Dante e l’arte del preludio: il canto I del Purgatorio (*) 

Il c. I del Purgatorio è, quasi per antonomasia, il preludio della cantica. E da tempo. Già nel lontano 1906 il D’Ovidio lo designava come tale fin nel titolo di un grosso volume in ·cui raccoglieva solo due saggi: uno, sul primo canto del Purgatorio, l’altro, su tutta la cantica. Il titolo era infatti: Il Purgatorio e il suo preludio e, se nella sua prima parte, Il Purgatorio, intendeva il secondo dei due saggi, nella seconda, il suo preludio, intendeva invece il c. I. Di conseguenza, diveniva Il primo canto del Purgatorio all’interno del volume, là dove serviva a titolare il primo dei due saggi suddetti. Si esplicitò in Il preludio del Purgatorio nell’edizione del 1932. Nonostante il titolo, però, il saggio stesso è solo una discussione, sia pure puntuale documentata e precisa, di tutta la problematica posta dai vari elementi del canto, una rassegna delle varie proposte interpretative analitica e minuziosa, in perfetta sintonia con la scuola del “metodo storico” allora dominante, che tuttavia tralascia ogni operazione di sintesi e di confronto con il resto della cantica, sicché ci lascia nell’attesa di conoscere i motivi per i quali quel 

canto è stato definito preludio. Studi posteriori, più propensi a definire valori poetici e non a discutere dati eruditi, hanno dedicato buona attenzione a questo valore proemiale del canto, ma senza fame oggetto di uno studio specifico e assoluto. 

Questo è invece quanto io, modestamente, intendo fare in questa sede, giovandomi certo delle indagini precedenti, ma mirando a comporle, con le opportune aggiunte, in una organica unità, che valga anche a fornire un altro dato dell’altissimo valore dell’arte del nostro Sommo Poeta. 

Desidero, insomma, dimostrare quanto sia appropriata la definizione di “preludio” data al canto, ove per preludio si intenda una scrittura che svolga il compito di introdurre ad un’opera non ponendo premesse o narrando antefatti – contenuti che si addicono meglio a un prologo o ad un proemio – ma anticipandone e sintetizzandone le sue caratteristiche, i suoi valori ed i suoi significati, persino le sue tonalità, insomma i suoi elementi essenziali e distintivi. Così come ‘accade, là dove ci sono, ai preludi di certi melodrammi lirici, spesso vere sintesi dei motivi dominanti nell’opera che introducono. Rispetto ad essi il preludio dantesco ha questo di diverso, che non è una parte a sé, nel qual caso avrei preferito dire “preludio al” e non “preludio del”, ma, come quelli, prepara i lettori ad entrare nell’atmosfera della cantica, ad avvertirli delle sue proprie qualità e condizioni. 

Il primo ‘movimento’ di questo preludio è già nell’esordio. Dante vuole predisporre quanti si accingono alla lettura della cantica a intendere, che essi si avviano a compiere con lui un viaggio singolarmente foriero di conoscenze utilissime a propiziare un’alta elevazione morale. Appunto perciò nel paesaggio che egli descrive occupa una parte prevalente il cielo •e i colori sono di una delicatezza e di una trasparenza davvero singolari. Anche il linguaggio si adegua: se, nella sua concretezza, insiste su termini espressivi di evasione e di elevazione: correr, surga, alza, salire, resurga”” poi, acquistando in levità, si fa notevolmente musicale e, in particolare, melodico. Anche per questo la dizione “preludio” è 

* Il presente articolo ha alla sua base il testo di una Lectura Dantis dallo stesso titolo da me letto nell’aprile del ’91 nell’ambito di un ciclo organizzato dal Comitato di Palermo della Società Nazionale “Dante Alighieri”.

quanto mai appropriata. Essa richiama quella virtù propria della musica che è la sua straordinaria capacità di astrarre e di attrarre, astrarre dalla logorante invadenza del quotidiano e del reale e attrarre verso un mondo rarefatto e sublime, tanto più affascinante quanto più i suoni sono pacati, coinvolgenti, stimolanti verso l’immaginazione. 

Si accentua, intanto, la differenza dal c. I dell’Inferno, che svolge anch’esso una funzione introduttiva ma al quale si addice meglio la qualifica di proemio o di prologo. In esso, infatti, ha luogo una presentazione piuttosto analitica sia della struttura del primo dei tre regni dell’oltretomba (vedi la corrispondenza fra le tre fiere e le parti in cui sono distribuite le tre specie di peccato) sia di tutto il viaggio da compiere (vedi le indicazioni delle sue fasi date da Virgilio). Di conseguenza, il canto risulta eminentemente informativo, quasi didascalico, un complesso in cui le stesse figure allegoriche hanno un che di rigido e di oggettivamente definito, che solo il criticismo dei commentatori – a questo punto della loro opera ancora freschi di energie – ha potuto sinistramente complicare, mentre la poesia, per parte sua, fiorisce solo quando l’apparizione di Virgilio suscita sentimenti di commozione, di ammirazione, di gratitudine unita alla coscienza di avere, per effetto della frequentazione delle opere di quel maestro e di quell’autore, rinnovato il miracolo di un’arte di ben altra tempra che non quella di certa farraginosa e goffamente ornata arte medievale. Giusta, dunque, la qualificazione di canto proemiale a tutta l’opera, che del resto corrisponde a una precisa intenzione del poeta, chiaramente comprovata da numerosi elementi di fatto. 

Nel c. I del Purgatorio, invece, il procedimento è un altro: più scorrevole e al tempo stesso più organico. Gli stessi simboli sono parte del paesaggio – lo ripeto in termini più espliciti -, elementi coloriti e luminosi o inseriti in esso o strettamente connessi con l’agire e il parlare delle figure, chiari prefazi di una bella e ambita catarsi. È per queste ragioni che, mentre il 1° dell’Inferno è un ‘a parte’, un canto tenuto al di fuori del numero mitico dei 99, il 1° del Purgatorio non è distaccato dagli altri. Si direbbe che il dolce “licor” “nato” dalla stupenda visione di quel regno si compendia in quel canto e da essa poi “si distilla” nei singoli episodi e nelle singole. figure. Il risultato è una superba omogeneità delle tematiche, delle figurazioni e dei toni che conferisce al Purgatorio, rispetto alle altre cantiche, una maggiore unità, anche esteriore. 

Di fronte a questa tonalità poetica complessiva della cantica, di cui il c. I vuole partecipare, al tempo stesso in cui vuole preannunciarla, perdono diversi gradi di importanza le discussioni intese ad accertare il valore logico di certe espressioni o l’esattezza scientifica di certi dati. Fa parte di queste discussioni, per esempio, la ricerca dell’esatto, significato di “primo giro” Cv. 45) o della corretta grafia di “adorezza”, così come serve solo ad appagare l’orgoglio degli eruditi la scoperta – davvero straordinaria! – che nel 1300, l’anno dell’immaginario viaggio di Dante nell’aldilà, la stella di Venere era vespertina e non mattutina come la vede Dante ai ‘0’. 19-21. Di conseguenza, o Dante è incorso in un errore astronomico o bisogna spostare in avanti di un anno il suo viaggio. Risponderò con U. Bosco1, che l’accusa è immeritata e lo spostamento non necessario. In verità, a Dante, qui, la stella di Venere serve per aggiungere un tocco di luminosità ad un paesaggio che deve, prima di tutto, ristorare il pellegrino dal lungo e deprimente tribolare nelle tenebre e tra le pene dell’inferno e a far coincidere felicemente l’inizio di una fase nuova del viaggio con l’inizio di una nuova giornata, nonché a improntare a sentimenti di amore nel senso più lato la vita delle anime e i rapporti tra loro e con Dante. Quale elemento più e meglio dell’astro di Venere – “Lo bel pianeta che d’amar conforta/faceva tutto rider l’oriente”, (vv. 19-20) raduna in sé tutti questi motivi di idoneità a soddisfare le esigenze poetiche di Dante? Venere, dunque, anche se ciò comporta una inesattezza scientifica – che poi è una delle pochissime – Venere, perché un tale astro rende tanto copiosamente sul piano dei valori pittorici e poetici. Così come le quattro stelle che Dante vede splendere subito dopo, quando si volge verso il polo antartico. L’erudizione di taluni commentatori vi ha ravvisato la Croce del Sud, postulando a sostegno di tale tesi mezzi piuttosto inverosimili attraverso i quali Dante poté conoscerne l’esistenza. Ma è tesi che cade sconfitta da questa acuta osservazione del Porena2: “Se Dante avesse avuto notizia della Croce del Sud… come avrebbe potuto dire che quelle stelle erano state viste solo dalla prima gente?” (Avrebbero infatti dovuto veqerle anche questi ipotetici informatori di Dante). Invero, non si vede che necessità ci sia di dare un nome a queste stelle. Il loro valore è soltanto simbolico e funzionale. Infondono, assieme a Venere, la gioia della luce al cielo e quindi al paesaggio, concorrendo con esso a procurare altra distensione all’animo aduggiato del pellegrino: preparano una perfetta corrispondenza con le tre altre che le sostituiranno verso l’ora del tramonto, quando Dante si troverà nella valletta dei principi, e che verranno a completare il quadro etico-dottrinario delle virtù – cardinali le prime, teologali le altre -; illuminano di una luminosità quasi solare il volto di un venerabile vegliardo, Catone l’Uticense, che verrà subito a stagliarsi con la maestosità della sua figura sullo sfondo di quello splendido scenario naturale. Al tempo stesso esse forniscono la prima esplicita affermazione del possesso, da parte dell’insigne vagliardo, di quelle doti morali per cui Dante lo ha scelto a ricoprire il prestigioso ruolo di signore del Purgatorio. 

Dico signore, e non guardiano o custode, come comunemente si dice, giacché il potere di cui Catone è investito è quello di balio o baiulo, e balio o baiulo (dal fr. balif o baiili, a sua volta dal lat. baiulus) era infatti nel Medio Evo, fin dai tempi di Filippo Augusto (1180), il funzionario regio dotato di ampi poteri giurisdizionali oltre che amministrativi, quasi un rappresentante del re. Molto esattamente il Sapegno3 spiega “balia” (v. 66) con “governo”. 

Questa presenza di Catone nel Purgatorio è stata da tempo oggetto di alcuni stupiti interrogativi. Catone infatti, razionalisticamente interpretato, avrebbe tanti motivi per restare escluso da ogni ‘salvezza’ cristiana. Fu infatti un pagano, un anticesariano, un suicida. Tuttavia, per Dante, tali qualifiche non sono affatto proibitive. Catone è uno di quei pagani che, in forza dell’eccezionalità di certe loro doti intellettuali e morali, hanno meritato di essere considerati da Dante, e non solo da Dante, come uomini, appunto, eccezionali e quindi assumono nelle pagine del Poeta valore di simboli. A parte Virgilio, la cui valutabilità di cristiano ante liiteram era un dato acquisito dalla cultura medievale e che quindi basterebbe da solo a dar peso a questo giudizio di Dante su certi pagani. si pensi a Enea, accostato all’apostolo Paolo, si pensi a Rifeo e a Traiano, già assurti all’eccelsa dignità del Paradiso, e si pensi pure ai tanti altri personaggi celebri del mondo antico, anche musulmano, che vissuti da buoni anche se estranei alla fede di Cristo, Dante, spinto da un giusto sentimento di simpatia umana, .colloca fuori dell’Inferno, nel Limbo, arditamente contraddicendo la sentenza di S. Tommaso che dal Limbo appunto esclude gli adulti non battezzati, in quanto non accetta che vi siano adulti ancora macchiati dalla colpa originale che non siano anche rei di peccati attuali (Summa I, Il, 89,6). Rispetto ad essi, Catone è in una condizione ancora migliore. Ha l’alto vantaggio di essere stato chiamato da Cristo fuori dal Limbo assieme ai Patriarchi e di essersi quindi assicurata la beatitudine celeste da fruire in uno con il corpo quando questo risorgerà nel giorno del giudizio universale: “la vesta che al gran dì sarà sì chiara” (v. 75). Pagano sì, dunque, ma pagano d’eccezione, tanto che già alcuni scrittori pagani avevano visto in lui dignità quasi divine. Seneca il retore, ad esempio, aveva a1Termato (nel proemio alle Controversiae): “Quale soprintendente alle cose sante potrebbe trovarsi la divinità se non Catone?” E Lucano (Phars. 9,554 s.; 601 s.) faceva eco: “Gli dèi non avrebbero potuto dare gli arcani e dire la verità a uomo più degno del santo Catone, che era degnissimo di esser posto sulle ,are di Roma”. Riprendendo questi giudizi, accettati per altro anche da autori cristiani, Dante già nel Convivio (IV, 5 12 e 17) e poi nel De monarchia (2, 5, 15) , elogiando l’inenarrabile sacrificio di Catone e illustrandone il valore di atto inteso ad accendere l’amore per la libertà, conclude con il nome di Catone un elenco di romani segnalatisi per le loro eroiche cirtù e li chiama non “umani” cittadini ma “divini”. Dichiara inoltre di ritenere che essi poterono compiere le loro “mirabili azioni non senza alcuna luce della divina bontade aggiunta sopra la loro buona natura” (Conv. IV, 5, 17). Sicché, quando poi interpreta allegoricamente il racconto di Lucano sul ritorno di Marzia a Catone dopo la morte di Ortensio suo secondo marito, vi vede il ritorno dell’anima a Dio e arriva a esclamare: “E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio che Catone? Certo nullo”. (Conv. N, 28, 15]; Su queste qualità divine di Catone tornerò più avanti. Qui mi limito a notare che la rilevata eccezionalità di Catone è significata anche figurativamente dal suo stato di maestosa e statuaria solitudine sulla solitaria e singolare spiaggia del sacro monte della salvezza. 

La paganità di Catone non ha dunque costituito ostacolo per il conferimento dell’alto ufficio cui l’hanno preposto la fantasia poetica e la fede cristiana di Dante. Ma non ha costituito ostacolo neanche il suo anticesarismo che pure, nella sostanza poteva significare opposizione ai disegni della Divina Provvidenza, coadiutrice manifesta, almeno secondo l’interpretazione cristiana, dell’unificazione territoriale operata da Cesare quale struttura propizia alla diffusione del Cristianesimo. In realtà, il fatto per Dante non ha rilevanza, tant’è che ad esso neanche accenna. Né so quanto sarebbe colpa imputabile a Catone, mancando certamente a lui, tra le sue pur numerose virtù, quelle profetiche. Che se poi ha in sé una parte di errore, da esso lo riscatta, oltre alla sua involontarietà. il suicidio, gesto a cui così si aggiunge altro valore positivo oltre a quello che gli era stato riconosciuto da alcuni, tra i quali pure Cicerone (de off. 1,31, 111), che lo aveva esaltato come atto dovuto nella particolare situazione in cui Catone si era venuto a trovare, quel Cicerone che pure nel famoso passo del Somnium Scipionis (de rep. 6, 15) condanna fermamente il suicidio. Lo giustificava, invece, in linea di principio, la morale stoica, di cui Catone era seguace e che Dante stesso ammirava – perché riteneva coincidesse in più punti con la cristiana -. poco curando che Agostino e Tommaso l’avevano respinta proprio nelle sue tesi sul suicidio e che il secondo. anzi. aveva esplicitamente condannato quello di Catone. Tuttavia: precisa il Bosco4, Dante trovava in entrambi eccezioni alla condanna. Rientrava fra queste il caso in cui il suicidio viene ispirato proprio da Dio perché sia di esempio agli uomini. Proprio di tal tipo pareva a Dante il gesto dell’Uticense che si diede la morte – dirò con U. Bosco5 – “non per motivi personali ed egoistici (lo sdegno per la sconfitta di Tapso o il timore di dover sottostare al tiranno) ma per sancire con il rifiuto di vivere il valore della libertà e insegnare l’amore”. Il suicidio di Catone vale quindi come esempio ed anzi, sulla base di quanto detto – e qui sopra riferito – nel Convivio e nel De monarchia, a Dante esso appare come il supremo degli atti eroici. un atto che gli uomini non possono compiere se non ispirati dalla luce divina: esso vale anche come attestazione di capacità di vincere il più forte degli istinti umani, quello di conservazione. Dante autore, allora, ha dato altra prova di coerenza logica ricordando il valore di tale gesto proprio nel momento in cui Dante personaggio si accinge a quella salita del monte che doveva appunto dargli, prima di tutto, la libertà dagli istinti. 

Catone, dunque, in Purgatorio nonostante suicida: direi anzi, proprio perché suicida. Per le ragioni che ho esposte e per altre. che ora esporrò, e che spero diano conto della sua collocazione in questo preludio e del risalto che in esso ha. 

Iniziamo col dedicare altra attenzione a ciò che Dante ha ripetutamente detto della “divinità” di Catone. Subito dopo ricordiamo la funzione di “baiulo” che gli è affidata e che egli puntualmente svolge in questo canto e nel successivo; ricordiamo anche l’atteggiamento di massima riverenza che Dante tiene nei suoi confronti, sollecitato da Virgilio che “con parole e con mani e con cenni” (v. 501) cioè con somma premura, lo ha fatto inginocchiare, e inginocchiato e col capo chino lo ha tenuto per tutta la durata dell’incontro. Tutto questo significa che Catone è per Dante uno dei più alti ministri di Dio, forse più degli stessi angeli, quasi una figurazione sensibile dell’Altissimo. Al tempo stesso, egli è primo testimone e maestro – con la forza del suo valore simbolico e delle indicazioni operative che dà e che più di lunghi discorsi dottrinari gli conservano tutti i tratti di romano autentico – di ciò che significhi esattamente la libertà che Dante va cercando. Che non è, semplicisticamente, la liberazione dal peccato, perché questa è solo il mezzo per giungere, incontro dopo incontro nel corso del viaggio, alla conquista di quella condizione dello spirito umano. veramente nobile ed eccelsa, che consiste nella piena e consapevole capacità di operare in perfetta serenità le rinunzie, tutte le rinunzie dalle quotidiane alle estreme, imposte dall’obbligo dell’ossequio ai doveri connessi con le cariche e le ideologie 

responsabilmente accettate. Questa è la vera libertà. e se la lezione, resa più valida dal suo essere più pratica che teorica – vedi il rifiuto delle “lusinghe” avanzate da Virgilio – viene impartita da un uomo politico, contiene un implicito ma chiaro anche se finora poco evidenziato monito a quegli uomini politici che con tanta e tanto colpevole disinvoltura violano la moralità. Anche perché, se è vero che politica e morale appartengono a due categorie ontologiche diverse, tanto che si saluta con plauso in Machiavelli “il fondatore di una nuova scienza, lo scopritore della politica come forma della vita spirituale, distinta dalla moralità, con fini e metodi suoi propri”6, è pure vero che Dante, che tra l’altro non poteva aver letto Machiavelli, parlava, anzi poetava, sotto la spinta di una sofferta esigenza di una profonda moralizzazione della vita politica. Proprio come la soffriamo ai nostri giorni noi, allibiti spettatori di tanti loschi abusi. 

In Catone dunque si celebrano lo spirito di rinunzia e la pratica del dovere. Sono altri elementi della funzione che egli svolge nell’ambito di questo preludio, perché le anime poste “sotto la sua balia” (v. 66) compiono proprio mediante l’esercizio di queste virtù la propedeutica alla beatitudine celeste, che è soprattutto distacco progressivo dalla terra e dalle sue lusinghe e totale adeguamento della propria volontà a quella di Dio, come splendidamente enuncerà Piccarda: “… è formale a esto beato esse / tenersi dentro a la divina voglia, / per ch’una fansi nostre voglie stesse”. (Par. 3, 79-81). In definitiva, la libertà che Dante va cercando è anche la sublime misteriosa consonanza della libera volontà con la Prima Volontà e quel Catone di cui egli ha compiuto, dice il Sapegno7, “l’esaltazione e quasi la deificazione” ne è chiarissimo preannunzio e stimolante modello. 

