Benton, Chicago, 1963, vol.10, p. 174, S.V.: Geometry. 

20 Dynamic Philology is the name we prefer to indicate tbe new Philology and its new Methodology as opposed to the old Philology and its Methodology. Experimental Philology is justified by the Experimental Physics; Dynamic Philology is 

justified by its inexhaustible attempts to penetrate the paroles in order to reconstitute the society which invented and used the paroles leaving them as the true society’s photos for the future generations.

 

 For Vico understood in Homer all the greek people in its «infancy», seen and considered author of the two poems: the «Iliad» the «Odyssey». For Vico the «Iliad», the «Odyssey» were and are: «due gran tesori dei costumi dell’antichissima Grecia». 

ForVico the Philosopher, the «Iliad», the «Odyssey» contain diverse uses, different manners, diverse ways of two different societies. For Vico the two poems represent the «infancy» and the «maturity» ofthe ancient greek people as of all the peoples upon the mother earth’s surface. 

We applaud to Vico and recognizing His greatness, we profoundly ~pplaud 

appreciate what He saw in Homer, what He wrote about the two epic poems but being no slaves of the «authoritative principle» we daresay that Vico did not close the opened «Homeric Question» for two principal arguments: 1) Vico could not close the «Homeric Question» which was extraneous to Him; 2) Vico could not close what He had not opened because He lacked the necessary information about the two societies He understood portrayed in the poems. 

The ideas and work of Hédelin d’Aubignac and Giambattista Vico were not known to the large public who had no access to the secret hals of the contemporary Academies. There, from Hainrode went Friedrich August Wolf who moved the quiet waters of the «Homeric Question». Wolf was the second in the long arch of time to employ the name: «Philologia» in his registration’s demand: «Studiosus Philologiae» in the Gottingen University. 

Wolf in a second time, to the name: «Philologia» preferred the german compound name: «Alterthumswissensehaft» as omnicomprensive and not restricted as the greek compound name. Wolf wasn’t aware adopting the german compound name that He was betraying the double-faced meaning of the greek compound name. For Wolf who studied Homer, the epic poems and the «Homeric Question» moving from the «Scholia» of «Venetus A», pubblished by Villoison, there was no writing in the Homer’s supposed times. 

For Wolf there only a possibility: the two poems: «Iliad» and «Odyssey» were redacted in Athens by a Commisssion appointed by Pisistratus in the VI century B.C. For Wolf the «Iliad» contains a central nucleus of 18 chants; the «Odyssey» believed Wolf, was due partly to Homer and partly to the «Homeridae». Wolf saw a strong analogy between the homeric poems and the ossianic poems: a fruit of the popular poetry! 

Friedrich August Wolf, teuton from Hainrode and german «Philologist» or, so He preferred, «Alterthumswissensehatler» acquired great fame with His «Prolegomena ad Homerum», reopening the «Homeric Question» but He was not able to close what He had reopened because He lacked Methodology and He was a german Philologist! There, from Leipzig came Gottfried Hermann with a new theory of His own about Homer and about the two epic poems. Hermann followed Wilh. Mueller in structuring the «Erweiterung-oder Entwicklungs hypothesis». 

Hermann believed the «Iliad» composed around a central «Kern» of successive adjoints, ampliations and rielaborations elaborated to improve the «nucleus». Herman believed the «Odyssey» resulting by successive adjoints, ampliations and successive rielaborations around the central «nucleus» of the original poem. 

Gottfried Hermann from Leipzig enjoyed great fame home and abroad but fame and name did not help Him to close the «Homeric Question» He had not opened ad because He too lacked the right Methodology and He was a Philologist, a german Philologist! 

W. Leaf, RC. Jebb, E. Petersen, E. Rohde, M. Valenton, G. Murray. P. Cauer and, last but not least, G. Finsler, each for his own part, tried to buttress the «Hermannsche Ypothesis». There, from Braunschweig came Karl Lachmann and teached at the «Berliner Universitaet». 

Lachman was an eminent classical and german Philologist who distinguished in the philological field the «recensio» and the «emendatio», exhorting to establish the archetype by collating the manuscripts, the testimonies, the «Scholia» before ascending by conjectures to the original archetype. Lachmann founded the «Liedertheorie»: the «Iliad» resulted from 18 distinct laies originally indipendent but mechanically assembled and only in the sixth centuxy recorded by writing, by the commission «ad hoc» appointed by Pisistratus. Lachmann was not able to close the 

«Omeric Question» He had not opened. 

