Modern Love di George Meredith:  il canzoniere d’amore dalle passioni mute 

He felt the wild beast in him betweenwhiles 
So masterfully rude, that he would grieve 
To see the helpless delicate thing receive 
His guardianship through certa in dark defiles. 
Had he not teeth to rend, and hunger too? 
But stili he spared her. Once: ‘Have you no fear?’ 
He said: ‘twas dusk; she in his grasp; none near. 
She laughed: ‘No, surely, am I not with you?’ 
And uttering that soft starry ‘you’ , she lean ‘ d 
Her gentle body near him, looking up; 
And from her eyes, as from a poison-cup, 

He drank until the flittering eyelids screen’ d. 
Devilish malignant witch! And oh, young beam 
Of Heaven ‘s circle-glory! Here thy shape 

To squeeze like an intoxicating grape – 
I might, and yet thou goest safe , supreme.1 

Torna in primo piano, dopo più di due secoli, con la poesia vittoriana, il canzoniere d’amore. Se i canzonieri della tradizione cortese esploravano le forme dell’ amore declinandole secondo l’idea platonica dell’unione degli amanti e dell’immutabilità del sentimento, la sequenza dei sonetti di George Meredith, Modern Love (1862), ripropone della poesia d’amore tutti i suoi topoi, rovesciandoli e negandoli, però, alla luce della vanificazione di quegli ideali. L’amore, quello ‘moderno’, precisa Meredith nella sequenza stessa, non conosce più leggi, ma solo la mutevolezza degli ‘umori’, sentimenti e passioni contrastanti e insondabili («Prepare, you 10- vers, to know Love a thing of moods»). Il moderno canzoniere indaga, perciò, i motivi della crisi dell ‘esperienza sentimentale che si profila sin dal titolo tipica dell’ epoca e ritrae la varietà degli stati d’animo nel turbamento della rottura. 

In particolare, il romanzo in versi di Meredith, ispirato alla propria vicenda autobiografica2, costruisce in modo allusivo e talvolta ellittico, la storia della tragica conclusione del matrimonio di una coppia che ha condiviso l’illusione sentimentale di un amore romantico. Incapaci di accettare le leggi del mutamento nella nostalgia di un passato perfetto, i due protagonisti scavano nel proprio dolore e diventano, in un complesso gioco di inganni, autoinganni e dissimulazioni, vittime l’uno dell’altro. 

L’estrema tensione della sofferenza è sperimentata in ambito domestico. Ogni sonetto in una forma lirico-narrativa fa progredire l’intreccio drammatico di questa tragedia solo in superficie dell’infedeltà coniugale e, al contempo, apre squarci di esplosioni emotive. 

Il sonetto 93 , benché introdotto da una voce narrante, pone in primo piano i pensieri del marito, i suoi stati d’animo, la sua prospettiva interpretati va sugli eventi e, soprattutto, la percezione che egli ha degli stati emotivi e psicologici della donna. Pertanto, la voce di un apparente narratore esterno, che evoca, pur con brevissimi accenni, un episodio di vita domestica, transita impercettibilmente nell’ultima quartina nella forma soggettiva di un monologo mentale in prima persona. È un dramma muto, infatti, quello che si consuma tra i due coniugi. I silenzi separano e allontanano i due sin dalle prime rivelazioni della crisi. Ogni tentativo di comunicazione è soffocato e taciuto. Si comprende, perciò, che non si tratta solo di una storia di adulterio da parte della moglie, ma anche del logoramento di un rapporto nel tempo. 

In tale isolamento egli si ammala («he sickened»4), sopraffatto da sentimenti contrastanti di rimorso per il fallimento, di gelosia violenta, di desiderio inappagato, di rabbia, di pietà, di sadico piacere per le sofferenze di lei. 

Nel canzoniere di Meredith si profila, dunque, un ‘moderno’ trattamento della vicenda sentimentale: nel rapporto tra uomo e donna irrompono forze psichiche che corrodono il legame d’amore. Ancora una volta pene d’amore, ma di un amore come forza distruttiva che si nutre di conflitti personali, nevrosi, contraddizioni psicologiche ed emotive. 

Queste le oscure gole, i «dark defiles», gli oscuri e misteriosi tumulti del profondo in cui ci si inoltra. Nel sonetto qui proposto, la voce narrante ricompare per l’ultima volta in un tentativo di presentazione oggettivante di un io che sta per perdersi nei labirinti confusi e ingannevoli del proprio inconscio. Con la modalità narrativa di una registrazione di un’esperienza passata è detto ciò che «lui talvolta sentiva in sé» («He felt [ … ] in him betweenwhile»). Sentiva dentro di sé la prepotente aggressività di una bestia selvaggia capace di uccidere. Sentiva come un Otello5 furioso una voglia di vendetta divampare con famelica animalità. L’impeto, però, di quell’istinto brutale, è trattenuto da un nuovo bagliore percettivo. La moglie, ora, gli appare come essere indifeso e delicato. Potrebbe colpirla, ma la risparmia. Si incunea a questo punto del sonetto il ricordo di un episodio cruciale, evocato da un semplice «once» e fatto di un unico e brevissimo scambio verbale, per di più, tra i pochissimi presenti nel poemetto, in cui è rappresentato in forma drammatica il raggelarsi degli impulsi più violenti al cospetto di lei. Incapace di autoanalisi, egli decide di investigare nel profondo delle emozioni della sua donna, perciò, rimodula e porge a lei l’interrogativo irrisolto poco prima volto a se stesso: non ha fame di lei? E lei non ha paura di lui? 

Sono interrogativi posti nella luce declinante del crepuscolo («dusk»), nell’ora in cui la forza della ragione sta per cedere al buio («dark») delle passioni incontrollate; prima, insomma, che l’intimità domestica possa diventare un luogo adatto per un delitto («she is in his grasp; none near»). Con la consueta dissimulazione tra i due, però, lei ride, dicendosi tranquilla accanto a lui. Ed è uno dei tanti risi che comprimono e contengono i turbamenti trattenuti della coppia. Non solo non ha paura, ma gli si avvicina, seducendolo col movimento sinuoso del corpo («she leaned her gentle body near him»), con lo sguardo e con l’invocazione dello ‘you’ che giunge a lui come dolce e stellare, evocativo di antiche tenerezze e intimità. 

Alle immagini del buio, ricorrenti nell’intera sequenza, che figurativamente avvolgono pensieri ed emozioni inesprimibili, fanno da contrappunto quelle della luce. La luce dell’amore ideale e romantico che un tempo li aveva uniti riemerge dalle tenebre per brevi momenti come una stella, un raggio. La brevità di quella illusione percettiva è resa poeticamente con echi di stilemi e modalità propri della lirica amorosa: la registrazione delle sue movenze gentili, i suoi sorrisi, la ridondanza pronominale dello ‘you’. Soprattutto gli occhi. Topos della tradizione petrarchesca, organo privilegiato della percezione che apre l’accesso all’amore verso il cuore. Nella tragedia dell’ amore moderno, però, dagli occhi pieni di seduzione, sempre in primo piano in tutto il poemetto e sineddoche per la donna, egli beve come da una tazza velenosa. 

La profondità dello sguardo di lei lo travolge nel turbamento di una bellezza ambigua e sollecita le inquietudini e i pensieri nascosti di lui. A palpebre chiuse restano in lui due opposte e inconciliabili immagini di donna («thy shape») – come nei tanti ritratti pittorici di donna pre-raffaelliti – quella angelicata, tramite tra l’uomo e Dio («young beam of heaven circe-glory») e quella demoniaca, creata dalla pulsione di un desiderio tormentato («devilish malignant witch» ). 

La sensualità femminile ha, dunque, un fascino contaminato, è come una «intoxicating grape», come un’uva che, nell’ambivalenza semantica aggettivale, allo stesso tempo inebria e intossica. Ancora una volta nella sequenza, la imagery del gusto esprime l’essere in balia dei sensi. La metafora naturale, invece, richiama l’identificazione donna-natura. 

Se, dopo The Origins of Species, la natura è associata all’animalità dell’uomo, la seduzione femminile incarna, in epoca vittoriana, la resa alle leggi puramente fisiche che sembrano governare la vita. Donna e natura, ormai minacciose e misteriose, rappresentano la paura di regressione verso gli istinti brutali, l’animalità dalla quale si teme di provenire, la parte oscura dell’uomo, morbosa, incontrollabile e inquietante.  

Si legge in una lettera di Meredith del 1861: «Voglio far scoccare la scintilla poetica dell’autentica argilla umana.» L’immagine dell’argilla biblica affiora più volte nel poemetto. A tal proposito Serpieri commenta: «La mente, lo spirito, dell’uomo può credere di dominare la sua natura materiale, l’argilla biblica da cui è stato creato, ma inevitabilmente da quella primigenia materialità sarà contagiato»6. Il protagonista maschile di Modem Lave, infatti, esprimerà disprezzo ogni qual volta la donna tenterà di travolgerlo con la sua femminilità sinistra nel giogo di una seduzione demoniaca, così come ripudierà nella liaison con la Lady il risolversi del rapporto in pura attrazione carnale. 

A conclusione del sonetto 9, nel dissidio tra natura e cultura sembrano prevalere le forze dell’intelletto e della ragione, e la donna va via da quel luogo di possibile pericolo salva e «suprema». Nel momento in cui, però, la mente sembra dominare l’argilla («while mind is mastering clay»), essa è invasa dalla sua greve materialità («gross clay invades it»)7. Restano in lui emozioni contrastanti ed esasperate, trattenute sì, ma gridate mentalmente. Alle passioni e ai sentimenti non si dà sfogo, sono destinati a rimanere oscuri e contratti nelle tenebre del profondo. Il sonetto, dunque, non volge verso una risoluzione drammatica. L’ultima unità metrica, in estensione pari alle altre (diversamente dalla tradizione sonettistica elisabettiana e petrarchesca) asseconda, invece, un flusso di emozioni disparate. Tutto è lasciato in sospeso, come spesso accade in questo romanzo lirico-drammatico, in un punto di snodo psicologico decisivo. Lo sviluppo narrativo verso l’epilogo tragico8 è tessuto da sentimenti esacerbati, inconfessati e inespressi: «Passions spin the plot.» 

Tiziana Ingravallo 

NOTE 

1 G. Meredith, Modern Love, London, Syrens, 1995, p. IO. Tr.it. : Lui sentiva in sé talvolta la selvaggia bestia / così prepotentemente rude che gli doleva vedere / quell’essere indifeso e delicato accettare / la sua protezione in certe oscure gole. / Non aveva denti per sbranare, e fame anche? / Ma tuttavia la risparmiava. Una volta: «Non hai paura?» disse; era il crepuscolo, lei in suo potere; nessuno accanto. / Lei rise: «No, certamente, non sono qui con te?» / E pronunciando quel dolce «te» stellare, accanto a lui / piegò il suo corpo gentile, guardandolo dal basso; / e dai suoi occhi, come da una tazza velenosa, / lui bevve finché gli fecero schermo le palpebre tremanti. / Diabolica strega malvagia! E, oh, giovane raggio della rotonda gioia del cielo! Qui, la tua figura, stritolare come un’uva intossicante / io potrei, e invece tu ne vai salva, suprema. – L’amore moderno (a cura di A. Serpieri), Milano, BUR, 1999, p. 71. 
2 George Meredith si separò da Mary Ellen Nicolls (figlia di Thomas Love Peacock) nel 1857, dopo un tormentato matrimonio. La sequenza di sonetti Modern Lave fu scritta nel 1861 , in occasione della morte di lei. Mary aveva abbandonato il marito per una relazione con il pittore preraffaellita Renry Wallis. Meredith si ri fiutò, perciò, di rivederla anche durante l’ aggravarsi della sua malattia. 
3 Si è scelto di porre al centro della nostra analisi il sonetto 9, perché riteniamo sia la chiave di volta tematica dell’intera sequenza. 
4 Cfr. Sonetto 2, vv. 6-9: «Re sicken’d as at breath of poison-flowers: / A languid humour stole among the hours, / And if their smiles encounter’d, he went mad, / And raged, deep inward.» 
5 L’immagine di un Otello tormentato da percezioni contrastanti e distorte, secondo la lettura romantica e vittoriana del personaggio shakespeariano, echeggia più volte nella sequenza. A tal proposito si veda P. Fletcher, Trifles Lights as Ain> in Meredith ‘s Modern Love, in «Victorian Poetry», Spring, 1996, pp. 87-99. 
6 A. Serpieri, op. cit., p. 118. 
7 Sonetto 33, vv. 14-15. 
8 Sarà la donna-demone a soccombere, invece, sopraffatta dal demonismo maschile «<the passion of a demon»). A metà della sequenza, infatti, i ruoli si invertono. Egli raggela ogni tentativo della moglie di aprirsi e comunicare e le nega ogni possibilità di aiuto al presentimento di un suicidio. 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 29-32.




 Per una storia del futurismo in Calabria 

La storia del futurismo è complessa e ricca di riferimenti. È anche una scoperta che incuriosisce e crea un consenso positivo di lettori. Il mio “I futuristi” pubblicato nel 1990 con la “Newton Compton” viene ristampato e richiesto nelle librerie. I manifesti, la poesia, le parole in libertà, i quadri, i disegni, i progetti musicali e architettonici (e così via) dimostrano che il futurismo fu una sicura alternativa. È l’unica avanguardia che abbia avuto la cultura italiana di portata europea. 

A Reggio Calabria si tiene un convegno sul tema del futurismo in Calabria. È un segnale. Il rapporto tra calabresità e futurismo è anche un gioco affascinante che si ammanta di tradizioni e di folckore. La girandola di riviste, di mostre e di libri diventa un fuoco pirotecnico in una regione che sembra avere posseduto soltanto la memoria, la grecità, il mito e la nostalgia. 

Pochi futuristi calabresi furono autenticamente artisti mentre molti sono dilettanti della passione poetica, amici di Marinetti o amici degli amici. La città dove ebbe maggiore accoglienza il futurismo fu Reggio Calabria. 

Ecco una prima numerazione. Principio Federico Altomonte, Umberto Boccioni, Piero Bellanova, Michele Berardinelli, Enzo Benedetto, Pier Paolo Carbonelli, Giuseppe Carrieri, Alfonso Dolce, Armiro Jaria, Silvio Lo Celso, Luca Labozzetta, Saverio Liconti, Mimi Mancuso, Antonio Marasco, Mario Potente, Orazio Pigato, Nino Pezzarosa, Giovanni Rotirosi, Alberto Strati, Angelo Savelli, Giuseppe Sprovieri. Luigi Scrivo, Geppo Tedeschi, Zanolli Misefari, Luigi Versace. 

Molti ebbero un fugace incontro che presto dimenticarono. Per altri il futurismo fu una occasione combattentistica e giovanile. Per pochi fu una adesione culturale. E, infine, per pochissimi fu la vita. 

Venivano i futuristi dai paesi e dalle città. Il più significativo è Umberto Boccioni seguito dai pittori Benedetto e Marasco. Tra i poeti Geppo Tedeschi che fondò il gruppo “Adoratori della patria” a Reggio. Tra i collezionisti e i critici è da annoverare Luigi Scrivo con “”Sintesi del futurismo / Storia e documenti”. 

Quasi tutti emigrarono nelle città dove la vita culturale andava concentrandosi. In particolare Roma. Parteciparono alla prima guerra mondiale. Alcuni persero la vita come Boccioni. Altri furono feriti come Pigato, Marasco. Benedetto fonda due riviste (“Originalità” 1924 e “Futurismo-oggi”). Carbonelli pubblica nel 1916 a Reggio Calabria “Rivolta futurista”. Versace dirige la “Galleria-nuova europa” in Roma. Bellanova sottoscrive il manifesto del “romanzo sintetico”. Tedeschi scrive il manifesto della “poesia sottomarina”. 

Il più fascista è Antonio Marasco che raggiunge il grado di colonnello nella milizia nella Repubblica sociale. Notevole successo riscuote la mostra a Reggio nel 1926 organizzata da Enzo Benedetto di 17 pittori futuristi per 41 opere nel contesto della IV biennale d’arte animata da Alfonso Frangipane che sulla rivista “Brutium” tenta un accostamento convincente tra la Calabria e il futurismo per un veloce apparentamento. Scrive “la nostra visione ardente, schietta; ardente, scevra di esotiche siilizzazioni è talvolta come quelle del futurismo libera, violenta, nello splendore delle bande cromatiche”. 

Filippo Tommaso Marinetti (che ebbe come segretario particolare Luigi Scrivo di famiglia calabrese dal 1930 al ’43) venne due volte a Catanzaro. Come ha documentato Cesare Mulè. La prima del novembre 1913. Al teatro Ferdinando ancora splendente di oro e di velluti recita poesie dopo la presentazione di una sua composizione teatrale “elettricità” da parte della compagnia di Domenico Tumiati. La seconda il 22 maggio 1927 in occasione della commemorazione di Boccioni e della presentazione del suo libro “L’alcova di acciaio”. 

Inviato dal circolo “F. Squillace” (fondato da Vivaidi. Patari, Corali e altri) Marinetti nella memorabile serata tra fischi e applausi dettò con declamazione retorica Arte non è realtà fotografica ma trasfigurazione del reale di cui si deve cogliere non la sua oggettività ma le sensazioni che da. Si recò, poi, a Reggio Calabria il 2 aprile 1933 per ricordare Umberto Boccioni al politeama “Siracusa”. 

Il futurismo in Calabria fu più un movimento nobile e anarchico che popolare e politico. La cosidetta “Calabresità” (di cui lungamente ho scritto nel mio Le leggende e racconti della Calabria) fondata sulla tradizione come epopea greca intrecciata con i miti della devozione sacrale creò una barriera. I maggiori scrittori calabresi (da Alvaro a Selvaggi, Gambino, Calabrò, Bruni) restano alla finestra. Ma la vita obbliga ai bilanci. 

I nomi trascritti, gli avvenimenti accennati sono quasi tutto il futurismo in Calabria. Mancano forse altri particolari ma il futurismo è un movimento complesso, dispersivo e sparpagliato come ombre e luci. I1a una teoria della vita. Il problema è quello di vedere la fedeltà del momento creativo alla tematica critica. Il futurismo è stato però meno dei “manifesti”. Ma ha una sua storia appassionata. E l’unica rivoluzione che abbia avuto la letteratura calabrese. La retorica si insinua nelle pagine. Forse non se ne poteva fare a meno. Anche per colpa di Marinetti che imbarca sulla sua navetta buoni e cattivi. Ma la poesia c’è e si sente. Un nuovo modo per vivere. Il linguaggio diventa magia-simbolo. Abbandona la grammatica e il dialetto. Il futurismo è anche storia d’Italia nel bene e nel male. È stata una rivoluzione che ha agitato bandiere in Calabria e che, nella sua sfrenata ambizione, intende definirsi in una nuova cultura. L’idea della Calabria deve confrontarsi con il futurismo. Le mode passano e le avanguardie decidono. Profetizzare il futuro è stato sempre il sacro peccato dell’uomo. 

La creazione nel futurismo esalta l’artista e lo inizia ad una missione “sacerdotale”. Laico incantatore che celebra riti magici, l’artista scrive una storia rivoluzionaria perché libera le “cose” dalle forme. I segni sono simboli e l’ideologia è nella scoperta dei valori primari. 

Il futurismo viene ripreso per ritrovare forse oggi impegno e vitalismo. Tra nichilismo negativo e consumismo rampante al limite dell’inutile gli uomini cercano antiche emozioni. Anche in occasione dei cinquant’anni della morte di Marinetti. Il futurismo è come un fiume carsico che tra le montagne si nasconde e all’improvviso appare. Viene riproposto per testimoniare una rivoluzione e per dare indicazioni sulla unica avanguardia che ha avuto il nostro paese e forse la Calabria. Il futurismo è memoria per una storia che ha l’idea della cultura della rivoluzione. 

In questa problematica rivoluzionaria più che sulla calabresità è possibile trovare fragili e sottili equazioni tra futurismo e Calabria. Niente, infatti, è più rivoluzionario del sacro, del mito, della memoria e della nostalgia. Voglio dire che soltanto i valori cambiano la storia e la rendono affettuosa nel dolore, amica nella solitudine e provvidenziale nella gioia. 

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 28-30.




 Marinetti cinquantanni dopo 

Il due dicembre del 1944 alle prime luci dell’alba moriva. Sono trascorsi cinquantanni. C’era la guerra e la Repubblica sociale. Dalla piccola casa di Bellagio sul lago di Como venne portato a Milano nel castello Sforzesco in una cassanera-ebano. I funerali furono imponenti. C’erano scrittori e popolo. Saluti romani per Marinetti. Una corona di fiori di Benito Mussolini accompagnava il poeta. Aveva dettato un patriottico componimento per l’Italia. 