Assieme alla rinunzia e al dovere si richiama e si celebra in questo preludio un’altra norma di vita da osservare da parte di chi è ammesso a soggiornare nel sacro monte ed essenziale per il conseguimento della redenzione: l’umiltà. L’ingresso in questa condizione di spirito si compie nella forma propria di un vero atto liturgico: la cinzione del giunco attorno alle tempie dell’espiante. È il primo dei numerosi atti religiosi cui assisteremo con Dante nel corso del suo progressivo ascendere verso le coreografie e i canti dei beati del Paradiso e che nel Purgatorio culmineranno nella trionfale processione che si snoda solenne tra i corsi d’acqua, i fiori e le rigogliose piante del Paradiso Terrestre, popolata di figure e di simboli, densa di effetti visivi e di significati profetici. Il tutto, in questo episodio come negli altri, sullo sfondo di un paesaggio perfettamente consono alle esigenze di anime che fanno quasi tutt’uno con esso, luminoso in rapporto con le ore del tempo, dimensione ormai recuperata dopo la notte incessante dell’Inferno per essere poi annullata dall’eternità della luce nel Paradiso. 

 

Il rapporto fra scena ed azione è curato anche in occasione del rito propiziatorio dell’umiltà. Il paesaggio, con la dominante “dolcezza” dei colori dei suoi elementi, mira a infondere serenità e ad essa è improntato. Lo stesso moto delle onde di un mare altre volte crudele – si ricordi che è quello stesso che ha inghiottito Ulisse e i suoi compagni – è ridotto a un poeticisimo tremolare (che non a caso ritornerà in uno dei più pittorici versi di G. D’Annunzio) sfavillante in un incantevole brillio. È anche questo un significativo prodromo di quella pacatezza e medietà di toni che sarà la nota dominante, anzi la caratteristica tonale di tutta la cantica al tempo stesso in cui contrassegnerà la condizione sentimentale delle anime, garantendo loro di compiere in serenità, oltre che in fiducia, la dovuta attesa, più o meno lunga che sia. 

Un vero dono, questa serenità, un magnifico dono di cui noi uomini d’oggi avvertiamo un desiderio struggente e per di più vano perché, dominati come siamo dall’attrattiva dei beni materiali, non riusciamo mai ad aver pace o quiete e la serenità dello spirito resta, ahimé, una realtà solo vagheggiata, quasi addirittura negata. 

Gustiamola almeno nella poesia di Dante. 

Antonino De Rosalia

(l) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia a cura di U. BOSCO e G. REGGIO, Purgatorio, Firenze (198510) (=19791), p. 15.
(2) cit., da G. REGGIO, comm. cit., p. 15. 
(3) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia a cura di N. SAPEGNO, Purgatorio, Firenze 19853, p. 10.
(4) op. cit., p. 12. 
(5) ibidem
(6) N. SAPEGNO, Compendio di storia della letteratura italiana, II, Firenze 1959, p. 68. 
(7) op. cit. pp. 7-8.

Da “Spiragli”, anno VI, n.6, 1994, pagg. 19-27.




Palermo 1890, terra promessa nella visione romanzesca di Paul Bourget 

di Jean Paul De Nola 

Più di una volta – in altri momenti, piuttosto remoti, ed in altre sedi1 – ho avuto la grata occasione di attirare l’attenzione sulla presenza in Sicilia nell’inverno 1890-91 del romanziere francese Paul Bourget e della giovane moglie, Minnie David, e sulle ricadute letterarie di tale soggiorno. 

La ricaduta più importante sarà il romanzo La Terre Promise, concepito nella capitale dell’isola – più precisamente nell’Hotel de France2 in piazza Marina -, steso tra settembre del 1891, a Beaulieu, ed aprile dell’anno successivo, a Roma, per essere pubblicato a Parigi nel 1892. 

La trama del romanzo si svolge a Palermo da novembre 1886 a febbraio 1887, dunque più o meno la stessa stagione durante la quale lo scrittore aveva soggiornato in città, il che gli permette di darci osservazioni meteorologiche concordanti, e che lo sono rimaste. Il novembre siciliano, soave e luminoso, si oppone al novembre parigino, «freddo, sinistro e nero». Dicembre resta clemente, ma riserva anche giornate di pioggia torrenziale, di vento scatenato, di scirocco polveroso e bruciante, che contrasta con certe albe fredde dell’ inverno isolano. 

Il titolo La Terre Promise potrebbe alludere alla città climatica di Palermo e alla sua Conca d’Oro, la cui aria pura garantiva – in quel tempo! – un miglioramento rapido per i malati e una guarigione completa per i convalescenti. Ma quella «Terra Promessa» indica piuttosto il lido sereno e piacevole ove presume di approdare uno scapolo parigino, Francis Nayrac, dopo aver lasciato il mare tumultuoso delle avventure prenuziali; si tratta della felicità tranquilla che il matrimonio con una giovane di ottima famiglia e alta moralità permette di sperare. Ma tale speranza non verrà esaudita, perchè il diavolo ci metterà la coda. 

Nello stesso albergo che Nayrac ha scelto per trascorrervi un inverno gradevole in compagnia della fidanzata, Mademoiselle Henriette Scilly, e della futura suocera, convalescente, in quell’albergo – che Bourget chiama «Hotel Continental» – sbarca, senza averlo fatto apposta, la sua ex-amante, da lui accusata dei più neri tradimenti, ma la cui innocenza risulterà alla fine palese. Quella signora, Pauline Raffraye, diventata vedova, e gravemente malata, è madre di una ragazzina, Adèle, la cui paternità è da attribuire a Francis. Questi ritiene che Madame Raffraye sia venuta a Palermo per ricattarlo in presenza delle due donne virtuose, madre e figlia, che ignorano tutto del suo passato libertino. 

A questo punto bisogna segnalare che Bourget si definiva – in qualche preziosa confidenza che ho raccolta nel mio libro Paul Bourget à Palerme (cit.) – «adolphiste», cioè incapace di troncare, al momento del matrimonio, ogni precedente legame, proprio come il protagonista dell’ Adolphe di Benjamin Constant non riusciva a formalizzare la fine del suo amore per ElIénore. Ora, con tre antiche fiamme il romanziere non si era ancora deciso a rompere definitivamente. Si tratta probabilmente di tre belle Israelite, tutte e tre maritate: la Triestina Louise Morpurgo, sposata con il banchiere Louis Cahen d’Anvers, la di lei cognata, Louila Warschawska, Ucraina, moglie del compositore Albert Cahen d’Anvers (che possedeva un castelletto settecentesco a Champs-sur-Marne), e Maria Warschawska, sorella di Louila e consorte di Edouard Kahn. Dobbiamo queste rivelazioni alla grossa monografia di Michel Mansu3, anche se ho dovuto «sollecitare» molto il testo di questo studioso, particolarmente discreto e reticente quando si tratta di svelare rapporti sentimentali, che lui sa annegare nel mare dei particolari eruditi. 

Nei tormenti dove si dibatte il fidanzato Francis Nayrac è lecito vedere una proiezione autobiografica del timore di Bourget, novello sposo, di vedere apparire nella hall dell’ Hotel de France una di quelle tre pregresse «ispiratrici»: Louise, Loulia o Maria … Possiamo aggiungere che Minnie David, Ebrea anche lei, come le famiglie Cahen, Morpurgo, Poliakoff, Warschawska, e probabilmente Kahn ed Ephrussi – che Bourget frequentava a Parigi -, era stata «demoiselle de compagnie» in casa di Louise Cahen d’Anvers. E aggiungiamo ancora che Minnie «était persécutée par le souvenir du passé de son mari dont elle [était] jalouse si curieusement et rétrospectivement»4. 

A proposito, come si comporta Francis in presenza dell’inaspettata signora? Si lascia prendere dal panico e si conduce maldestramente. Non riuscirà a farsi perdonare da Madame Raffraye le sue ingiuste offese, ma nello stesso tempo vede rompere irrevocabilmente il fidanzamento con Mademoiselle Scilly, la quale decide di votarsi ormai a Dio per espiare le colpe dell’ex-fidanzato, colpevole di aver abbandonato la piccola Adèle, colpevole soprattutto di aver mentito e recitato la commedia. 

La Terre Promise appartiene alla seconda maniera di Bourget, quella che inizia nel 1889 con Le Disciple, per culminare nel 1901 con la conversione completa dello scrittore al cattolicesimo. Il romanzo ottempera quindi ad una triplice direttiva letteraria: la psicologia (analisi delle anime tormentate di Francis, Henriette, Pauline), l’idealismo (pittura dell’ alta borghesia, ben vestita e benpensante, della Belle Epoque) e la moralità (implicita condanna dell’ adulterio, del mancato riconoscimento dei figli naturali, della menzogna). 

Esistono due testimonianze inedite sulla permanenza palermitana di Paul Bourget e di sua moglie Minnie David: i diari di viaggio della coppia, che ho potuto consultare nella biblioteca dell’Istituto Cattolico di Parigi, e anche citare e commentare nel mio articolo «Nouveaux témoignages sur la présence de Paul et Minnie Bourget en Sicile» (cit.). Ma laddove i quaderni napoletani del romanziere – pubblicati, insieme a quelli della moglie, da M.me Martin-Gistucci5 – contengono note erudite che svelano uno studio approfondito delle opere d’arte viste (chiese, tombe, statue, affreschi, quadri), non c’è nei diari palermitani del Nostro alcun accenno alla città di Palermo o ai paesaggi isolani. Non vi troviamo altro che commenti di letture, pulsioni narrati ve, qualche verso improvvisato, alcune citazioni di autori. Non c’è, ripetiamolo, alcuna annotazione relativa a monumenti od opere d’arte; a maggior ragione non c’è alcuna scenetta schizzata al vivo, alcuna menzione delle persone conosciute sul posto. Un tale diario Bourget avrebbe potuto tenerlo tanto a Parigi, a casa sua, quanto a Palermo, all’Hotel de France; non è affatto una relazione di viaggio. 

Anche Madame Bourget ha lasciato nelle sue pagine siciliane solo appunti di letture, meditazioni, poesie, a parte due relazioni di gite fatte a Girgenti (in compagnia del principe Francesco Lanza di Scalea) ed a Segesta, tanto per far cosa gradita al marito: «Paul desidera che io scriva a memoria tutto quanto potrò ricordarmi sulla Sicilia, perché il nostro soggiorno in questo paese non rimanga senza frutto per il mio sviluppo morale»6. 

Ma almeno il romanzo le cui vicende Bourget decise di ambientare a Palermo, La Terre Promise, l’avrà ispirato un po’ meglio di quanto lo lasciano presagire i suddetti diari di viaggio o anche quelle Sensations d’/tafie (1891), che non varcano lo Stretto di Messina? In altre parole: il romanzo ci offre un’evocazione di Palermo negli anni 1890? Temo proprio di no: questa città per lui non è altro che una scenografia teatrale. La trama si sarebbe potuto svolgere parimenti ad Algeri, al Cairo o nell’isola di Madera, gli altri luoghi climatici che i medici di quel tempo consigliavano ai propri pazienti. 

La scena è allestita, non lo neghiamo: vediamo per esempio Villa Tasca, magnifico giardino subtropicale. Questo sito si presta ad una descrizione diurna e soleggiata (nel l° capitolo de La Terre Promise) e ad un’altra, notturna e sepolcrale, nel capitolo V. Romanticamente, le due descrizioni riflettono lo stato d’animo, prima sereno, poi disperato, del protagonista del romanzo. O vediamo l’ Hotel Continental, costruzione ottocentesca che doveva sorgere nell’area occupata oggi dal parcheggio del Jolly Hotel: l’edificio era dotato di un terreno da tennis, di una cappella anglicana e di un tempi etto greco. Ma probabilmente il romanziere ha inventato quell’Hotel Continental, perché il fabbricato di cui i vecchi Palermitani conservano la memoria non era destinato a funzioni alberghiere. 

Comunque, dalle finestre della rotonda di quell’albergo immaginario si scopriva un triplice panorama: il mare; il Foro Italico (già Borbonico), i due porti (mercantile e di diporto), il Monte Pellegrino; la città e la Conca d’Oro. 

L’autore ci porta a spasso nel Giardino Inglese, nei cui dintorni Madame Raffraye affitterà un villino; si passa da Monreale e dal sobborgo della Rocca; troviamo qualche accenno alla Cattedrale, ai musei, ai Quattro Canti di Città. Ma Bourget non si ricorda il nome del Corso Vittorio Emanuele, che fu il Cassaro degli Arabi, la Via Marmorea dei Normanni, la Via Toledo degli Spagnoli. D’altronde anche Goethe, nella /tafienische Reise, si mostra poco preciso: parla semplicemente della «strada più lunga», che percorre la città «dal mare fino alla montagna» (che sarebbe l’attuale Corso Vittorio Emanuele, con il prolungamento di Corso Calatafimi). 

Tutto questo rimane visibilmente una scenografia composta di alcuni must turistici. Nessun rapporto lega i quattro principali personaggi, frequentatori di Cosmopolis, alla popolazione cittadina. Appena troviamo un riferimento alla «strette botteghe dove i mercanti stanno silenziosi ed indifferenti come nei bazar turchi» ed alle «vetture cariche di finocchio e dipinte con scene rozzamente colorate». A prescindere da questi due accenni rapidi, il popolo ed il colore locale non occupano nessun posto nel libro; questo non deve stupirci, perché nel 190l vedremo che i quaderni napoletani del romanziere non daranno spazio all’atmosfera particolarissima della città più pittoresca d’Europa (anzi, la sola città orientale che non abbia un quartiere europeo, come disse un viaggiatore). 

Dirò di più: non solo i personaggi della Terre Promise non hanno contatti con il popolo, non speravo tanto, ma essi non tengono rapporti con i ceti alti della città dove trascorrono quattro mesi della propria vita. «Non conosciamo nessuno in città», dice Madame Scilly. E infatti la signora, la signorina e il giovane non prendono i pasti nella sala da pranzo dell’albergo, possibile luogo di socializzazione, ma nel salotto della propria suite; essi non visitano quasi mai la sala di lettura dell’esercizio, scendono a malapena in giardino, hanno portato con sé i propri domestici da Parigi. Guardando da più vicino, scopriamo che frequentano lo stesso, per necessità, alcune persone: alla cattedrale, il confessore, Francese per caso; il medico che hanno scelto, il dottor Teresi, che ha lo studio in via Maqueda e parla ottimamente la loro lingua; gl’impiegati della banca7 dove i nostri villeggianti hanno a che fare, impiegati che Mademoiselle Scilly tratta comicamente da «maffiusi» (alla siciliana, ma con doppia f). 

A questi tre tipi di frequentazione forzata – il prete, per la salvezza dell’ anima, il medico, per la salute del corpo, la banca, per i bisogni del portafoglio – si aggiunge, pure per forza, la figura del proprietario dell’ albergo, il cavaliere Francesco Renda, ma si tratta di un personaggio talmente senofilo e anglomano che egli rimane Italiano solo per l’anagrafe: mandava a Londra il bucato da lavare! 

Neanche Pauline Raffraye conosceva a Palermo qualcuno al di fuori del proprio medico. 

Nondimeno Paul e Minnie Bourget avevano conosciuto la buona società isolana durante quei mesi della loro permanenza: esponenti dell’ aristocrazia, come i principi Lanza di Scalea, Lanza di Trabia e Tasca di Cutò; letterati come Ferdinando di Giorgi, Federico De Roberto, Giuseppe Pipitone Federico, Ignazio Virzì; giocatori al Club Geraci8 ed al Circolo degli Avvocati; andavano talvolta a teatro (Garibaldi, Mangano, Massimo). Si ha l’impressione che la coppia francese considerava Palermo una città coloniale, dove gli stranieri escono raramente dai quartieri «bianchi». Sappiamo che, se Palermo possiede certi rioni di origine e apparenza araba, ne ha altri, contrariamente forse alla Napoli ottocentesca, dove ci si potrebbe credere a Parigi o a Milano. Fino a ieri qualche signora degli ambienti consolari si spostava unicamente dal Circolo della Vela a Villa Igiea e dali’ Hotel des Palmes al Club dell’Unione, ignorando tutto della miseria, dei misteri e del fascino dei quattro antichi mandamenti. A dir il vero, bisogna osservare che gli amici siciliani dei Bourget non facevano nulla per incoraggiare l’interesse per gli aspetti popolari della città. Non leggiamo nel diario intimo di Ferdinando di Giorgi9 che un movimento di curiosità dei coniugi Bourget che li spinge ad entrare in un teatro dei pupi è oggetto della sorpresa un po’ scandalizzata del giovane dandy? In ogni modo, né l’osservazione del ceto basso, né l’amicizia con la gente più raffinata hanno lasciato tracce nel romanzo, forse neanche nella memoria di Paul Bourget. I personaggi del suo romanzo si muovono dunque davanti ad una scenografia di cartapesta. 

Il resto della Sicilia non è trattato meglio della capitale, se eccettuiamo un viaggio in ferrovia da Palermo a Catania10, che fa apparire agli occhi di Francis Nayrac alcuni scorci sul paesaggio: mare, monti e pianure. Catania è definita «una strana città dove le circostanze lo imprigionavano». Quella «stranezza» della città etnea non è spiegata, ma la possiamo attribuire facilmente alla nerezza della pietra lavica servita alla ricostruzione, e alla monotonia della pianta urbana, tracciata con la funicella dopo il disastroso terremoto del 1793. 

I dintorni della città, per quanto aspri siano, svegliano un certo interesse nel romanziere ed offrono un contrasto con il paesaggio ameno che circondava Palermo. Contrariamente alla teoria romantica della natura vista attraverso uno stato d’animo – il paesaggio sembra allegro quando siamo felici, pare triste quando riflette la nostra tristezza11 – Bourget crea qui un’opposizione a forma di chiasmo: angosciato, Francis non sopportava più l’orizzonte tranquillo di Palermo, mentre la cupa landa etnea gli procura quasi un sollievo. 

Si può concludere che, sia nella Terre Promise che in un successivo romanzo, ambientato a Roma, Cosmopolis (1893), le due città – il capoluogo dell’isola e la capitale nazionale – forniscono all’azione dei due romanzi solo uno sfondo intercambiabile, dato che Bourget non vuole dipingere un ambiente caratteristico, ma l’alta società internazionale, chiaramente spersonalizzata, e che egli mira soprattutto alla «verosomiglianza complessiva», per forza un po’ opaca, del paesaggio urbano e naturale12. 