Karl Lachmann classical and german Philologist left open what open He did find because He too lacked a right and sound Methodology! There, from BerIin came Adolf Kirchhoff and He acquired great fame and vaste resonance in the philological circles by His homeric studies. Kirchhoff 

proposed His «Kompilationstheorie» extrapolating it from the «Odyssey». Kirchhoff believed and tried to demonstrate the «Odyssey» composed by three distinct «Gedichte»: 1) «Nostoi», 2) «Telemachy», 3) «Ithakesia». The «Kompilationstheorie» was followed and corroborated by the works and 

studies of B. Miese, Ch. Reimreichs, U.v. Wilamowitz, O. Seeck, J. van Leeuwen and D. Muelder. 

Kirchhoff and His followers did not close the «Homeric Question» because all of them had doctrine and culture but they all lacked the right and sound Methodology! 

The contemporary Philologists are assembled in two opposite groups: 1) «The Unitarians», 2) «The Antiunitarians» and between them have their good space the «Neo unitarians» who believed: a Poet for the «Iliad», a Poet for the «Odyssey»: poets who at their times had rielaborated preesistent poems or epic laies. They all: «Unitarians», the «Antiunitarians» and the «Neounitarians» believe to be able to close the «Homeric Question» but all of them failed because they too lacked the right and sound Methodology! 

Nowadays, the «Homeric Questions» is losing if it has not lost its attraction b’ut nobody recognizes this loss of interest because nobody has the courage to denounce the total and final bankruptcy of all the ancient and contemporary attempts to close the still open «Homeric Question». The failure was and is due principally to the lack of a right and sound Methodology to which we recognize the capacity of closing once and for all the «Homeric Question» and the other classical questions and problems still open because not solved. 

The contemporary Philology is slowly making its way toward a better understarding of Homer, of His poems, of His poetry, His times and the two societies described in the two poems because the modern Philologists are ready to accept the help of the other Sciences while trying to solve problems 

exclusively philological. 

This is the first and necessary step toward the scientific foundation of the Experimental Philology: give space, give importance to the Sciences before called «Subsidiary» because underestimated. 

While the «Homeric Question» was raging among the cultured circles, the Archaelogists gave news to the cultured world of their brilliant discoveries in the land ofTurkey, Crete and Greece. Well, the archaelogical discoveries proved the existence of writing (Linear A, Linear B) in the royal palaces of 

Crete; if the writing was in use in Crete of the Minoan Age (3000 B.C. to 1100 B.C.) all were concord to admit: the writing, a fortiori, in use in the homeric times. The discovery of writing crashed and smashed the Hédelinian and Wolfian theory, both built upon anthistorical premise. 

Heinrich Schliemann, german from Neubukow, in the hill of Hissarlik in Turkey discovered a city and in the sixth couch He saw the burned ruines of the homeric city of Troy devoured by fire; excavating at Tirinth, Mycenae and Orchomenos Schliemann found precious ornaments, jewels and utensils 

testimonies of a dead but rich society. There, in the island of Crete worked Arctur Evans, Federico Halbherr and Luigi Pernier at Knossos, Festos and Haghia Triada and everybody knows what They found but nobody as it seems, was aware of the importance of their discoveries related to the «Homeric Question». 

Every Homer’s word was studied, weighed and referred to the minoan society, to the minoan culture but no one was intrigued by the «murales» discovered in the royal palaces of Crete, nobody was intrigued by the «murale» discovered in the island of Thera. In the studied but somewhat ignored «murales» the Experimental Philology grasps the new idea and establishes a new Methodology in the philological studies. 

Well, if there we may doubt of the «paroles» of the two poems for the ambiguity carried by the 

«parole», it is not possible to doubt of the «parole» if and when confirmed by the «murales» which represent the society of Crete and of the greek island, described by Homer in His Odyssey. In the royal 

palaces’ «murales» we contemplate men and women with dark hair, dark eyes in their features of a dark complexion; in Thera’s «murale» we contemplate men and a navy of merchant vessels going by oars and by sails or mooring at anchor in the sheltered harbor of the island. 

Dark hair, dark eyes and mediterranean features in the dark complexion Homer attributes to Odysseus the seafarer hero of the «Odyssey» and dark hair, dark eyes and features of dark complexion have the Pheacians in their island and they were of the same mediterranean racial stock and like Odysseus they were great navigators putting their defense and all their hopes in the vessels, in the navigation’s skill and in the absence of dangers and in the presence of peace. This mediterranean people of navigators 

enjoyed a society which had reached the highest degree of culture and civilization: the Cretan-Minoan civilization from 3000 B.C. to 1400 B.C. 