Il suo oroscopo lo obbligava all’eroismo. La radice era sempre l’eroico nel privato, nel pubblico, nel politico e nel letterario. Non temeva la retorica. Spesso la cercava per condire con aceto forte la parola. Nato ad Alessandria d’Egitto aveva succhiato dalla civiltà araba il fanatismo. Vissuto a Roma ne aveva assorbito il paganesimo. Innamorato di Parigi ne aveva sognato la poesia. 

La vita gli era stata generosa. Gli aveva dato su un piatto d’argento anche quattro guerre. Partecipava per vincere. E racconta con il tentativo sonoro di fare ascoltare nelle pagine le cannonate, gli assalti alla baionetta e il crepitio delle mitragliatrici. Lo scrivere era fare musica. La grammatica non c’entra. E le parole devono essere inventate. Il vocabolario è sempre troppo piccolo. E il vento della storia si porta via i quinterni. 

Aveva intuito che Parigi allora era il centro del mondo. E il 20 febbraio del 1909 sul “Figaro” lancia il manifesto del futurismo. In una Europa ancora tranquilla aveva irinescato una bomba ad alto potenziale. Fu confortato dalle polemiche. E continuando con il terrorismo letterario obbligò gli artisti a non archiviare la ribellione. C’è solamente l’utopia con la quale giustificare l’amore per la vita. Il passato (che è anche il presente) è il tempo delle apparenze. Gli antiquari devono trasferirsi nel museo delle cere. L’incendio deve distruggere i palazzi dove sono sistemati, nei dorati salotti, i letterati e i politici. 

Giovane e radicale non accetta discussioni. Ama la lotta e l’audacia. Da volontario partecipa alla prima guerra mondiale sognando la rivoluzione. Scrive un romanzo definito “liberty eroico”. Si intitola L’alcova d’acciaio che suscitò interesse. Oggi è un documento. C’è la prima guerra mondiale, la partecipazione attiva dei futuristi e la polemica che Marinetti godeva nell’attizzare. Croce, ad esempio, viene definito un “malinconico carabiniere che predica la libertà rivoluzionaria”. 

È un romanzo “vissuto” (così nel sottotitolo) dove amore e morte si mescolano nel combinare una miscela esplosiva. Ci sono le mitragliatrici e le case di appuntamento. Nell’autoblinda affidata al tenente Marinetti dopo Vittorio Veneto e dopo la cattura di un intero corpo d’armata austriaco a Stazione Carnia, 11talia nuda si concede all’eroico soldato. L’automitragliatrice blindata che diventa mistica e infuocata “alcova d’acciaio”. 

Ma per intendere il rapporto tra letteratura e la prima guerra mondiale questo pregevole romanzo è insufficiente. Il “liberty eroico” è solamente un fremito di vita. La letteratura del tempo non si propone in esame contestativo della guerra ma, in generale, accetta la situazione. Preoccupata di scavare nel reale per liberarsi dalla prigionia del mito (rappresentato da Carducci, Pascoli, D’Annunzio), la letteratura vede nella guerra una occasione per collegarsi all’Europa (in particolare alla cultura francese) e per tentare un passaggio poetico. 

“La Voce” di Prezzolini si muove essenzialmente in un processo di liberazione dalla “provincialità” e l’esperienza poetica (da Ungaretti a Alvaro) si affanna nella convinzione che la guerra possa contribuire alla formazione di urta nuova cultura. 

La letteratura si sente impegnata nell’avvenimento che impone un confronto tra accademia e vita, tra parnaso e morte (Serra e Jahier lo testimoniano diversamente). Non è in discussione il problema di Trento e Trieste e il nazionalismo. Per la letteratura esiste l’occasione rigenerante. 

Da questa premessa, il discorso letterario inizia timidamente con marcata audacia e con sfrenata retorica. Si tratta di una adesione alla guerra avanzata per ragioni indipendenti della guerra stessa. C’è il paradosso di fantasia che sfiora pericolosamente l’anima letteraria. 

Durante il conflitto la letteratura si trova in un confronto drammatico. I motivi che avevano suggerito l’adesione trovano conforto. La letteratura italiana si collega con quella europea (l’ermetismo), si rinnova linguisticamente e spiritualmente. Ma la letteratura prende coscienza che la morte è anche il gesto crudele dell’uccidere. San Martino di Ungaretti, Il mio Carso di S. Slataper, Wirmusser di Jahier, A un compagno di Alvaro, Sul fianco biondo del Kobilek di Soffici, Nino di Saba, Valmerbia, discorrendo il tuo fondo di Montale, Canto proletario italo-francese di Campana sono alcuni esempi di questa inaspettata presa di coscienza. 

La guerra se consente una riconquista letteraria di portata europea e una liberazione dal mito decadente, tuttavia è rifugio della vita e disperazione dell’umano. Durante la guerra la letteratura rivede i motivi che l’avevano spinta all’adesione. In particolare la meditazione critica trova certificazione nello Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra. 

La coscienza inizia nella quiete della biblioteca di Cesena e viene portata a termine in zona di guerra tra malattie, disagi e trincea. Costitisce il testamento spirituale dello scrittore romagnolo nel quale l’amore alla vita trionfa profeticamente nella inutilità della guerra. Il tenente di fanteria Renato Serra, il 20 luglio del 1915, cade fulminato da un colpo in fronte sul Podgora e, alla sua memoria, viene concessa la medaglia d’argento. 

Lo scrittore contesta l’occasione con polemia dolorosa, con fatale rassegnazione, con vigorosa fierezza. L’esempio più indicativo, a questo proposito, è Clemente Rebora. Durante la guerra 1915-18, Rebora viene richiamato. Con il grado di sottotenente viene inviato tra le truppe combattenti sul fronte di Gorizia. Nel 1913 il poeta aveva già ottenuto un meritato riconoscimento con la pubblicazione nei quaderni de “La Voce” di Prezzolini dei Frammenti lirici (già stampati in parte sulla stessa rivista). Il rapporto tra biografia e vita, prima della guerra, già si presenta in questi “Frammenti lirici” da non consentire divagazioni e distrazioni. La guerra accentua questo rapporto con una frenesia impietosa. La vita e la poesia si caricano di errore per il dramma che si presenta sul fronte. 

La inquietudine morale si trasferisce con estrema coerenza nei Canti anonimi nei quali la parola si tortura e l’immagine perde ogni forma di letterarietà. La tragedia personale si universalizza nella disperazione inutile dell’uomo. L’esperienza vitale dello scrittore si allarga, spesso, ai confini della poesia. Lo sguardo raccoglie il sentimento e l’angoscia della morte accompagna le ore. Il fante Giuseppe Ungaretti, a vent’anni, sul Carso si incontra con il suo destino di poeta. “L’Allegria” pubblicata con una prefazione di Benito Mussolini distrugge il verso tradizionale, concede lo slancio lirico, frantuma la retorica. 

Ma allora che cosa significa questo romanzo così “Alcova” e così “Acciaio” di Marinetti? Significa anche letteratura come vita. Ma soprattutto permette di capire la gioventù di quella stagione. Marinetti è il giovane che racconta il suo sogno. 

La radice è sempre l’eroico nel privato, nel pubblico, nel politico e nel culturale. Non teme la retorica. Nato ad Alessandria d’Egitto aveva succhiato dalla civiltà araba il fanatismo. Vissuto a Roma ne aveva assorbito il paganesimo. Innamorato di Parigi ne aveva sognato la poesia. La vita è generosa. Partecipa per vincere. Racconta con il tentativo sonoro di fare ascoltare nelle pagine le cannonate, gli assalti alla baionetta e il crepitio delle mitragliatrici. Scrivere è fare musica. La grammatica non c’entra. E le parole devono essere inventate. Il vocabolario è sempre troppo piccolo e il vento della storia si porta via i quinterni. 

C’è l’utopia con la quale giustificare l’amore per la vita. Il passato è il tempo delle apparenze. Gli antiquari devono trasferirsi nel museo delle cere, l’incendio deve distruggere gli archivi e i dorati salotti. Giovane e radicale non accetta discussioni. Ama la lotta e l’audacia. In “Alcova d’Acciaio” ci sono i giovani che muoiono e che cantano sulle Alpi. Ci sono tutte le verità dell’eroismo. C’è la passione furiosa, l’individualismo anarchico, la Patria, la rivoluzione. 

Incontra, dopo la prima guerra mondiale, Benito Mussolini per caso. E l’occasione diventa per Lui un destino. Lo seguirà sempre nella buona e nella cattiva sorte. Quando vince e quando perde. Nel 1919 viene rinchiuso a Milano nelle carceri di San Vittore con Mussolini, Vecchi, Bolzon e altri quindici arditi per delitto di attentato alla sicurezza dello Stato e organizzazione di bande armate. E nella prigionia scrive un manifesto-opuscolo che sarà edito sul giornale “La testa di ferro” nell’agosto del 1920. 

Ci sono tutte le verità del suo eroismo. C’è la passione furiosa, l’individualismo anarchico, la Patria, la rivoluzione. Resta fedele alle sue verità anche quando si rese conto che il fascismo doveva fare i conti con la monarchia e il vaticano. 

Soffrì e accettò il suo compromesso salendo le scale dell’Accademia d’Italia nel 1929 con Salvatore Di Giacomo, Luigi Pirandello, Giuseppe Tucci. E dove incontrò passatisti, ciceroni e professori da lui sempre disprezzati (Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli, Giuseppe Ungaretti o Giovanni Papini). Fu la fine del futurismo. Il movimento continuò poi, sfilacciandosi e rompendosi in mille rivoli. Ma quel fuoco che aveva acceso nel lontano 1909 e che aveva alimentato con l’utopia la speranza non si spense. Anche oggi il viandante perduta la bussola di orientamento guarda verso il fuoco sacro. 

Dopo tanto vivere sulle rive del lago, Marinetti chiudeva gli occhi colpito al cuore. Fuori c’era la guerra civile. Gli uomini puri vivevano la passione. Gli altri si imboscavano. E il poeta viveva con dolore la sua solitudine. 

Era stato sul fronte russo con il raggruppamento “Camicie Nere XXIII marzo”. Nell’autunno del 1942 era ritornato ammalato. Il tempo dell’agonia arrivato. Lungo e irrevocabile. Tornava nel seno materno. Una grande pietà era nel suo orizzonte. C’era maestosità in una Repubblica dove si moriva. C’era la sconfitta della patria. E c’erano ricordi come ombre leggere nel tramonto. 

Pochi mesi prima di morire scrive L’aeropoema di Gesù tra il 1943 e il ’44. Era ormai al tramonto dopo avere attraversato un sentiero avventuroso. Era arrivato vicino la sponda dove ogni futuro diventa presente. 

L’aeropoema di Gesù non è un testamento da convertito. Forse è il tentativo di assommare nella figura di Gesù il misticismo eroico, l’idea della patria da salvare (che fu di molti nella Repubblica sociale), la contemplazione divina in movimento, un frammento di romanticismo utopistico (che sottintende al futurismo) e un vago orizzonte di innocenza religiosa. 

Con L’aeropoema di Gesù non c’è più il prometesimo futurista (annotato e comprovato nel nostro “I futuristi”). C’è il destino che spezza le ali della passione in una Venezia desolata che non concede niente all’eroico anche religioso. 

Marinetti si abbandona alle confidenze nella Venezia lunare. Nelle parole c’è l’eco di una musica che entra nelle pietre corrose e le fa diventare fughe disperate verso antiche nostalgie. Già in questo poema (come nelle pagine coeve) il Marinetti ritorna alla madre e alla “devozione a Gesù”. 

Percorso il grande cerchio della vita ritorna verso il punto di partenza. Lo attende il seno materno. Il passato è meno della madre che attende. Gesù è il compagno di un viaggio che volge al termine. Gli uomini si coprono di broccati tngemmati sulle camice nere. Vivaldi è agli ultimi accordi per una pia orfanella. Un profumo di zagare marcite viene dalle acque velenose della notte. A Marinetti, tornato dalla guerra nel fronte russo, non rimane che Gesù, il tricolore, il poema eroico per i ragazzi della X Mas, la madre, e la rassegnazione. 

Aveva sessantotto anni e suscitava ancora polemiche dentro e fuori il fascismo. É stato un intellettuale rumoroso. 

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 24-28.




 La leggenda di Tristano e Isotta in Inghilterra 

di Giacomo Giacomazzi 

La leggenda di Tristano e Isotta è stata definita «il grande mito europeo dell’adulterio»1: Tristano, il più nobile cavaliere del re Marco (di cui è anche nipote) conquista la mano della principessa d’Irlanda Isotta, per darla in sposa allo zio. Durante il viaggio in mare tra l’Irlanda e l’Inghilterra, i due protagonisti bevono per errore un filtro magico con il potere di far innamorare perdutamente, preparato dalla madre d’Isotta per la prima notte di nozze tra gli sposi. Tra i due, dunque, inizia una turbolenta relazione adultera, condotta tra mille periperzie (inganni, separazioni, ricongiungimenti, combattimenti). Inesorabilmente, i due amanti si potranno ricongiungere solo nella morte, che li coglierà entrambi a breve distanza l’uno dall’altra2. 

Come per tutti i miti che si rispettino, le sue origini si perdono nei meandri del tempo e dello spazio. Ciò nonostante, più di cent’anni di studi filologici e letterari (coadiuvati dal supporto non indifferente di quelli archeologici) ne hanno significativamente individuato la chiara provenienza dalla Cornovaglia celtica3. 

La leggenda tristaniana, dunque, ha la sua origine proprio nelle isole britanniche; e originariamente si presenta indipendente e parallela a quella arturiana tramandata da Geoffrey of Monmouth e da Wace; e che successivamente la assorbirà al suo interno, in quella che, alla fine del XII secolo, viene definita da . Jean Bodel Matire de Bretagne. 

È ancora nelle isole britanniche che sembra ‘iniziare’ la storia prettamente letteraria di Tristano e Isotta. Infatti, l’ adattamento degli originali elementi ‘primitivi’ della leggenda celtica al più raffinato clima culturale dell’ allora nascente letteratura cortese si verifica alla corte di Enrico II Plantageneto, attraverso la contaminazione con elementi provenienti dalla cultura classica (in particolar modo Ovidio). 

Due sono gli autori operanti in seno alla corte plantageneta che, narrando in anglonormanno, rivestono un ruolo determinante in questa evoluzione della tradizione tristaniana: Marie de France e Thomas d’ Angleterre. 

«Marie de France» è la firma di una poetessa di cui si ignora qualunque notizia biografica, posta su tre opere: i Lais, dodici componimenti probabilmente scritti nel 1165; una raccolta di Fables esopiche, composta verso il 1180; l’Espurgatoire de Saint Patrice, che risale all’incirca al 11894. 

Nel Lai du Chevrefoil, la poetessa narra l’episodio di uno dei tanti incontri segreti tra Tristano e Isotta. Pur nella sua brevità (si tratta di 118 versi ottosil1abici), questo poemetto si presenta ricco di elementi estremamente interessanti, grazie ai quali Marie riesce volontariamente a creare un perfetto trait d’union fra tradizione orale celto-bretone e letteratura cortese. 

È già la definizione del componimento come lai che costituisce un chiaro rimando alla tradizione orale insulare: si tratta, infatti, di un termine che orginariamente designava un componimento musicale, cantato o semplicemente suonato da arpisti irlandesi e cantastorie bretoni. E, infatti, Marie stessa dichiara esplicitamente di averlo «più volte ascoltato» (plusurs le m ‘unt cunté e dit)5; ma, subito dopo, aggiunge un ‘elemento letterario’, dichiarando di averlo anche trovato «messo per iscritto» (E jeo l’ai trové en escrit)6. Anche la tipologia episodica e allusiva della narrazione rimanda in sé alla recitazione giullaresca; e presuppone – in virtù dell’essenzialità e condensazione degli elementi narrati – che il pubblico conosca perfettamente la storia nel suo insieme. Un altro elemento che esplicitamente manifesta l’intenzione autorale di creare la continuità tra i due sistemi culturali è contenuto nell’ epilogo, quando Marie riporta il titolo del lai sia in inglese (Gotele/) che in francese (Chevrefoil), attribuendone la creazione allo stesso Tristano7. 

Ma è, forse, il tema centrale dell’unione indissolubile tra il noce e il caprifoglio, simboleggiante quella tra gli amanti, a rievocare dei precisi elementi provenienti da entrambi gli universi culturali, sintetizzandone la sovrapposizione e suggellandone la continuità. 

Se da un lato, infatti, questo tema richiama la tradizione classica della poesia d’amore latina – in particolare, le Metamorfosi di Ovidio -, dall’altro presuppone un chiaro legame con il ruolo magico ed evocativo delle piante nella cultura celto-bretone. Inoltre, sempre su un ramo di noce (cui era riconosciuta soprattutto la virtù di donare l’ispirazione poetica), Tristano incide il messaggio cifrato che solo Isotta riesce a comprendere e che, molto probabilmente, è scritto in caratteri ogamici (corrispondente celtico del runico germanico), facilmente comprensibili da una principessa irlandese8. 

Come per Marie de France, anche di Thomas d’Angleterre ignoriamo praticamente tutto. Di lui rimane solo il nome, citato due volte all’interno del suo Roman de Tristran, e da Gottfried von Strassburg che nel prologo della propria versione delle leggenda tristaniana nomina «Thòmas von Britanje» come suo modello. L’opera stessa è stata tramandata in stato frammentario e lacunoso da sei manoscritti, che ne contengono parti differenti. Si pensi che dei 13.000 versi ipotizzati da Felix Lecoy, se ne sono conservati solo 32989. 

Se il Lai du Chevrefoil si presenta come una ‘sintesi perfetta’ fra la tradizione orale celto-bretone e l’allora recente narrativa cortese in lingua d’oil, il roman di Thomas d’Angleterre presenta dei caratteri molto più spiccatamente letterari, fortemente legati alla componente più dotta della cultura del XII secolo. 

È già la natura romanzesca della narrazione thomasiana a rivelare come egli ‘propenda’ (molto più della contemporanea Marie) verso la cultura continentale. Se è vero, infatti, che il termine roman come tipo di componimento narrativo, è indicativo del processo di ‘volgarizzazione’ della cultura dotta di origine latina, allo stesso tempo, però, ne rivela anche l’ideale continuità10. 

E pur tuttavia, rimangono delle evidenti tracce dell’origine celto-bretone della leggenda. Tra quelle più palesi si hanno: l’esplicito riferimento alla tradizione oralell; il riferimento a un certo conteur bretone Breri come al migliore conoscitore della matire de Bretagne12; la composizione ed esecuzione di un lai da parte di Isottal3; l’indipendenza della leggenda tristaniana da quella arturianal4. 

Il mondo tristaniano di Thomas, comunque, è pienamente cortese, ben lontano dagli eroi della tradizione celtobretone. Non a caso, infatti, proprio la sua versione è indicata come capostipite del filone ‘cortese’ della tradizione, in contrapposizione a quello ‘comune’ dai caratteri più ‘primitivi’ls. 

Lo stile narrativo thomasiano si presenta, inoltre, estremamente distante dallo spirito originale della leggenda. Esso manifesta, infatti, un chiaro intento didattico-moraleggiante, molto vicino al modello argomentativo della filosofia scolastical6. Questo aspetto non appare affatto casuale, dato che, attraverso un’ attenta lettura del testo, sembra possibile riscontrare dei rimandi ad alcune delle più importanti e dibattute questioni filosofiche dell’ epoca. Queste tematiche filosofiche si legherebbero all’intenso dibattito sull’ amore e sul libero arbitrio che percorre tutto il XII secolo. Un ruolo predominante sarebbe ricoperto, innanzitutto, dalla riflessione filosofica di Pietro Abelardo, a partire dalla posizione che egli assume nella famosa querelle des universaux, e che avrebbe ispirato il progetto didattico-culturale del cosiddetto ‘Circolo di Canterbury’, i cui ‘aspetti teorici e programmatici’ risulterebbero evidenti nel Metalogicon di John of Salisbury17. 

Anche se chiaramente derivato dal Roman de Tristran di Thomas, l’anonimo Sir Tristrem in middle english della prima metà del XIV secolo si discosta molto dallo spirito del proprio modello. 

Quest’ opera è stata tramandata da un unico manoscritto, il Codice Auchinleck, conservato alla National Library of Scotland. Questo codice è di notevole importanza per lo studio della letteratura inglese medievale, poiché costituisce una delle più vaste e antiche antologie di opere scritte in middle english; di cui otto in copia unica (tra cui proprio il Sir Tristrem). Quando nel 1804 Walter Scott ne fece l’editio princeps, prestando fede alla prima strofa del poema ne attribuì la paternità a Thomas the Rhymer of Erceldoun, leggendario vate del XIII secolo, giungendo financo a identificarlo proprio con il Thomas von Britanje citato da Gottfried von Strassburgl8. 