Jean Paul De Nola

NOTE 

1 Paul Bourget à Palerme et d’autres pages de littérature française et comparée (Paris, Nizet, 1979). Il volume contiene quattordici lettere inedite di Paul Bourget nonché un «pasti che» dello stile del romanziere francese, Un viaggio di Larcher in Sicilia, dovuto allo scrittore palermitano Ferdinando di Giorgi (1869-1929). 
– «Nouveaux Témoignages sur la présence de Paul et Minnie Bourget en Sicile», in: Paul Bourgel el l’Italie, a cura di Marie-Gracieuse Martin Gistucci (Genève, Slatkine, 1985). Quel mio saggio riecheggia i diari dei coniugi Bourget in Sicilia e contiene sei lettere inedite al principe e alla principessa Lanza di Scalea. 
– «Palermo, città climatica» , in : Palermo, mensile della Provincia, agosto-settembre 1994, pp. 60-61. 
2 Più tardi trasformato in Casa del Goliardo e recentemente restaurato, a cura dell’Università di Palermo, sotto il Rettorato del prof. Giuseppe Silvestri. 
3 Un Moderne, Paul Bourgel, de l’enfance au Disciple, Paris, Les Belles-Lettres, nouvelle édition, 1968. 
4 Estratto dal diario intimo di Giuseppe Primoli, citato da Silvia Disegni , «Lettres de Bourget au comte Primoli», in : Revue d’Histoire Littéraire de la France, juin
2009, pp. 427-448. 
5 Journaux croisés, s.1. (Chambéry), Centre d’études franco-italien, Universités de Turin et de Savoie, 1978. 
6 Traduco una citazione del diario di Minnie Bourget, riportata in «Nouveaux Témoignages…» (cit.). 
7 Tale banca, il Credito Siciliano Orientale, si sarebbe trovata pure in via Maqueda, in un palazzo antico costruito per un luogotenente di Pietro d’Aragona. Ma le guide
dell ‘ epoca non menzionano nessun istituto bancario di questo nome. 
8 Nell’omonimo palazzo sul Corso Vittorio Emanuele, rimasto diroccato dalle bombe della seconda Guerra mondiale. 
9 Di cui ho citato alcuni brani in Paul Bourget à Palerme, ciI. 
10 Il percorso durava quasi otto ore più di un secolo fa; oggi tre ore, purché non intervengano ritardi o scioperi. Ma una lettera arrivava in ventiquattro ore da Palermo a Catania; nella stessa città giungeva anche in giornata. 
11 Come sopra abbiamo potuto costatare nell’evocazione diurna e notturna di Villa Tasca. 
12 Marcello Spaziani ha illustrato, nel saggio «La Roma di Paul Bourget» (in: Paul Bourget et l ltalie, cit.), il procedimento di «photomontage» con cui Bourget ha evocato la Città Eterna in Cosmopolis. 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 17-21.




 Premessa a un discorso su Quasimodo a cinquant’anni dal «Premio Nobel» 

di Antonino Cremona 

Vi è stato un tempo in cui le tazze avevano due manici, affinché si potesse bere agevolmente. Epitteto, però, diceva che non solo le tazze ma – generalmente – ogni cosa ha due manici; molto tempo dopo, gli entusiasti del premiatismo si sono accorti del rovescio della medaglia: un secondo manico, di forma diversa. In definitiva, Epitteto ci informava che vi è più di un modo per prendere le cose: prima da un manico, poi dall’altro, e ciascuna volta l’oggetto risulta diverso. A certo punto, le tazze hanno perso un manico: per effetto di un assolutismo unidirezionale. Sicché è rimasto un solo modo per prendere le cose. Infine, l’invenzione del bicchiere ha eliminato anche l’ultimo manico: non vi è più modo di prendere le cose. Rimane, però, l’avvertenza di Epitteto: alle idee, agli argomenti, alle persone, alle cose, ci si può accostare in modi diversi; intanto, possiedono diversi modi di manifestarsi. Un autore può essere preso – come si dice – per quello che è, o nel contesto del suo tempo. Ancora: può essere colto negli elementi che ci tramanda, o per la marea dei suoi discepoli. 

Ma queste sono soltanto delle apparenze. Infatti, nessun autore può mai essere «quello che è» (la sua opera non può venire considerata come se il resto del mondo non esistesse). Ogni autore consiste, invece, nella sua storia; ch’è composta di due parti: la prima, sino al momento in cui produce; la seconda – in perenne formazione – inizia nel momento in cui ha smesso di produrre. A volte, l’assegnazione di un premio Nobel (o la semplice pubblicazione dell’opera omnia) vale un decesso. Non è stato il caso di Montale, né di Quasimodo. 

La prima parte della storia di un autore è la sua opera che si va formando, e pure vi appartengono gli effetti della sua opera ancora in via di composizione; la seconda parte della sua storia sono gli effetti dell’ opera ormai conclusa, anzi interrotta da un qualche evento. Ma vi è da sospettare che l’opera è di quell’autore in quanto è di sua scrittura: egli e il suo ambiente si esprimono attraverso quella scrittura. Pure vi è da considerare che nessun autore ha bottega, non si sceglie i propri adepti, non li conosce nemmeno; lavora per suo conto (non è un artista – pittore, o scultore, architetto – di tipo rinascimentale), non si occupa di discepoli. Se ve ne sono, stanno fuori dall’officina; si trovano fra i suoi lettori. 

Dalle nostre parti, non abbiamo autori di letteratura che possano essere conosciuti attraverso i loro adepti. Si vuole dire che l’opera di Salvatore Quasimodo non può essere valutata guardandone i seguaci ed epigoni: il fatto che vi siano quasimodiani segnala la forza di suggestione che l’autore è capace di imprime re, ma non può attribuire a lui alcuna responsabilità (appunto, non ha bottega) circa gli esiti dei suoi ospiti. I quali, come avviene al seguito di ogni fortuna letteraria, hanno frainteso il senso della sua scrittura. Equivocano le derivazioni decadentistiche – certamente quelle che provengono dal più fine decadentismo degli europei – scarabocchiando paesaggi in forma di bozzetto; sicché il civismo meridionalistico di Quasimodo viene tradotto in un disgustoso lamento sulle proprie sorti, e su quelle di un Sud inesistente; l’emigrazione si presenta, in questo modo, ancora più esecrabile. 

Le dimensioni dell’opera di Quasimodo si accrescono, e si arricchiscono, quanto più essa si inoltra nella seconda parte della sua storia. Sicché diviene pressante che vengano condotte alcune indagini: rintracciare le influenze quasimodee su altri traduttori e poeti; così pure i legami di Quasimodo con i suoi contemporanei e i suoi antecedenti. 

I suoi contemporanei non sono autori delle altre latitudini. Sono, innanzitutto, la gente (non necessariamente la sola gente di cultura) con cui egli è vissuto nei vari luoghi della sua vita; e sono i libri delle sue letture. I suoi contemporanei, dunque, si risolvono nelle riflessioni: dovute a persone che vivevano con lui (direttamente, oppure attraverso quanto egli era disposto a ricevere dalle loro attività artistiche). Una critica attenta a componenti di questo tipo darebbe risultati amari al criticismo astratto: troverebbe, peraltro, notevoli – e quasi sconosciute – personalità accanto e intorno a Quasimodo e lui accanto e attorno a costoro. Per conseguenza, si ridurrebbe l’immagine del poeta in una luce di solitudine all’interno della triade ermetica. 

Certo, un poeta è sempre un passero solitario; ma in senso diverso da quello per cui possa divenire un migratore . sperduto. Chi è privo di passione per la solitudine – un amore appassionato, quasi esclusivo – non riesce a scrivere, mai: la vocazione del poeta è la vocazione alle proprie riflessioni solitarie, pubbliche e private. 

La solitudine di Quasimodo è tutta un fervore di relazioni, di scambi, di interessi, con quelli che possono essere ritenuti i suoi contemporanei, ma anche i suoi antecedenti, di tante epoche, con i quali ha tenuto contatti da contemporaneo. 

Stranamente, il concetto di ermetismo non è una sintesi a posteriori. È – invece – un ritrovato di critici, in linea parallela allo sviluppo dell’attività di alcuni poeti e saggisti. È una sorta di programma, come quello che Adriano Tilgher stese a un certo punto del lavoro teatrale di Luigi Pirandello. Sappiamo tutti che i programmi in materia d’arte sono tentativi ogni volta falliti. L’arte se ne va sempre per il suo verso, sfuggendo alle regole. Va a finire che, rispetto alla gabbia messa su da Tilgher, Pirandello ha poi sbagliato; e che, allo scopo di rinserrarsi in quella gabbia, Pirandello cerchi di non sbagliare: con alcune conseguenze rispetto a se stesso. Va, pure, a finire che l’ermetismo rimane un’ipotesi; un movimento poetico nel quale (paradossalmente) tutto è fermo, e non vi sta dentro nemmeno un autore: ovvero alcuni letterati, che la poesia ha lasciato in desolazione (così nel romanticismo, nel classicismo, negli ismi). 

Ne viene fuori che la triade si allarga. Interrogati, uno ad uno, i componenti della triade negano di farne parte (non solo di appartenere alla triade, ma allo stesso ermetismo), e oggettivamente non vi appartengono. Ognuno si è messo nella propria solitudine: lavora all’intemo della propria poetica. La triade si allarga perché – indicata con persone di varie generazioni, circostanza che metodologicamente non sembra idonea, e l’ermetismo non essendo esistito, almeno come denominatore comune – bisogna che altri poeti di pari dignità (qui non si dice di analoghe dimensioni della scrittura, se non per pochissimi, fra i quali Umberto Saba) siano riconosciuti attivi nel primo sessantennio del ventesimo secolo in lingua italiana. D’accordo, la vita operativa di ciascuno dei tre è andata generalmente oltre quel tempo, e le date stanno bene solo al calendario. Né conviene fidarsi delle dichiarazioni di poetica, quantunque ogni scrittore avverta il dovere di farle conoscere. 

Del resto, ciascun autore conosce se stesso in breve misura. E ogni proposito viene puntualmente smentito dal risultato dell’arte; tant’è che si generano (ad esempio) le poesie a cannocchiale: l’una appresso all’altra, nella rincorsa ad esprimere quella determinata sensazione che, invece, sempre più a fondo si rintana. In verità, ogni autore è altro da sé; ciascuna opera è diversa da come l’autore riesce a vederla. Perché quello che resta, che vale, è solo quanto ognuno venga a trarne. Io non ne so nulla (saggiamente rispondeva Eugenio Montale): sono soltanto l’autore. Nei fatti, non sappiamo se si stava nel giusto durante il lunghissimo tempo in cui il poema di Dante è apparso privo di interesse; né se Petrarca s’indovinava quando riteneva di avere consegnato ai versi latini il meglio della sua espressione, o se gli attuali studi rivalutati vi conducano)e prose di pensiero del Leopardi allo stesso livello dei suoi Canti. Solamente sappiamo quanto, oggi, ci capita di avvalorarci dell’opera di ognuno. 

Questi dell’ultima triade (in ordine d’ingresso: Ungaretti, Montale, Quasimodo) sono comunque riconoscibili maestri di quanti si siano successivamente dedicati alla scrittura delle parole (esclusi, dunque, quelli che scrivono suoni in forma di parole e i telematici) perché diedero segno di come la poesia dovesse scriversi senza maiuscole. Intanto senza le maiuscole dei crepuscolari, iniziarono ad avvicinare la poesia ai suoi lettori, allontanandola dalla letteratura; non solo dalla retorica, dal patriottardismo, dal nazionalismo, dalla magniloquenza. Sognarono e fecero poesia pura: lirica quanto più viene ad essere, insieme, civile; attratta quanto più ci persuade. E quanto il suo oggetto si localizza tanto riesce universale. 

Le dichiarazioni di Quasimodo rispecchiano (ed è un’eccezione) la sua poetica. Nel Discorso sulla poesia Quasimodo si appassiona contro i filosofi (che gli appaiono «i nemici naturali dei poeti»: bisogna dire a torto, se non s’intende che sta discorrendo di quelli che presumono di avere definitivamente sistemato il mondo), però siede nell’essenza del proprio lavoro quando ribadisce che la letteratura «si riflette» mentre la poesia «si fa». Ed è vero: stiano i letterati nei loro paludamenti, con mitrie e aureole; decantino, invece, i poeti le voci del tempo, uniscano spazi, ritrovino l’uomo e i suoi miti, la natura femminile e maschile della terra, operando in precisa umiltà, ma nella consapevolezza di offrirsi come trasgressori di forme e di contenuti, come irregolari nei sistemi precostituiti, dunque vittime possibili. 

E, ancora, Quasimodo s’incentra nel colmo dei propri significati quando separa le questioni grevi della morale dalla libertà della poesia: nella quale nulla può avere un senso immorale, o morale, ma unicamente poetico (concetto, da tempo, acquisito a proposito delle arti figurative ma tuttora non del tutto penetrato nelle valutazioni della parola scritta). E in quanto è trasgressione, la poesia è libertà; in quanto è creazione, è verità; «non insegnano, i poeti, che a vivere»: forse è questo il valore sociale della poesia (la socialità su cui il poeta insiste e alla quale assegna valore etico). 

In noi si scolpisce questo passaggio del Discorso sulla poesia (apparso nel 1956, come appendice a Il falso e vero verde), che individua responsabilità senza limiti: «Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è libertà e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento.» Questo si tentava di indicare: un autore ci appartiene, quale che sia la sua epoca, per la misura di libertà e di verità che per suo tramite riusciamo a riconoscere nel nostro tempo. 

Negli «autoritratti critici» (raccolti da Ferdinando Camon nel 1965 nel volume Il mestiere di poeta) Quasimodo teneva a fare evidente questo concetto: «La ricerca di un linguaggio è la ragione principale della poesia.» E avvertiva: non si confonda il linguaggio con la filologia; si distingua la creazione del linguaggio poetico dall’ elaborazione filologica. In tutti e tre i periodi della sua lirica (l’iniziale collegamento stilnovistico, poi quello coevo alla rivisitazione dei classici, infine il periodo della più assoluta laicizzazione) Quasimodo non smise la ricerca (da poeta autentico, non poteva considerarla esaurita) anzi fece costante l’approfondimento dell’espressione nella qualita della parola, una quantità metrica ricca delle proprie risonanze, in contrasto con la qualità dannunziana. Quantità anteriore, in Quasimodo, allo stesso famoso suo accenno «al palo del telegrafo», cioè a un oggetto considerato impoetico. Sta nella sua musica quantitativa la capacità di elevare il canto da situazioni e cose impoetiche; la stessa capacità di rivelare originaria e inalienabile l’intonazione della sua voce. Ciò è in una tale efficienza che fu Quasimodo a dare ai classici, traducendoli, il proprio linguaggio. Lui stesso sapeva «non di una chiarezza ricevuta, ma di una chiarezza data» (intervista a Camon). Questo argomento suggerisce la particolarità del lindore della sua scrittura, che riconduce nell’area del canto pure se intrisa – o forse proprio per questo – delle materialità e delle crisi della sua epoca. Bisogna, riconoscere che il suo dettato diviene canto, perché si fa: crea e si crea, così come, in origine, la poesia era musica per la cetra. 

Un’ultima cosa, a chiudere questa premessa a un discorso su Quasimodo. Può dispiacere ad alcuni, che preferiscono gli itinerari consueti (nazionali o di influenza europea); può essere gradita, invece, a quanti vedono la cosiddetta lingua italiana come filiazione di parlate siciliane – pure se (ragionevolmente) non considerano quella che comunemente si chiama letteratura siciliana come una letteratura nazionale, di una nazione Sicilia che in ambito di cultura non vi è mai stata perché sempre si è fatta sintesi e insieme lievito della vita mediterranea – però è utile tentare un’indagine a proposito di quanto derivi (e sia affine) a Quasimodo e quanto alla sua parola, immagine, metafora, si ricolleghi – nel senso della poesia – dentro l’area, sua, mediterranea (quest’altro mondo assai spesso dimenticato, anche da noi stessi che lo respiriamo). 

Antonino Cremona 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 3-6.




 Sulle rovine e le tracce di un sogno interrotto. La malinconia e la nostalgia del non essere  

Se un uomo non si contraddice mai è certamente perché non dice mai nulla di nuovo.

M. De UnamunoQuello che vi si presenta come naturale, non consideratelo tale.C.MarxSe ciò che si presenta non è naturale, ma è divenuto, siamo un po’ più liberi. G. Vattimo

l. Il textum e la processualità del senso

Se ciò che è naturale e storico è divenuto nella sua potenziale pluralità, allorac’è anche una contraddizione non-contraddittoria, il delirio con-tingente del textumdella vita e delle cose che il sapere, servendosi della pluralità dei linguaggi e delle logiche, itinerandosi, ha cercato di interrogare, rendere, costruire e ricostruire come pubblica rete di relazioni materiali e storiche.

E su questi sentieri e il loro sviluppo processuale che poesia, filosofia e scienza,unite-separate, si sono incontrate-scontrate utilizzando logiche e strumenti comuni-diversi ora strizzandosi l’occhio e ora tendendosi le mani per allontanarsi-avvicinarsi.

È come se, parafrasando Ernest Bloch, la malinconia della realizzazione,schizzando tra attesa gioiosa e doloroso esilio, alimentasse la nostalgia del non- essere-ancora e il ri-avviarsi senza sosta del soggetto. È una nostalgia, infatti, che riprende il suo naturale cammino di dialogo dialettico senza fine nel campo del testosemiotico e simbolico concreto, di cui la poesia, con il suo intreccio configurativo,rappresenta l’evento virtuale più significativo per il suo essere peculiare e complessasimulazione.

La metafora del texttra gli altri strumenti retorici, ci sembra, del resto, l’analogiapiù idonea per parlare della eterologia delle cose che si mescolano in un testo o in untesto poetico. Qui, infatti, rimanendo pluralità complessa, equilibrio dinamico e aperto,si uniscono quanto si dividono cose di livelli diversi: i simboli e i suoni, la ricerca ela costruzione di senso, la spazialità e il kairs del ritmo e dell’aritmia, ecc. Miscela di “n” variabili, simulazione di quell’intreccio più vasto e reale che è l’essere-possibilitàstesso delle cose nel divenire del loro spazio-tempo, curvato dalla materia-movimento e dalla storia, ci sembra, allora, che anche il kairs, il luogo-tempo proprizio che rapporta debitamente e relaziona le parti di un testo poetico, possa essere trattato comeun text. Il kairs è, infatti, un textum, un intreccio dinamico che miscela debitamente, sebbene in un equilibrio precario e impermanente, le varie parti del tempocome una tempera e un taglio di liquidi o una metaxi che transita hermeticamentel’accordo degli elementi vari di un sistema relazionandoli in un equilibrio mobile e processuale. “Lungi dal risolversi nel significato di <momento istantaneo> o <occasione> – secondo una tipica recezione protomodema del termine – kairs viene così a designare, al pari di tempus, una figura oltremodo complessa della temporalità: figura che rinvia alla <qualità dell’accordo> e della mescolanza opportuna di elementi diversi – esatta- mente come il tempo atmosferico. Nella sua versione spaziale, d’altronde, la stessaparola sta ad indicare i luoghi propri, le parti vitali di un organismo in forma, ossia equilibrato e temperato nelle sue componenti”.l

Tra gli strumenti utilizzati dal sapere, si pensa particolarmente a quelli della dialettica retorica come la levis immutatio, la metonimia, la sinedoche, l’ellissi, l’analogia, l’ironia, ecc. Sono gli strumenti che modificando le parole, la sintassi, la semantica e la pragmatica del tessuto comunicativo diventano chiavi di letturae di conoscenza delle cose.

Di questi altri strumenti, il poeta si serve, per esempio, quando decide dicostruire un certo mondo possibile e un certo modo d’essere per continuare a dialogare con gli altri e l’essere stesso del mondo complesso e molteplice.

L’essere, diceva Aristotele, è potenzialità e si dice in molti modi; l’essere è pluralee non unico, identico e immutabile.

L’essere è una rete di relazioni materiali e storiche dove linearità e circolaritàs’intrecciano e snodano fenomeni ed eventi che si raccolgono e strutturano nelle varie forme del sapere anche attraverso le tracce che l’essere-possibilità lascia sparseun po’ dovunque sul terreno della storia.

Oggi, sembra, sia necessario e urgente, rimettere in rete queste tracce e ritrovare/ riscoprire/ricreare il senso delle cose passate rimasto inattuato e ri-progettarlo. C’èsempre un “angelo” che sulle rovine della storia aleggia con le sue grandi ali per non far dimenticare ciò che ancora aspetta di essere preso e rimesso in cammino.