The archaelogical discoveries, the existence at that time of writing, the glorious ruines of the cities of Crete and Greece; the surprising «murales» bring to our attention the existence in the mediterranean land and sea area of an industrious people of dark complexion, dark eyes and dark hair who went around the mediterranean waters for commercial purposes not for war; who lived in cities defended by the navy not by wall or fortified ramparts; who loved peace refusing war and a lively life because around they had no foe to be afraid of; whose women could love whom they loved nobody enforcing them to matrimony. 

Upon this solid archeological premises conforted and supported by the «Odyssey’s» verses, the Experimental Philology dares say the «Odyssey» poem and saga of the people of navigators of mediterranean racial stock: dark hair, dark eyes, dark features in dark complexion living in the greek island and in the greek inland, who enjoyed peace and lived a life free of fears because in the navy they put their defence and in the commerce their riches. 

The Experimental Philology proclaims the «Odyssey» the lay of the mediterranean people, in the «Odyssey» seeing the navigation book of the men who dominated in the long run the Mediterranean, Ionian and Aegean waters before the coming of the Arian warriors who brought with them the barbarian idea ofwar and introduced in the dark mediterranean racial stock the blond hair, blue eyes and white features in the candid complexion. The Arian warriors knew the art of war but they ignored the winds, ignored the stars, they ignored the navigability of the sea waters: of the sea they ignored the name and «Thalatta» they called with a mediterranean word the brilliant 

waters of the greek sea they saw for the first time and they had non name for wat they did not know. The blond warriors destroyed the society and the civilization they found in Greece but they were not able to destroy the culture as they were not able to destroy the mediterranean people who 

racially survived and in the long run of time absorbed the intruding blond warriors who slowly but incessantly absorbed the superior culture of the conquered enemy and rightly we understand the Horace’s verse: «Graecia capta ferum victorem cepit». 

The blond warriors by fire and by sword destroied the mediterranean people: of these ancient wars we have memories in the «Iliad»: the poem of warriors, the saga of the fighting blond men, the lay of the blody and furious madness of Achilles the hero of the «Iliad» who knew the use of the 

arms but ignored the laws of the sea and of the sky, because as did his fellows, he ignored the winds, the marine currents and the navigating art. 

The Experimental Philology making the right use of the archaeological discoveries, of the anthropological discoveries, of the philological conc1usions and extrapolating from those Sciences what is to be extrapolated, readily acknowledges: The «Homeric Question» may finally and decisively be closed by the Experimental Philologist who humbly considers all the subsidiary sciences as necessary and valid instruments of research in the philological field: who applies to the philological realm the «Experimental Methodology». 

Having indicated the possibility of closing in a scientific way the still unsolved «Homeric Question», we are ready to confess as not having yet demonstrated the Philologya Science, not having proposed answer to the question: «Philology is a Science?». 

The answer to the question was given three centuries ago by the founder of the «Experimental Physics»: Galileo Galilei who for his misfortune and our fortune was a dedicated Physicist and not a Philologist. The contemporary Philologist saw the «Experimental Physics» as a blasphemy and cried anathema and stout1y refused to put their eyes to the «cannocchiale» and believing to condemn Galileo and His discoveries they condemned themselves and their discipline to complete inefficacy. 

This refusal was not a trifle of a bagatelle if it costed to Galileo His imprisonement at Arcetri and to the Philologists the misery of their «Static Philology» and to the Philology thelossoftheprimacyitenjoyedoveralltheotherSciences. 

Guided by the succes of the «Experimental Physics» we openly acknowledge: «There, every Sciencets Experimental». Well, now there is the problem: «demonstrate the Philology subjected to the ‘Experimental Methodology” is equivalent to proclaim the Philology a Science» and not a «forma mentis» reserved for few men elected to enter the Philology’s reserved domain. 

The «Experimental Methodology»opened the way to Physics to enter in the scientific field and realm: the «Experimental Methodology» shall intro-duce once and for all the Philology into the scientific realm, field and domain. To the physical force is subjected everything, everybody born and living upon the earth’s surface, in the air of the sky and in the profound and dark waters of oceans and seas. 

The «parole»: creature of man, as such is of material matter and therefore subjected as all other bodies, objects and particles to the «attrition’s law» which operating in the philological field we call: «catatropy», in order to shun the blame of the Physicists jealous of their Science, of their definitions, of their terminology. 

All the bodies, all the objects, all the particles being material and therefore subjected to the «attrition’s law», pass from a superior to an inferior status, finally disappearing at the end of their shortorlongway. The same happens to the «parole» which lives its life and after the transformations undergone in its diachronic process, finally disappears in the mute heap of all the «fossilized» words. 

The life and death of a body, object and particle is not different from the life and death of a «parole»: the life and death of a galaxy, of a solar system, of a star is not different from the life and death of a «parole»: the mikrokosmos, the makrokosmos! 