Il Sir Tristrem presenta delle caratteristiche che ne hanno sempre fatto un’opera molto controversaI9 : · è, infatti, estremamente allusiva ed ellittica; i nessi logici narrativi non sono esplicitati, come se chi scrive dia per scontato che il proprio pubblico conosca fin nei minimi dettagli il racconto. 

Il metro utilizzato, inoltre, è estremamente complesso: si tratta di strofe di undici versi, divise in una fronte di otto versi a rima alternata (ABABABAB), seguita da una coda di tre versi collegati alla fronte dallo schema rimico (cBC). Ogni verso presenta solo tre sillabe accentate, tranne il primo della coda che ne contiene uno. Data la complessità della stanza, la sintassi risulta spesso stravolta, vengono utilizzate parole strane e poco adatte, si fa ricorso spesso all’uso di zeppe. 

Tutte queste caratteristiche, in realtà, risultano essere tipiche della poesia anglosassone. Dal punto di vista stilistico, ad esempio, è riscontrabile un chiaro rinvio al BeowulfO. Ma ancora più significativo è, certamente, il fatto che la stanza del Sir Tristrem si configura come una forma ridotta della cosiddetta bob and wheel stanza, la strofa del Sir Gawain and the Green Night, considerato il capolavoro della letteratura arturiana in middle english del XIV secolo21. 

Oltre alla tradizione diretta, nell’Inghilterra medievale sono numerose anche le attestazioni «indirette», che testimoniano la popolarità e diffusione della leggenda tristaniana. Geoffrey Chaucher, per esempio, vi allude nella ballata ironica To Rosemounde, in The Parliament oj Fowls, in The Legend oj Good Women e in The House oj Fame. 

Inoltre è possibile trovare un po’ ovunque in Inghilterra vetrate, arazzi, sculture, miniature, piastrelle decorate, risalenti al Medioevo che rappresentano le scene più famose della leggenda. 

Giacomo Giacomazzi

NOTE 

I «TI existe un grand mythe européen de l’adultère: le Roman de Tristan et Yseut», D. de Rougemont, L’amour et l’Occident, Paris, 1972′, p. 18. 
2 Riassumere esaustivamente e brevemente l’intera storia risulta essere piuttosto problematico, anche in virtù delle numerose varianti della leggenda che sono state tramandate. Per un approfondimento, cfr. A. Punzi, Tristano. Storia di un mito, Roma, 2005. 
3. Gli studi sull’ argomento sono piuttosto numerosi; per una sintesi abbastanza esaustiva, si vedano: J. Chocheyras, Tristan et Yseut: genese d’un mythe littéraire, Paris, 1996; F. Benozzo, Tristano e Isotta. Cent’anni di studi sulle origini della leggenda, in Francofonia, 33, 1997, pp. 105-130. 
4 Per informazioni più dettagliate su Marie, cfr. C. Rossi, «Marie ki en sun tens pas ne s’oblie». Marie de France: la Storia oltre l’enigma, Roma, 2007. 
5. Marie de France, Lai du Chevrefoil, in Ch. Marchello-Nizia (a cura di), Tristran et Yseut. Les premières versions européennes, Paris, 1995, pp. 213-216: p. 213, v. 5. 
6 Ibid., v. 6: Ci si è chiesti se Marie non alluda al ‘famigerato’ poema archetipo che Jospeh Bédier ha tentato di ricostruire con metodo lachmanniano (cfr. 1. Bédier, Le Roman de Tristran par Thomas: poème du XII siècle, Paris, 1902-1905). 
7 «Pur les paroles remember, I Tristram, ki bien saveir harper, I En aveit fet un nuvel lai. / Asez brefment le numerai: / Gotelef l’apelent Engleis, / Chevrefoille nument Franceis»: Marie de France, op. cit., pp. 215-216, vv. 111-116. 
8. Su questo aspetto della narrazione di Marie de France, cfr. M. Cagnon, «Chievrefueil» and the Ogamic Tradition, in Romania, XCI, 1970, pp. 238-255; M. Demaules, Notice au Lai du Chèvrefeuille, in Ch. Marchello-Ni?-ia, op. cit., pp. 1287-1298. 
9. Per notizie più dettagliate, cfr. I. Short, Notice au Fragment inédit de Carlisle, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 1208-1214; Ch. Marchello-Nizia, Notice au Tristan et Yseut par Thomas, in ID., op. cit., pp. 1218-1247. 
10. Allo stesso modo in cui, scegliendo la forma del lai, Marie dimostra invece di volersi collegare idealmente con la tradizione orale celtobretone. 
11. Anche Thomas, cosÌ come Marie, riferisce sia di narrazioni orali di tipo giullaresco, sia di versioni scritte della leggenda tristaniana: «Di’ en ai de plusur gent / asez sai que chescun en dit / e ço que il unt mis en escrit.»: Thomas, Roman de Tristran, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 123-212: p. 184, vv. 2270-2272. 
12 Si tratta forse del «famosus ille Bledhericus» citato da Giraud de Barri (Giraldus Cambrensis) nella Topographia Hibemiae, scritta nel 1194. Oppure potrebbe essere anche quel Bléheri, citato da Wauchier de Denain nella continuazione dell’incompleto Conte du Graal di Chrétien de Troyes, che avrebbe narrato la storia di Tristano e Isotta alla corte di Poitiers (cfr. P. Gallais, Bleheri, la cour de Poitiers et la diffusion des récits arthuriens sur le continent, in Actes du Vile Congrès National de la Société Française de Littérature comparée [Poitiers, 27-29 mai 1965J, Paris, 1967, pp. 47-79). 
13. Si tratta del Lai du Guiron, famoso componimento sul tema del «cuore mangiato», non conservatosi, ma più volte citato nel corso del Medioevo; cfr. Thomas, op. dt., pp. 150-151, vv. 987-1000. 
14 Thomas cita Artù esclusivamente in relazione al suo duello con un gigante, il cui nipote viene a sua volta affrontato e battuto da Tristano, in un episodio che egli stesso dichiara del tutto gratuito nell’economia della narrazione: <<<4 la matire n’ afirt mie, I nequedent boen est quel vos die» (ibid., p. 149, vv. 935-936). 
15. L’origine di questa distinzione all’interno della tradizione tristaniana in «versione comune » e «versione cortese» è dovuta a Joseph Bédier. Quando si allude alla versione comune, ci si riferisce a quelle opere che risulterebbero fedeli alla struttura e al senso del presunto archetipo: Béroul, Eilhart von Oberg, la Folie de Berne. Quando si parla, invece, della versione cortese, si intende il roman di Thomas e le opere ad esso ispirate: Gottfried von Strassburg, la Tristamssaga norrena, la Folie d’Oxjord, il Sir Tristrem. 
16 Cfr. V. Bertolucci Pizzorusso, La retorica nel «Tristano» di Thomas, in Studi Mediolatini e Volgari, 6-7, 1959, pp. 26-61. 
17 Questo aspetto del roman di Thomas costituisce il punto di partenza del mio progetto di ricerca attualmente in corso nell’ambito del dottorato di ricerca in Letterature moderne e Studi filologico-linguistici presso l’Università degli Studi di Palermo. 
18 Per maggiori informazioni a riguardo, cfr. C. Fennell (a cura di), Sir Tristrem, Milano-Trento, 2000; A. Crépin, Notice au Sire Tristrem, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 1541-1554. 
19. Già Robert Mannyng of Brune, nella Story oj lnglande (1338), citava il Sir Tristrem come esempio di narrazione storpiata e incomprensibile agli ascoltatori, a causa della pretestuosa arte di «menestrelli vanagloriosi»; cfr. C. Fennell, op. cit., pp. 51-52. 
20 Cfr. C. Fennell, op. cit., p. 42. ” Per un’analisi della bob and wheel stanza e un confronto con quella del Sir Tristrem, cfr. A. Crépin, op. cit., pp. 1545-1548. G. G.

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 16-20.




Un viaggio nel labirinto dell’anima

«Così conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» 

(Gv. VIII – 32) 

Un famoso filosofo cinese affermava: «Vi è una sola verità sulla terra: che qui non vi è verità». Pur comprendendo la plausibilità di tale tesi e pur essendo consci delle innegabili limitazioni della nostra mente, mezzo della «conoscenza», nonché delle numerose difficoltà che si presentano sul cammino del ricercatore, nessuno di noi può accettare di esimersi dal ricercare il «vero», che rappresenta la meta ultima della nostra esistenza intesa come esperienza conoscitiva. 

Nell’allegoria della Genesi, l’uomo e la donna si nutrono del frutto della conoscenza del bene e del male (o albero della scienza), che è stato loro proibito da Dio in quanto portatore di morte. E’ operando una scelta precisa che essi si dividono la famigerata «mela»; si tratta di un’unità simbolica che viene spezzata, e che li condurrà in un mondo sperimentabile esclusivamente attraverso l’esperienza nella duplicità degli opposti. Essi stessi, rappresentanti di questa dualità, nei loro opposti aspetti di «maschile» e «femminile» destinati a riunirsi, si inseriscono in un ciclo non più esclusivamente spirituale, rappresentato dalla «caduta nella materia», il cosiddetto «ciclo delle necessità», nel quale, entrambe le esperienze, sia quella del vissuto interiore che quella più esteriore di sopravvivenza nel mondo fisico, divengono la meta e il mezzo di conoscenza necessari ad attuare quella scelta costante tra «bene» e «male», ricerca di equilibrio tra gli opposti, e più avanti, superando l’impasse, lenta liberazione dai legami terreni. Ciò può essere rappresentato simbolicamente dal moto circolare discendente ed ascendente, dalla caduta al ritorno a Dio, dal cielo alla terra, dalla terra al cielo. 

L’aspetto fenomenico duale, sul quale ci soffermeremo più volte, è una costante legge della natura e del conoscibile, poiché appartiene ad ogni fenomeno indagabile dalla nostra mente. Come al giorno si oppone la notte, alla materia lo spirito, al bene il male, alla morte la vita, al sonno la veglia, così ogni fenomeno conoscibile presenta in natura il suo opposto complementare che lo rende intero. 

Il nostro stesso cervello simbolizza anche dal punto di vista anatomico l’aspetto duale: esso si divide in due lobi inscindibili, preposti, sembra, a due funzioni diverse ma entrambe essenziali, rappresentate in termini generici dall”«intuito» e dalla «logica». L’alternarsi paritetico delle due parti conduce ad un buon equilibrio dell’essere umano, mentre la preponderanza schiacciante di uno dei due aspetti è in grado di «squilibrarci», di renderci, cioè, sempre in termini molto generici, troppo «aridi» o troppo «astratti», ma è in ogni caso uno stato di cose che non può condurre alla «conoscenza» dello spettro di verità da noi raggiungibili, poiché rende incompleto e parziale il nostro «conoscere». 

Oggi possiamo affermare che la nostra «evoluzione» si stia servendo quasi esclusivamente del parziale mezzo di indagine della «logica», strumento razionale con il quale si è affidato alla scienza (termine che, propriamente o no, significa conoscenza) il compito di porre l’accento sullo studio dei fenomeni fisici, visibili, sperimentabili e ripetibili in laboratorio. 

Questo tipo di «conoscenza» alla quale sempre più esclusivamente ci affidiamo, ha avuto il pregio illusorio di offrirci una relativa sicurezza: difatti la legge sull’evoluzione darwiniana, posta a monte della «genesi scientifica», ha dato al nostro conoscere un doppio colpo di coda: da una parte la quasi certezza di non essere che animali evoluti, dall’altra, lo sfruttamento di tale possibilità evolutiva, la nascita di una volontà diretta alla dimostrazione del contrario attraverso l’affermazione della «ragione» che ci separa dal regno strettamente animale. 

Secondo Diel, l’intelletto umano trova il suo scopo specifico nell’adattamento alle necessità strettamente vitali dell’individuo, serve cioè alla sopravvivenza. Ma senza andare troppo lontano, potremmo allora affermare che se il frutto dell’intelletto dirige esclusivamente verso lo scopo della sopravvivenza fisica, dovremmo riconoscere anche agli animali tale tipo di «intelletto». 

Ma l’animale, a differenza dell’uomo, uccide veramente per sopravvivere, non si lascia condizionare dall’odio. L’animale non prova sensi di colpa, è giustificato dalla sua stessa natura quando uccide per fame. Si dovrebbe allora spostare il tiro dal termine «intelletto» a quello di «istinto», ed individuare la linea di demarcazione che separa gli uomini dagli animali nella cosiddetta «coscienza». Una coscienza, o consapevolezza di tipo morale, che conduce sempre all’eterna scelta tra bene e male, e con la quale l’essere umano è in grado di tenere salde le redini dell’istinto, di vincere, cioè, la sua natura animale combattendola e soggiogandola con la sua natura «positiva» o «morale». 

È luogo comune affermare che la nostra società «civile» sia una giungla nella quale si continua a lottare per la sopravvivenza, nella quale omicidio, odio e violenza non sono sconosciuti nemici, ma compagni di viaggio. Ma c’è un altro vero «genocidio» commesso ai danni dell’umanità, e non esclusivamente quello perpetrato con le armi. Esso si propaga anche con mezzi più sottili, con l’abuso di mezzi intellettivi al servizio della propria natura «negativa» a danno degli anelli più «deboli» della catena per inciso, contro i «giusti». 

Nella giungla umana il nostro successo, la nostra autoaffermazione, vengono fatti dipendere dal soccombere altrui; il nostro ego (o il nostro egoismo) è il piccolo limitato mondo dal quale non sappiamo uscire per andare verso l’universo del prossimo, e per la cui conquista siamo spesso disposti a tutto. Se è vero che la lotta umana si svolge ad un gradino «superiore» a quello degli animali, siamo davvero ben poca cosa rispetto ad essi, poiché il nostro errore è sempre intenzionale, volontario, privo d’amore, non più affidabile esclusivamente alla natura istintiva, non più giustificato dall’animalità umana. 

Sempre per esprimerci in termini simbolici, è la «Bestia» dell’Apocalisse che sorge in noi dal grande mare (dell’inconscio). È il Leviatano, l’antico serpente condannato a strisciare, che bisogna guardarsi dal risvegliare, perché non sollevi la testa: il latore delle forze negative dentro chi non accoglie in sé la forza dell’amore. Le sue sette teste, con su scritti «nomi di bestemmia» potrebbero rappresentare i sette peccati capitali, le forze negative sempre latenti nell’anima umana. 

La «Bibbia di Gerusalemme» definisce la Bestia apocalittica come «un mostro del caos primitivo… che incarna la resistenza contro Dio delle potenze del male». Nella cosmogonia babilonese esiste in merito questa descrizione: «Tiamat, il Mare, dopo aver contribuito a dare la vita agli dei, era stata vinta e sottomessa da uno di loro. L’immaginazione popolare o poetica riprendendo questa immagine attribuiva a Jahvè questa vittoria anteriore all’ordinamento del Caos o lo vedeva sempre mantenere in soggezione il Mare e i Mostri che lo popolano»1. 

L’evoluzione del negativo non ricerca Dio come Entità superiore, ma desidera emularLo; nasconde in sé l’insidia del desiderio di sconfiggerLo, superarLo, svalutarLo, spiegando razionalmente i Suoi «piani segreti»: il mistero della vita, la sconfitta della morte. Ma se è vero che Dio è Amore, nessuno di questi «imitatori» potrà penetrarne il segreto, poiché l’Amore è partecipazione della natura divina, è immedesimazione, «incarnazione», è unione che non può non essere raggiunta assemblando dei pezzi casualmente o razionalmente nemmeno per milioni di anni. 

Questa illusione di potere e di sapere, che fu già prerogativa degli angeli ribelli ed arma che condusse alla disubbidienza dell’uomo fu causata dall’uso sconsiderato dell’albero della scienza che conduce alla morte. «Ma …erano condannati a “cadere e perdere i loro poteri” non appena le due metà della dualità si furono separate. Il frutto dell’Albero della Conoscenza dà la morte senza il frutto dell’Albero della Vita. L’uomo deve conoscere se stesso prima di poter sperare di conoscere l’ultima genesi anche di esseri e poteri meno sviluppati, nella loro intima natura, dei propri. Così avvenne per la religione e la scienza: unite in uno erano infallibili, perché l’intuizione spirituale era pronta a supplire i limiti dei sensi fisici. Una volta separate, la scienza esatta rifiuta l’aiuto della voce interiore, mentre la religione diviene una semplice teologia dogmatica: e ognuna è solo un cadavere senza anima»2. 

Questa illusione misconosce Dio come volontà intelligente ed organizzatrice della vita, Lo nega indirettamente, sostituendoLo con il «caso» (anagramma di caos) e le sue combinazioni. In sostanza essa è estremo orgoglio di disconoscimento dei propri limiti umani, totale mancanza di umiltà. D’altra parte, un Dio costretto nella materia, ricercato con il microscopio, chiuso in una provetta, sarebbe una ben misera cosa rispetto all’uomo che lo osserva. Ma la somma delle esperienze attuali ci porta ad affermare che lo scienziato-antagonista non cerca Dio, cerca le prove del suo essere Dio. 

Questa illusione, questa univocità di direzione finalizzata a questo scopo, oltre ad aver ridotto il pianeta ad un immenso letamaio avvelenato dai residui chimici e dalle nubi atomiche, ci ha posti al centro dell’universo per dimostrarci oggi sconfitti dalle nostre stesse opere. 

Questo folle «illuminismo oscuro», con un lavorio costante durato in fondo pochi anni rispetto all’esistenza dell’uomo sulla terra, ha soffocato la nostra spiritualità, già poco sorretta dalla freddezza dell’interpretazione ufficiale dei dogmi religiosi: non ha interrogato affatto l’«intuizione» (e a me sembra neppure la ragione) per prevedere quali sarebbero state le conseguenze dell’operare umano. Quella intuizione o spiritualità che anche i popoli antichi, considerati ingiustamente «incivili», non tralasciavano mai di considerare. 

Si è affermato che le religioni nacquero proprio da uno stato di soggezione che l’uomo antico provava verso i fenomeni inspiegabili della natura. E che nel tentativo pavido di placarli, li divinizzò sottomettendosi ad essi con un’adorazione che tentava, come poteva, di dominarli. Ma il famoso, e più attuale, asserto di Campanella, che insegna come la natura si possa dominare solo servendola, possiede molta di questa antica saggezza e resta teorema pur sempre valido. 

L’uomo, con tutta la sua «scienza» non è e non sarà mai in grado di dominare la natura. Egli non si è voluto abbassare al livello di «guardiano» affidatogli da Dio, come compito e poi come punizione («E tu, perché hai dato ascolto alla donna (natura istintiva) coltiverai la terra con gran fatica, raccogliendo coi frutti spine e triboli, con il sudore della tua fronte»). 

Oggi, la nostra «disubbidienza» recidiva, la ricerca di supremazia ad oltranza su una natura che sta divenendo sempre più ostile, ha abbrutito la nostra moralità, ha compromesso i rapporti con la propria coscienza, con il prossimo, con il pianeta, con Dio stesso. I frutti coltivati dall’uomo con gran sudore sono i risultati nefasti della scienza. «L’albero si riconosce dai propri frutti» afferma Gesù in una parabola, rispondendo al dilemma umano sull’individuazione e il riconoscimento della differenza tra bene e male. 

Noi, quali frutti abbiamo prodotto? E dove, presumibilmente conducono le nostre opere? E ancora, Dio•, dove l’abbiamo nascosto? 

L’altra metà della mela, quella non dominata dal «caso», ma dalla volontà unita all’amore, libera meta del libero arbitrio, l’Intuizione, gemella della ragione, madre dell’arte, delle invenzioni, del sogno, è da troppo tempo racchiusa nel blocco di ghiaccio della materia; atrofizzata e schiacciata dalla Logica, non può essere trascurata oltremodo. Essa ci lancia disperati messaggi attraverso i sogni, ma spesso usa anche sensazioni, premonizioni o comunque esperienze che ci informino della sua esistenza, che ci facciano intuire l’«insostenibile leggerezza dell’essere» citata da Kundera. 

• N.B. – In un lavoro come questo, il ricorso a Dio è molto frequente. È bene precisare che usando il termine «Dio», l’autrice non si riferisce al Dio specifico di qualche religione. Questo testo, pur con tutte le difficoltà legate all’oggettivazione, non vuole condurre a soluzioni specifiche né a indirizzi forzati. Esso si limita a riportare quanto di comune ci sia nelle scelte religiose, filosofiche, morali o psicologiche dei diversi popoli, partendo anche da quelli antichi fino a ripercorrere le tappe dell’evoluzione interiore dell’uomo. Il termine usato va quindi inteso in senso generico molto ampio poiché ‘siamo tutti figli di un unico Creatore’ afferma più avanti. Esso sottintende dunque I diversi significati di Creatore, Padre, Energia Primaria, Ordinatore del Caos, Causa Prima, Forza Positiva, Volontà Organizzatrice, ecc., così che anche I Suoi attributi, come ad es. Intelligenza, Bontà, Verità, Eternità, vengano sostantivati. Il termine comprende tutto questo e molto di più, seppure ridotto al minimo per facilitare la scorrevolezza del testo e rivolgersi ad ogni uomo, di qualsiasi razza sia e a qualsiasi religione appartenga. Esso è espressione di unione, desidera allontanarsi dai termini di separazione, e dalle lotte che per questo sono state perpetrate nascondendosi dietro la propria bandiera religiosa, uccidendo spesso, c per assurdo, proprio «nel nome di Dio». 