Holderlin, parlando de ” […] i poeti nel tempo della povertà”, diceva che pensieroe poesia possono ritornare a dialogare con l’essere solo se si rimettono sulle sue tracce e le reinterrogano. “Lungo è il tempo di povertà della notte del mondo. […].Questi segni sono, per il poeta, le tracce degli Dei fuggiti. Secondo Holderlin, Dioniso,il dio del vino, lascia questa traccia ai privi di Dio che giacciono nelle tenebre dellanotte del mondo. Infatti il dio della vite custodisce nella vite e nel suo frutto l’appartenenza reciproca originaria di Terra e Cielo come il luogo della celebrazionedi uomini e Dei. […] Il poeta pensa nella regione delimitata da quella illuminazionedell’essere che, in quanto dominio della metafisica occidentale autocompientesi, ègiunta alla sua configurazione conclusiva. […] ci sarebbe, allora, ed effettivamente c’è, una sola cosa necessaria […] afferrarne l’inespresso. Questo è il cammino dellastoria dell’essere. Se ci incamminiamo per questo cammino, esso condurrà il pensarea un dialogo storico-ontologico col poetare”.2

Ora l’essere plurale, temporale, complesso e in fieri può, allora, essere conside-rato come un testo che interseca e miscela tracce e campi attorno a cui gravitano e dai quali si dipartono la poesia, la filosofia e la scienza.

La poesia, come la realtà, è, anche, allora un universo particolare con un tempo complesso e un’imprevedibilità essenziale. E ciò fa si che la loro apertura di sensoè sempre e simultaneamente determinata e indeterminata, contraddittoriamentecoerente e sfida al principio logico del terzo escluso o dell’aut aut.

La tensione conoscitiva e po(i)etica, mettendo in campo linguaggi particolari dicontatto, penetrazione, percezione, scarti, metafore, nuance, giustapposizioni, saltidi livelli, elaborazioni determinate, indeterminate, certe, probabili, razionali, imma- ginarie ecc. è un altro aspetto che accomuna e differenzia la poesia dalla scienzae dalla filosofia.

Arte e scienza hanno in fondo una certa correlazione che le tiene unite tramitele procedure compositive e simboliche per cui la loro separazione netta è più un’esigenza convenzionale che un fatto intrinseco.

Valery diceva che “le une sono sempre implicite nelle altre. Se la scienza adattagli organi intellettuali a un’immagine esteriore, l’arte viceversa deforma l’esteriorità in vista di un’immagine interiore. Si tratta quindi di due modalità complementari di interagire con il mondo, la cui valenza è data dall’invenzione, dal ponte che getta tra esprit de finesse e esprit de géometrie”.3

Questa correlazione che differenzia l'<identità> dinamica e procedurale tra isaperi e i loro linguaggi, non ridotti alla semplice produzione di significati e di scambicodificati, è ciò che, inoltre, ha permesso di continuare un certo tipo di dialogo traloro e l’essere-possibilità. ” E così filosofia e poesia, che hanno sempre parlato traloro, espongono il loro dialogo segreto, lo rendono manifesto, dicono esplicitamente di parlare l’una dell’altra. […]. Qui <senso e linguaggio> affondano come macigni. Non custodi del senso, non tutori del linguaggio, ma sacerdoti dell’indicibile e dell’impensabile. […]. Circolarità del senso, ma insieme non sua disponibilità, quindiimplosione e frammento, ospitalità per tutti i sensi possibili, un’offerta per i poeti”.4

Anzi, la metafora può costituire “un punto d’intersezione e d’incontro tra saperepoetico-letterario e il sapere filosofico-scientifico e l’occasione di una dialettica dellacultura che vede i due saperi – poetico e scientifico -, tradizionalmente negantisi per opposizione del positivo che esclude il negativo, usare gli stessi strumentignoseologici ed euristici (la metafora) e indagare, interrogare lo stesso oggetto:l’essere-possibilità che, nella sua materialità storico-temporale, è prius oggettivo efondamento-referente del sapere stesso”.5

Se il soggetto-e-l’oggetto di questa complessità d’essere è allora un textum, è possibile applicare il concetto di testo sia ai fenomeni naturali sia agli intrecciartificiali. Un evento scientifico o artistico, quale può essere una poesia o un racconto, conseguentemente, può essere costruito e ricostruito, analizzato comeintreccio di variabili e di piani diversi.

Entrambi i tipi di testi sono, infatti, una miscela d’elementi, una tessitura di variabili relazionali che si condizionano reciprocamente e interagiscono ad ogni azione che proviene dall’interno e dall’esterno del sistema.

Il poeta, lo scienziato e il filosofo, pro-vocando i testi con gli strumenti che sono propri di ciascuno, generano metamorfosi e nuovi modi d’essere degli stessi testi come se li sottoponessero a torsioni e a spinte anche aleatorie: ne biforcano anchei campi semiotici e semantici spingendo la significazione nella direzione di unventaglio o di una cascata che si dis-tende e retifica oltre i termini e i limiti della logica bivalente.

Il linguaggio dei ricercatori e dei pensatori, infatti, ha come interlocutore il ni-ente del textum. “Esso infatti dissolve la logica bivalente del discorso che si articola nel giudizio disgiuntivo, per quella logica ambivalente dove qualcosa <è> pur non essendo solo ciò che è. L’essere si intreccia con il non-essere e, volatilizzando l’equivalenza della cosa con se stessa, l’ambivalenza produce la non-valenza”.6

2. Le nuove logiche e la sperimentalità po(i)etica

Entrambe le tipologie testuali, sia il laboratorio del poeta o quello dello scienziato sperimentatore, ricorrono, infatti, a linguaggi e a logiche che non sono per nienteriducibili a quelle del pensiero classico dell’armonia, dell’ordine, della finitudine, della certezza, della coerenza, della non-contraddizione, della visione nitida eunivoca della logica bivalente dello “scambio” del codice biunivoco, come se i significati e i sensi fossero oggetti di un’economia di scambio di tipo comunicativo.

Poesia e scienza, volendo esprimere e comunicare l’infinita processualità del divenire dell’essere e/o del tempo, non possono, oggi, non impiegare strumenti e strategie linguistiche, logiche e congetturali diversi da quelli del passato; per conoscere edesprimere la pluralità complessa che sfugge al pensiero e all’intuizione comune hannobisogno di ricorrere, infatti, alla stranezza delle paradossalità delle logiche odierne chefanno sempre più i conti con le irregolarità che governano ogni tipo di fenomeno.

Ricorrendo alla logica dell’affermazione, per esempio, negli anni Settanta, Ruelle e Takens, intenti a studiare i fenomeni della turbolenza, pur non avendo mai vistoun “attrattore strano” con le poche dimensioni che loro stessi ipotizzavano – (“[…]un’orbita in uno spazio delle fasi che potesse essere un rettangolo o unparallelepipedo, con soli pochi gradi di libertà. Non periodico […] in modo tale, però,da non ripetersi mai e da non intersecarsi mai […]”7 – erano convinti che una cosacosì strana, complessa e assurda dovesse pur esistere.

La loro convinzione di ricercatori si basava sul solo ragionamento, sull’intuizionecongetturale e su un’ipotesi configurativa che ben coniugava ragione e immaginazione. Non era la prima volta che la conoscenza progrediva in questa maniera. Neglianni Trenta, P. Dirac aveva ipotizzato l’esistenza dei “buchi neri” servendosi di puri ragionamenti congetturali e d’efficaci metafore, il medium che oscilla tra concettoe immagine e che permette all’immaginazione d’interagire con l’intelletto e la ragione.

Il quid8 così bizzarro e fantasioso di Ruelle e Takens era l’«attrattore strano» che E. Lorenz aveva già individuato e raffigurato con delle traiettorie a spirale altamente instabili; queste, raggiunto un certo punto critico d’instabilità, cambia- vano direzione e si aggrovigliavano senza intersecarsi mai assumendo la forma delle ali di una farfalla.

Il loro attrattore aveva la dimensione e le caratteristiche dei numeri frattali diB. Mandelbrot: la frazionarietà del finito che si moltiplica instabilmente sfumandosi in un infinito che pur espandendosi e aggrovigliandosi non interseca mai le propriespire, e passa dal determinato all’indeterminato fino ad azzerare grandezze diqualsiasi tipo.

L’instabilità rende così impossibile una predizione determinata nel tempo che esclude il proprio contrario. Infatti, sulla base dell’esponente di Ljapunov o del”numero che misura le qualità topologiche corrispondenti a concetti comel’imprevedibilità”9, stranamente si registrano impulsi con sviluppi imprevedibilmente casuali e precisi che conducono alla casualità o alla stabilità.

guesti numeri cioè forniscono “in un sistema un modo per misurare gli effetti conflittuali dello stiramento, della concentrazione e del piegamento nello spazio delle fasi di un attrattore”l0 e mostrano come la ristrutturazione dello spazio delle fasi crei attrattori la cui analisi mostra ” vividamente come alcuni sistemi potessero creare disordine in una direzione restando al tempo stesso ordinati e metodici in un’altra”ll. Se il numero ha un esponente maggiore di zero significa “stiramento”,minore di zero “contrazione”, esattamente zero un’«orbita periodica», punto fissoo “esponenti tutti negativi […] uno stato stazionario finale”.
La razionalità ha cambiato look e fa trasparire le sue origini irrazionali. Siamo

nel campo di una nuova razionalità, una razionalità paradossale, irrazionale, capacedi coniugare simultaneamente gli opposti come accade nella logica temporale del “tempuscolo” e dell’affermazione che non conosce mai una negazione.”Larazionalità è solo irrazionalità imbrigliata”, dice Bas C. Van Fraassen. È la nuova razionalità che pensa i mondi e i saperi nei limiti infondati e illimitati della con-

page18image12912tingenza e dello stupore materiale fondante il gioco del tertium datur, dellecontraddizioni e contra-dizioni che, intersecantisi e interagenti nell’unità plurale, dinamica e paradossale del simbolo, fluiscono e fluttuano come corpi browniani”nell’ambito di una concezione sperimentale – e quindi materiale – del mondo”.12

È una sperimentalità che appunto perché affonda nella materialità storica eprocessuale del mondo non può non essere dirompente, eversiva e affatto ricondu-cibile a una sperimentalità canonica e codificata. Quasi sempre, anzi, è in contrasto con l’ordine del sistema e lo destabilizza.

“L’idea di sperimentalità (del verso, per esempio) affligge più di un critico che porta sulla sua pelle una serie cicatrizzata delle ferite, imposte dall’immagine fissa della <tradizione>, dalla traducibilità di essa come ordine […] in una lettura dei versi più recenti di Antonino Contiliano (…) <la contingenza e lo stupore>, a cui essi siaffidano, appartengono a emblemi comportamentali di esplicita educazione al percorso anomalo attorno a ciò che si dice verso di poesia, dove si catturanoeversioni e sogni”.13

È un materialismo sperimentale della contraddizione e della contra-dizione che, appunto perché dinamico, è dunque, anche, possibilità aperta che si trasforma ede-forma, e che nei testi dei poeti soprattutto dà forma all’ambivalenza dell’indeterminazione e all’impensabilità pensabile dei paradossi. E il materialismo sperimentale che vede, ascolta, tocca, assapora gli scarti e le eccedenze di senso tra la rottura del codice e il meta-phorein del senso stesso e si fa azione, azione delle emozioni e del pensiero progettante nel contesto storico e dialettico, senza dimen- ticare che anche in un mondo dell’economia globale e dematerializzata lo scontrodi classe non ha cessato di esistere. Anzi è qui che il senso che circola nei versidel dis-corso della poesia e della realtà politica che in essa agisce, retroagisce eritrova le sue riaperture di rinnovata azione.

È ancora Domenico Cara, per esempio, che ne L’Utopia di Hannah Arendt (lanostra raccolta di testi poetici del 1991), coglie alla base del richiamo alla Arendt”la comunicazione politica di interrogare gli accadimenti, l’angoscia delle azionideformanti della contemporaneità, nel dubbio e nella logica dell’ambiguità a cui essaè sensibilmente sottoposta […] le varie dissonanze esistenziali […] la rivoluzionegeostorica e l’altra serie di conflitti in cui ognuno di noi agisce o resta aggredito daglistupori convenzionali o meno”14.

Nessun misticismo metafisico dunque nella poesia e nel pensiero della nuova razionalità che nella paradossalità del materialismo della con-tingenza richiama, rinnovandone la funzione, il simbolo e l’allegoria, l’indeterminazione, gli scarti, ilparadosso, le eccedenze di senso e la dialettica concreta di prassi-teoria-prassi.

Il simbolismo qui non è la quiete pacificata e metafisica dell’unità dell’essere bensì la pluralità sistemica, complessa e non lineare della possibilità materiale del reale dicui l’allegoria può rappresentare e configurare la hybris della ribellione e dell’ironi/ ea. La hybris può essere il rifiuto permanente che attacca e corrode l’ordine statico che, cristallizzato, intrappola e blocca gli eventi della con-tingenza e i paradossi,lì dove il tempo, invece, e lo stupore della temporalizzazione che li concretizza, è invece “immagine mobile dell’eternità, processo perenne di trasformazione, flusso e riflusso”15 che condiziona la vita e il realizzarsi delle sue forme nelle cose e negli esseri.

3. La con-tingenza, la levis imutatio, i sentieri ininterrotti

È un’esperienza della contingenza come con-tingenza, nesso e soglia che, comeha osservato Vanessa Ambroseccheo analizzando i testi della nostra raccoltaL’Utopia di Hannah Arendt, significa anche legame paradossale: “Ma proprio l’esperienza d’amore, tra desiderio d’eterno e trepida precarietà, ci rende rationemdella contingenza, ci fa scienti del nostro vivere – sulla – soglia. Qui esistere è solola ripetuta memoria degli istanti, e l’eterno agli uomini concesso è la consapevolezza della precarietà. Un’epoca segnata dal <congedo dell’eternità> rivela così la perennecondizione di una <eternità del congedo>”.16

Severino Kirkegaard, ricorda Giuseppe Modica di Fede libertà peccato, dice cheil paradosso è la passione del pensiero sebbene, in qualche passaggio dei suoiPapirer, lo stesso filosofo danese vedesse il paradosso come un fatto negativo. “Inuna pagina giovanile dei Papirer al paradosso viene attribuita una curvaturanegativa allorché esso è identificato con l’incompiutezza del pensiero, col pensieroche non è pervenuto al proprio compimento […] E però, nella medesima pagina, ilparadosso è definito come <il vero pathos della vita intellettuale>, ciò che ne prospetta una lettura positiva. E infatti, sostenere che il paradosso è la passionedel pensiero – come recitano le Briciole – significa non già che esso sia la negazione del pensiero, bensì che ne è la provocazione del dissolvimento coincidente con il suocompimento e consistente nel <voler scoprire qualcosa ch’esso non può pensare>: <il paradosso è la passione del pensiero…>”.17

H. Bergson, il filosofo dell’élan vitale, per esempio, nel corso delle sue ricerchesui risultati della metafisica rappresentativa del “cristallo” e dei “solidi”, ricordavache “Nessuna precisione razionale potrà pretendere di contenere di pi”18 dell’impre- cisione metafisica della vaghezza e delle sfumature della certezza “fenomenologica” che si manifesta soprattutto come pluralità e complessità fluida e sonora, raccontabilepiù con le immagini poetiche che con i concetti della ratio calcolante.

In questo nuovo cammino verso il divenire e la temporalità dell’essere, per farne emergere tutta la concreta con-tingenza attraverso l’ac-cadere degli eventi, la poesia e la scienza, ma soprattutto la poesia continua a percorrere il sentiero, in veritàmai abbandonato, non lineare né graduale delle possibilità del “tra” delle tracce multiple dell’infinito stesso che s’invasa e retifica nel finito mantenendone aperte tutte le sfumature e le virtualità.

Esemplare, in questa direzione, ci sembra, il testo de gesuita del SeicentoAthanasius Kircher:

“Tibi vero gratias agam qua clamore? Amore”19.
La poesia, poi, configura quest’infinito divenire e temporale dell’essere con i versiche lo de-clinano nel ritmo “caotico” dei testi contemporanei mediante la simulazionelinguistica e l’uso ad hoc degli strumenti della retorica, così come anche le scienze in genere, tentano di fare con l’applicazione dei loro modelli interpretativi.

I modelli scientifici, poi, non registrano effetti ed eventi meno paradossali dei versi degli stessi poeti che impiegano le figure della vecchia e della nuova retorica: imetaplasmi (variazioni che riguardano le parole a livello sonoro o grafico), lemetatassi (variazioni che riguardano la struttura della frase), i metasememi(variazioni che riguardano le parole a livello di contenuti) e i metalogismi (variazioniche riguardano il valore logico delle frasi).

Il pensiero scientifico ricorre ad immagini e diagrammi non meno sconcertantie meravigliosi di quelli costruiti dagli ossimori poetici che all’immaginazione, all’immagine, all’intuizione e alla logica j1oue, affidano ciò che di per sé non può essere catturato e definito dai concetti.

Per non rimanere nella sola astrazione simbolica del linguaggio, rimandiamo agli esempi più diffusi dalla letteratura del settore: il fiocco di neve di von Kock (“una linea di lunghezza infinita delimitata in un’area finita”), la polvere di Cantor (“unnumero infinito di punti, ma con lunghezza totale zero”), la spugna di Menger (“un solido con superficie infinita e volume zero”).

Cantor e il poeta Kircher, modificando lievemente, sottraendo, un elemento del testo – la parola (clamore) nel verso del poeta e un dato insieme (la linea) nell’insieme dei punti per il matematico – hanno ottenuto e attualizzato, paradossalmente, nuove referenzialità semantiche.

La levis immutatio, nella poesia e nella letteratura, per esempio, è uno deglistrumenti retorici che producono eventi singolari alla stessa stregua di quelli prodotti dall’effetto farfalla nel campo delle scienze che studiano i processi dinamici del mondo fisico.

L’una nel campo letterario e l’altro nel campo dei fenomeni naturali e delle ricerca scientifica sono delle variazioni che, introdotte nei testi di pertinenza, produconorilevanti cambiamenti nella comprensione dei processi e dei prodotti dei rispettivi campi d’applicazione e d’indagine.

La levis immutatio, anzi, forse, si può definire come l’effetto farfalla della poesiaper gli stessi effetti vaganti che provoca allorquando modifica qualche variabile testuale: un termine, il gioco delle variazioni della sua posizione sintagmatica o le modifiche metalogiche, ecc..

L’effetto farfalla, noto nelle scienze della complessità come sensibilità alle condizioni di partenza di uno stato di cose, agisce nei processi dei fenomeni naturalie, come succede nei processi dei testi linguistici modificati dalla levis immutatio,produce accadimenti aleatori e imprevedibili, ma perfettamente interpretabili, significanti e storici. D’altronde, nella filosofia moderna, non è più pensabile l’accadere degli eventi al di fuori della con-tingenza, come non è più possibilepensare alla stessa con-tingenza come a un semplice apparire dell’essenza di un essere che dovrebbe avere una struttura universale e necessaria.