The astronomers following the stars photograph them and to study them fix what they cannot see in the stellar «spectrogram»: in the fixed «spectogram» the astronomers read the pulsating life of the star and they follow the stars all along the way of their decaying till to their death in a gigantic fire explosion: «expyrosis». 

What do the Astronomers, that must do the Philologists if they will make Science not Rhetoric: imitating the Astronomers, they must follow the «parole» from its appearange all along the path of its life to its disappearance when left to decay and die in the neglected heap of all the dead «paroles». Who follws the «parole» all along the path of its short or long life, must fix all its mutations, diversifications, changements of form and meaning in the baconian: 1) «tabula praesentiae» 2)«tabula absentiae» 3) «tabula graduum», in order to shape the history of the «parole» in a graduate stripe we call: «rhematogram». The «rhematogram» when and if finished carries the history of the «parole»: the objective not the subjective history. 

The «parole» being the loyal mirror of the society which invented, used and transformed the «parole», the «rhematogram» of the «parole» carries and contains the history of the society: the objective history not the subjective history. There, we see unified the study of the double-faced greek compound name: Philology: 1)«study of the parole=lógos» 2) «study of the history:lógoi» 

The «Experimental Methodology» resulting in the objective study of the «parole» and of «history», the objectivity the true fruit of Science compells us to proclaim Philology a Science not a subjective 

«forma mentis». If in the «paroles» the Philologist unveils the history, then Philology is on the way to regain its primacy! 

The astronomer to fix the star «spectrogram» has the plate or the star’s film: the Philologist has the sources: literary, archaelogical, anthropological, religious, artistic, antiquarian sources to rebuild the «rhematogram» of the «parole»; when the sources are absent or silent, the Philologist must have the heart to use «phantasy», which is not the propriety of the sole Physicists! 

Studying the diachronic evolution of the «parole in its external form and in its internal meaning, there are two ways to register and fix the «rhematogram»: 1)«Anabatic way»: moving down-up from th known meaning of the «parole» to the aboriginal and unknown meaning of the same «parole»: 2) «Katabatic way»: moving up-down from the known aboriginal meaning to the unknown ultimate meaning of the «parole». 

When to the brave Philologist shines no hope of finding sources, then He must formulate «hypothesis» that sor tof «Arbeitsypothese» which is very familiar with the Physicists having guided them in their researches, to have a channel to let flow the ideas, not constraining them to be stanched; carrier of truth the «ypothesis» which shall be corroborated by valid proofs. 

The prudent Philologist, who feels the gravity of his work, speaks not by the support of the «ipse dixit» or the confort of the literary sources because of their ambiguity but with the help of the improperly called: «subsidiary sciences»: graffiti, pictures, mosaics, numismatic, sculptures, antiquarian, history, geography, mathematics, astronomy, philosophy,sociology, anthropology, mathematics, and last but not least, medicine. 

Using correctly the «Experimental Philology» and correctly applyingits«Decalogue when shaping the «rhematogram» of the «parole» in order to know the history of the «parole», in order to know the history of the society, the Philologist shall register success as never before in the long life of Philology. 

When the Philologist will scientifically interpret the «rhematogram», then and only then Philologist will regain his place, will be the master of his Science to indicate to all the right way to follow in their studies. 

Here the renewable «Decalogue» of the «Experimental Philology»: 

1) «Eternal and perpetual refusal of the Autoritative principle»; 

2) «Eternal and perpetual adherence to the Bengelian imperative»; «Applica Te totum ad textum; rem totam applica ad Te!»; 

3) «Eternal and perpetual searching of the “parole” reversing the De Saussureian theory»; 

4) «Eternal and perpetual inquiry of the “parole” in order to fix its aboriginal meaning; employ of “phantasy” and “ypothesis “when necessary»; 

5) «Eternal and perpetual registering of the meanings of the”parole” all along its short or long diachronic process; employ of “phantasy” and “ypothesis” when 4gi 

necessary»; 

6) «Eternal and perpetual registering of the “parole” by “Anabasis.” when is known the last meaning of the “parole”; by “Katabasis” when is know the aboriginal meaning of the ”parole”»; 

7) «Eternal and perpetual registering of the”rhematogram” of the”parole»” 

8) «Eternally and perpetually the Philologist will adhere to the “rhematogram” of the “parole”»; 

9) «Eternally andperpetually adhering to the “rhematogram “the Philologist shall rebuild the society and its history»; 

10) The «rhematogram» carries the objective history of man and the sole possibility of its remaking. 