Si tratta di fenomeni confinati genericamente sotto la assurda dicitura di «Paranormale». D’altra parte la casistica di tali fenomeni è vasta e innegabile e fortunatamente si sta uscendo dall’oscurantismo razionale, o anche dalla paura, che impediva a molti di esternare le proprie esperienze in tal senso. Ufficialmente, il dileggio o l’allusione all’ala della pazzia, erano la punizione per chi osava parlarne. Ma in verità, ognuno di noi almeno una volta nella vita ha avuto a che fare con tali manifestazioni, poiché esse sono retaggio umano. Si tratta di fenomeni che non sappiamo spiegare, perché sfuggono alla stretta razionalità, e sembrano piuttosto far parte del mondo dei sentimenti; e come tali sono difficilmente riproducibili «a comando». Ma se la scienza rappresentasse un vero desiderio di conoscenza dovrebbe occuparsi anche di questo, senza paraocchi, senza paure, senza preconcetti. Occorre, è vero, una grande apertura mentale per conciliare gli opposti, per mettere in campo i risultati scientifici accanto a quelli spirituali. Ma io credo che il giusto atteggiamento di chi desidera veramente «conoscere» non sia quello di infilare la testa sotto la sabbia. Dovremmo accettare l’idea che anche questo accade e accade non lontano, ma dentro di noi, perciò anche questo diviene normale (e non para-normale), sebbene i nostri mezzi limitati non siano ancora riusciti a spiegarci i «perché», i «come», e i «quando». 

Questo esercizio mentale conduce all’umiltà, al riconoscimento di qualcosa che ci sovrasta e che è in grado, se glielo permettiamo, di penetrare fin dentro le nostre fibre. C’è qualcosa di sconosciuto, da tempo in attesa di essere risvegliato per trasformarci in esseri completi, per condurci ad un’evoluzione vera e positiva. 

I messaggi in bottiglia provenienti dall’anima o dal grande mare dell’inconscio, se preferite, sono sintomi di naufragio e di malessere spirituale. Sono richieste d’aiuto dell’anima destinate spesso a rimanere inascoltate a causa della nostra crescente aridità. Forse è proprio questa la tanto temuta -apocalisse.: una morte interiore già iniziata, dalla quale, come detto più avanti, la bestia nemica dell’uomo sta emergendo per condannarlo in un terribile autodafè. 

Il nostro mondo interiore, insondata sede delle opposizioni, del bene e del male, del patrimonio spirituale ma anche istintivo dell’uomo, è già di per sé emblema dell’anima racchiusa nella materia. Esso è microcosmo nel macrocosmo, ma attenzione, anche macrocosmo nel microcosmo, poiché il grande contiene il piccolo, ma anche il piccolo contiene il grande. Ciò espresse Ermete Trismegisto nella Tavola di smeraldo posta a base dello studio delle scienze esoteriche: «E come è in basso così è in alto… per rappresentare le meraviglie della Cosa Unica». 

I due mondi si compenetrano e non sono scindibili fino alla morte della forma fisica. Le due fasi del pensiero conoscitivo, la «negativa» e la «positiva», si alternano nel preponderare l’una sull’altra, producendo movimento e non stasi. evoluzione e non status quo. Esse conducono inevitabilmente verso una scelta. Spogliano l’anima degli inutili orpelli e, dirigendosi verso i comportamenti e le scelte più costanti e ripetute di un’anima, conducono l’essere ad una scelta libera e cosciente tra bene e male. 

Questo mondo segreto, Eden abbandonato dall’uomo, sede della nostra vita più vera, ha avuto diverse definizioni nel corso della nostra storia culturale e spirituale, legata alle diverse connotazioni imposte dalle differenti scelte individuali: la psicologia ci ha parlato di inconscio, le religioni e le filosofie di anima. spirito, energia, pneuma, l’esoterismo di corpo astrale, la scienza di cervello; ed il loro frutto. l’astratto pensiero, dovunque abiti in noi, ha così subìto diverse interpretazioni; da essenza divina a energia di origine fisica prodotta dal cervello; da fenomeno biochimico ad incompresa astrazione. Ma poco importano i termini. È importante scoprire ciò che unisce alla base e non ciò che divide. Ciò che ogni scienza, ogni religione. ogni ramo dello scibile umano hanno in comune con le altre teorie, è quanto più si possa avvicinare alla plausibile parte di «verità» a noi concesso comprendere. In ogni tempo, sotto ogni scuola di pensiero, si è riconosciuta all’uomo una parte luminosa e sfuggente, che non può essere costretta nella materia fisica. Almeno non esclusivamente. 

Essa passa nel nostro cielo interiore come una meteora. Si mostra e fugge, ma ci informa della sua esistenza. È la nostra parte più autentica, vera e distintiva del sé individuale che conduce alla porta del Sé universale. Una porta alla quale non tutti sono in grado di accedere. Ma esiste una chiave che ci permetta di aprire quella porta? 

Diana Garland 

1. J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, Milano, 1988, vol. II, pag. 23. La nostra dunque è un’evoluzione o un’involuzione? E’ un ritorno a Dio o al Caos iniziale? La strada che abbiamo scelto coscientemente, per percorrere una ipotesi di evoluzione, è principalmente quella scientifica, che abbiamo visto più avanti. Sebbene la scienza non sia di per sé negativa, poiché ha molte ragioni di essere, essa contiene nel suo polo negativo molte insidie. Il pessimo uso che spesso se ne fa, non solo si volge verso la distruzione, ma ci rende diretti antagonisti di Dio. E come non notare che il nome del «distruttore» per antonomasia sia proprio Satana, che significa antagonista? Come ignorare il parallelismo esistente tra il peccato di orgoglio degli angeli e quello di Adamo ed Eva? Come non notare che entrambi furono scacciati dalla presenza di Dio? S. Agostino identificava la stessa umanità nella schiera degli angeli ribelli. Ma per ora, fermiamoci qui. Parleremo di questo in altro momento. 

(2) H. P. Blavatsky, Iside svelata (trad. di M. Monti), Ed. Armenia, Milano, 1984. 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 23-30.




Le chiavi dell’anima

 L’uomo ha diverse chiavi a sua disposizione. Diversi mediatori che aprono le porte che conducono nelle due fasi opposte. Il cervello, in senso generico, la mente o, comunque, il proprio sé, mediano le due realtà: quella esteriore e oggettiva con il vissuto interiore soggettivo. Ciò significa che ogni realtà non solo diventa una realtà diversa per ognuno, ma anche lo stesso individuo può viverla in diversi modi dipendenti strettamente dal suo stato d’animo” o “mentale” che dir si voglia. Esiste dunque una realtà per ognuno di noi: una realtà che sfugge dalla sua oggettività, caricandosi di tutti quei significati che noi gli attribuiamo. “L’oggetto osservato non può prescindere dall’osservatore”, affermava Groddek. Questa la porta di entrata che usa il mondo per penetrarci. 

La chiave che l’uomo usa invece per entrare a far parte della realtà oggettiva, o per aprire la porta di uscita dal sé, è rappresentata dalla parola. La parola è il medium, il mediatore tra pensiero e oggettivazione del pensiero. Con questa chiave noi possiamo penetrare in altre menti, dare informazioni che ci riguardano, scoprire una parte di noi, non sempre la più vera. La parola è un “segno” unanimemente riconosciuto, ma non per questo perfetto. Anzi, essa è un mezzo assai limitato se pensiamo che deve racchiudere il pensiero, astratto ed infinito, riconducendoci al contrasto più volte rappresentato della convivenza degli opposti. 

Della parola e del suo uso corretto o scorretto si è detto tutto o quasi (Gesù: “Che la vostra parola sia: Sì, sì – NO, no.) Per quanto limitata essa sia, è anche l’unico mezzo che abbiamo per comunicare, per mostrare realtà soggettive. Per assurdo, essa può essere usata per nascondere invece che per mostrare. La parola è in grado di mascherare il pensiero, la verità, essa può vendere piombo per oro. L’uso della chiave della parola ci costringe, pur con tutti gli intenti di sincerità, ad essere interpretati, a costringere l’infinito nel finito. La parola è delimitazione, ma unita all’intuizione, legata all’arte, è in grado di mostrare la nostra piccola parte di verità, può “pescare” nell’inconscio collettivo. 

Se al segno scritto, concretizzazione del suono, partecipa anche il nostro mondo interiore, la parola smette di essere segno per diventare simbolo: 

allora essa è in grado di librarsi, come accade nella poesia e nella letteratura, se le opere sono tali da mostrare tra le righe l’anima comune: se sono tali da cogliere sentimenti universali, attimi che sono uno specchio nel quale ricercarsi soli per ritrovare il mondo, essere uno e divenire moltitudine. L’arte è una delle manifestazioni dell’interiorità umana, un raro momento in cui si dà voce all’infinito che è in noi. 

Se in qualche caso la parola può divenire “voce dell’anima”, per la maggioranza 

dei casi essa viene usata nel suo ruolo specifico di “segno”. Se, per esempio, esprimiamo delle teorie matematiche, essa può razionalmente contenerle, poiché il “segno” attribuito ha un valore unico per tutti. Ma se “sconfiniamo” come normalmente accade e cominciamo ad esprimere sentimenti o sensazioni, ecco che essa diviene interpretabile, passibile di valutazioni personali che mettono in gioco il filtro delle esperienze personali di chi ascolta. Una carta difficile da giocare senza bluffare. 

L’altra chiave, la più densa di misteri interpretativi, è il simbolo, voce dell’intuizione, parola dell’anima. Essa apre la porta che conduce dall’incoscio al conscio, dall’infinito al finito, dall’interno all’esterno. Così come l’intelletto serve all’uomo per adattarsi alla realtà e alle condizioni di vita, così l’intuizione insegna 

che la realtà non si limita al suo aspetto fisico e materiale. Essa viene sfuggita perché scuote le nostre pseudo-verità, le nostre labili certezze. Essa offre sicurezze, offre dubbi, speranze, paure, meraviglie. È umiltà e non ribellione a Dio: tentativo di avvicinare il segreto senza violarlo, poichè questa é la parola che conduce a Dio, la “strada stretta” del Vangelo, il mezzo attraverso il quale si acquistano “occhi per vedere” ed “orecchie per sentire”. Ciò significa che non tutte le orecchie sono in grado di ascoltare, che non tutti gli occhi sono in grado di vedere, perché offuscati dalla propria razionalità, dal proprio smisurato orgoglio. L’intuizione riconosce Dio come Padre, fa nascere il bisogno di ritorno allo spirito. Ma è, comunque, una chiave molto, molto difficile da usare. 

Il simbolo, mediatore e chiave dell’intuizione, parla attraverso i sogni, ma non esclusivamente così: passa per l’anima e si dirige verso la nostra coscienza, mascherato con qualcosa di comprensibile. È la maschera della verità, una verità forse troppo grande per noi, che per toccarci senza distruggerci, deve nascondersi sotto il velame simbologico. 

Nel Dizionario dei simboli Chevalier – Gheerbrant, il simbolo viene così definito: “Il simbolo è bipolare… Coglie relazioni che la ragione non coglie. Ha forza centripeta stabilendo un centro di relazioni al quale il molteplice si riferisce trovando la sua unità. È elemento unificatore… perché è in grado di farsi comprendere da chiunque, qualunque lingua parli… esso non usa parole ma solo ciò che di vero in comune hanno gli, uomini. E si comunica solo in proporzione alla misura e all’apertura delle capacità personali”. E ancora: “… [L’intuito] risveglia energie che il simbolo concretizza. Esso va indagato con l’anima ed ogni anima vi nasconde le sue verità”. G. Durand lo definisce in “dinamismo organizzatore”; J. Jacobi afferma che “mantiene sempre viva la tensione tra i contrari che è alla base della nostra vita psichica”. “Il simbolo separa e unifica, ha in sé l’idea di separazione e riconciliazione”. Ha quindi un’importanza determinante in un mondo dominato dalla legge degli opposti, poiché ha un potere equilibratore, ma non impedisce il “movimento” dell’energia psichica. 

Secondo Jung, esistono dei simboli comuni all’intera umanità, che definisce “archetipi”: Più il simbolo è arcaico e profondo più diventa collettivo e universale”. Esistono quindi delle basi comuni, che poi vengono “elaborate” dalla cultura e dal contesto sociale e religioso di ognuno. L’archetipo è comune retaggio, ma non mostrandosi uguale per tutti, diviene assai importante saperne riconoscere la radice. 

Anni fa, discutevo con un ragazzo egiziano conosciuto casualmente di come a volte i problemi religiosi possano condurre, al di là dell’apparente ricerca del bene, a guerre sanguinose e fratricide. Era da poco tornato dalla guerra e l’esperienza era ancora molto viva in lui, pregna di emozione. Io, da parte mia, ero molto disponibile all’ascolto. emozionalmente partecipe. Forse proprio per questo, senza quasi avvedercene, iniziammo a comunicare in maniera molto profonda, quasi che le nostre anime o i nostri inconsci fossero entrati in contatto diretto. superando le difficoltà linguistiche e poi il bisogno stesso di parole. Difatti, diverse volte comunicammo telepaticamente. 

Fu un’esperienza assai insolita che ci lasciò una sensazione di fratellanza. O che, comunque, aveva stabilito un legame che andava al di là di ogni limite umano. Eravamo proprio sulla stessa “lunghezza d’onda” e lo eravamo già da tempo, probabilmente ancor prima di conoscerci, perché, parlando scoprimmo di aver fatto dei sogni molto simili che, ad un’analisi più approfondita, ci mostrarono delle “verità”. In un sogno fatto molti anni prima, avevo ricevuto un messaggio da un “angelo”. Era un messaggio, il cui contenuto non riporto, che riguardava la mia persona. Fu con grande sorpresa che A. mi disse di aver ricevuto lo stesso messaggio, che però lui aveva ascoltato da una voce proveniente dal sole. L’elemento in comune, oltre al messaggio, era anche la luce, una luce sconosciuta, indimenticabile. 

Era la stessa energia ad essersi manifestata in noi, seppure simboleggiata in due modi differenti legati alla nostra cultura socio-religiosa. Come non pensare infatti, alla lunga tradizione storica religiosa e culturale egiziana, nella quale il sole, Ra, era considerato un Dio? Quella tradizione che A. portava in sé, forse geneticamente, forse in maniera più ancestrale, aveva dato vita a quel simbolo, tanto diverso ma tanto simile al mio. Sorridemmo pensando che allora, un induista poteva aver ricevuto lo stesso messaggio da una Mucca Sacra, ma comprendemmo una cosa assai importante e cioè, che pur essendo due persone appartenenti a due gruppi etnici diversi, provenienti da culture e religioni differenti, in momenti diversi delle nostre “storie”, avevamo trovato quell’anello che legava le nostre esistenze: la fratellanza, quella vera, data dall’essere figli di un unico Creatore. E, inoltre, che il messaggio ricevuto conduceva ad un’unica fonte, conteneva una verità comune ad entrambi e a tutti quegli esseri sparsi per il pianeta che si fossero trovati in grado di riceverla in quel momento (infatti, per uno strano “caso” avevamo fatto quel sogno la stessa notte di molti anni prima). Questa strana simbiosi di anime era scevra da qualsiasi altra implicazione di tipo più umano. Ed ebbi la prova della non casualità della cosa, quando, con l’aiuto inconsapevole del ragazzo stesso, riuscii a salvare la vita in una situazione molto difficile. 

Non l’ho più visto. Credo che ormai sia tornato al suo Paese, ma il nostro incontro è stato determinante, ha acquisito un significato profondo e una magia che sembrano inspiegabili. Da parte mia, una profonda riconoscenza, che vorrei dimostrargli. Ma so che è impossibile, poiché all’epoca non ci scambiammo né indirizzi né cognomi. Sembrava che tutto ciò che ci riguardasse si fosse esaurito lì: in quello strano incontro finalizzato alla “conoscenza” di alcune cose. E che noi ne fossimo consapevoli, seppure a un livello molto lontano dalla coscienza razionale. 

Questa esperienza mi insegnò che le differenze di espressione non tolgono ai simboli il loro aspetto di specchi della verità, di universalità, poiché la mente, una volta entrata a contatto con energie che non conosce e che non è in grado di afferrare, le simbolizza in qualcosa di accettabile, di comprensibile. Nella stessa Bibbia. Dio appare a Mosè sotto diverse forme, come il fuoco, la nube ecc. Era Dio a mettersi alla portata dell’uomo o viceversa era l’uomo stesso a simbolizzare, a trasformare cioè la realtà superiore in una realtà finita. più consona ed abituale alla sua natura? 

In questo senso. ogni religione. ogni cosmogonia. può essere spiegata completamente e razionalmente. perché una volta logicizzata perderebbe il suo valore spirituale di comunicazione tra le anime. E il messaggio non è per tutti. Cristo spiegava agli apostoli i misteri della fede. ma parlava in parabole agli uomini comuni. Così facendo Egli operava una scissione, una scelta tra chi sia in grado di “comprendere” e chi no, tra chi sia dotato di spirito e chi sia racchiuso ancora nel suo piccolo mondo materiale. “Non date perle ai porci”. Questo insegna il Vangelo. Ed anche: …..affinché guardino bene, ma non vedano, odano bene, ma non intendano, perché mai avvenga che si convertano e sia loro perdonato” (Mc N, 11-12). 

Uno dei tanti motivi della caduta della fede sta proprio in questo voler razionalizzare Dio, in questo credere come Tommaso, solo se ci viene offerto il costato. Ma la chiesa, qualunque essa sia, non può confrontarsi con la scienza. Non possiamo pretendere di spiegare la “genesi” con le leggi scientifiche. alle quali, in ogni caso, l'”origine” sfuggirebbe comunque. Ciò significa che anche se accettassimo il “Big-Bang” come “inizio”, non potremo comunque spiegare il pre-esistere dell’energia e della materia che costituivano la massa informe in seguito esplosa formando i pianeti del nostro sistema solare. È come dire che il Caos si evolse, ma ciò non spiega l’esistenza del caos stesso. 

É il confine tra esistenza e non esistenza che sfugge ad ogni nostra volontà 

d’indagine. È l’amletico “essere o non essere”. 

Così come dal caos biblico emerse una volontà organizzatrice, lo spirito di Dio librato sulle acque dell’abisso che fecondò le acque originando la vita, così dentro di noi, nel nostro caos interiore, fusione di bene e male (Plinio: il bene è commisto al male), di natura e spirito, emergono quelle forze organizzatrici o distruttrici. Il caos è porta della vita, ma contiene anche l’idea dell’abisso, la fase disgregativa, la porta della morte, proprio come la figura femminile, rappresentazione dell’istinto, contiene in sé l’aspetto di datrice della vita, ma anche il suo opposto, poiché “Eva” offre ai suoi figli una vita mortale. Una vita che contiene in embrione il suo opposto. È essa stessa rappresentazione, nel teatro simbologico, di un’evoluzione involutiva. 

Ma non possiamo comprendere a fondo il concetto di vita e, di morte, di essere e non essere, se ci arrocchiamo su posizioni prestabilite, se non ci apriamo spiritualmente, se non ci svuotiamo lasciandoci liberamente penetrare dalla verità; se non smettiamo di opporgli dei muri a difesa della nostra roccaforte personale legata all’io e alla difesa strenua dell’io. 

La natura ci mostra come ad ogni fine corrisponda un nuovo inizio, scandito dal continuum, dall’eternità del tempo. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Questa legge scientifica, che a prima vista sembra negare Dio. poiché nega il potere creativo, invece, forse involontariamente, la preesistenza del “tutto”, l’assenza della “fine”, della morte, sostituita dal “mutamento di stato”. Essa mostra l’universo e noi, parte di esso, in moto, in continua trasformazione, in evoluzione. Il moto circolare, forza creativa dell’universo, tendenza di ogni pianeta, è come il serpente che si morde la coda. È metamorfosi senza fine, poiché la fine di un ciclo conduce in un altro ciclo, la fine di un’esperienza conduce in un’altra esperienza che è suo prodotto, risultato finale di quella anteriore. 