“In realtà l’essere non è se non come epoché: se si vuole, l’essere non è altro che la sua storia, la sua epoca. Le epoche non sono, per esempio, confrontabili l’unacon l’altra, quasi che fossero diversi modi di manifestarsi-celarsi di un essere peraltro totalmente dato, in qualche modo <esistente>. L’essere non è se nonl’illuminazione dell’ambito entro cui gli enti appaiono […]un evento permanentemen-te in via di accadere…in cui Heidegger adopera Wesen (essenze) non come sostantivo ma infinito verbale. [… ]. Domandare ontologicamente l’essenza delle cose non puòsignificare solo riconoscerle nel loro carattere eventuale; ma, più coerentemente, riconoscerle come evento dell’essere”20. Gli eventi dipendenti, infatti, sono legati-associati da rapporti tali che ne fanno una rete fattuale e logica spazialmente e temporalmente osservabile, immaginabile e leggibile, sebbene tutte le condizioni non siano rappresentabili simultaneamente.

La levis immutatio è una figura retorica che, alterando anche la struttura di unsolo elemento linguistico del testo o di un suo sintagma, ecc., pone il problema diuna ri-composizione bricolage degli elementi e della ri-semantizzazione della forma. Modificando il suono, il ritmo, i significati e i sensi del testo, la chiave retorica apre le nuove possibilità di vita e di realtà contenute nella miscela del testo stessoe del tempo-kairos che lo fonda come l’essere in permanente metamorfosi.

Il kairos è il tempo che si fenomenizza come con-tingente, stocastico ma opportunamente equilibrato e descrivibile, dicibile, u-dibile come equilibrio mobileche permette di dimostrare e argomentare gli eventi reali come se fossero re-aie (a),il dire-l’aleatorio, il casoIla struttura che emerge dal “caos”, l’alfabeto del clinamendegli atomi lucreziani danzante in “incerto tempore, incertisque locis”.

4. Kairos, allegoria, levis immutatio e tertium datur

La levis immutatio, così, assume una funzione che va oltre il semplice ricono-scimento di figura retorica dell’elocutio. Essa, oltre il simbolismo testuale e semiotico, fa suonare le corde materiali dell’allegoria che interroga la vita, fa parlarel’indicibile e l’ineffabile e ironizza la storia portandone alla deriva i frammenti delsistema, le contraddizioni e le contra-dizioni materiali pubbliche e private che leparole del testo processano nel discorso.

Il frammento, però, lungi dall’essere fine a se stesso e un piano senza relazioni, avvia una nuova interrogazione “nell’organ1cità del lessico e nella parola contestualizzata. Ogni qualvolta la parola sembra richiedere un chiarimento va interpretata come una cosa nuova, mai fissa nelle sfumature e di significato cangiante”.21

L’allegoria, infatti, unitamente alle paradossalità logiche e alla messa in scenadell’ironia provocata dalla levis immutatio che deforma linguaggio e logica, fa esplodere il “simbolismo” e slega i “frammenti” dei termini del textum allorquando questi sono pensati come riuniti in un’unità pacificata o in un intreccio relazionale rettilineo, cristallizzato e naturalizzato. E ciò sia che riguardi il tessuto della vitasia quello della società storica elevandolo a valore di verità universale e necessario.”Nell’allegoria, per contro, il frammento resta tale, permane nella sua separatezza.L’allegoria è al di là del bello. <Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello chele rovine sono nel regno delle cose>. [….]. Uno strano rapporto ch’è di separazionee non meno di congiunzione; meglio: ch’è di separata congiunzione, di con giunta separazione. […].È necessario dunque pensare l’identità e la differenza, la differenza e l’identità, ma non risolvendo l’una nell’altra, l’altra nell’una, anzi mantenendo la loro opposizione, la loro contra-dizione – irresolubile. È necessario mantenere la menzogna della copula, e non mantenerla. […] è la necessità del nostro quotidiano: sempre che parliamo, diciamo la contra-dizione……22 L’allegoriaha dunque una sua rete di relazioni che trova n suo essere proprio nell’intreccio e nel crocevia del tempo-kairòs.

È come se il testo-tempo si trasformasse in un sistema in grado di generare infinite singolarità, eventi fuori sistema ed eccedenze di senso che non rispondonopiù neanche agli stessi canoni della logica del sistema che li ha messi al mondo,bensì alle logiche del sapere poetico-filosofico che si rapporta con” “n vago, n bianco,la miscela, n fiotto, n caos, le molteplicità adeli, […l non evidenti, mal definite, confuse”23 che sono propri del tempo potenziale come textum miscelato che include n tertium datur o n tertium “istruito”. È n nuovo sapere “ipocritico” o sottodeterminatoche non consente, senza annullare tuttavia le responsabilità etiche di ciascuno, lescelte della logica duale del solido o del cristallo o del terzo escluso.
“Il nuovo sapere richiede invece un terzo oggetto composito, che partecipi dell’ordine solido e del disordine fluido; questo oggetto si può immaginare allo stessomodo di una «fiamma gelata in tempi differenti». […] non più l’oggettività semplice del solido o i criteri del soggetto trascendentale, ma l’interferenza complessa traoggettivo e soggettivo ai margini fluttuanti dell’ordine e del disordine. Un sapere che può definirsi <meteorologico>[‘..I. Superamento del sapere della permanenza […1n nuovo sistema è un sistema multicentrato che regola n transito dell’energia e dell’informazione secondo un reticolo di intercettazioni e trasformazioni di potenziale […] una matematica floue, che partecipa dell’ambivalenza di una logica del terzo

escluso e del terzo incluso, in una matematica di origine topologica e qualitativa […]. Al di là della dinamica dell’esclusione, si annuncia ora un ritorno agli spazi multipli, al pensiero rigoroso del locale, della qualità e delle trasformazioni […l <dove> il tempo irreversibne coesiste con quello reversibne della dimensione della vita, ne è n reciproco contingente. Esiste però anche una terza cronia propriaricorda Serres – soltanto degli organismi viventi: il tempo dell’evoluzione della specie…24

Questo tempo-textum, nemico della logica duale del vero o del falso e della sintesidialettica che vorrebbe chiudere il processo della storia e ridurre tutto all’univer-salità dell’unicum, è recuperato così dalla poesia e dalla sua logica del tertium daturche valorizza e significa ciò che la logica dialettica tradizionale non legittima.

Ma questo tempo è anche n tempo plurale e molteplice della fisica dei fluidi e della filosofia del tempo-kairòs, n tempo opportuno del Weater di cui M. Serressottolinea la logica nomade che lo caratterizza e che, al contempo, è luogo di una testualità unitaria e dinamica del sapere come “<canto generale> in cui vengono abolite le distinzioni di genere e le divisioni della cultura in settori specialistici o iniziatici […]per cui lo scienziato è poeta e n poeta è, altresì, scienziato, intendendo la scienza come sapere complessivo e la poesia una <visuale> non specializzata delsapere, ma che, in quanto tale, implica una ben precisa coscienza e consapevolezza[…] poesia come ricerca sperimentale e riflessione sul sapere […] si pensi al<filosofare-scrivendo poesia> di Eschilo, Parmenide ed Empedocle, fino a Holderlin e Leopardi o a un contemporaneo come il siciliano Eduardo Cacciatore”.25

È la logica fluida del quasi-oggetto, del “terzo istruito” o incluso, presente neldivenire dell’essere-tempo-kairòs, che attraversa soprattutto la poesia oltre che ilsapere scientifico e filosofico.

“La filosofia dei corpi miscelati si addensa nella variazione e nella varietà, si pone prima e oltre una filosofia del soggetto, dell’oggetto e della sostanza, trova la sua ragione ragionevole di una terza istruzione, né scientifica, né culturale, al di fuori di ogni impulso di dominio.[ …] Del resto pensare, sintetizza felicemente Serres- sempre in Tiers-Instruitè evento creativo che compensa, che colma la lacunaontologica, a stretto contatto con l’ineliminabile presenza del nulla: che cosa chiamiamo dunque pensare? Compensare ciò che non è alla portata della ragione,portare la tara razionale tra l’esistenza e il nulla o il possibile, come se la ragionemettesse in relazione l’essere col non essere, o come se giustificasse ciò che è apartire da ciò che non è. Essa approda dunque alla creazione quasi divina e suppone una familiarità mortale con il nulla e il possibile. Questa pesata o proporzionecompensatoria colmano esattamente la lacuna ontologica.”26

È come affermare che c’è un dis-corso delle cose che pur non essendo né veroné falso, o incoerente rispetto a un modello dato, è tuttavia luogo di significanza e di senso; e ciò accade anche nella poesia e nel suo sapere relazionale associativo.

Le relazioni, che così si strutturano come parti di un sistema autopoietico e che si richiamano e si sostengono reciprocamente, oltre a generare eventi e campi semantici completi e coerenti, contemporaneamente, mettono in gioco ancherelazionalità leggibili a livelli diversi: certi e incerti, chiusi e aperti, contraddittorie non-contraddittori, paradossali. Sono nuove emergenze che pongono conoscenze e letture non prevedibili prima, come succede, per esempio, nel caso delle aritmiecosmiche.

La levis immutatio, alterando la lingua, facendo diventare l’alterazione stessacome un altro livello dello stesso messaggio poetico, favorisce e stimola inoltre questi stessi processi rivelatori. Essa è utilizzata nel mondo complesso della poesia e dellaletteratura per sprigionare nuovi campi semantici dai materiali linguistico-semioticiusati o riusati. Fa scattare delle biforcazioni che come onde di risacca vanno e vengono giocando sul piano dell’ambiguità, della polisemanticità e della plasticitàdella lingua per congetturare le possibilità infinite della temporalità dell’essere che si versa nella pluralità delle forme.

Nei testi toccati dalla levis immutatio ac-cadranno quindi cambiamenti determi-nati tali che provocheranno la nascita di altri universi significanti localmente con- tingenti e non leggibili univocamente. I nuovi testi, infatti, non sono analizzabili alla luce delle regole classiche della proporzione, della chiusura sintattica e semantica,dell’ordine dei metri, degli accenti, ecc., entro il ritmo di una ripetizione costante ed uniforme.

Essi sono portatori e provocatori di condizioni altre che propagano altri “effetti farfalla”, come succede al violino di Landau27 che dall’archetto può ricevere anche una sola nota dissonante con l’ultima, e così via, fino a capovolgere la musica nelrumore del dis-ordine caotico.

L’intreccio prodotto è, infatti, un’intersezione di livelli d’eventi reali e linguisticisu piani che interagiscono anche senza rispondere ai canoni del teorema fondamen-tale della logica classica elementare ovvero all’architettura di un sistema chiuso e coerente del verso classicamente finito e armonico, dove verità e “realizzabilità” o significabilità sono la condizione l’una dell’altra.

Le configurazioni artistiche e poetiche create con la levis immutatio hanno invece,tuttavia, una coerenza chiusa e aperta, perfetta e imperfetta, completa e incompleta,determinata e sfumata, contraddittoria e non-contraddittoria, com’è la stessa con-tingenza nella sua piena concretezza. Queste configurazioni, avendo relazioni governate non dalla logica formalizzata bensì da quelle associative, si rifanno, infatti,al principio del terzo incluso o “istruito” delle nuove logiche polivalenti, fluide e oscillanti del nostro tempo che non escludono né i paradossi né le sfumature delsenso e dell’hasard.

Più complesse e flessibili, queste logiche consentono di dar corpo a mondipossibili diversi e puntano sulla dimensione del divenire materiale come qualità,sulla modalità e sulla controfattualità delle ipotesi o, in termini quasi kripkiani, su quasi “opportuni stati di cose” o “punti-istanti” nello “spazio delle fasi”. E qui glistessi istanti del tempo, nella concretezza della con-tingenza, non sono più atomifissi bensì “tempuscolo” o momenti di transizione in cui gli eventi sono e non sono contemporaneamente.

Le informazioni non-lineari delle configurazioni poetiche che congetturano mondiimpossibili, invisibili e non rappresentabili, ma pensabili e immaginabili, sono così come i punti dinamici (gli istanti-tempuscoli del tempo contratti in quello spazio topologico) che transitano nello spazio delle fasi per poi esplodere nella de-clinazione dei versi: le onde che oscillano e creano dis-corsi, immagini e informazioni polisemiche permanentemente riconfigurantesi.

Per la poesia, lo spazio delle fasi costituisce il luogo dinamico dove il linguaggioporta al punto critico di rottura la danza dei sensi nominati o lasciati in ombra chenel generarsi passano da uno “stato” ad un altro servendosi della zona dell’interfaccia dell’immaginazione per mostrarsi ognuno nella propria novità simile e diversa.

Analogo ruolo gioca lo spazio delle fasi nelle ricerche scientifiche contemporanee.

Per la matematica, la fisica, la chimica, la biologia, ecc., dei fenomeni dinamici “Lo spazio delle fasi fornisce un modo per trasformare i numeri in immagini,astraendo ogni piccola parte d’informazione necessaria da un sistema di parti mobili,meccaniche o fluide, e disegnando una carta stradale flessibile di tutte le suepossibilità […]. Nello spazio delle fasi lo stato di conoscenza completo su un sistemadinamico in un singolo istante nel tempo si contrae ad un punto. Quel punto è ilsistema dinamico in quell’istante. Nell’istante successivo, però, il sistema sarà mutato, per quanto lievemente, e quindi il punto si muove”28

È come se dalle configurazioni poetiche, che si snodano nello scorrere dei versi,nascessero nuovi mondi con il loro carico di instabilità poietica e d’irrapresentabilità concettuale univoca, ma egualmente pieni di senso plurale e di plasticità polisemica.

In questi mondi, come negli universi della scienza, intreccio di relazioni piuttosto che di elementi semplici o di proprietà o di termini precisi e determinati, le aperturesono i versi che si de-clinano come il fluire di una corrente. È il fluire che tracciai propri sentieri strada scorrendo nel “tra” della transizione delle fasi che è processo e perciò anche discontinuità, caduta, deriva di frammenti e alle-goria.

Sono gli sbocchi della tensione ermeneutica ed euristica che attraversano il crocevia del linguaggio-logos come spazio topologico di torsione e deformazione sensibile alle variabili dell’«attrattore strano» della levis immutatio / effettofarfalla, la manipolazione che genera saperi e realtà possibili, congetturali, parziali, locali e coerenti-incoerenti.

In questa direzione, pensiamo, sia possibile leggere alcune esperienze di scritturae di logos che portano i segni della levis immutatio.

È il caso, per esempio, di Joyce che in Finnegans Wake descrive la conquista d’Isotta da parte di Tristano come se si trattasse di un’impresa di “peninsulatewar” 29.

Il “peninsulate”, qui, potrebbe essere, infatti, il campo semantico e di sensoprodotto dalla levis immutatio po(i)etica che altera la composizione iniziale dei termini usati per generare il peni-i (s) olate (un pen-man raffinato e introverso – isolate -) e/o il peni-is (o) late (un pene ritardatario), per questo l’impresa di Tristanopuò essere la guerra di un uomo introverso e/o la “guerra del pene ritardatario”.

L’impresa di Tristano appare così un’azione plurivoca che vive e cresce sulleparadossalità della con-tingenza della realtà e del linguaggio che la esprime e la comunica entro determinate scelte paradigmatiche e sintagmatiche, e modelli particolari di coerenza-incoerenza interrogativa ed euristica.

Un altro caso di levis immutatio potrebbe essere quello offertoci dallo scrittore siciliano Stefano Lanuzza nella sua opera Disiecta Membra.

L’aforista (apoftegma = definizione o determinazione per motti o sentenze) “è così il sofista, il poeta che scrive per toccare [… ] cartografare <guerre stellari, le guerre di posizione contro il Logos>30; il sesso anche un potenziamento e un investimento della genialità […l. La genialità fecondata dal sesso […l Seduzione mediante lagenialità […]. Insomma, la geni(t)alità”31.

La messa entro parentesi della lettera ”t” crea una zona di frontiera, una sogliacomune tra le due parole e i rispettivi campi, producendo referenzialità e significazioni difficilmente separabili, e, in ogni modo, non riconducibili ai soli significati condivisi e comuni che i termini hanno acquisito nel contesto sociale. Sulla soglia e nell’interfaccia del bordo allora vigila e agisce la scrittura e la lettura alle-gorica dei segni che sono traccia e memoria di un intreccio che si s-tende e complessifica.

L’estensione della significabilità ha, infatti, un campo più lungo e comprensivo dei significati logici stessi considerati come predicati semantici pertinenti o come semplici calcoli proposizionali formali, se fossero tradotte in formule ben formate.

Qui, l’autore fa esplodere il campo radicale-semico delle parole (le scompone e, ridefinendole, genera nuove costruzioni di senso) facendo riflettere le zone oscuree silenziose del reale come rifrazioni, così come aveva fatto Goethe quando ha usatoil prisma per definire il colore come un “valore dell’ombra”.

I tagli del linguaggio, la scomposizione e la ricomposizione che dividono euniscono in forma nuova ciò che è stato frantumato sono le aperture dinamiche che lasciano il passaggio a ciò che per mancanza di corrispondenza, adaequatio,tra cose e linguaggio/i, non è, infatti, mai registrabile né dalla rappresentazione, né dall’immagine, ma è tuttavia poeticamente dicibile tra l’ordine e il disordine del verso.

Valéry, infatti, dicendo che in poesia “Ciò che non è ineffabile non ha alcuna importanza” e che “Il problema della ricerca poetica consiste della moltiplicazione di sintassi, musica e convenzioni”32, ha già posto il problema e una possibile ipotesi di lavoro di rapportarsi a ciò che ineffabile è anche dicibile, u-dibile, raccontabile tramite il linguaggio simbolico e sperimentale che attraversa la vita e le cose.

“La procedura poetica familiare a Valery, che esige una preliminare, sistematicaeliminazione della parole, tende ad arrangiare l’arbitrarietà della forma con quella del senso. La fisicità del linguaggio si combina così – nella poesia – con le relazionicomplesse tra significazioni: <il fondo diviene l’atto della forma>, come per la matematica e la musica. Tutto ciò determina figure di tempo: il verso, per esempio, <è un’attesa organizzata che fa prevedere la sua durata>. Il gioco tra il disordine provocato e l’ordine imposto rende bene la bellezza del verso e la sua qualitàinventiva; come tutto ciò che vive nella letteratura il bel verso deve produrre un’impressione di disordine e di irregolarità. La miscela che emerge dal nulla eproduce il novum è oggetto di numerose narrazioni…”.33

Gli esempi, tratti dalla saggistica o da altre opere della letteratura contempora- nea, potrebbero continuare. La non adaequatio tra linguaggio e cose, infatti, fascattare negli scrittori i meccanismi dell’ambivalenza e/o della plurivalenza che si trasforma così nella non-valenza delle funzioni di verità del codice; si trasforma anche nell’ambiguità sistematica del discorso narrativo che si fa indecidibilità equindi assurdo e paradosso sostenuti dall’intreccio tagliato di logiche e linguaggi diversi per dire e u-dire l’unità molteplice della realtà e della cultura.

Ciò è riscontrabile nella poesia, nel teatro e nella narrativa contemporanea(pensiamo anche al mondo della produzione poetica e letteraria siciliana) dove il fenomeno si manifesta nella forma del dire po(i)etico che struttura paradossalità e discorsi disambiguati e precisi, linguaggi lineari e non lineari che se-ducono neldelirio dei testi come nell’assurdo o nei campi dell’ambiguità e dell’ambivalenza cheli attraversa. Pensiamo al caso di Luigi Pirandello di Uno Nessuno e Centomila o diL’olivo e l’olivastro di Vincenzo Consolo e, soprattutto, alle precedenti opere dellostesso Consolo.