To the «Experimental Philology» and to its simple «Decalogue» we recognize as due the objective successes obtained in our work still vivacious in the field left unvaried by the Static Philology. The «Experimental Philology» helped us to prove false the «maneloquium» attributed to theRomans and the «saluto fascista» the Romans civilians and soldiers never did (I); to prove false the gest of the 

and of the «pollex versus» (inexistent) (2), so reconstructing the roman gesture of the «maneloquium circense», «maneloquium castrenese», «maneloquium cottidianum», «maneloquium sub-uranum» or «sucusanum»; the right interpretation of the roman «manelo-quium» was of great help in reading the «Columna Ulpiatraiana», the «Columna Marcaurelia» and all the mosaics and pictures and the pompeian graffiti(3). 

The employ of the same «Decalogue» facilitated our work in penetrating the «nominatura» of the «Divus Julius»(4); the same «Decalogue» correctly applied was helpful insolving the difficult problem sconnected with the «nominatura» of Publius Vergilius «Maro Parthenias» and in making light in the obscure «Vergaiusge burtsortsjrage», declaring «Andes» not a vicus’ or pagus’ name but name of the celtic tribe to which belonged «Vergiliomarus»: father of the mantuan Poet, which had occupied the territory of the Ultrahighpadania of Mantua(5). 

The «Decalogue» helped us to solve the problem of the meaning of the name: «Roma», «Romus», «Romulus», «Romina» and «Ruminalis»(6); helped us to nullify the absurd legend of the Capitol’s geese(7); to solve the legend of the serpent: «aspis nigricolla» or «naje aje» suggested as the cause of the death of Cleopatra, of Iras and Charmion(8); helped us also in clearing the difficulties and the problems of the two battles of Philippi and of the military career of the tribune Q. Horatius Flaccus(9); helped us also in restituting to Q. Fabius Maximus Ovicula Verrucosus Cunctator the glory of his surname and the merits of his strategy against Hannibal and the fame of his War-school (10). The «Experimental Philology» helped us to formulate the «imperiu’s» theory, which opened new fields of study in the Roman history (11). 

The results give credit to the «Experimental Philology» and to its «Decalogue» and we recommend it to all concerned and to all the uncon-cerned inviting all to leave the old way to enter new ways for new kind of grazing in the new pasturage having left tbe withered and arid old pasturage. 

Davide Nardoni 

(1)D.Nardoni, «Utroque…pollice», Nuova Scienza, XVII, maggio 1976, n.5, pp.39-45. 

(2)D.Nardoni, «Pollice presso, pollice verso», Nuova Scienza, XVIII, aprile 1977 n.4, pp.7-9. 

(3)D.Nardoni, La Colonna Ulpia Traiana, Roma, Eiles, 1986. 

D.Nardoni, La Colonna Marcaurelia, in pubblicazione per i tipi della Eiles, Roma. 

(4)D.Nardoni, «Caius Julius Caesar Dictator Perpetuus», Nuova Scienza, XVII, agosto-settembre 1976, n.8-9, pp.8-10. 

(5)D.Nardoni, «Vico Andico», Il Tartarello, dicembre 1983, n.4, pp.3-13. 

D.Nardoni, «Vico Andico», Il Tartarello, marzo 1984, n.l, pp.3-18. 

(6)D.Nardoni, Romus, Romulus, Rominalis, Romina, Roma, in «Spiragli», I, dicembre 1989, n.3 pp.8-10. 

(7)Delle «oche capitoline» in una prossima «taratalla» sulla rivista «Spiragli». 

(8)D.Nardoni, «Fatale monstrum»,Nuova Scienza, XVIII, luglio1977, n.7, pp.7-9. 

(9)D. Nardopi. «Me dimisere Philippi», Novantiqua, Tip. Artig. Latina, 1979, pp.97-100; Accad. Ital. Scienz. Biolog. Moral. 

D. Nardoni, «Relicta non bene parmula», Novantiqua, Tip. Artig. Latina, 1979, pp.101-107: Accad. Ital. Scienz. Biolog. Moral. 

D. Nardoni. «O navis referent…» Novantiqua, Tip. Artig. Latina, 1979, pp.109-116; Accad. ltal. Scienz. Biolog. Moral. 

(10)D. Nardoni. «Quintus Fabius Maximus Verrucosus, Ovicula, Cunctator», Caicachanna, Tip. Artig. Latina. Accad. Ital. Scienz. Biolog. Moral., 1979, pp.11-13. 

(11)D.Nardoni. «Imperium sine fine dedit»,Caiachanna, Accad. Ital.&ienz. Biolog. Moral.,Tip.Artig.Latina.197, pp.50-64.