Così si esprime H.P. Blavatsky nella Dottrina segreta: .All’inizio di un periodo attivo avviene un’espansione di questa essenza divina dall’interno all’esterno, in obbedienza all’eterna e immutabile legge, e l’universo fenomenico o visibile è l’ultimo risultato di una lunga catena di forze cosmiche messe così, progressivamente, in moto. In egual modo, quando riprende una condizione passiva, avviene una contrazione dell’essenza divina e il precedente lavoro di creazione è gradualmente e progressivamente distrutto. L’universo visibile si disintegra, il suo materiale viene disperso, e la “tenebra” solitaria e unica si raccoglie ancora una volta sulla faccia dell’abisso. Per usare una metafora che chiarirà ancor più l’idea, una espirazione dell”‘essenza” produce il mondo, e una inspirazione provoca la sua scomparsa. Questo processo avviene da tutta l’eternità, e il nostro attuale universo è solo uno di una infinita serie che non ha inizio e non avrà fine •. Ma in questo aprirsi e chiudersi di porte del nostro spaziotemporale, dietro quale porta cercare Dio? 

Il famoso “conosci te stesso” è la risposta implicita alla nostra annosa domanda. “Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo”, ci insegnavano a recitare all’oratorio. 

Dio è anche in noi, Dio è una parte di noi, Dio è nell’uomo che si fa Buddha, Dio è nell’uomo che supera le prove iniziatiche che la vita gli pone. Dio è quell’essenza che lotta per venire alla luce, e non è assurdo pensare che saremo noi stessi a giudicare le nostre azioni e le nostre opere; ma non con la nostra attuale coscienza egoista, parziale e interessata, che ci induce ad essere tanto benevoli con noi stessi quanto malevoli siamo con il prossimo, che ci mostra la pagliuzza nell’occhio altrui ignorando la trave conficcata nei nostri occhi che ci impedisce di “vedere”. 

Sarà la nostra parte divina, la verità ora nascosta a giudicare. E giudicheremo noi stessi con lo stesso metro con il quale avremo giudicato gli altri. Questo è il potere della nemesi, la vera giustizia, la legge di causa-effetto, il karma o che dir si voglia. Soltanto il vero può giudicare il falso, poiché il falso non può conoscere la verità. 

Uscirà dal fondo dell’uomo l’anticristo che condurrà all’apocalisse. E sarà una battaglia tra le forze del bene e del male, non necessariamente combattuta a livelli atomici o mondiali. Sarà la lotta che ognuno già conduce dentro di sé, nel suo luogo segreto e interiore; una guerra che separerà i “giusti” dai “malvagi”, in cui il bene sarà scisso dal male, poiché le “forze” in noi si stanno accrescendo, stanno emergendo, stanno maturando un’evoluzione su due binari opposti. Forse allora il bene non sarà più commisto al male, e l’apocalisse non avrà più il significato che gli è sempre stato attribuito ingiustamente. Apocalisse significa rivelazione. Ma attenzione: rivelare significa svelare, sollevare il velo del segreto, ma anche ri-velare, riscoprire, rinascondere. Ciò significa che il “segreto” si mostra per attimi sfuggenti, si illumina e scompare di nuovo nel mistero. L’apocalisse si preannuncia dunque come una rivelazione: come il raggiungimento della verità. Il punto finale di uno stato di cose che prelude ad un nuovo inizio piu consapevole. 

Ci attende, ed è inevitabile, una “revolutio”, e sarà un’esplosione o un’implosione. Un buco nero o il Big-Bang di un nuovo inizio. Una battaglia che a livello esoterico si annuncia combattuta sui campi dell’anima, dove nella lotta tra gli avversari solo uno dovrà soccombere. 

La rivelazione è già iniziata, sebbene pochi se ne avvedano. Pensiamo alle parole di Cristo: «…Quando sentirete parlare di guerre vicine o lontane, non abbiate paura: tutto ciò deve accadere, ma non sarà ancora la fine… Ci saranno terremoti e carestie in molte regioni. Sarà come quando cominciano i dolori del parto… E quando vi arresteranno per portarvi in tribunale, non preoccupatevi di quel che dovete dire: dite ciò che in quel momento Dio vi suggerirà, perché non sarete voi a parlare, ma lo Spirito Santo». “Cristo annuncia quindi la “discesa” dello Spirito Santo negli ultimi tempi. Questa è la “forza”, la “luce” che si sta accrescendo e che ci condurrà a quanto fu annunziato per mezzo di Gioele: «Ecco – dice Dio – ciò che accadrà negli ultimi giorni: manderò il mio Spirito su tutti gli uomini: i vostri figli e le vostre figlie avranno il dono della profezia, i vostri giovani avranno visioni, i vostri anziani avranno sogni. Su tutti quelli che mi servono, uomini e donne, in quei giorni io manderò il mio Spirito ed essi parleranno come profeti…». Finalmente i doni dello Spirito saranno rivalutati, il veggente vedrà compresa l’origine della sua luce interiore, perché chi è stato scelto per “intendere”, intenderà. 

È bene precisare che anche in questo campo sarà saggio applicare la parabola 

dell’albero e dei suoi frutti. Bisognerà, cioè, saper discernere alla luce della propria verità e coscienza, i frutti del male che apparentemente sono assai simili a quelli del bene. Non dimentichiamo che il “falso profeta” ha conosciuto il cielo, ha collaborato alla “creazione”, ed è un buon imitatore dei poteri divini, sa mescolare la verità alla menzogna, sa illuderci che il nostro male sia il nostro bene. Non saranno i “negromanti” le stelle da seguire nella navigazione della notte dei “tempi bui”, ma ancora quelle “voci che gridano nel deserto” nel deserto di silenzio interiore della nostra epoca. 

Ma come uscire dal labirinto di confusione che è dentro di noi, quel labirinto formato da strade vane, da nozioni culturali e religiose acquisite passivamente? lo non possiedo il filo di Arianna, né ho la presunzione di conoscere la verità. Posso soltanto limitarmi a mostrare la strada scelta per ritrovare verità comuni, delle conoscenze vicine o lontane nel tempo e nello spazio. La ricerca parallela tra scienza, arte, religione, filosofia, mitologia e scienze esoteriche mi è sembrata un buon mezzo di conoscenza. L’uso costante di intuito e ragione mi ha aiutato a mettere da parte i pregiudizi, ad aprirmi ad ogni possibilità di verità, nella ricerca della libertà, nella libertà. La libertà offerta da un cammino non ostacolato da freni di imposizioni culturali o religiose. Uno svincolarsi da ogni sovrastruttura mentale per far affiorare il sentire più vero. Una ricerca dell’Amore compiuta con amore. 

Il centro del labirinto, meta da raggiungere è il tempio simbolico dello Spirito santo; è illuminazione, rivelazione, raggiungimento di Dio. È Buddhità, Nirvana o che dir si voglia, concesso a chi si accinge al viaggio e alle sue prove, con coraggio, amore, apertura mentale. Il labirinto è simbolo delle strade sbagliate, dei vicoli ciechi, delle anse del nostro cervello, ricerca di un centro di attrazione comune, di iniziazione spirituale, di superamento delle “prove” imposte dalla vita. Esso è il sogno di libertà (“Così conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, Gv VIII – 32). 

Sono d’accordo: non si devono offrire perle ai porci, ma occorre almeno far conoscere la possibilità di salvezza a chi desidera tentare il cammino ma è offuscato dal rigido dogmatismo privo di anima, dalla scienza lontana di Dio. Con la speranza che per qualcuno il velo si sollevi, la mitica porta si apra. Ma attenzione: per vincere dobbiamo uccidere il mostro metà uomo e metà animale che è in noi, posto a guardia del segreto. Dobbiamo, cioè, combattere la nostra natura animale. E non limitarci all’uso della scienza. Icaro con le sue ali di cera si illuse di contrastare le forze della natura. Ma il sole lo abbatté, la legge di gravità lo precipitò di nuovo sulla terra. Ciò significa che non possiamo sfuggire alle prove che la vita ci impone. Sono proprio quelle prove lo scopo della nostra vita. Ed esse sono lì per renderci liberi. 

Diana Garland 

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 31-39.

 




La Comunità di salvezza come cura e terapia dell’uomo 

 di Claudia Gaeta 

La presente riflessione parte dalla domanda se per lo Stato moderno l’eugenetica, la scienza del giusto allevamento umano, non sia da considerare come un ideale di salvezza o sanità dei corpi. 

Nel mondo occidentale la parola salvezza rimanda immediatamente all’ambito del cattolicesimo ed è partendo dal suo contesto originario che si è indagata in varie sfaccettature fino a concludere che lo Stato ha fatto proprie queste istanze religiose, secolarizzandole e rendendole operative nel contesto socialel; slittamento, questo, posto in essere dalla stessa religione cattolica nel momento in cui sottolinea come non possa esserci salvezza, nemmeno sul piano prettamente individuale, al di fuori della comunità. 

Con la fondazione dello Stato moderno si ricrea, sul piano secolare, il grande ideale di comunità che era da sempre stato il pilastro portante del cattolicesimo. La comunità, in entrambi i casi, si configura come una «comunità di salvezza»2, nella quale salvezza viene ad indicare una «prospettiva» alla quale tutti i membri della comunità devono necessariamente aderire per salvaguardare la sanità/santità della comunità stessa: «Soltanto una razza intimamente sana potrà essere sicura del suo avvenire. Questo concetto ha valore universale e perenne perché corrisponde ad una legge generale della natura»3. 

Chiaramente essendo una prospettiva, la salvezza4 è anche un progetto che indirizza l’azione e la vita stessa. 

E, per rendere più chiaro il concetto, possiamo affermare che la salvezza svolge in ambito cattolico lo stesso ruolo che svolge l’utopia all’interno del pensiero politico, quello, cioè, di orientare «la condotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto»5, rivelando così la sua attuabilità nel futuro. È anche in virtù di ciò che la salvezza cattolica si fa nella storia, anzi la salvezza si identifica con la storia, col tragitto, cioè, che riconduce l’uomo al regno di Dio: «La salvezza è già realizzata, ma non ancora perfetta, cresce nella storia, esige impegno storico6», leggiamo in G. Mongillo. Lo stesso «destino di salvezza» è attribuito allo Stato moderno, soprattutto dopo aver fatto proprio il concetto positivistico di progresso e dopo essersi identificato con questo processo storico-naturale di continuo miglioramento. 

La prosecuzione nel cammino della salvezza implica un forte impegno politico, da cui tutti gli uomini non possono prescindere, in un rapporto di dipendenza che assoggetta l’intero essere umano al compimento di questa missione, ed è in questo senso che prende forza una normativizzazione assoluta della vita; dal momento che al di fuori della norma che ci dirige l’uomo rischia di perdere di vista la sua necessità. È indispensabile, quindi, forgiare uomini nuovi capaci di portare avanti questa missione, ma per far ciò è necessario in primo luogo incanalare la vita attraverso la normati-vizzazione dell’ uomo. 

Il problema sorge fattualmente nel momento in cui la vita, e quindi l’uomo come essere per la vita, si forma a partire da Dio o si identifica con lo Stato. Questi ultimi si definiscono come termini superiori di un’alleanza al di fuori della quale non c’è salvezza, ma dissoluzione, nella forma del peccato e della degenerazione. Questo sancisce la fine dell’ uomo come essere autodeterminantesi, soggetto primo del movimento della vita, per divenirne «oggetto» sul quale si esercita la forza di una vita sviluppata a partire dalla necessità. Necessità che si esplica a partire dalla normativizzazione della sua dinamicità. Canalizzando la dinamicità si nega, quindi, la libertà come possibilità incondizionata di scelta; si afferma, di conseguenza, una libertà ad un livello più alto proprio perché questa nasce dalla necessità di aderire ad una volontà superiore che ha creato e, quindi, preordinato il mondo. 

Con questo, si ha la trasformazione della vita come cominciamento in una vita per la salvezza, che è eterna e non più unica ma finalizzata ad un’identità superiore che la qualifica e la forma in prima istanza proprio dalla definizione del corpo, che altro non deve essere che la rappresentazione materiale di questo cosmo ordinato e funzionale. Non è, infatti, un caso che l’uomo sia stato creato ad immagine e somiglianza di Dio: «L’uomo nuovo che è creato a immagine di Dio nella giustizia e nella santità»? Quindi il corpo di Adamo, essendo ad immagine e somiglianza di Dio, fu creato secondo la bellezza e la bontà del Padre creatore8, in perfetta salute e non soggetto alla morte. Soltanto il peccato di Adamo introdusse nel mondo, e di conseguenza nel corpo dell’uomo, la bruttezza, la malattia e la morte come segno dell’ esplicita ribellione a Dio, dato, anche, che al di fuori della bellezza di Dio non esiste comunicazione, e quindi alleanza, fra le parti della comunità: 

Per ogni cosa, dunque, il bello ed il buono sono amabili e desiderabili; da ogni cosa sono prediletti. Grazie ad essi anche le cose inferiori amano quelle superiori, convertendosi ad esse; [ … ] quelle superiori amano le inferiori, provvedendo ad esse’. Non solo ma senza questa bellezza non esiste l’ordine per cui le cose sono state create: Per tutte le cose, infatti, c’è uno stato ed un moto che [ … ] colloca ciascuna cosa nella propria condizione e la dirige verso il proprio movimento [ … ]. Tutto ciò che proviene dal bello e dal buono, ed in essi risiede, si volge verso il bello e il buono”’. 

L’uomo nel contesto della comunità, pertanto, deve essere «curato» in tutti i suoi aspetti, proprio perché deve essere garantita la sua funzione di membro del corpo comunitario ed è in virtù di ciò che il pensiero cattolico delle origini assume la concezione dell’ uomo come unità inscindibile di anima e corpo. Quest’affermazione può spesso trarre in inganno perché nasconde in sé un dualismo basato sulla differenza di importanza fra i due termini del rapporto; infatti, il corpo è visto in funzione dell’anima, vissuta come la parte immortale del rapporto, l’unica che, almeno fino alla cosiddetta «resurrezione della carne», può assurgere a Dio con la morte della sua parte materiale, il corpo appunto. Il corpo più dell’anima determina il nostro essere perché non solo dà forma alla nostra vita, ma implicitamente la determina essendo esso l’elemento corruttibile del rapporto: 

Il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. [ … ] Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? [ … ] Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo11 ! 

Ma la chiusura nei confronti del corpo va oltre, arrivando ad affermare che nel momento in cui è quest’ultimo a determinare le azioni dell’ uomo, non solo non ci sarà sanità, ma ci sarà un fiorire del peccato, e quindi della malattia, che dovrà essere estirpato. 

Solo quando la carne, che è «piena di brame contrarie allo spirito» sta sotto il dominio dell’anima, noi siamo sani e liberi, e veramente sani e liberi. Allora infatti il corpo segue il giudizio dell’anima e segue la guida sicura di Dio. [ … ] Se infatti il terreno del nostro corpo non viene continuamente lavorato, restando incolto e inattivo, subito produce spine e rovi. Porta allora frutti che non verranno raccolti nei granai, ma dovranno essere sterminati col fuoco, secondo le parole del Signore: Ogni piantagione non coltivata dal mio Padre celeste verrà estirpata (Mt 15, 13). Dobbiamo dunque proteggere con cura ogni seme e germoglio nobile che abbiamo ricevuto dal giardino del divino seminatore. Con calma circospezione dobbiamo perciò curare che l’astuzia dell’odiato nemico non arrechi danno a questo dono di Dio e che nel giardino paradisiaco della virtù non germogli lo sterpame del vizio12. 

Secondo lo stesso principio, nel contesto dell’ organizzazione statale, la popolazione e la pianificazione della vita divengono così affari di Stato in nome della necessaria superiorità non solo degli interessi, ma proprio dello Stato in quanto essere naturale. È così che si arrivò alla formazione di un apparato statale per la salvaguardia della salute pubblica che passava inesorabilmente dalla determinazione a priori della «forma» della popolazione. Forma che poteva essere perseguita attraverso la coincidenza degli interessi dell’ eugenetica intesa come trasposizione artificiale di un meccanismo naturale quale la selezione della razza -, con lo Stato, anch’esso visto come prosieguo della Natura. 

I totalitarismi, ma anche i regimi cosiddetti democratici, fecero loro snodo portante la centralità dello Stato, facendo divenire questo il regolatore della vita pubblica e privata, il che comportava inesorabilmente l’espansione della sua necessità razionalizzatrice e moralizzatrice a livello globale partendo proprio dalla possibilità eugenetica di modellare il corpo e la vita del cittadino a sua immagine e somiglianza. Di conseguenza, l’essere umano è soltanto una delle parti dell’intero organismo, con un ruolo definito e una funzione specifica, per cui esso sarà sciolto nella sua biologicità, per essere governato dalle stesse leggi che regolano l’ordine naturale, favorendo un progressivo svuotamento dell’identità del singolo, ma anche, ad un livello più ampio, ponendo in essere un processo d’annullamento dell’umanità dell’uomo, inteso sempre più come appartenente alla specie, ad una specie omogenea alla quale si offre la possibilità di essere depurata ed allevata e, di conseguenza, salvata. Si può, a questo punto, meglio denotare il rapporto che intercorre con l’eugenetica di Stato, anch’essa nutrita dal desiderio di «riprogettare» il cittadino affinché col suo inserimento organico nella struttura statale portasse alla rigenerazione individuale e collettiva. Rigenerazione – morale ma anche necessariamente biologica – che sola può condurre la società civile verso il suo destino di miglioramento e di benessere. 

Non per tutti, comunque, è la salvezza, intesa come l’entrata nel cosmo della grazia, ma solo per un’élite che lo è per nascita. Per il resto della popolazione la via della salvezza è essenzialmente quella dell’obbedienza e del sacrificio, come sottolinea lo stesso Paolo quando afferma che: «ciò che Israele cercava non l’ha ottenuto, ma l’ha ottenuto soltanto la parte eletta»l3. Parole a cui fanno eco quelle di Galton, il fondatore dell’eugenetica, che la definì «la scienza del miglioramento della specie umana, garantendo alle razze o alle stirpi più adatte una migliore opportunità di prevalere rapidamente su quelle meno adatte» 14. Andando più a fondo è rinvenibile, già in ambito cattolico, l’idea per cui la diminuzione dei soggetti a cui è ascritta la caduta, o in termini contemporanei, la degenerazione, è utile, funzionale, diremmo, all’accrescimento del potere dei gentili; gentili che sono una parte del popolo, sicuramente la parte più alta: 

Ma se la loro caduta è stata la ricchezza del mondo e la loro diminuzione la ricchezza dei gentili, quanto più lo sarà la loro totalità15. 

È chiaro che la comunità di cui stiamo parlando è una comunità organica, ordinata e funzionale, perfettamente in linea con una concezione che inserisce il mondo umano in una visione predeterministica; in altre parole, sia lo Stato che la Chiesa concepiscono il mondo come inserito in una rete di valori e di volontà da cui non si può prescindere, perché diretta emanazione di una volontà superiore alla quale gli «inferiori» devono aderire con tutto il loro essere. Non solo, ma è presente anche una specificità per nascita, per la quale ognuno deve rispettare il suo ruolo e la sua funzione, se vuole contribuire alla sanità del corpo comunitario: 

Per la grazia che mi è stata data, io dico a ognuno di voi di non stimarsi più di quanto si deve, ma d’ispirarsi a sentimenti di giusta stima, ciascuno secondo la misura di fede che Iddio ha dispensato. Come infatti in un sol corpo abbiamo più membra e di queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così noi, benché in molti, formiamo un sol corpo in Cristo e, da singoli, siamo membra gli uni degli altri. Poiché noi abbiamo dei doni differenti secondo la grazia che ci è stata data: il dono della profezia, da usarsi in proporzione della fede; l’insegnante, nell’insegnare; l’esortatore, nell’esortare; il donatore, con liberalità; chi presiede, con premura; il compassionatore con gioia16. 

Ed ancora: «Secondo la natura di ciascuno, egli ha diviso il suo beneficio»l7. 

È qui che si apre la possibilità del peccato, dato che per la teologia cattolica «la vera essenza del peccato» sta «nell’opzione fondamentale con la quale si rifiuta di accettare la volontà di Dio come norma incondizionata della propria esistenza»18. 

Chiaramente anche lo Stato riconosce una volontà superiore che ha formato ed informato di sé la Natura e così come per il cattolico il peccato definisce la «condizione escludente» dalla comunità di salvezza, per lo Stato, diretta emanazione della natura, il peccato, divenuto sociale, viene identificato con la malattia, che è un ribellarsi alla sanità del corpo sociale/statale. Questa trasposizione di piano è supportata anche dal fatto che la malattia è da sempre, anche se in maniera più velata, interpretata come frutto di comportamenti morali sbagliatil9: 

Poiché ci è stato ordinato di tornare alla terra alla quale eravamo stati tratti e siano stati legati alla dolorosa carne, destinata alla morte per causa del peccato e soggetta per questo alle malattie, affinché talora, in una certa misura, i malati potessero guarire20. 