Recentemente dei due autori si sono occupati Salvatore Vecchio e Nicolò Messina, e alla lettura diretta dei loro lavori (qui non utilizzati adeguatamente perragioni di spazio) rimandiamo il lettore che volesse approfondire gli spunti offerti

È in quest’inarrestabile errare appunto, allora, che il narrare, l’interrogare e lapoesia trovano radici e cieli; è in questo camminare, in cui la sosta lungo i crocevia dei sentieri è più un movimento con-tingente in attesa che un vero e proprioarrestarsi, che la letteratura e la poesia perpetuano il loro legame eterno con la vita e fondano il proprio sapere e la propria conoscenza. L’eterno, però, qui è !’infinita temporalizzazione del tempo che processualizza !’intreccio della vita e della storiamateriale degli uomini che nelle diverse epoche, in ogni modo, non perdono la loroqualità di essere anche soggetti di azione e decisioni.

Scrive Irene Marusso, a proposito dei testi di poesia raccolti nel nostro libroL’Utopia di Hannah Arendt, “L’intreccio dei linguaggi in Contiliano non ha però solo il compito di renderci una sensibilità ai limiti della <demenzialità> e del <delirio>; esso, infatti, risponde anche al dettato della sua poetica che mira a cogliere l’unitàmolteplice della cultura così come unità molteplice è la realtà del tempo che si snodanella complessità non lineare degli eventi e ri-simulati nei versi della sua stessapoesia [… ] Lo stupore di questa <festa dell’apparenza>, per dirla con la Arendt, cuiil Nostro dedica il libro, non mira allora all’ornamento bensì a far sprigionare laricchezza del novum di tutte le virtualità semantiche che possono scaturire dalle combinazioni lessicali, le quali a loro volta vengono declinate nel verso per scrivere poeticamente la con-tingenza e il re-aIe molteplice e intrecciato del tempo”.36

È, poi, la riflessione su questo tipo d’operazione, allora, che porta a considerare il reale come textum del re-ale(a), con-tingenza e miscela, soglie che s’intrecciano e fluiscono come rete di relazioni determinate e indeterminate, a volte anche neutre, piuttosto che insieme d’elementi o concetti precisi secondo il canone della vecchia logica.

La zona di frontiera, il “tra”, !’interfaccia, che unisce e divide gli elementi verbali di diversa categorialità, attiva infatti bordi d’intersecazione-transizione significativache vede agire e interagire contemporaneamente le somiglianze, le differenze e ilcambiare forma delle cose mentre conservano la memoria del loro divenire.

La cristallizzazione, la dissolvenza e lo spaesamento degli eventi semici, purdifferenziandosi, continuano a mantenere legami mobili con la radice comune e a fornire continue informazioni semantiche altre e oltre quelle contenute nei costruttilinguistici di partenza.

È la violazione del codice, delle parole, della lingua, delle sintassi e della loro interpretazione che, riproponendo la testualità e la contestualità delle relazioni fluide e mobili degli eventi, rimette, allora, in gioco la possibilità di sensi pluralipresenti-assenti nella poesia.

È come se intervenisse un metalinguaggio che, non avendo tutti termini definiti e proceduralmente decisi per decifrare quanto emerso, interpreta e significa il vecchio livello linguistico creandone uno nuovo senza esaurirvisi ed esaurirlo.

È come se la violazione disseminasse le tante tracce sprigionatesi nello spazio delle fasi e svolgesse, sistematicamente e non sistematicamente, caoticamente, itanti sentieri, i punti dinamici (gli istanti/tempuscolo) del tempo contenuti nei passiprecedenti sottoponendoli a torsioni e tensioni che comunque ci dicono d’altri luoghi del divenire.

5. Effetti della ricerca po(i)etica

Nell’ottica in cui è posta la levis immutatio/effettofa/falla è possibile collocare, forse, anche, il repertorio degli strumenti retorici della rima, del metro, del ritmo, degli accenti, ecc., per ascoltarli oltre il suono delle parole nelle sfumature, nelle ombre e nelle altre cose altrimenti non percepibili.

L’applicazione di tutta la strumentazione retorica, introducendo variazioni fra gli elementi e le relazioni del testo, genera infatti una nuova miscela d’elementi, sintagmi e mappe semantiche nodali che consentono di aprire altri varchi originali, impossibili, virtuali e paradossali (inconcepibili per la logica comune ma vivi e significativi per altre logiche).

Sono i molti e differenti piani della significazione paradossale, infatti, che entranoin gioco e generano dimensioni conoscitive e comunicative particolari di cui solo le nuove logiche della complessità contemporanea possono rendere notizia.

Si origina così, insieme (anche) un certo piacere intellettuale ed estetico che la logica comune, per esempio, non potrebbe assicurare: è il piacere dell’ambiguità e dell’ambivalenza semantica, delle biforcazioni e delle catastrofi cui sono sottoposti i versi che si versano dal caosmico mondo delle possibilità, della comunicazione polisemica, della contraddizione e dell’ossimoro, ovvero, ripetendo Novalis, della razionalità al quadrato o del superamento del principio di contraddizione.

Il caosmico sarebbe così il “caos razionale”: l’acuta follia dell’ossimoro del poeta, come il cosmos sarebbe un’unimulti compossibilità vivisezionata, un particolare edeterminato mondo razionale-non-razionale, paradossale. L’ossimoro dello scienziato.37

L’ossimoro del poeta e quello dello scienziato, uno dei mondi possibile-impos- sibile, razionale-irrazionale, razionale-immaginario che coniuga e declina realtà e sogno, cose e configurazioni, fenomeni e modelli, è opera, infatti, della comuneazione poietica che organizza e miscela livelli diversi e anche paradossali dell’essere plurale.

L’organizzazione poietica del complesso intreccio dei livelli è tale, poi, che,simulando la relazione ologrammatica testuale semiotico-simbolica, aperta e impre- vedibile dell’essere stesso come testo, può superare la stessa immagine del sogno di cui porta traccia. L’immagine onirica, infatti, ha un certo rapporto di verosimiglianza con i fatti rappresentati o schematizzati che, invece, non si trova nei mondi dell’ossimoro, in quanto gli eventi che vi ac-cadono sono assolutamente imprevedibili e quindi non rappresentabili né immagazinabili. pertanto, nella memoria di nessuno.

Questa eccedenza di re-altà e di senso per alcuni aspetti simulata e paradossale, in ogni modo, trova il proprio ac-cadere nello scorrere de-clinato e variegato dei versi dei poeti e nelle circo-stanze che accolgono gli eventi “farfalla” connessi agli stessitesti naturali o artificiali.

La poiesis ha infatti una praxis che, in quanto legata ad un reticolo verbale preesistente e alla parola d’altri soggetti via via emergenti nel flusso temporale, produce atti, relazioni, scambi imprevedibili quanto ambigui e tuttavia leggibili perché aperti ad una determinata significazione sempre inventiva, scopritrice, e perciò stesso aperta ad una rinnovata polisemia capace di oltrepassare la stessa verosimiglianza38onirica del sogno. Tutto ciò che appare nel sogno, infatti, ha un rapporto con i dativissuti che il cervello, la memoria, l’intelligenza, la coscienza e l’immaginazionehanno incamerato e rielaborato. “L’apparente disordine logico connaturato allo statodel sogno segnala infatti una proliferazione di figure mentali che, sebbene al di sotto della soglia di riferimento esterno, tramite la stessa libera attività associativa chesi sprigiona nel sogno stesso, si riconnettono alla materialità degli elementi che il cervello e la memoria hanno introiettato modificandone la combinazione. Si entracosì nella fabbrica dei processi della significazione onirica che si riallaccia agli schemi elaborati e conservati nella memoria dove giacciono i ricordi vissuti o solopensati/immaginati creando una vera topologia in cui gli elementi della veglia “si combinano in uno spazio qualitativo e in un tempo istantaneo, senza possibilità diandata e ritorno” 39, sfruttando le associazioni offerte dalle chiavi linguistico-sonore e logiche della retorica.

La rima, per esempio, “che tende a far percepire come simili, attraverso l’omofonia dei significanti, dei significati posti come differenti, il metro, che esprime frasisemanticamente differenti con frasi foniche simili, il ritmo, che dà appoggio all’impressione globale della regolarità del metro, gli accenti, che perdono la normale funzione d’elementi distintivi nella loro distribuzione metrica unitaria, assumono una funzione paradossalmente antifunzionale, oppongono il messaggio al codice al fine di obbligare il codice a trasformarsi”40, insieme con gli altri accorgimenti, è unmedium, infatti, che nei testi provoca effetti di torsione e biforcazione po(i)etici che sono assolutamente nuovi, imprevedibili e quindi non rappresentabili.

L’omofonia degli elementi che fa cogliere il dissimile come simile, che ac-cade comeun evento che crea più sensi di quanti ne nomina e dice, per esempio, costituisce un’alterazione topologica e irrazionale che, tuttavia, è anche un “tra” che media etransita il passaggio della pluralità delle cose e della plurisigniflcanza che circola nei testi in possibili configurazioni assolutamente nuove e inaspettate. Significati e sensisi trovano come in un crocevia o in una soglia plurima in attesa di una diramazione comunicativa potenzialmente pluridirezionale e, forse, visibili come se fossero dia- grammi di biforcazione o generazione di immagini frattali4l , i cosiddetti “insiemi di Julia”42 per esempio (le immagini sono create con il trattamento grafico-elettronico degli stessi frattali di Mandelbrot), che nel loro molteplice espandersi regolare- irregolare di ” separata congiunzione, congiunta separazione” sembrano richiamarela dialettica delle parti e dei frammenti di cui parla l’allegoria di Benjamin.

La litografia Liberazione di Escher o, forse, la stessa immagine frattale possono essere considerate, forse, come esempio rappresentativo e figurativo di tali processi. Infatti, come nella litografia la configurazione che via via si modifica conserva e diversifica l’identità e la differenza delle figure, e si fa spazio topologico di quasi-oggetti, oggetti determinati e indeterminati, di mondi irregolari e regolari, e di possibili referenze altre, così, anche nel caso dei testi, come si è potuto vedere già, la levis immutatio, introdotta l’alterazione, per esempio, nella parola – geni(t)alità – (come si è già visto precedentemente), conserva e modifica la comprensione del termine sia dell’intero testo in cui si trova. Essa introduce una zona di frontierache crea nuove e plurime combinazioni di senso, nonché altre simultanee virtualità soggette a possibili sviluppi.

Liberazione di Escher Immagine frattale classificata 041

6. La logica dell’et et, l’indeterminazione e le metafore

Ora, dette combinazioni che producono presenze e possibilità contemporanee dipiù significati sono leggibili e comprensibili solo con la logica dell’et et e delparadosso, la logica che lega i contrari e gli opposti e va oltre i limiti fissati dalle regole della pertinenza formale della coerenza, della dimostrabilità, della verità unicae universale della logica classica.

La logica classica dell’aut aut, oggettiva, univoca, capace di prevedibilità deterministica, di misure precise e costanti ha già mostrato i propri limiti anchenell’osservazione dei fenomeni quantistici; ha fatto vedere altresì anche la necessitàdi utilizzare, a volte, procedimenti più argomentativi, metaforici (tipico è il casodell’individuazione dei “buchi neri”), probabilistici, insicuri e qualitativi (tipico è ilcaso della misurazione dello spin) che dimostrativi, razionali e certi.

La logica bivalente allora perde sia il monopolio dell’indagine sul divenire dell’essere sia il suo carattere d’universalità: le sue regole diventano relative e razionali e sono significative solo in rapporto ad un modello tipicamente determinato.

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Il relativismo, naturalmente, non annulla né la capacità di determinare le conoscenze né tanto meno la capacità della comunicazione intersoggettiva. Siarricchiscono soltanto gli orizzonti del senso e della significanza.

Nasce così, per esempio, la logica quantistica, la logica della microfisica che mette in crisi alcuni dei capisaldi della scienza e della logica classica: il concetto di cosa, d’oggetto ( basti pensare agli eventi descritti come campi, quanta, onde,virtualità, ecc.) e di soggetto-spettatore.

L’universalità delle leggi fisiche cede il passo alla determinazione relativistica. Non è più possibile avere, per esempio, nei processi che toccano le particelleluminose e le loro possibilità di configurazione, la misura simultanea di due o più grandezze come la posizione e la velocità di un elettrone.
La teoria della relatività di Einstein aveva già messo in evidenza i limiti delle regole della fisica classica lì dove il principio della somma e della sottrazione delle grandezze non poteva più essere applicato ai fenomeni luminosi. Qui, il principio, infatti, è falsificato: la velocità della luce è un fenomeno limite e non risponde piùai risultati delle operazioni consolidate dai calcoli classici. Somme e sottrazioni di eventi luminosi, misurati alla velocità della luce, o prossime alla stessa velocità della luce, non registrano più né l’aumento né la diminuzione della velocità della luce stessa, che, in ogni modo, rimane sempre di 300.000 km il secondo.

Nell’universo delle operazioni logiche ed aritmetiche entra in crisi anche la regola della distribuzione della somma rispetto al prodotto.

È la fisica del “caos” quantistico che mette in crisi anche la validità universaledella legge della distribuzione della somma rispetto al prodotto. La misura (la quantizzazione, cioè il suo essere “su” o “giù” rispetto ai due assi spaziali x e y),per esempio, dello spin 43 di un elettrone, momento angolare intrinseco, non risponde alla previsione e alle modalità metriche della citata legge. La distribuzione, infatti,non può più essere determinata contemporaneamente sull’asse x e y, come invece ci si aspetterebbe se la regola della distribuzione fosse valida anche per questifenomeni. Il “su” o “giù”, inoltre, non sono più parametri metrico-formalizzati come richiesto e previsto dai procedimenti classici.page32image19360

Tuttavia, formalizzando il processo e indicando, per esempio, con P e ( Q o R) i valori e le congiunzioni logiche dello spin, da P e ( Q o R) non si può più inferire (P e Q) o ( P e R). ma solo P e ( Q e R ).

Vengono a cadere cioè le tradizionali attribuzioni inferenziali verofunzionali dei connettivi logici – e, o -.

Supposto, infatti, che P indichi il valore “su” dello spin sull’asse x, Q il valore “su” dello spin sull’asse y e R il valore “giù” dello spin sull’asse y, dalla verità dellaformula P e (Q e R ) non è più deducibile la verità della distribuzione logica ( P e Q) o (P e R).

Considerato ( P e Q) = A e ( P e R) = B, rispetto all’operatore “e”, si può costruire la seguente tavola di verità della congiunzione “e”,dove lo stesso operatore logico “e” non può però garantire sui quattro valori di veritàespressi dalla congiunzione logica neanche il primo ( già vero). perché dello spin di Q e R non si può affermare che è vero che sia sull’asse x come lo spin di P.

Considerato ( P e Q) =A e ( P e R) = B rispetto all’operatore logico “0”, si può ancora costruire la seguente tavola di verità della congiunzione “0”,dove lo stesso operatore logico “0” non può garantire i tre tradizionali valori diverità sui quattro possibili, perché anche per i tre valori di verità non si può garantire la simultaneità della posizione sia sull’asse x sia sull’asse y.

Un’altra svolta che segnala i limiti della visione e della logica classica èrappresentata dalla presenza delle energie negative individuate da Paul AudrienMaurice Dirac nella meccanica quantistica relativistica. Sono i cosiddetti “buchineri” che si comportano a tutti gli effetti come una particella “avente carica positiva +e (opposta a quella degli elettroni che vale -e). energia positiva e massa identicaa quella dell’elettrone””.

A

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V V F F

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A

B

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V V F F

V F V F

V V V F

Nel caso delle energie negative, non è solo il fatto che, contemporaneamente, comportandosi come cariche positive, mette in crisi il principio di non contraddizione della logica classica, è il fatto anche che l’intera visione razionale classica della realtà viene meno. È come se la razionalità fosse solo un’isoletta d’approdo che si è appena sedimentata e subito dopo dissolta, mentre l’irrazionale e il caos che ne costituiscono il fondo continuano ancora a provocare e a condizionarne i processi trasformazionali che si creano nelle aperture praticate dal possibile. È anche il fatto che Dirac, contrariamente alle procedure deduttive del metodo scientifico sperimentale galileano e cartesiano, per dimostrarne l’esistenza di quel quid ha impiegato ipotesi ad hoc e metafore che, invece, secondo il metodo deduttivo-sperimentale, non dovrebbero comparire nelle procedure scientifiche. Dirac, infatti, senza alcun supporto che non fosse quello argomentativo e quello della creatività po(i)etico- ipotetico-immaginativa, ha supposto “che nello spazio apparentemente vuoto tutte le possibili configurazioni ad energia negativa fossero in realtà occupate da elettroni.Per non contraddire tutto ciò che osserviamo con gli esperimenti di fisica atomica, Dirac suppose che questo «mare» di elettroni con energia negativa fosse in linea di principio non osservabile, nonostante le infinitamente grandi densità di energia e di carica elettrica. gueste ipotesi impedivano ad un normale elettrone con energia positiva di «cadere» in una configurazione ad energia negativa. Infatti, una legge empirica, scoperta da Wolfgang Pauli (1900-1958) qualche anno prima, afferma che in una data configurazione non può trovarsi più di un elettrone (principio di esclusione)”.45oggi, invece, non c’è procedere scientifico (dalle scienze alla matematica) che faccia a meno delle metafore. Robert May, nel simulare al computer la crescita di un’immaginaria popolazione di pesci come se fossero dei numeri, vedendo che la fluttuazione non si arrestava, per esempio, parla del “serpente dell’erba matematica”46. John Hubbad, per raffigurare la fluttuazione molecolare che rimane sospesa e concatenata in una rete di “minuscoli affioramenti” sospesi come in una tela, richiama la metafora usata dallo stesso Mandelbrot di “polimero del diavolo” 47 che gli servì per riferirsi alle intrinseche instabilità dell’insieme frattale principale dello stesso Mandelbrot.

D’altronde, persino l’AT (Aritmetica Tipografica) ha enunciati e formule ben formate che hanno delle variabili libere, aperte e variamente significabili, perché indeterminate ovvero non vincolate ai quantificatori esistenziali che, ove ci fossero,rimanderebbero agli oggetti, agli individui e agli stati di cose esistenti.

L’AT ha anche costrutti che, volendo per esempio esprimere la totalità, come nel caso degli enunciati che contengono variabili generiche che si riferiscono alla totalità in fieri (per chiuderla) rimangono egualmente aperti, indecidibili e, tuttavia,significanti,

Senza scandalo alcuno per la coerenza dell’aritmetica, anche qui, si parla disistemi m-incompleti (m, omega, è un indice che sta per la totalità dei numeri naturali) e della m-incoerenza.

“Un sistema è m-incompleto se tutte le stringhe di una famiglia piramidale sonoPag. 34teoremi, mentre la stringa-riassunto quantificata universalmente non è un teorema.[…]. La w-incoerenza è diversa dall’incoerenza. Questo tipo d’incoerenza, prodotta dall’opposizione tra una famiglia piramidale di teoremi, i quali, nel loro insieme, affermano che tutti i numeri naturali hanno una qualche proprietà, e un dato teorema che sembra affermare che non tutti i numeri naturali godono di quella proprietà, è stata chiamata w-incoerenza […] Per farsi un modello mentale di come stanno le cose, bisogna immaginare che vi siano alcuni numeri <extra> insospettati, chiamandoli non <naturali> ma soprannaturali, che non hanno numerali”48 come nel caso dell’espressione di una proprietà dell’addizione in generale e che, tuttavia, concretizzano situazioni, che sebbene rimangano aperte sono significanti in quanto né vere né false e perché poste in zona di frontiera. La zona di ” frontiera che separa l’insieme degli enunciati veri dall’insieme degli enunciati falsi è tutt’altro che lineare; è una frontiera con molte curve infide: una frontiera della quale i matematici hanno delineato alcuni tratti, qua e là, con un lavoro di centinaia di anni.”49

7. Le alterazioni logico-linguistiche e l’emergenze semantiche

La non linearità, la non oggettività, l’alterazione dei linguaggi e l’indeterminazione significante non è, dunque, come si può vedere, una dimensione che appartiene solo al mondo della poesia e della letteratura.

Ritornando alla scrittura, è ancora Joyce dell’Ulisse, ci sembra, il punto di riferimento per altri esempi chiarificatori di alterazioni linguistiche e costruttiproposizionali aperti e polisemici che giocano la significanza sull’omofonia e/o sualtre corde retoriche.

L’esempio si trova nel capitolo de “I mangiatori di loto”: Marta, amante di Bloom,usa il termine “word” per dire “ti chiamo ragazzaccio” (anziché amante) “perché quell’altro mondo (world anziché word) non mi piace”so.

Come si vede, l’intervento gioca sull’omofonia e l’allitterazione strutturale dei termini, che facendosi soglia, confine, bordo interno/esterno, generano la dissolvenza dei significati che si associano, si con-fondono, si ri-associano, si scambiano (sono ambivalenti) plurimizzando i sensi dei termini e del testo che li contiene.

La levis immutazio-effetto farfalla, governata da altre logiche, produce dunquenuove referenzialità informative sia sul piano espressivo-emozionale sia su quello concettuale.

Una leggera manomissione del testo, come si è visto, provoca una dissociazione e una riassociazione rimescolatrice dei termini e dei possibili significati tali da crearenuove reti semantiche e prospettare nuove ipotesi e soluzioni, così come si verificamediante le ripercussioni provocate dall’effetto farfalla nel mondo naturale della complessità dinamica.

La logica matematica, per esempio, si è servita del rimescolamento per percorrere nuovi itinerari e trovare informazioni e nuove soluzioni a vecchi problemi. Il rimescolamento, analogicamente, per gli effetti prodotti, richiama la somiglianza dei modi di procedere della poesia e della stessa matematica.

Il rimescolamento associativo e congetturale dei termini e dei significati nell’arte letteraria e poetica, infatti, richiama alla mente il principio del rimescolamento congetturale usato da G. Gentzen per dimostrare la coerenza della teoria dei numerio il contare l’insieme infinito e mostrame il volto contraddittorio: il numerodell’insieme infinito deve essere finito e infinito allo stesso tempo.

Solo una logica che accetta la contraddizione, come quella po(i)etica, può non respingere simili paradossalità.

L’approccio congetturale del “rimescolamento” è, si diceva, di Gerard Gentzen.Gentzen prese una parte dei numeri (per esempio lo zero e i numeri pari) per rappresentare tutti i numeri naturali, mentre l’altra parte (tutti i numeri dispari acominciare dal numero 1) per rappresentare un’altra categoria di numeri, quellitransfmiti, ecc.

Intervenendo e modificando la posizione degli elementi del sistema, quello deinumeri, il matematico ha generato altri numeri e altri modi di vedere e significare gli stessi numeri, così come, analogamente, avrebbe fatto il poeta con gli elementidel suo universo.

L’analogia e l’accostamento tra poesia e matematica mediante il “rimescolamento” vuole, qui, essere solo un modo per sottolineare come la congetturalità creativa,ottenuta tramite l’introduzione di variabili negli elementi e nella sintassi dei linguaggi, sia comune a questi mondi della ricerca, dell’espressione e dellacomunicazione (lontani solo apparentemente), e come, ricombinandoli, si possano generare nuove ipotesi configurative e seguire l’essere nel divenire dei suoi ac-cadimenti ed eventi.

Nel mondo matematico, inoltre, è ancora con il “teorema di limitazione” di Skolem-Lowenheim che si mostra come il gioco delle interpretazioni non valga soloper i testi della poesia e della letteratura in genere.

Aldo Giorgio Gargani così sintetizza il problema: “Portato sul piano di un linguaggio filosofico generalizzato, il teorema di Skolem-Lowenheim mostra che nessun simbo- lismo può autoidentificarsi e che soltanto le procedure costruttive nella loro effettiva applicazione, mediante decisioni inaugurali e intransitive, stabiliscono il significato di un’operazione sul simbolismo. E qui intransitivo significa che l’applicazione, ladecisione non devono conformarsi a un modello prestabilito […]. Dal teorema di Skolem-Lowenheim discende…data una proposizione vera o una classe di proposizioni vere nel mondo reale e in tutti i mondi possibili, tale proposizione o classe di proposizioni, pur rimanendo vere, sono suscettibili, entro una notazione logicamente normalizzata, di ricevere una varietà di interpretazioni praticamente infinita”51.

Il principio di rimescolamento e il teorema di limitazione ci dicono allora che se un modello e la sua teoria garantiscono le condizioni di verità delle loro proposizionidentro il modello stesso e in tutti i mondi possibili, tuttavia, non determinano néil referente concreto dell’evento individuale né i diversi modi in cui si puòconcretizzare e dire il divenire dell’essere e delle sue possibilità. Questo rimane, infatti, comunque,un testo infinitamente aperto, imprevedibile e plurale,”epocalmente” dicibile.

8. Il testo, ologramma multiverso, complesso e paradossale

Un testo non è mai una somma di parti bensì un ologramma dinamico, una struttura complessa di elementi e di relazioni che s’intersecano vicendevolmente, e che, modificati da interventi diretti, indiretti e contestualizzati, danno origine atesti individuali, modelli di realtà e di verità che accettano la polimorfia e la plasticitàdel loro essere.

È ciò che succede nel mondo letterario e poetico allorquando si crea e si leggeun testo a partire da interventi che ne modificano le condizioni iniziali o in itinere, e le parole, i sintagmi e la sintassi, ecc., si prestano a più possibilità di lettura ecomprensione differenziate.

Allorquando, con gradi di “libertà” diversi, si creano variabili che si allontanano dal punto di partenza sintattico e logico-semantico appartenente a quel determinato mondo, infatti, si originano universi incrociati che, paradossalmente, fusi l’unonell’altro o ripiegati su se stessi, a livelli diversi, convivono interagendo e concretizzanomondi “reali” con-tingenti e possibili.

La non prevedibilità perfetta, dovuta al fatto che non possiamo rappresentarcil’infinito potenziale e tutto il suo tempo multiversum in una datità attuale o in una rappresentazione data e oggettiva, tuttavia, non esclude la determinabilità degli eventi e la costruzione di un loro senso, qualunque sia il testo che si configura nella con-tingenza dell’evento che ac-cade.

Il mondo del caos/complessità, come quello della poesia, tutt’altro che irrazio- nale, ricorsivamente, per salti, coniuga così, fluente e fluttuante, ordinato e dis-ordinato, la pluralità degli opposti e dei contrari, il sistema e l’assenza di sistema.Anzi, le costanti e le variabili, le regole e l’assenza di regole, il necessario e il possibile, la turbolenza e la coerenza, il determinato e l’indeterminato, la quiete e il movimento non sono leggibili più come coppie di opposti dialettici bensì comerelazioni interattive, circolari e aperte che si con-fondono e diversificano.

Paradosso e complessità, ancora una volta, attraversano e nutrono la poesia e l’arte: sistematico e non sistematico, linearità e non linearità vi coagiscono.

“Ogni fatto <individuale>, ogni <quasi quasi> in un testo artistico – come osserva Lotman -, è il complicarsi della struttura di base mediante una struttura aggiunta che complessifica l’intreccio stesso. Il testo nasce come intersecazione di almeno due sistemi, ciascuno dei quali nel contesto ha un particolare significato. Quanto più regolarmente s’intersecano in un dato punto strutturale, tanta maggiore quantità di significati otterrà quest’elemento, e più individuale, non sistematico esso apparirà. Il non sistematico nella vita si riflette nell’arte come polisistematico.”52

La ricorsività degli elementi e delle intersecazioni anziché ripetere l’identità trasforma la stessa in un moltiplicatore di somiglianze approssimate e di differenze infinite.

Lotman, esaminando le strutture semiotiche, dice che “la complessità di una struttura artistica dipende in modo direttamente proporzionale dalla complessitàdell’informazione trasmessa. […]. Il linguaggio poetico si presenta come una struttura di gran complessità. […]. E se il volume d’informazione contenuto nel linguaggio poetico e nel linguaggio comune fosse uguale, il linguaggio artistico perderebbe il diritto di esistere e, indiscutibilmente, morirebbe. La questione si pone però diversamente: la complessa struttura artistica, creata col materiale della lingua, permette di trasmettere un volume d’informazione che sarebbe assolutamente impossibile trasmettere con i mezzi della struttura linguistica normale. Deriva da ciò che la data informazione (il contenuto) non può esistere, né essere trasmessa fuori della struttura data. […]. In tal modo, la metodologia dell’esame del <contenuto ideologico> separato, e delle <particolarità artistiche pure separate>, tanto pervicacemente in uso nella pratica scolastica, si fonda sull’incomprensione delle basi dell’arte ed è nociva, in quanto induce nel lettore di massa una falsa rappresentazione della letteratura come di un mezzo per esportare in modo più lungo e abbellito gli stessi pensieri che si possono esprimere in modo breve e semplice.”53

Occorre, quindi, stabilire solo delle coordinate di riferimento e delle condivisioni possibili utilizzando tutte le condizioni di senso disponibili, comprese le credenzee le chiavi di trasmissione e lettura, per vedere la poesia come un mondo complessodove la ragione e l’ìmmaginazione, il previsto e il caso sono l’uno la ragione dell’altro e viceversa.

Il mondo della poesia e il tempo dinamico (kairos) che la fonda e l’attraversa, come ha detto A. N. Kolmogorov, l’accademico sovietico ricordato anche da J. M.Lotman in Struttura del testo poetico, hanno una processualità esponenziale cheè tipica dei sistemi complessi.

Ciò che fa di uno scritto un testo di poesia, infatti, dice Kolmogorov, è lapolisemia, ossia la plasticità della “lingua creola”, che se sopraffatta dall’informa- zione non genera poeticità. “[…] la creazione poetica è possibile solo finché la quantità d’informazione utilizzata per le limitazioni (6) non supera j3 < h2 , la plasticità del testo. In una lingua con J3 ❓ h2 la creazione poetica è impossibile”.54

Se il tasso d’informazione non supera “h2”, ossia la plasticità del testo, allora la creazione poetica è possibile, perché proprio “h2″ è la fonte della poesia e dellasua complessità non lineare, diversamente c’è entropia.

Un testo di poesia è come un sistema di alta complessità, il cui tempo e il cui ritmo esplode e implode, si ripiega e si stende in maniera così retificata eaggomitolata che è impossibile trattarlo con modelli semplici e procedure chiuse.Il modello di lettura, interpretazione e ri-interpretazione, è piuttosto paragonabile, sempre, ad un’ulteriore metafora linguistica più che ad un vero e proprio sistema di codifica e decodifica.

Il mondo della poesia di oggi è, poi, un insieme d’eventi particolarid’effetti ‘aalla” che poco hanno a che vedere con quello determinato della chiusuradella peezione dell’universalità classica sia nella suajorma antica che moderna. Gli eventi

che la costituiscono sono un complesso di processi chiusiaperti, e soprattutto locali, dove le contraddizioni che n’attraversanotessuto la individuano come esplosioneramficazione imprevedibile di declinazionicongiunzioni sintagmatiche che diconocontra-dicono… il tempo del poetaquello mescolato, temperato, il tempo della contingenza che il poeta è portato ad isomozare simulandolo…nelle sue varie articolazioni intermittenti…mentre la poesia n’è il verso, i versi del suo vertere nelle cadute d’angolonelle relative diramazioni che dialettizzano il campo semantico delle realtànzioni.55

Un esempio significativo, forse, è possibile averlo leggendo i versi del testo poetico “epimitio” 56 di G.Toti:

“…ma sì! Effetti parassiti di cosmolalìe io possoscrivermeli e scriviverveli anche se terribiliosiper me come i picosecondi del «ritardo di porta»

o per miliardesimo cubo i mille e uno romanzi o gli zilioni di byte – e il bit il byt-idiano alfabyt”

Del resto le contraddizioni e le anomalie logiche che s’incontrano nelle veritàpoetiche degli ossimori e/o delle metafore, ecc., assunte come “oggetti”, quasi-oggettied eventi logico-linguistici di mondi possibili, si ritrovano negli stessi universi delsapere scientifico, dove assumono verità di senso e di significanza solo relativamentealle coordinate di riferimento dei modelli scelti per navigare nelle correnti vorticose dell’essere e del tempo.

9. Il tempo e le logiche del poeta

All’orizzonte di questa rivoluzione di paradigma c’è l’apporto delle sperimentazionie dello sviluppo delle nuove logiche (la logica temporale, quella affermativa del “forcing”, epistemica, frattale, topologica, fIoue, ecc.) che sono in grado di cogliere, come abbiamo visto, il divenire delle possibilità del tempo, che non è più, così, “attimo” (discontinuità di punti atomici, fissi e sempre identici, tagliati nelcontinuum regolare del tempo stesso) bensìfluenza eflusso, instabilità, periodicitàe non periodicità, dissolvenza che miscela gli opposti, le contraddizioni e le anomalie che scoprono/creano possibili significanze.

Senza l’apporto delle nuove logiche le cose diventerebbero maggiormente magichee inesplicabili.

Il tempo non più un continuum lineare regolare bensì un textum che miscela i complessi intrecci del sistema caotico carico d’informazione da esplorare, così cometextum è la poesia che simula e de-clina i versi non lineari della con-tingenza degli eventi linguistici che affermano sempre nuove verità anche quando sembrano negarle.

La conoscenza di cui è portatore un testo poetico, come avviene nella logica speciale epistemologica e affermativa, è, infatti, una affermazione che non conoscemai la sua negazione. Il sistema di conoscenze parziali che “costringe” l’affermazionead essere “vera”, infatti, anche qui, con il suo continuo e coerente ampliamentoassociativo dei campi semantici, che s’intersecano ed esplodono nuove combinazioni conoscitive, non gode del principio del terzo escluso, come, invece, succedenell’ambito della bivalenza.

La mente del poeta è come se fosse una soggettività che crea l’«oggettività»e conserva tutto quello che ha conosciuto precedentemente e costruisce ipoteticimondi avvenire – il non-essere ancora – che negli stati successivi non potendo conoscere mai non-a conosceranno sempre e solo a.

Questi mondi certamente vivono dell’incertezza e dell’aleatorietà della congettura semiotica e della con-tingenza, ma non hanno mai interrotto né interrompono ilsentiero della poesia che porta verso l’infinito dell’essere che, in quanto costruzione·di mondi determinati nel tempo-kairs, è anche un impegno etico per mondi erapporti senza dominio, volti alla felicità, alla libertà e alla pace.

I mondi del poeta, sebbene conflittuali e instabili, sono i mondi della pace diHermes e di Venere perché la loro logica non è quella dell’estetica del sentimento disimpegnato e disinteressato, dell’individualismo e dell’esclusione, bensì la logica del terzo incluso, dei “corpi miscelati” della complessità e del “noi” plurale dell’etica della contingenza dove ognuno assume le responsabilità delle scelte fatte per vivere e dia-logare.

Il poeta è il custode-custodito dell’utopia possibile come il filosofo o lo scienziatopossono essere i custodi-custoditi dell’essere come possibilità di reti di mondipossibili che hanno di mira la libertà e la pace, e sono disposti “a cedere il posto, a reggere sulle proprie spalle il peso di un esodo senza fine […]. La filosofia del < corpi miscelati> è allora una scommessa augurale che, nelle figure congiunte deimessaggero Hermes e della bella Afrodite, annuncia la novella della pienezza edell’abbondanza, la logica del terzo incluso, la mescidanza dei nostri corpi nellamiscela infinita della vita sociale e naturale (già compresa dai fisici della Ionia)”.57

Il ” linguaggio del poeta”, come diceva Niels Bohr, non serve solo per studiareil mondo della microfisica (realtà altamente complessa e aleatoria) ma serve anchecome esercizio etico di responsabilità, che è tanto maggiore quanto, come dice ilpoeta Antonio Machado, gli uomini sono quegli itineranti cui bisogna ricordare che per il “caminante, no hay camino/ se hace camino al andare” (“viandante, non c’èvia/la via si fa con l’andare/con l’andare si fa la via”). Gli itinerari della conoscenzae della costruzione, volti al senso delle cose e degli uomini, non possono, infatti,essere se non nel/col peso delle responsabilità di chi, in patria o in esilio, rifiutandovie e metodi deterministici, si mette in cammino verso gli orizzonti delle risposte che non sono mai né concluse né definitive, e rimane nello stesso interrogare come nel luogo proprio. Il terreno di misura, di rischio e di scommessa dell’uomocontemporaneo della certezza dell’incertezza è il movimento, lo stesso cercare. Ilmetodo o la via, infatti potrebbero, arrestare il gioco della vita e della ricerca. Unragionevole paradosso? “E questa ragionevolezza […] ci fa vedere che senza questairragionevole rischio ci ridurremmo tutti all’immobilità, esito sicuro di ogni falso movimento o di ogni <andare a cercare>. E anche di ogni sentirsi sicuri in terra straniera, di ogni esilio cercato, singolare. Si tratta di sapere se preferiamo tracciaredei confini domestici, con oggetti e voci che ci fanno eco, o se ci risolviamo ad avventurarci in un bosco dove più nessuno ci accompagna e dove le promesse diverità restano tali perché subito vacillano e spariscono”.58

La vita è un esodo permanente e gli uomini sono eterni “para-sitos”, e come uomini di cultura, poeti ed artisti, in ogni modo, sono promessi e compromessi in una “cosmicità profetica” e in un impegno volto a realizzare nella società contem-poranea efutura i valori di una dimensione utopico-scientifìca in un soddisfacimento di bisogni fondamentali ed irrinunciabili, come quelli della pace, della libertà,dell’eguaglianza, dell’Eros, che sono la negazione di quelli che padroni e dirigenti hannofatto assimilare alle masse e agli individui nel sistema costituito. Ciò richiede naturalmente un linguaggio nuovo, se vogliamo sperimentale, non coriformista nelsenso più ampio, nuoveforme comunicative ed espressive, adeguati ai nuovi obiettivi,per spezzare codici ed immagini interiorizzati, ormai cristalizzati e naturalizzati, inventando magarireinventando in senso sovverssivo per esempio gli strumenti tradizionali dell’arte e della poesia: la natura, lo spirito, la psiche, il sociale, il politico,il sogno, le passioni, il male e la gioia di vivere e di esistere, le metafore, le analogie…59,perché “todo y cada uno de los poemas…son <inter-rog(o)azione> de la realidad, delos ombres, de su hybris y praxis, de la historia.6o

La hybris della poesia, in ogni modo, è la forza della trasformazione e delle metamorfosi, della ribellione e dell’interrogazione ironica, a volte satirica e dissa- crante con cui la praxis po(i)etica degli scrittori e degli scienziati scatena le contra-dizioni delle contraddizioni e degli assurdi che appartengono più alla civiltà, alla cultura e alla storia delle “naturalizzazioni” forzate e ideologiche che agli stessi processi della vita e dei saperi.

Lasciata libera di frammentare le cose e di aggredire la loro adaequatioidentificante alle idee, la hybris dei testi di poesia come pratica di comunicazione trasformazionale e “politica” – denuncia e rottura dell’ordine esistente delle cose attraverso la rottura della linearità univoca del discorso monologico perseguita con la non-linearità del verso – rimane, forse, l’unica via praticabile perché la storia materiale concreta, eterologica, degli uomini e delle cose continui ad esprimere la propria carica creativa e rivoluzionaria recuperando la sperimentalità dei soggettida un lato e la materialità dialettica dei loro rapporti sociali contraddittori dall’altra.