Più esattamente nella concezione statale si ha la sovrapposizione fra il male naturale (malattia) e il male morale (peccato)21, per cui, nel momento in cui viene sancita a livello scientifico la corrispondenza fra caratteri fisici, psichici e morali, la malattia diviene peccato. Il peccato, infatti, nella sua formulazione originaria è «l’infrazione di una legge», in altre parole la rottura di quell’ alleanza che costituisce il patto, cioè le regole, dell’alleanza. Sostanzialmente il peccato allontana l’uomo dalla comunità perché disintegra le sue relazioni con Dio e con gli uomini e non tende più a finalizzare l’uomo alla salvezza della comunità. 

Nel contesto statale, il cosiddetto deviante – dove per deviante si intende qualunque soggetto si discosti dai parametri fisici, psichici o morali socialmente dati, includendo al suo interno categorie molto diverse che vanno dal delinquente al malato – si sovrappone alla figura del peccatore e come quest’ultimo diviene, di conseguenza, la rappresentazione vivente, corporea diremmo, dell’individuo che si è posto al di fuori della comunità; esso, come ha affermato D. Chapman, «viene visto come una funzione del mantenimento dell’ordine costituito, un individuo costruito per rappresentare in sé, funzionalmente, […] con immagini stereotipiche formate da quelle caratteristiche che un dato sistema sociale ha interesse a presentare come negati ve ed oggetto di sanzione»22, proprio perché la devianza, così come il peccato, è la condizione che pone al di fuori della comunità stessa, tanto da indicare «un destino da evitare, più che dei comportamenti da evitare»23. Più che la condizione escludente, quella del peccatore/degenerato rappresenta già la condizione dell’escluso, di colui che si è distaccato dalla comunità24 e, quindi, dell’ altro, del «nemico» diremmo, usando una terminologia schmittiana, che rappresenta un pericolo per la comunità stessa non riconoscendone lo stesso fondamento superiore; in questa chiave, dunque, vanno lette affermazioni del genere: «Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde.25» Certo non è esclusa la possibilità di essere reintegrato all’ interno della collettività qualora si accetti la cura offerta da quest’ultima. 

Sovente, poi, caduti nelle malattie a motivo di castigo, siamo condannati a sopportare un’aspra e pesante cura onde sfuggire alle sofferenze della malattia. In tal caso il raziocinio ci persuade a non ripudiare né le amputazioni né le cauterizzazioni né l’asprezza dei rimedi amari e molesti né i digiuni né l’osservanza d’una dieta o di un particolare tipo che ne deriva per l’anima: colui il quale avrà fatto tesoro di quest’esempio, infatti, imparerà ad imitarlo nella cura di se stesso26. 

Ma non solo, perché essendo il peccato, così come la degenerazione, caratterizzato da questa forte dimensione sociale, la comunità non può subire «passivamente che il penitente si reintegri in essa», ma deve concedere «attivamente la sua appartenenza, attraverso l’atto del potere pubblico esercitato dal capo della comunità»27; se ciò non avviene per un libero atto della collettività allora la cura necessaria sarà la morte dell’individuo; rivelando, ancora una volta, la natura politica delle prescrizioni riguardanti la vita dell’uomo. 

La guarigione non garantisce dalla morte, ma libera dalla disperazione di essere-per-la-mor-te. [ … ] Guarire è cominciare a diventare capaci di assumere, condividere e sviluppare le concrete possibilità della condizione umana, anticipando la pienezza di umanità alla quale siamo chiamati in Cristo e ciò non solo sul piano personale, ma anche su quello socio-politico28. 

Infatti, l’uomo è guarito nel momento in cui si reintegra armonicamente col cosmo per il quale è stato creato, facendo fruttare a pieno proprio questa condizione esistenziale di «aderenza» alla realtà superiore, sia essa lo Stato o Dio; sottolineando, inoltre, che «nella visione cristiana della vita, la guarigione è emergere di armonia, solidarietà, trascendenza, e processo nel quale fluiscono iniziativa di Dio, risposta dell’uomo, solidarietà umana e inserimento nel mondo»29. 

Ma le somiglianze fra la concezione del peccato e quella della malattia non si fermano alla loro presunta «disfunzionalità» nei confronti della totalità, ma trovano la loro radice anche nelle categorie dell’ereditarietà e della trasmissione, nonché nella possibilità di propagarsi indefinitamente così come la sindrome degenerativa della razza avvertita come pericolo costante dallo Stato. È il motivo che ha portato Paolo di Tarso ad affermare che «come per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel cosmo e a causa del peccato la morte, e così la morte ha attraversato tutti gli uomini, per il fatto che tutti hanno peccato»30. Sappiamo esattamente che su queste due categorie si fondava tutto il pensiero medico-biologico novecentesco che fu responsabile di catalogare ed identificare le «vite indegne di vita». 

La piaga ereditaria del peccato forma e informa la vita prima ancora del suo farsi, tant’è che il bambino nasce peccatore a causa del peccato originale che si trasmette appunto per via ereditaria nell’atto del concepimento, ed è proprio in virtù di ciò che sia la Chiesa che lo Stato focalizzarono l’attenzione sul momento riproduttivo inserendolo nel contesto comunitario e ponendolo fuori dalla sfera privata. 

È a partire dalla biologia politica e dal concetto di salvezza, divenuta «sanità», che si definisce, allora, la «degenerazione/peccato» rivelandone così la sua realtà. È a questo che deve ovviare la comunità col potere terapeutico che gli è stato donato proprio per il suo essere in comunione con Dio – o con la Natura, come nel caso dello Stato moderno. 

Ma vi sono altre azioni per le quali le molteplici e numerose malattie dell’anima vengono sanate in modo eccelso, e quasi ineffabile: e se questa arte medica non fosse stata mandata da Dio ai popoli, non vi sarebbe nessuna speranza di salvezza per l’uomo, che tanto smodatamente avanza nel peccato; anche se considerando più profondamente le origini delle cose, ci si accorgerà che anche l’arte medica rivolta al corpo giunge agli uomini come dono di Dio, a cui dobbiamo attribuire la salvezza di tutte le cose e lo stato in cui si trovano31. 

Tutto questo è possibile attuando uno slittamento semantico da un mondo governato da Dio ad un mondo dove la forza primaria è la Natura, all’interno della quale il ruolo di «testa» (vedi le innumerevoli citazioni riguardo all’uomo come testa della natura in ambito cattolico) è svolto da un’élite che s’identifica con lo Stato che porta, con la morte dei degenerati – che sono tutti quelli che non «obbediscono» al canone biologico desiderato -, alla vita di quell’élite che così può sopravvivere incontaminata (e quindi liberata dalla possibilità della morte come depauperamento fisico, mentale e morale e, di conseguenza, del suo ruolo di guida) e far risplendere la razza che si fa attraverso il suo mantenersi «sana». In altre parole, lo Stato che si muove seguendo le leggi naturali si trova imbrigliato – o sarebbe meglio dire che all’interno di questa logica si trova «protetto» – nel determinismo naturale, che diviene così pianificazione dello sviluppo evolutivo, che non può avere altra direzione che quella di un progresso migliorativo. 

Per concludere, possiamo ora affermare che i dispositivi eugenetici di funzionamento degli Stati moderni (ricordiamo in particolare quello nazista) la normativizzazione assoluta della vita e la doppia chiusura del corpo32, altro non sono che gli stessi presupposti su cui poggia la teologia cattolica riguardo all’uomo come composto inscindibile di anima e corpo, con l’unica differenza sostanziale posta in essere dal terzo dispositivo’ quello cioè della soppressione anticipata della nascita, che è l’esatto rovesciamento in negativo del principio cattolico della difesa aprioristica della vita. Di una vita fatta coincidere con la nascita, ma anticipata al momento del concepimento a partire dal 1902, proprio in risposta all’introduzione di tecniche, quali l’aborto terapeutico o la possibilità del parto prematuro, che sottraevano l’ambito della nascita alla sfera della vita consacrata a Dio per consegnarla nelle mani della medicina33. 

Ponendo come discrimine all’appartenenza al corpo sociale l’aderenza a modelli, fisici e comportamentali, stabiliti a priori da coloro ai quali è stato assegnato il ruolo di guida della società al fine di garantire la funzionalità del sistema, diviene un passaggio carico di effetti sulla vita del singolo quello della «cura», che in ambito cattolico pare condensarsi attorno alla cura e alla salvezza dell’anima, mentre in ambito statale si concentra più sulla cura dei corpi, ma che, mutatis mutandis, si indirizza in ambedue i casi ad una presa in carico da parte del potere della vita, privata della sua variabilità. Questo dispositivo, ad un’analisi più attenta, svela la sua natura politica di meccanismo di funzionalità e autoconservazione del sistema, senza il quale non solo non c’è salvezza, ma cadrebbero anche i presupposti di una vita comunitaria: «La salvezza per essere integrale e plenaria deve concernere tutto l’uomo considerato come unità di corpo-anima e ciò sia come individuo, sia come gruppo e società»34. 

Claudia Gaeta

NOTE 

1 «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti» (C. Schmitt, Le categorie del ‘politico‘, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 61). 
2 Z. Alsezeghy, Confessione dei peccati, in G. Bargaglio – S. Dianich (a cura di), Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), p. 176. 
3 J G. Landra, Difendiamo nella maternità le qualità della razza, in «Difesa della razza”, II, n. 4 (20 dicembre 1938), pp. 6-8. 
4 Sottolineiamo per inciso che la salvezza è un archetipo culturale, in altre parole è un’idea in-nata che viene trasmessa all’individuo in virtù della sua appartenenza ad una collettività. È in questo senso che vogliamo indagare l’archetipo della salvezza nelle sue due più grandi rappresentazioni storiche, il cattolicesimo e i totalitarismi novecenteschi, o meglio, lo Stato moderno. 
5 Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1967, p. 201. 
6 D. Mongillo, Esistenza cristiana, in Dizionario di teologia, cit., p.438. L’autore afferma più avanti anche che: «L’uomo chiamato alla salvezza è quello stesso che vive nella storia e pertanto non può né esimersi dal convivere con gli altri, né pensare che tutte le vie di impegno siano autentica liberazione» (ivi). 
7 Paolo di Tarso, Lettera agli Efesini, 4:24; cfr. anche Colossesi 3: l0. 
8 «Il bello sussistente (cioè Dio) si chiama bellezza, a causa di questa bellezza ch’esso comunica a tutte le cose, ciascuna secondo la sua misura» (Pseudo-Dionigi Areopagita, “I nomi divini”, 4, 7.10 in Dizionario di teologia, cit., p. 105.) 
9 Pseudo-Dionigi Areopagita, “I nomi divini”, 4, 7.10 in Dizionario di teologia, cit., p. 106. 
10 Ivi. Notiamo qui per inciso che questa identificazione fra bontà e bellezza è l’equazione che sta alla base degli studi di Lombroso. 
11 Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinzi, 6, 13-20. 
12 Leone Magno, “Sermoni”, 81 in Dizionario di teologia, cit., p. 226. 
13 Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 11. 7. 
14 F. Galton, Inquiries into Human Faculty, Mc Millian & co., London, 1892, p. 17. 
15 Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 11. 12. 
16 Id., 12.13. 
17 Clemente Alessandrino, Stròmata, 7, 2, in AA.VV., La teologia dei Padri. Dio-Creazione-Uomo-Peccato, Città Nuova, Roma, 1981, p. 118. 
18 Z. Alsezeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., p. 176. 
19 «Spesso, invece, le malattie sono punizioni dei peccati, mandateci per convertirci» (Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, 5, in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 277.) Ma anche: «Dio poi suscita la malattia in coloro per i quali è più utile avere le membra impedite piuttosto che agili e pronte nel muoversi verso il peccato» (Basilio il Grande, Omelia «Dio non è l’autore del male», 2-3,5 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 342.) 
20 Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, l in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 276. 
21 «In quanto realtà umana, il peccato è da intendersi come realtà morale: è un atto morale negativo dell’uomo; in quanto da una parte il valore morale, la legge e la norma sono perfezioni inerenti alla dignità della persona umana, anzi sono la stessa dignità della persona umana definita in sé e nelle sue componenti, e dall’ altra l’agire umano è la libera attuazione di questa dignità in modo corrispondente o non corrispondente ad essa, il peccato inteso moralmente si riduce ad essere la non-corrispondenza tra la dignità umana (valore, legge, norma) e la sua libera attuazione, ad essere cioè una disarmonia della compagine umana, una diminuzione dell’uomo nella sua dignità, che ne diviene il criterio, l’origine, il contenuto negativo, e messa in atto precisamente della peculiarità caratteristica, che è il costitutivo supremo di quella dignità personale come valore, legge e norma, e che è appunto la libertà umana: il peccato è allora la contrapposizione che è immanente alla libertà umana costituente la dignità della persona umana, e che dispone, cioè pone liberamente, della sua dignità in senso contrario ad essa» (A. Molinaro, “Peccato”, in in Dizionario di teologia, cit., p. 2031). 
22 D. Chapman, Lo stereotipo del criminale, Einaudi, Torino, 1971 , pp. XI-XII. 
23 Ibidem , p. XII. 
24 «La chiesa […] come comunità vivificata dallo Spirito santo. Il peccato è un distaccarsi interno di questa comunità» (Z. Alszeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., p. 179). 
25 Luca, 11 ,23 . 
26 Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, 4 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 277. 
27 Z. Alszeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., pp. 179-80. 
28 D. Mongillo, “Esistenza cristiana”, in Dizionario di teologia, cit., p. 431 . 
29 Idem , p. 433. 
30 Paolo, Lettera ai Romani, 5, 12. 
31 Agostino, I costumi della Chiesa cattolica, 1,55.56 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 267 . 
32 Cfr. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004, p. XVI. 
33 Cfr. E. Betta, Le forme del decidere: norme cattoliche per l’ostetricia abortiva, in A. Menzione (a cura di), Specchio della popolazione. La percezione dei falli e problemi demografici nel passato, Forum, Udine, 2003, pp. 105-119. 
34 C. Vagaggini, “Storia della salvezza”, in Dizionario di teologia, cit., p. 1574.

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 3-10.




 Ruzar Briffa, un poeta lirico maltese 

Il tormento della vita e della parola 

Nella schiera dei poeti maltesi che hanno svolto la loro attività nella prima metà del Novecento e hanno appena sfogliato la seconda, il nome di Ruzar Briffa (1906-1963) emerge con una sua individualità inconfondibile. Rappresenta soprattutto un filo diretto tra quel presente e un futuro molto diverso. Quel presente è identificabile soprattutto per una gamma di ragioni con le impostazioni più tipiche dell’Ottocento romantico che sotto l’influsso dell’esperienza italiana diede contenuto e forma all’ispirazione dell’isola; quel futuro è caratterizzato da una graduale presa di coscienza alimentata da esigenze di una società trasformata sotto vari profili. 

Non era stata soltanto o maggiormente la volontà di scrivere in lingua maltese, l’idioma antico di origine araba, a condurre questo medico schivo e solitario e sperimentare in forma poetica. La sua vocazione era fondamentalmente quella di dover riflettere sul patire, sulla vita come sofferenza ineluttabile, e non di coltivare, come era di moda, il dialetto che ancora richiedeva l’attenzione scientifica del filologo e il contributo raffinato di validi letterati. 

Il pregio lirico dell’opera di Brilla emana da una coscienza che si trovò in grado di parlare con sé in versi, e poi di mettere questi schizzi personali sulla carta con grande, anche se finalmente superato, tormento. Dal profondo dissidio tra la sofferenza dell’essere e la felicità dello scrivere, anche se il processo della creazione è in ultima analisi una continuazione o addirittura una estensione della prima, nasce il paradosso della lirica del mistero, una parola autentica che vuole presentarsi come alternativa unica e insostituibile al vivere stesso. Il non voler vivere si traduce nel voler scrivere. Dall’infelicità dell’atto umano scaturisce la felicità dell’atto creativo. 

La condizione storica del romanticismo maltese 

Nata come coscienza nazionale in seguito ad una lunga, ininterrotta tradizione di silenzio e di rassegnazione, la letteratura maltese è un fenomeno recente. Mikiel Anton Vassalli (1764-1829), oggi noto come il padre della lingua maltese e conosciuto da tutti come un patriota di stampo romantico, riassume in sé la nuova volontà di affermarsi di una piccola comunità che è arrivata finalmente, quasi nella pienezza dei tempi, alla scoperta del suo essere, alla consapevolezza della sua identità particolare e unica, basata su una lingua, una storia, una religione, una civiltà, tutti elementi che formano un insieme am10nico. L’utilizzazione della lingua maltese diventò presto una presa di coscienza, e non poteva rinchiudersi facilmente nei confini strettissimi di un puro esercizio scientifico. La nascita di una letteratura in dialetto, dunque, significava anche la elaborazione automatica di un ambizioso corpo di principi e di sentimenti contenenti la giustificazione culturale e politica del concetto della nazionalità, e di conseguenza il sostegno su cui posa la pretesa dell’autonomia nazionale. 

Il nazionalismo subentrava letterariamente e finiva col diventare la ragione d’essere delle strutture politiche messe in atto durante l’arco di tempo che va dalla prima metà dell’Ottocento fino all’acquisto dell’indipendenza nel 1964. La poesia e la narrativa dell’Ottocento e del primo Novecento, dunque, costituiscono un deposito eminentemente patriottico, cioè, una rottura “moderna” con il passato indifferente e passivo, ispirato soltanto ai canoni classici dell’imitazione e della attenta, fedelissima continuazione della tradizione e dei suoi sacri modelli. 

Il poeta nazionale di Malta, Dun Karm (1871-1961), scrittore in lingua italiana e dal 1912 maggiormente in lingua maltese, andava scoprendo con decisione e con calma il senso dell’individualità dell’isola. Sperimentando nella lingua incolta, sfruttandone le nascoste potenzialità espressive, Dun Karm andava elaborando una intera, quasi sistematica, sublimazione del concetto romantico della patria, trasformandolo in un culto legato al binomio mazziniano del diritto e del dovere del cittadino libero. L’origine etnica, l’unità popolare evidenziata da una vasta gamma di motivi e di costumi, la funzione storico-culturale, oltre che morale, della fede cristiana lungo i secoli e nel mondo contemporaneo, le qualità distintive del paesaggio e delle forme architettoniche, la ricchezza spontanea e naturale del parlare quotidiano delle masse prive di una propria formazione culturale, il significato democratico delle antiche vicende storiche: sono alcuni dei motivi che trovano nel poeta “politico” la loro trasformazione estetica. 

Accanto al filo oggettivo, estroverso, che mette in piena evidenza l’identità collettiva e che dà ampio rilievo alla tematica dell’individualità nazionale, cresce anche l’ansia di un io turbato con la propria, singolare, solitaria presenza nel cosmo. 

Insieme al senso “felice” dell’isola nazionale si acquista anche il senso “infelice” dell’isola universale. La elaborazione della poetica della cittadinanza civile non fa dimenticare il bisogno di definire e di conoscere nelle sue più remote e struggenti implicazioni la poetica della cittadinanza cosmica. Con la traduzione dei Sepolcri foscoliani (L-Oqbra, 1936), Dun Karm introduce con sicurezza nella poetica maltese i grandi temi del processo della vita e della morte, e gli interrogativi sul problema della sopravvivenza. 

Sono temi che si insinuano già, anche se ancora privi di una forma letteraria di rilievo e lontani dalle complessità di spiriti veramente inquieti e sofferti,nelle liriche di Gian Antonio Vassallo (1817-1868), Richard Taylor (1818-1868), Guzè Muscat Azzopardi (1853-1927), Anton Muscat Fenech (1854-1910) e di Dwardu Cachia (1858-1907. Ma con Dun Karm assumono pure il carattere di modelli letterari, di archetipi tematico-formali, e sono di una importanza decisiva nel quadro dell’ispirazione maltese dei decenni successivi. Spettava ad altri poeti arrivare anche loro alla scoperta del filone soggettivo, introverso, riflessivo del romanticismo ottocentesco e dei residui neo-romantici ancora vivi nel primo Novecento europeo e continuati in varie sfumature fino ad oggi. Dai confini di una stretta concezione nazionale e sociale la poesia maltese si avviava verso gli spazi della tematica universale. 

La lirica del tormento esistenziale 

Nell’opera di Brilla la causa poetica diventa del tutto autonoma dalla causa linguistica. Comporre lirica non significava più contribuire alla normalizzazione e al recupero dell’incolto idioma antico. La distinzione tra interesse filologico e accademico nella lingua, e necessità psicologica di espressione poetica in quella lingua diventò netta, anche se Briffa stesso si pronunciò del tutto favorevole all’uso del maltese e al suo completo riconoscimento in sede culturale e sociale. 

Con Brilla si ha la figura del poeta integrale, cioè della personalità che riassume nell’atto poetico tutti i vari, multiformi aspetti dell’essere, professionale, sociale, familiare, civile. 

Essere poeta significa investire l’esistenza di un contenuto e di una forma particolare. L’intuizione lirica e non la poesia della letteratura e della rigidità formale, il senso del mistero e non la consapevolezza delle certezza nazionale, la lingua ricostruita con sofferenza dalle rovine di una sensibilità malinconica e non la normalizzazione decisa della sintassi e del lessico: in queste scelte, intimamente legate tra di loro, appare la figura del poeta come essere quasi privato, racchiuso in sé, piegato su se stesso, separato dalle masse, ispirato soltanto ai sussurri che si fanno sentire nel suo intimo angoscioso, del tutto noncurante della problematica storico-culturale. Lo sfondo di Briffa non è l’età contemporanea ma un eterno mondo di solitudine, privazione e tristezza. Le dimensioni del luogo e del tempo, mai evidenze di dati precisi, sono forme archetipiche entro cui quasi tutte le sue brevi meditazioni trovano una cornice per presentarsi come poesia, cioè come parola, sfida al silenzio continuo: 

Il-ferha ta’ bla tarf li jien poeta 
darba hassejt, 
u bkejt 
bil-qalb mim ija 
x’hin l-oghna holm tal-hajja 
ghannejt. 
(Mill-Gdid Poeta, vv. 1-6) 

(Ho provato una volta la felicità infinita di essere poeta, e piansi con un cuore pieno, mentre cantavo i più ricchi sogni della vita). Di nuovo poeta, vv. 1-6. 

I suoi luoghi sono spazi desolati, lontani dalle città della convivenza, distinti dal mondo dell’attualità; ad esempio, cimiteri, cattedrali dimenticate, castelli, vecchie chiese, spiagge lontane, strade disabitate, tombe, chiese demolite, fontane salutarie, città desolate. I suoi tempi e le sue stagioni sono momenti e periodi facilmente identificabili con la sofferenza, ad esempio, l’inverno, la notte, le ore della tempesta. Il passato con le sue ricordanze amaramente nostalgiche è un presente continuo, una “eternità” storica vissuta entro cui l’esperienza diventa psicologica, e il presente perde la sua attualità per diventare momento ambiguo dominato dalla memoria: 

Qatt ma Kien hemm il-bierah, 
m’hemrnx ghada jew pitghada, 
il-bniedem fassal wahdu 
il-jiem tac-civiltà … 
Imm’A1la halaq qablu 
it-tul t’Eternità. 
(Il-Hadd fìlghaxi ja, vv. 13-18) 

(Non c’era mai ieri, non c’è domani e dopodomani, l’uomo disegnò da solo i giorni della civiltà . . . ma Dio creò prima di lui la lunghezza di una Eternità). La sera della domenica. vv. 13-18. 

L’insistenza su vocaboli che evocano limitatezza, tenerezza, introversione, 

timidezza, piccolezza richiede una precisa interpretazione. Il linguaggio poetico di Briffa costituisce già un concentrarsi su un tipo particolare di lessico: è scelto istintivamente. con criteri psicologici, e non letterariamente, con criteri stilistici. Invece di cercare di ampliare il proprio vocabolario e di trovare le parole meno note, più antiche e pure (cioè di origine semitica, siccome il concetto di purezza, ormai da tempo superato, significava l’eliminazione dei vocaboli di origine latina), il poeta riduce il suo dizionario ad un glossario quasi specializzato, ispirato soltanto alla tematica del tormento esistenziale. Non risale mai alla superficie l’ambizione di chi desidera dare evidenza della vastità e dell’efficacia espressiva della lingua tradizionalmente incolta. Passando dalla langue alla parole Brilla arriva ad una lingua scheletrica, scarna e del tutto priva di ogni elemento decorativo. Non c’è un rifacimento della comune lingua parlata: si tratta di una riduzione estrema, evidenza letteraria di un retrocedere psicologico. Anche la poetica della lingua diventa così un documento di una particolare vicenda interiore. 

Dati i limiti entro cui poteva svolgersi l’attività letteraria, e considerando il grave svantaggio storico imposto sull’antico idioma di origine araba, sempre vissuto in condizione di subalternanza culturale e politica rispetto alla tradizione latina dell’isola, una tale scelta “linguistica” (così appare a prima vista, e così è anche, ma non soltanto, nel quadro della vita culturale maltese del primo Novecento) costituisce una importante novità nella storia della poesia del Paese. Significa l’affemlarsi del contenuto sulla forma, il superamento del preconcetto che attività linguistica equivale a attività creativa. Tirando le somme, dunque, ciò significa che il contenuto (l’atto poetico) non doveva dipendere più dalle condizioni del programma di ricostruzione sintattica e lessicale\ oltre che morfologica, della lingua popolare. Poetare ora significava soltanto scoprire la propria metalingua entro la lingua, restringere ancora, tormentare i nuovi modi, ricrearsi una forma espressiva che in ultima analisi non contribuisce in nessun modo all’avanzamento della lingua in termini di standardizzazione scientifica e colta. 

La forma dello spirito 

Trovandosi privo di una propria formazione letteraria, essendo un medico occupatissimo, Briffa aveva paradossalmente il vantaggio di poter distanziarsi senza polemiche dai formalismi, necessari storicamente nell’ambito della breve storia letteraria della lingua maltese, e richiesti dalla condizione difficile dell’idioma non ancora sufficientemente elaborato in sede estetica, dei suoi contemporanei come Anastasio Cuschieri (18761962). Ninu Cremona (1880-1972). Gorg Zammit (n. 1908), Gorg Pisani (n. 1909). Karmenu Vassallo (n. 1913). Guze Chetcuti (n. 1914) e altri. Messo in questa foto di gruppo, Briffa si isola anche come poeta e non soltanto, caratteristicamente, come persona umana. La sua distanza psicologica si traduce presto in distanza linguistica e formale, quasi per mettere in evidenza il fatto che la prima condizione fosse la causa della seconda, e che tra l’uomo e l’artista non potesse esserci alcun spazio. 

La sua lingua ridotta, costituendo un compromesso con il silenzio e con il mutismo, è frammentata, sciolta e sconvolta. Il lessico è scarno e “povero” oggettivamente, fedele alla condizione di privazione e di negazione che l’autore intende proiettare. Le forme si creano nel processo dello scrivere, anche se spesso 

utilizzano le stanze precise della tradizione, particolarmente la quartina. Entro la formalità, comunque, cresce il nervosismo personale di chi non trova facilmente lo spazio adatto allo spirito in cerca di comunicazione. 

Il contrasto con l’impressione che viene fuori dall’opera collettiva dei contemporanei ha condotto Dun Karm, troppo avaro di solito a collaudare i suoi colleghi, a conoscere in Briffa un autentico poeta. In fondo si tratta di un anti-letterato valido che ha prodotto alcune delle liriche più belle scritte in maltese nella prima metà del Novecento. 

È una condizione paradossale. Questa bellezza sta soprattutto nell’informalità, che presto dà prova dell’intraducibilità del testo. 

Tradurre Briffa significa veramente tradirlo, renderlo contrario a se stesso, cioè stereotipato, formale e ovvio, quasi banale. 

La spontaneità risiede soprattutto nella naturalezza istintiva, antiaccademica, con cui ha colto dopo lunghi periodi di riflessione (come lui stesso ha dichiarato in una rarissima lettera di chiarifica, e come mostra la sequenza cronologica delle sue opere, spesso separate l’una dalla seguente con ampi spazi di mesi e di anni) la forma pronta ad essere semplicemente registrata su un pezzettino di carta. Cogliendo il momento opportuno. dovuto alla sua psicologia di sconvolto pensatore, disorganico e deciso sentimentalmente, che sente e che non concepisce, Brilla riesce a creare la forma nell’atto stesso di trascriverla. Scrivere significa qui, dunque, tradurre la poesia interiore in poesia esteriore, arrestare il sentire attraverso lo scrivere. 

I suoi momenti tradotti in lirica costituiscono i primi passi della poesia maltese nel mondo della modernità novecentesca. Il contenuto è ancora quello tipico dei partecipanti ottocenleschi all’angst esistenziale. Da Keats a Leopardi, da Shelley a Foscolo, ci sono voci europee di primo piano che trovano eco, remotamente, nei suoi scritti. Sono tutti, comunque, riecheggiamenti di mediazione culturalmente inevitabile, perché il tormento è rivissuto interamente in prima persona. Le sfortune personali, di carattere sentimentale, e l’indole naturale di uno spirito perfidamente malinconico e depresso fin dalla fanciullezza sono essenzialmente i “modelli” veri e propri che hanno tanto influito sul suo animo. È l’uomo che ha formato il poeta, e non la grande tradizione letteraria, anche se questa non può essere assente come esemplificazione di archetipi in cui partecipa la coscienza del singolo in una data condizione personale. 

Le tensioni rivissute a livello privato, dunque, conducono al bisogno di creare pure le proprie modalità espressive. Il diarismo, la psicologia in cui si riassume tutta la poetica di Briffa, spiega l’intero procedimento: i temi della tradizione sono sofferte dall’individuo, e la trascrizione personale riesce a crearsi le forme “private” che placano di più le esigenze dello spirito. 

La prima lirica, Lacryma e rerum (1924), e l’ultima, Ballatella tal Funtana 

(1962), non sono molto diverse. Si prestano facilmente ad un confronto che le definisce come tappe lontane di un unico ininterrotto procedimento stilistico e formale. esprimente una sola preoccupazione. La monotematicità, una delle conclusioni acquisite attraverso un tale confronto, mette ancora in risalto la condizione da cui parte la poesia di Briffa: l’uomo richiede una sua espressione, ed è l’uomo, al di là della storia letteraria del continente e del proprio Paese, che deve ricostruirsi le forme. Il diario è diventato poesia; è una fortuna per la cultura maltese, ma non è che una necessità che il poeta, se avesse potuto, ne avrebbe presto fatto a meno. È infatti con grande difficoltà, e malgrado la sua indifferenza. che la moglie e un intimo amico lo hanno mosso a raccogliere le sue liriche nel 

1960, tre anni prima della morte. Del resto, la biografia storica non è in nessun modo distante dalla biografia poetica. 

La stessa malinconia esistenziale unisce l’azione dell’uomo con la parola del poeta siccome le due dimensioni nascono entro una sola storia che non separa il fisico dallo spirituale, identificando il vivere con il patire. 

Oliver Friggieri 

 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 24-31.




 La visita di Luigi Capuana a Malta

La prima edizione della rivista «Malta letteraria» (*), pubblicata in settembre 1904, aveva già dato spazio a Sorrisino, una novella di Luigi Capuana1. Nel 1910 Antonio Deni, uno dei siciliani che collaboravano alla rivista, pubblicò un ampio resoconto della festa celebrata all’Università di Catania nell’occasione del giubileo letterario dello scrittore2. 

Quasi a consolidare sempre di più questo inevitabile avvicinamento tra le due coscienze letterarie che, superando la visuale astratta del romanticismo, dovevano affrontare la problematica socio-economica, e che accanto alla visione risorgimentale sentivano anche esigenze molto pratiche, il 12 dicembre 1910 Capuana visitò l’isola come ospite dello scrittore giornalista maltese Agostini Levanzin (1872-1955). che così descrisse l’evento: «Lunedì scorso arrivò il famoso romanziere italiano Luigi Capuana, professore di letteratura italiana presso l’Università di Catania. Mi scriveva da lungo tempo esprimendo il grande desiderio di fare una visita alla nostra isola e ora è arrivato. È l’autore di numerosi bei romanzi… Spero che ci conceda una conferenza degna della sue capacità3». 

Fu “L’Avvenire” a divulgare la notizia: «Porgiamo un ossequioso e reverente saluto all’illustre letterato, scrittore e poeta Luigi Capuana, professore dello Ateneo catanese, il quale ha onorato la nostra isola di una sua visita che, ci è grato sapere, durerà per vari giorni …Parecchi nostri giovani studiosi si sono recati ad ossequiare il rinomato scrittore al Hotel d’Angleterre dove alloggia. Possa il nostro distinto ospite godere di un soggiorno piacevole tra noi. Ed ora un voto. Non potrebbe egli regalarci una delle sue applaudite conferenze che tanto entusiasmarono in Italia? Lo speriamo4». Due giorni dopo lo stesso giornale diede ampia informazione biografica e letteraria sul romanziere e continuò: «Noi siamo certi che l’illustre letterato italiano è talmente noto al nostro pubblico intelligente da non aver bisogno di presentazione: anzi sappiamo che già parecchie persone, tra le più colte del paese, si onorano a tenergli compagnia durante la sua breve permanenza tra noi5». 

Agostino Levanzin scrisse anche sul giornale “Malta” per meglio pubblicizzare questa visita presso i letterati. Nel suo articolo, oltre ad un profilo biografico, letterario e critico, Levanzin evidenzia la sua amicizia con il siciliano: «Il nostro gradito ospite è una delle più fulgide figure della letteratura italiana contemporanea. Il suo ingegno policromo è di una versatilità meravigliosa: critico de’ più autorevoli, romanziere de’ più ricercati, novelliere per bambini de’ più spontanei e simpatici, drammaturgo de’ più applauditi, conferenziere dalla parola calda ed affascinante, è pure un profondo psicologo ed ha pubblicato lavori interessantissimi sulla scottante questione dello spiritismo… Figli non ha: è astemio,  feroce,  fotografo,  spiritista convinto, modestissimo allo eccesso, amico  sincero, ama i giovani e procura sempre di incoraggiarli, parlatore arguto e piacevole, ed uno di quelli che trattano con squisita gentilezza e cordiale ospitalità con tutti quelli che, fortunati, vengono in contatto con loro. lo non dimenticherò mai la grata accoglienza che mi fece a Catania, quando, sentendo del mio arrivo colà, venne al Hotel per condurmi a casa sua in carrozza dove mi trattò con una espansione e famigliarità eccezionali in un uomo del suo valore… Abbia intanto l’augurio affettuoso di tutti gli ammiratori del genio latino per una lunga e felice permanenza fra noi6». 

Durante il suo soggiorno Capuana visitò il Collegio Flore, uno dei centri educativi più importanti del periodo, «dove si trattenne per oltre due ore, accompagnato in giro pel nuovo e grandioso locale, dal direttore Flores… e si compiacque che’ per opera sua anche Malta possa gareggiare, se non sorpassare in fatto d’Istituto d’Educazione, con le Città più importanti del continente7». 

Il governatore britannico di Malta tenne un pranzo in suo onore. Fu anche intrattenuto a colazione al Casinò Maltese della Valletta durante il quale gli intervenuti chiesero il suo autografo; tra questi c’erano diversi scrittori maltesi, ad esempio Luigi Randon, Arturo Mercieca, Giovanni Roncali ed Enrico Magro. Fu intrattenuto anche dagli studenti e da G. F. Inglott, uno dei collaboratori di “Malta letteraria”. Agostino Levanzin lo invitò a casa sua e lo presentò a vari intellettuali maltesi. «Fu anche accolto dal rettore dell’Università e nei pochi giorni del suo soggiorno non passò neanche un’ora senza essere accompagnato da qualcuno che gli voleva bene8». Il 25 dicembre al Collegio Flores si organizzò una funzione religiosa per la notte di Natale, e alle ore 10,30 Capuana lesse due dei suoi bozzetti per quella festa9, Capuana ritornò in Sicilia a bordo della nave Enna il martedì 27 dicembre 1910.10 Poco dopo la sua partenza due giornali pubblicarono due suoi lavori, la novella Un anniversario11e un lungo studio sul novellista francese Alfonso Daddet12. 

Il breve soggiorno di Capuana a Malta è significativo per la conferenza che lesse il lunedì 26 dicembre «nella gran sala del Collegio Flores innanzi ad una scelta accolta di signore e signori, ammiratori del grande romanziere italiano13». Due giorni prima della conferenza Levanzin scrisse un lungo articolo sul proprio giornale “In-Nahla” dichiarandosi contento dell’onore che lo scrittore aveva fatto all’isola con la sua visita, invitando il pubblico a dargli una meritata accoglienza che metta in luce la capacità  dei maltesi di stimare  le  persone che valgono. Tale 

comportamento è un passo positivo perché smentisce l’accusa di arretratezza spesso rivolta contro i maltesi. Levanzin auspica che Capuana «si ricorderà della nostra cara isola nelle sue valide opere future» e conclude augurandosi che con tale accoglienza «mostriamo di essere capaci di apprezzare i grandi uomini e particolarmente quelli legati alla lingua italiana, che è la lingua della nostra civiltà14». 

La pubblica presenza di un noto scrittore italiano a Malta agli inizi del secolo rischiava di essere interpretata e sfruttata anche politicamente. La questione della lingua, che metteva in dubbio il ruolo concesso tradizionalmente all’italiano nella vita ufficiale e culturale dell’isola e che indicava l’avanzata dell’inglese come alternativa di comunicazione culturale e internazionale, e che chiedeva al maltese, l’idioma incolto di origine semitica, una sua giustificazione culturale e politica, serviva come presa di coscienza a favore della tesi della latinità del paese e come decisa presa di posizione contro la minaccia di una così detta devastante anglicizzazione. 

“Risorgimento” prese subito lo spunto da questa complessa problematica, citando il nome di Capuana come sostenitore della tesi più antica. Asserendo che la sua visita riuscì graditissima, ricordò pure l’amicizia del siciliano con il romanziere maltese Levanzin: «Egli ha sempre, come ci ha detto l’egregio amico signor Levanzin Agostino editore dell’«In-Nahla». cercato di festeggiare ogni maltese letterato che si portò mai a Catania». Affermò anche che Capuana si interessò molto «della malaugurata questione della lingua» che, secondo il giornale, «stupidamente si era sollevata qui da un governo spensierato che… ben la sollevò senza badare alle ripercussioni, all’eco, ai riverberi che avrebbe potuto avere (come infatti ebbe) lontano e nella diplomazia europea». Comunque, continua lo scrittore anonimo, «il grande siciliano ha poi saputo colle sue maniere affabili. e squisitamente gentili, e col suo fare espansivo che rammentava… ‘il gentil sangue latino’, accattivarsi l’amore, la simpatia, l’amicizia di tutti anche di coloro che in politica o nelle sue idee letterarie non ne condividono le opinioni». Il giornale ritiene che, anche se Capuana riuscì a evitare la politica, la sua visita ha dato luogo spesso e forse sempre a manifestazione schietta dell’italianità di Malta15. 

È facile sospettare che Capuana fosse consapevole del rischio che correva se si fosse pronunciato pubblicamente in qualche modo su temi altrimenti neutrali come la storia e l’identità di Malta e il rapporto culturale tra l’isola e l’Italia. Arturo Mercieca, poeta e politico, ricorda che durante una adunanza tenuta al Casinò Maltese, una organizzazione che sosteneva l’italianità dell’isola, a Capuana «venne richiesto di presiedere e pronunciare il brindisi d’onore… eravamo ansiosi di ascoltare un forbito discorso del Capuana. Ci toccò però rimanere a bocca asciutta quando egli levatosi a rispondere disse: ‘Signori, io sono uno scrittore, non un oratore; dunque, grazie, grazie, grazie’16». 

 

La conferenza, pubblicata interamente su “L’Avvenire”17, prende le mosse da alcuni dei principi più noti del pensiero letterario dell’epoca ed è tutt’una con le idee caratteristiche dello scrittore. Capuana parla del contegno con cui la Scienza si comporta verso l’Arte e viceversa. Di fronte alle scoperte che hanno rivelato forze fisiche mai prima sospettate, si capisce perché la creazione d’arte è stimata cosa primitiva e infantile. L’Arte non poteva dunque rimanere estranea allo svolgimento con cui veniva radicalmente rinnovato il sapere umano. Siccome nell’Arte non agisce la facoltà superiore dell’intelligenza ma l’immaginazione, gli artisti sono stati costretti a domandarsi fino a che punto l’Arte possa assimilarsi le dottrine scientifiche. Non volevano vedersi tagliati fuori dalla società, sentirsi accusare di agire in un mondo fittizio. 

Così Capuana riassume l’accusa rivolta dalla Scienza contro gli artisti: «Se volete che l’Arte sia qualcosa di vitale e che eserciti una funzione efficace nell’organismo della società, scendete dalle nuvole… Siate apostoli, profeti o poeti… ogni vostra pagina sia un’eco dei vostri dolori, delle vostre aspirazioni, delle vostre lotte… Gridate, urlate con noi, piangete, esaltatevi con noi… Noi non troviamo quasi nessun riflesso, nessun accenno di tutto questo nei vostri lavori d’arte e perciò buttiamo via il volume». Gli artisti avrebbero potuto rispondere che avevano sempre aderito a questi propositi, ma entro i confini della letteratura stessa c’era già la coscienza del rinnovamento. Capuana si sofferma su quella che definisce «la forma d’arte più specialmente moderna, il romanzo», che fino a Balzac era «una specie di fiaba per adulti» in cui «la fantasia… regnava da sovrana assoluta». Con Balzac penetrava nel romanzo l’idea dell’osservazione immediata del luogo e dell’ambiente e nessun angolo della vita rimaneva escluso dalla rappresentazione narrativa. 

Purtroppo Zola passò il confine con cui l’Arte rischia di non riuscire opera d’arte. È giusto trasportare il metodo positivo nello studio del soggetto e inserire nella forma una severità scientifica. Ma pretendere che l’opera d’arte potesse assumere valore scientifico, cioè .far servire la concezione artistica al preconcetto d’una teorica scientifica», è un’assurdità. Capuana ritiene che concetti scientifici, filosofici, religiosi, mistici, estetici hanno inquinato l’opera d’arte, e insiste sul tema centrale del suo discorso: «il carattere precipuo dell’opera d’arte consiste unicamente nella forma che ogni concetto vi prende». Prosegue polemizzando contro l’abuso di “dare al concetto una eccessiva preponderanza sulla forma», e arriva alla sua conclusione più determinante: «compito dell’Arte è creare, fare … concorrenza allo stato civile, mettendo al mondo creature superiori alle creature ordinarie pel fatto che sono creature immortali». Il loro valore sostanziale non consiste nel concetto ma nella forma, e la loro dimensione didattica è incidentale. Capuana cita due esempi estremi che mettono in risalto la perdita dell’equilibrio richiesto dall’atto creativo; l’Arte non deve essere strumento di mistica e sociale propaganda come vuole Tolstoi, e neanche una produttrice di bellezza come vuole D’Annunzio. Queste posizioni sottomettono la forma al contenuto, la letteratura al concetto. «La risposta più ovvia sarebbe l’Arte sia l’Arte e nient’altro che l’Arte… ha un’essenza sua propria, un organismo spirituale da non essere confuso con altri organismi spirituali». Capuana conclude il suo discorso auspicando che l’Arte riprenda la coscienza del suo precipuo valore consistente esclusivamente nella forma, riconoscendo che la sua funzione è veramente diversa da quella della Scienza, della morale e della religione. Il suo invito finale è rivolto agli scrittori maltesi: «che, tra i giovani studiosi qui cortesemente convenuti si trovi già un perfettissimo degenerato cioè un genio capace di produrre tale opera d’Arte da onorare fino alla fine dei secoli questa nobilissima isola alla quale esprimo davanti a voi il mio affettuoso e rispettoso saluto». 

Oliver Friggeri

(*) Abbreviazioni dei titoli dei giornali e di riviste maltesi: 
A – “L’Avvenire”; M. – “Malta”; M.L. – “Malta letteraria”; N. – “In Nahala”; R. – “Risorgimento”. 
(1) Cfr. M.L. I, 5, sett. 1904, pp. 139-144. 
(2) Cfr. A. Deni, Per il giubileo letterario di Luigi Capuana, M.L., VII, 71-72, marzo-aprile 1910, pp. 74-77. 
(3) A. Levanzin, Frak, N, III, 12C, 17/12/1910, p. 954.
(4) A.• I. 155. 13/12/1910. p. 3. 
(5) A., I, 157. 15/12/1910. p. 2.
(6). A. Levanzin. Luigi Capuana. M., XXVIII, 8136, 17/12/1910. p. 2. L’autore maltese racconta lo stesso episodio a Catania anche in N.• III, 121, 24/12/1910. p. 963.
(7) A., I, 158, 16/12/1910, p. 2. 
(8) N., III, 121, 24/12/1910, p. 963; A., I, 162, 21/12/1910, p. 2. 
(9) A., I, 164, 23/12/1910, p. 2. 
(10) N., III, 122, 31/12/1910, p. 971. 
(11) Cfr. M., XXVIII, 8145,28/12/1910, p. 2. 
(12) Cfr. R XXXV, 7921, 29/12/1910, p. ~; XXXVI, 7922, 2/1/1911, p.l.; XXXVI, 7924, 9/1/1911, p. 3; XXXVI, 7925,12/1/1911, p. 3; XXXVI, 7926,16/1/1911, p. 3; XXXVI, 7927, 19/1/1911, p. 3. XXXVI, 7928, 23/1/1911, p. 3; “Risorgimento” aveva già concesso ampio spazio alla visita di Capuana, dando un sommario delle sue attività letterarie e mostrando la propria stima nei suoi confronti (cfr. R XXXV, 7918, 19/12/1910, p. 3).
(13) A., I, 167, 27/12/1910, p. 2; cfr. anche M., XXVIII, 8140, 22/12/1910, p. 2.
(14) N., III, 121, 24/12/1910, p. 963. 
(15) Spectator, Il prof. commend. Capuana a Malta., R, XXXV, 7921, 29/12/1910, pp. 1-2.
(16) A. Mercieca, Le mie vicende, Malta, Tipografia San Giuseppe 1946, p. 92.
(17) Cfr. Arte e scienza – Conferenza dci prof. Luigi Capuana letta ieri nel Collegio Flores, A, I, 167, 27/12/1910, pp. 1-2.

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 29-29




 Giovani e famiglia nel trapanese* 

Premessa 

La ricerca che presentiamo riguarda il modo d’intendere e di vivere la famiglia e il rapporto dei giovani della provincia di Trapani. 

Essa è stata realizzata nei centri più grossi del trapanese (Trapani, Marsala, Mazara del Vallo, Castelvetrano, Alcamo, Castellammare, Salemi, Santa Ninfa), e cioè in una realtà socio-economica e culturale caratterizzata da un’economia prevalentemente agricola, scarsamente industrializzata e turisticizzata, con limitati stimoli culturali e scarsi centri di aggregazione per i giovani. Sono stati intervistati studenti dell’ultimo anno delle scuole secondarie. 

La nostra ipotesi di partenza era che l’accelerazione dei cambiamenti determinatisi nella nostra società nell’ultimo ventennio (lavoro extradomestico della donna, messa in discussione della vecchia famiglia nucleare fondata su ruoli gerarchici e rigidamente complementari, la parità dei ruoli socio-sessuali, l’evoluzione della morale sessuale) avessero prodotto dei cambiamenti nella mentalità delle giovani generazioni del Sud nel modo di concepire la famiglia, il rapporto di coppia e le relazioni al loro interno. 

Ho già evidenziato in precedenti lavori queste trasformazioni della famiglia1. Oggi, nelle società occidentali si è assistito ad una tendenza alla diminuzione dei matrimoni e all’aumento di individui che coabitano2. Tuttavia, da una fase (alla fine degli anni ’60) di ricerca di esperienze alternative alla famiglia nucleare, si assiste oggi ad una tendenza alla rivalutazione della famiglia, da parte della maggioranza dei giovani, per la sua funzione affettiva3. 

I giovani e la famiglia 

L’adolescenza è il periodo in cui il giovane tende a distaccarsi progressivamente 

dalla famiglia d’origine. 

Malgrado certe difficoltà che i giovani vivono in famiglia, questa rimane ancora l’istituzione da essi più apprezzata ed occupa uno dei primi posti nella scala dei valori dei giovani da noi intervistati, come hanno provato altre ricerche sull’argomento4. Essa è considerata ancora un punto di riferimento fondamentale dalla quale si hanno in fondo meno delusioni rispetto alla realtà esterna. Dalla mia ricerca del ’88 emerge che i giovani non vogliono abolire la famiglia ma cambiarla; essi vogliono definire le relazioni tra partner e tra genitori e figli. Della famiglia d’origine criticano soprattutto l’etica del sacrificio, che grava per lo più sulla donna, i rapporti autoritari, l’educazione sessuofobica. Solo una minoranza appartenente ai ceti medio-alti, e con livelli di scolarità alti, si pronuncia per la convivenza e per i rapporti liberi. 

Di fronte ai problemi che li preoccupano e quando devono prendere una decisione importante, i giovani preferiscono interpellare i genitori e ricorrere a loro per sostegno. 

La famiglia, oltre a costituire un valore e ad essere luogo di protezione, di aiuto, di consiglio. di conforto, è anche luogo di confronto e di scambio di idee. Essa ha influito, più di ogni altro fattore, sulla formazione delle idee dei giovani. 

Abbiamo chiesto ai nostri intervistati se dialogano coi genitori e di cosa. Sia le ragazze che i ragazzi hanno un maggior dialogo con la madre piuttosto che con il padre, e sono soprattutto le ragazze ad avere rapporti più diradati ed episodici col padre. I maschi hanno dichiarato in maggioranza di parlare con il loro padre di tutto. Gli argomenti vanno da quelli d’attualità ai problemi personali, a quelli della famiglia, della scuola, del loro futuro, alla politica, allo sport. 

Anche con la madre affrontano per lo più gli stessi problemi, ma non compare mai la voce «politica», mentre ricorre più spesso la dizione «miei problemi personali», «problemi sentimentali», come a significare che con la madre i rapporti sono di maggiore intimità, tali da potere confidare e chiedere consigli sulle proprie esperienze personali e sentimentali. 

Gli argomenti di dialogo delle ragazze col padre sono in prevalenza quelli scolastici ed argomenti generali, ma alcune indicano di «tutto» ed anche i «problemi personali e familiari». Gli argomenti di discussione con la madre sono, per la maggioranza, «di tutto» e poi «problemi personali e familiari », «problemi sentimentali», «scolastici», «di abbigliamento», «di amore». L’argomento che non ricorre mai nel dialogo coi genitori è il sesso. Ciò può significare che questo argomento è ancora tabù nel Sud, ma pare che la censura sul sesso emerga anche a livello nazionale dalla già citata ricerca JARD sulla condizione giovanile in Italia. Anche la voce «religione» non compare tra gli argomenti di dialogo coi genitori. 

Qual è l’immagine che i giovani da noi intervistati hanno dei loro genitori e le qualità che apprezzano di più in loro? 

Le qualità che i ragazzi apprezzano nei loro padri sono innanzitutto l’onestà e la sincerità, e poi l’intelligenza, la pazienza, la generosità, la disponibilità e l’amore per i figli, l’attaccamento alla famiglia e al lavoro. Qualcuno ha scritto che apprezza «il non essere un padre-padrone», ma qualche altro non apprezza alcuna qualità del padre. 

Anche le ragazze enucleano tra le qualità apprezzate nel padre, in primo luogo, l’onestà e la sincerità, seguite da amore per i figli, pazienza, laboriosità, generosità, spirito di sacrificio, amore per la famiglia, bontà, sicurezza e determinazione. 

I ragazzi apprezzano,della madre in primo luogo, la bontà, più la sincerità, l’onestà, l’amore per i figli, la pazienza, la laboriosità, la generosità, lo spirito di sacrificio, l’amore per la famiglia, la sensibilità. Qualcuno ha scritto anche che la madre è «una buona casalinga». Bontà, spirito di sacrificio, sincerità, dolcezza, amore per la famiglia e per i figli, capacità di capire i problemi, pazienza, laboriosità ed «è una buona casalinga» sono le voci ricorrenti anche da parte delle ragazze per indicare le qualità apprezzate nella madre. 

In linea di massima, sia da parte delle ragazze che dei ragazzi, vengono evidenziate nei genitori le stesse qualità, forse con una maggiore frequenza della voce «intelligenza» per i padri rispetto alle madri. Tuttavia, l’immagine parentale che ne risulta è nel complesso positiva. Agli occhi di questi giovani sono pochissimi i padri dei quali non si riconoscono qualità: e nessuna madre viene criticata, soprattutto in relazione alla dedizione ai figli e alla famiglia. E tuttavia, quella che viene fuori è un’immagine molto tradizionale di famiglia, soprattutto della madre, della quale vengono sottolineate qualità come «spirito di sacrificio», «una buona casalinga», che invece sono rifiutate dai giovani della mia ricerca già citata. 

Il tipo di famiglia che viene fuori dalle risposte dei nostri giovani è una famiglia democratica in cui le decisioni vengono prese, nella stragrande maggioranza, dai genitori di comune accordo; in cui essi dialogano coi figli da cui sono apprezzate le loro qualità. Ciò è confermato dai giovani espressamente quando affermano, nella stragrande maggioranza, di avere ricevuto un’educazione democratica. Ne emerge un’immagine di bravi ragazzi ubbidienti e con poca conflittualità familiare. 

Un po’ meno rosea appare la condizione delle ragazze, le quali, non solo in percentuale minore dei maschi, dichiarano di avere ricevuto un’educazione democratica, ma soprattutto è la metà di esse, rispetto ai maschi, che ha un atteggiamento di ubbidienza verso i genitori, ed è, di contro, il doppio rispetto ai maschi che asserisce di avere un atteggiamento di ribellione. 

Per quanto riguarda la situazione di autonomia-dipendenza, un rilevatore valido è la libertà di uscita serale. È infatti noto come questo fatto costituisca un problema in quasi tutte le famiglie ed è oggetto di contrattazioni talvolta difficili e di conflitti tra genitori e figli. Quando i giovani si possono ritirare quando vogliono, cioè senza limitazioni di rientro, vuol dire che l’autorità parentale ha riconosciuto un pieno diritto all’autonomia dei figli, e ciò si verifica solitamente dopo i 18 anni, che è l’età media del nostro campione. 

Dalla nostra indagine emerge una notevole differenza tra maschi e femmine circa questo problema. I figli maschi sono in stragrande maggioranza liberi di uscire quando loro pare; mentre meno di un terzo delle femmine, rispetto ai maschi, ha la stessa libertà di uscire. Questo quadro risulta confermato da un’altra domanda dalla quale si evince che 1’83% dei maschi e meno della metà delle femmine, pari al 37%, possono uscire e rientrare a casa quando vogliono, mentre una percentuale di ragazze del 24,67% deve rientrare prima delle otto ed una percentuale del 36,45%, contro il 13,51% dei maschi, deve rientrare prima delle dieci. 

Gli spazi di autonomia praticabili al di fuori della famiglia sono quindi molto più limitati per le ragazze che non per i ragazzi. Il che denota ancora una differenza di comportamenti e di atteggiamenti dei genitori nel processo di socializzazione ed educativo dei figli. Assai probabilmente ciò avviene in misura minore che in passato, come può notarsi dalle percentuali di ragazze che godono di maggiore libertà, e tuttavia, rimane evidente il differente modello di socializzazione tra maschi e femmine. 

Abbiamo visto che per la maggior parte dei giovani da noi intervistati la famiglia rappresenta ancora un valore importante. Non meraviglia perciò che una percentuale molto alta di giovani, pari al 71,87% dei maschi e all’88,04% di femmine manifesta la volontà di sposarsi, con una maggioranza significativa delle ragazze sui ragazzi; e, all’interno di questo quadro complessivo, una maggioranza di ragazzi, pari al 46,93%, si dichiari favorevole anche ai rapporti prematrimoniali, rispetto al 34,08% di ragazze, che pure rappresenta una percentuale notevole, mentre la maggioranza delle ragazze, pari al 53,96%, contro n 24,94% dei ragazzi si dichiara per il matrimonio senza rapporti prematrimoniali. Soltanto una percentuale dell’8,77% dei maschi e del 6,83% delle femmine sceglierebbe la convivenza fissa, mentre n 16,76% dei maschi ed il 3,79% delle femmine si dichiara favorevole ai rapporti liberi. Questi dati confermano nel complesso la mia precedente ricerca condotta con la raccolta di storie di vita. 

Abbiamo ancora chiesto ai nostri intervistati quali fattori considerassero più importanti in un rapporto di coppia, sottoponendo loro una lista di 9 fattori e chiedendo di indicare quale importanza essi avessero per ciascuno, servendosi di una scala di 9 punti (l = per nulla importante; 9 = molto importante). Il fattore più importante è per i nostri giovani l’amore, cui segue l’affetto, il dialogo, la comprensione, la conoscenza e poi il sesso, con una percentuale per questa voce inferiore delle ragazze sui ragazzi. L’aspetto di maggior rilievo è rappresentato indubbiamente dal primato accordato dai giovani all’affettività, alla tenerezza, al desiderio di dialogo e di comunicazione profonda. 

Per quanto riguarda i ruoli socio-sessuali, pur se la maggioranza dei nostri giovani si dichiara per il matrimonio, tuttavia, emerge un modo nuovo di concepire il rapporto di coppia, fondato sull’abolizione dei ruoli tradizionali e su una richiesta di sostanziale parità tra i sessi. Soltanto una minoranza, seppure ancora consistente di maschi, pari al 15,10% ed una percentuale, invece, minima di femmine, pari al 3,48%, dichiara che i lavori domestici dovrebbe farli solo la moglie. Una percentuale di circa n 43%, senza differenza tra M e F, si esprime in favore dei lavori fatti dalla moglie aiutata dal marito, mentre la maggioranza delle ragazze, pari al 52,01% a fronte del 38% dei maschi, si dichiara per una condizione di completa uguaglianza in cui marito e moglie si ripartiscono equamente i lavori domestici. 

Questo dato è confermato da una successiva domanda, nella quale si chiedeva se la donna sposata doveva o no lavorare fuori casa. La maggioranza delle ragazze è favorevole al lavoro fuori casa e per dividere i lavori domestici con il marito, contro il 38,22% dei ragazzi. Ma una grossa percentuale, pari al 39,45 dei maschi e al 47,88% delle femmine manifesta l’opinione che la donna debba lavorare fuori ma anche occuparsi della casa e dei figli, manifestando una posizione tradizionale, che è stata contestata dal movimento delle donne e qualificata come doppio sfruttamento femminile. Una percentuale abbastanza consistente, seppure minoritaria di maschi, pari al 20,24%, si esprime per la posizione tradizionale della famiglia, secondo il modello parsonsiano, di una netta separazione di ruoli: il marito che lavora fuori (funzione strumentale) e la moglie che si occupa della casa e dei figli (ruolo espressivo). Mentre è assai significativo che soltanto una percentuale minima del 2,18% delle ragazze esprime tale posizione. 

Quello che emerge da questi dati è la notevole differenza di mentalità tra maschi e femmine, in cui queste ultime appaiono più consapevoli del loro ruolo tradizionale di subordinazione ed esprimono un desiderio di cambiamento in direzione di una sostanziale uguaglianza uomo-donna. Tale prospettiva è confermata anche dalle risposte dei nostri intervistati circa il differente controllo esercitato eventualmente su un loro figlio o una loro figlia. 

Una percentuale assai rilevante di maschi, pari al 46,75%, ha risposto che sorveglierebbe di più la figlia rispetto al figlio, contro il 18.63% delle ragazze. Una percentuale del 49,64% dei ragazzi ha, invece, espresso una posizione di indifferenziazione nel controllo educativo di un figlio maschio o femmina, a fronte della stragrande maggioranza delle ragazze (77,88%), che ha manifestato questa convinzione di uguaglianza di trattamento. 

Conclusioni 

Come può notarsi, la famiglia rappresenta per i giovani da noi intervistati ancora un valore molto importante. Essa appare ai primi posti nella scala di valori dei nostri giovani e rappresenta ai loro occhi un luogo di sostegno. di protezione, di aiuto, di solidarietà, che è difficile trovare fuori, nel pubblico. 

I nostri giovani aspirano ad una famiglia più democratica e più dialogante. Si nota una maggiore apertyuar e liberalità nel rapporto ed una buona percentuale si dichiara favorevole ai rapporti prematrimoniali ed anche a situazioni di convivenza. Appare cioè un modo nuovo e più aperto di concepire il rapporto di coppia. Tra i fattori più importanti vengono privilegiati, l’amore, l’affettività, il dialogo, la comprensione, la sessualità, una comunicazione profonda. 

Infine emerge anche una differenza nella socializzazione e nel modo d’intendere i ruoli socio-sessuali, in cui le ragazze mostrano una maggiore consapevolezza e presa di coscienza in direzione di una relazione più equalitaria, fondata sul rispetto reciproco, l’uguaglianza ed una equa ripartizione dei compiti. 

Piero Di Giorgi 

(*) Le tavole che corredano questa ricerca per ragioni tecniche non sono state pubblicate. 

1. P. Di Giorgi, Adolescenza e famiglia, Janua, Roma, 1979; Il rapporto di coppia in giovani del centro-sud in «Libera Università di Trapani», A. VII, n. 15, 1988, pagg. 161-178. 

2. L. Roussel, La cohabitation juvenile en France in «Population», n. l, 1978, pagg. 1542; assieme ad Odile Bourguignon, Generations nouvelles et mariage traditionel. Enquete aupres des jeunes de 18-30 ans, in «Cahier traveaux et documents de l’Ined», n. 86, Press. Univ. de France, Paris, 1978. 

3. F. Garelli, La generazione della vita quotidiana, Il Mulino, Bo, 1984; A. Cavalli et alii, Giovani oggi. Indagine JARD sulla condizione giovanile in Italia, id., 1984; M.W., Ritratto di famiglia degli anni ’80, Laterza, Bari, 1981. 

4. Cavalli et alii, cit. 

 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 32-37.