I testi di poesia, infatti, in quanto produzione trans-linguistica e inter-testuale nell’interscambio intrecciato dei linguaggi e degli enunciati, nella ridistribuzionedella parole rispetto alla langue e delle logiche teoretiche, sono “pratica significante[…] processo di produzione di senso” 61 e contra-dizione contro lo stato di cose esistenti in termini di azione e di lotta progettuale. Essi, infatti, anticipano una pratica antagonista dell’ordine del logos identificato come ordine delle cose e dellarealtà come struttura cosificata (che, invece, è e rimane una miscela di contrad-dizioni come rapporti permanenti e dinamici di entropia e negentropia, di afferma- zione e negazione), avanzano un progetto di destabilizzazione e di alternativasignificante che non propugna “l’abrogazione dell’ideologia e del pensiero, per sperdersi nell’illusione regressiva di una condizione aurorale della vita, di un magma indistinto di affetti e pulsioni senza scopo “62, bensì un’eccedenza di paradosso esenso viva via itinerante.

In questa fine millennio, il rapporto creativo e dinamico degli uomini con il mondo materiale degli eventi (il cui “delirio creativo è stato già cantato da un poeta come Lucrezio”63) e la poesia possono e debbono continuare, allora, ad essere praxis, poiesis e pratica significante e porsi come una mina vagante che porta alla deriva i nuovi e possibili sensi della temporalità anche attraverso il dolore di una scissione-unione continuata, moltiplicata e polifonologica. Infatti, “Senza questo dolore di una schize moltiplicata, non c’è possibilità di parlare il processo del soggetto, della materia, della storia, come di un processo dialettico, cioè uno ed eterogeneo”.64

La poesia textum, però, deve stipulare una alleanza dissonante tra materialitàe sperimentalità plurale, tra con-tingenza e progettualità e svelare la barbarie dellenuove povertà indotte; deve farsi “follia socializzata” di soggetti critici che fanno apparire le alle-gorie demistificanti il mondo in cui viviamo e innescare processi ditensione verso il novum. Certo non può fare la rivoluzione e cambiare il mondo ma può mettere in crisi l’assetto percettivo alienato con cui i dormienti vivono il/nelmondo. Può mettere a nudo, scardinandone i linguaggi rilevandone le contraddi- zioni materiali, l’ordine di classe delle holding planetarie della finanza e dell’infor- mazione, la nuova merce dematerializzata della società elettronica e multimediale dei padroni dell’economia neocapitalistica del mercato globale, il cui plusvalore èrubato ai nuovi bitoperai e alla qualità della vita.

Facendosi luogo, altresì, del transito permanete della logica della contraddizione, del paradosso e della contradi-zione che aggredisce e mette in crisi il quotidianopubblico e privato, alienato e demenziale, incuneandovi i sensi nuovi emergenti, può frantumare l’universalità ideologica del modello liberaI-borghese che si ammanta diumanesimo, di necessità e di oggettività concettuale per dare spazio, di nuovo, allaphronesis del saper decidere e agire nell’equilibrio mobile dell’incertezza conflittuale della pluralità delle opinioni o dei mondi della doxa errante.

Doxa e poesia, infatti, hanno una po(i)sis e una praxis che, pur nel contesto dellepluralità soggettive, sulla base di un comune e intersoggettivo senso del vivere e dell’essere, le legano alla responsabilità della parola e dell’azione dialogica dei puntidi vista diversi che debbono coesistere e convivere al di fuori di qualsiasi pretesariduzionistica o all’universalità astratta e ideologica dell’identità del concetto o all’épisteme univoca della legge di un unico sistema.

Il comune contesto del vivere e il dialogo tra diversi, infatti, obbliga i protagonisti ad abbandonare la deresponsabilizzazione della “banalità del male”, come dicevaHannah Arendt, e, nell’accadere della con-tingenza degli eventi del kairos, ad assumersi l’onere di un’azione e di una parola dialettica e conflittuale ma responsabile dell’etica della contingenza per progettare e costruire, così, il mondoucronotopico della coesistenza e della convivenza delle identità diverse.

La poesia, come la doxa, è testimonianza della praxis della parola che interpre- tando giudica l’esistente, prevede, rappresenta, vuole e progetta un mondo diverso, il mondo degli uomini che “spettatori partecipi” e soggetti critici ad un tempo continuano a dire che è possibile un’azione dei sogni e delle utopie. È il mondo degliuomini che, come “Omero <il poeta cieco> che narra il passato e quindi siede ingiudizio sopra di esso>, o come l’angelo di Benjamin che <sosta nel giudizio>”65, “fedeli al primato della esemplarità, dell’apparenza e del dialogo”, si oppongo almodello teleologico della storia e proteggono “lo spazio dell’azione e del giudizio quale luogo di relazioni autenticamente umane, esonerate dal fatalismo che condanna l’accadere all’automatismo e alla ripetitività caratteristici del mondo naturale”66 o alla necessità storicistiche degli sviluppi di una concezione metastorica e metafisica.

Da una terra, la Sicilia, che “si fa privilegiato osservatorio per un’indagine sull’uomo e sulle cose […] da arcipelago si fa galassia” 67, la praxis della parola poetica e narrativa, del resto, oggi, tempo di spazi ideologico-politici senza memoriae senza confronto, non può eludere l’impegno della “politicizzazione” dell’arte e della poesia. Se la storia della sua cultura plurale è la memoria delle differenze che hanno costruito un’identità politica dinamica che si confronta nello spazio della comunità,lo richiede, infatti, ogni nuova differenza che nasce e pone il suo diritto alla vita, alla parola e alla libertà.

Antonino Contiliano

NOTE
Nec tecum, nec sine te vivere possum.

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pagg. 14-45.




 La poesia attraverso le persone

Il mondo della poesia di oggi è un insieme di eventi particolari e di effetti “farfalla” che poco hanno a che vedere con quello determinato della chiusura e della perfezione dell’universalità classica sia nella sua forma antica che moderna. Gli eventi che la costituiscono infatti sono un complesso di processi chiusi e aperti, e soprattutto locali, dove le contraddizioni che ne attraversano il tessuto la individuano come esplosione e ramificazione imprevedibile di declinazioni e coniugazioni sintagmatiche che dicono e contra-dicono. 

Un simile tessuto. si potrebbe dire, assume una logica stocastica e polivalente che ingloba come caso limite quella bivalente della significazione non contraddittoria e del senso lineare e sequenziale del verso tradizionale. Esso valorizza sia il vecchio che il nuovo della sintassi e delle trasgressioni “farfalla” che non sempre sono riconducibili a scarti rappresentabili. L’obliquità, infatti, della diagonale creativa. come punto plurale di diramazione della costruzione e della con-figurazione radioattiva del verso e della poesia, ha una dicibilità predicativa non sempre decidibile ed esauribile nella presenza del solo visibile in atto. 

La poesia così si fa verso perché si individua come attraversamento di “maschere” o persone che transitano da una sponda ad un’altra della riva, che simultaneamente è interno ed esterno perché bordo aleatorio di uno spazio. quello della pagina o della videopagina, che simula la fluenza del tempo. 

La poesia stessa così è sempre un sinolo indeterminato e determinato. un albero che gemma fiori non riconoscibili e noti. un tutto che non coincide con le sue parti, un insieme equipotente ai suoi sottoinsiemi e nello stesso tempo non equipotente. un ologramma dinamico di aperte “maschere” virtuali. 

L’insieme-testo della poesia. come direbbe l’antinomia del mentitore o quella autoriflessiva di Bertrand Russe!. è un insieme né chiuso né lineare; è “generico” quanto specifico e affermativo. La sua logica. infatti. è quella plurale del nostro tempo. che non fa più scandalo se non per il fatto che si sta consolidando con ritardo rispetto a quella imperante e riduttivistica della tradizione classica o dei testi della non contraddizione. 

Ora. in quanto equipotente alle sue parti, un simile testo contiene se stesso come parte. ma in quanto parte di una potenzialità in-finita non può più contenersi come insieme equipotente perché è continuo trascendimento, meta-phérein. – continuo movimento oltre/altro. medesimo/difTerente nell’apertura delle contraddizioni e delle nuove configurazioni. Le contraddizioni logico-linguistico-semantiche e le diverse configurazioni di senso sono però le contraddizioni e le emergenze creativo- materiali non contraddittorie della contingenza delle cose cui la poesia si riferisce e dice nell’inarrestabile processo della simulazione e dissimulazione che Ferdinando Pessoa ha definito del “fingitore”. 

Le parti, infatti, che qui sono la lingua e i linguaggi, i suoni, la luce, l’immaginario-razionale e il razionale-immaginario, il fattuale e lo sperimentale (in una parola il re-ale(a) – dire il caso-) nel loro mettersi in verso, percorrono un tragitto simulato che rassomiglia più ai fiordi e alle coste accidentate che a un moto rettilineo e uniforme. Esso è infatti rettilineo e curvilineo. fluente e fluttuante, fatto di cadute e di angoli, di declinazioni e coniugazioni, di catastrofi e biforcazioni, di necessità e di alee che richiamano il moto delle nubi o le traiettorie di un corpuscolo browniano. È il tragitto, in altre parole, della contingenza di tutte le variabili e perciò stesso intreccio e tessuto di relazioni dell’ordine caotico, che, poi, trova il suo assetto nel contesto del testo a partire dal tessitore della coscienza del soggetto poetante. 

Qui la coscienza però è sempre cum-scio (taglio e decisione) per delle relazioni che hanno il medium non nell’«è» statico del verbo essere della tradizione occidentale, bensì nel kann (la relazione dinamica dell’«è» del verbo essere della cultura araba che del dire fa anche un contra-dire). E se la coscienza è decisione nel taglio. il problema della poesia attraverso le persone diventa allora il problema della temporalità-tempera poetica che fa emergere le mille “maschere” che hanno fatto la storia e tante storie narrativo-poetiche. 

È il tempo del poeta come tempo tagliato, mescolato, temperato o dei corpi miscelati, come potrebbe dire il filosofo francese Michel Serres, il tempo della con-tingenza che il poeta è portato a isomorfizzare simulandolo. È solamente la simulazione, infatti, che, fingendone la complessità concreta, consente al poeta di dire e sentire – pensare -, cantare il tempo-essere-realtà con le sue persone-maschere. Rimanendo all’interno del processo temporale o tirandosene fuori, dicotomizzando e/o plurivocizzando il rapporto tra un dentro e un fuori, il poeta, allora, «versa», filmandola, la molteplicità nodale della contingenza stessa. Il risultato però è sempre un determinato mondo chiuso e aperto allo stesso tempo e un esito paradossale. Un paradosso che sconvolge le persone e le coscienze non meno dei paradossi che attraversano e fondano tutte le altre forme di sapere. 

Comunque, però, il poeta isomorfizzi e simuli il tempo nelle sue varie articolazioni intermittenti, i paradossi e le contraddizioni rimangono. Essi sono la non linearità zigzagata della sua tensione e della sua calma tempesta, mentre la poesia ne è il verso, i versi del suo vertere nelle cadute d’angolo e nelle relative diramazioni che dialettizzano il campo semantico della realtà-finzioni verso verità ulteriori. I corpi miscelati del “taglio” – il tempo come tempera – diventano così le persone relative dell’io romantico, del tu dell’ode, dell’egli dell’eroico, degli esseri immaginari, dell’identità trascendente (Dio, sacro) o immanente (la coscienza), della narrazione e dell’ironia più o meno dissacrante, ecc., di determinati universi in permanente ricomposizione. 

L’artefacere, il poiein qui non può più quindi aspirare all’universalità del proprio prodotto poetico. Le diramazioni e le biforcazioni sono locali e relative alla strutturazione del dire le circostanze con più o meno accentuata comunicazione immaginativo-razionale e aderenza ai testi delle maschere del caos o delle virtualità mescolate dello spazio-tempo storico e dei “modelli” culturali che si impiegano per tra-durli nella poesia dei versi. Il genere chiede piuttosto la specie e il singolo come testo specifico e contingenza concreta e non l’astratta universalità. 

Il dire del poeta, inoltre, ha una praxis che, appunto, in quanto legata alla parola del dire, alla lexis, è una attività tanto ambigua quanto imprevedibile. Essa tende infatti piuttosto a differenziare che non a uniformare la singolarità 

dell’emergenza verbale e segnica dei poeti. Il fatto dipende dalla stessa lexis che è azione e relazione fra soggettività che si individuano solo nella molteplicità plurale di persone, che essendo differenti possono cercare le analogie solo nell’ospitalità delle strutture comuni delle sintassi linguistiche e grammaticali tradizionali. 

Nel foro interiore- esteriore della coscienza del poeta, la poesia si presenta così come verso che è dis-corso di un per-corso di fessure che versano le cadute dalle quali provengono le derive poetate, le emergenze stocastiche delle solarità lunari o dell’ironia luminosa e leggera o dura, tagliente e/o sconvolgente, per dire anche altre forme del poetare nella nascita di un’altra e nuova razionalità plurale. 

E, forse, oggi, la nuova razionalità è quella di ripensare i mondi e i saperi nei limiti della con-tingenza. Questa, infatti, mentre fissa gli ordini e i ritmi delle cose, ricorda che gli stessi sono dis-ordini e “resi” nel rhein che si fa direzione e gusto sano del gioco del “verso” delle forze. Qui, allora, le “persone” della poesia dovranno cogliere le tensioni del flusso e fissarne le deiezioni nelle con-figurazioni che si fanno dis-forme, per riaffermare il piacere della vita e farla risposare con il suo stesso poiein plurale. È nella traccia-treccia dell’intermittenza creativa delle parole e dei sintagmi delle figure, che via via assumeranno l’aspetto del verso atomico, molecolare, ritmico, aritmico, continuo e discontinuo come ronda corpuscolare dei campi quantizzati, che le “persone” della poesia dovranno allora ripensare la tra-dizione come tra-duzione di un multiversum che, continuamente, di volta in volta, si è solo posto in un determinato universo: quello degli “eroi” di ieri o di oggi. 

Antonino Contiliano

• Le relazioni di A. Contiliano e di R. Tschumi (nella foto), La poesia attraverso le persone e Sur la traduction poétique rifatte per “Spiragli”, sono state presentate dagli autori al V Symposium degli “Incontri poetici internazionali” che ogni due anni si tengono a Yverdon-les-Bains-Neuchatel, nella Suisse Romande.

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 25-28.




Il non della poesia di J .J. Padron * 

Un non attraversa tutta l’inter-rog(o)-azione poetica di Justo Jorge Padron de I Cerchi dell’inferno. È il non del «sono» che non si possiede più come amore, religio, luce, ma come fumo, ombra e buio. Il suo discorrere si scioglie tramite l’impiego di una parola-concetto che si raffigura e si oltre-figura nell’icastica ipotiposi di quasi tutto il bestiario che la tradizione poetica ci ha trasmesso e dello scenario visionario che la logica «architettonica» della poesia è capace di mettere in opera. 

È il non della negazione-dissoluzione che emerge prepotente e si fa pres-ente nella potenza del suo negativo con la stessa forza con cui il negativo stesso era stato respinto e ricacciato nel profondo della subcoscienza. Lo richiedeva la costruzione della coscienza, lo spazio di una «identità luminosa», perché l’uomo stesso potesse sfuggire alla vertigine nichilistica dell’abisso del suo non-essere. Qui, infatti, tutto sarebbe stato intollerabile e terrificante equivalenza. 

Simboli e allegorie sono gli strumenti espressivi e comunicativi logico-emotivi di un referente – dell’un di un uomo culturalmente determinato – che, nel durante dell’inter-rog(o)azione o azione-durante-l’interrogazione poetica di Padron, ha lasciato l’un della sua natura storico-temporale e problematica-mente in-determinato per farsi reificata astrazione onto-logica, sintetizzarsi e ipostatizzarsi erlebnis universale e metafisica. 

Una astrazione così ipostatizzata che riduce l’in-determinatezza événementielle 

dell’un alla determinatezza immutabile del metafisico lo (l’uomo), assorbendo la molteplicità degli uomini nella unità di una identità eterna e morta, in un assoluto che è «desolazione», «…totale assenza della vita». 

Io «Sono l’uomo!/Io sono tutti gli uomini», dice, infatti, epigrammaticamente, ad apertura della propria opera, il poeta e, successivamente, «…SONO L’UOMO! /Io sono tutti gli uomini», «L’immagine futura della terra/è lo specchio di questo inferno». L’operazione di astrazione è portata avanti con un insistente e rilevante processo di metaforizzazione e di straniamento al fine di focalizzare massivamente la tematica e di con-centrare, catturare l’attenzione del lettore sull’ethos e il logos che lo percorrono in maniera, direi, disambiguata, dove il codice a volte rimane inalterato e i rapporti logici del giudizio sono affidati al connettivo logico del non trasgressivo: «e l’acqua non tornò più ad essere acqua». 

Questo è un processo che Padron segue con un impiego piuttosto martellante delle armi della retorica poetica – personificazioni, esclamazioni, inversioni, anafore, diafore, metonimie, la similitudine e l’analogia del come metaforizzante – e con l’uso di una punteggiatura che spesso fa coincidere l’unità semantica del verso con quella metrica del verso chiuso (sebbene non trascuri l’uso del moderno enjambement) in un procedere sintattico dove coesistono legami ipotattici e paratattici. 

Non è ignota al nostro poeta neanche la capacità di rivitalizzare, in un contesto consono e abilmente costruito, la vecchia metafora del re Mida (che trasformava in oro, per punizione, tutto quello che toccava): «Come Mida del fumo, tutto sto tramutando/in tenebre. Non esistono né il mare né le pianure,/né uccelli, né risa e neppure lacrime. /… /… Ormai sono un fumo nero/come la storia che si dimentica, un fumo nero/come le palpebre serrate delle pietre». Poco spazio, a volte, sembra venga lasciato a quelle che oggi vorrebbero e potrebbero essere le esigenze di una semantica estetica dell’opera aperta alla U. Eco o di una estetica della «ricezione» alla Jauss, se la poesia di Padron non avesse quella aseità polisemica che è caratteristica peculiare della poesia moderna. 

La cattura dell’attenzione, per una sicura comunicazione informativa dell’ethos, appare dominante, e tutto il lavoro della systasis poetica, con la sua pittogrammatica inquietudine boschiana, appare volto a sottolineare senza equivoci il mutato rapporto percettivo dell’autore con l’uomo e il mondo. Questo nuovo rapporto percettivo però non si esaurisce solamente in una dilatata sensibilità estetica, perché, contemporaneamente, viene coinvolto il mutamento dei comportamenti e dell’apparato ideologico nel senso più lato. 

Non si possono non notare infatti gli effetti di radicalizzazione logico-estetica- 

ideologica di certi giudizi copulativi e congiuntivi che (oltre il bit informativo della binaria logica classica) fanno risaltare il «climax» dei sostantivi, dell’aggettivazione e delle forme verbali, con evidente intenzionalità di nuove referenzialità informativo-culturali proprie della logica intensionale, che è anche in-tensionalità poetica e tensione del poeta stesso. Una tensione che consente al poeta di innescare, nel contesto di tutta l’opera e all’interno di ciascun testo, un simultaneo processo di vitale ambiguità semantica (per gli assurdi e le polisemie che lo pongono nell’essere della scrittura) insieme a quell’altro del disambiguamento di cui si parlava prima, sì che ne risulta una vivace dialettica che dinamizza tutto il discorrere poetico dell’opera. 

Per connotare la sensibilità e la tematica di Padron sono stati esclusi Dante e Sartre e sono stati chiamati in causa Goya e Bosch: forse è il «nada nada» del «fantasma» di Goya che traduce meglio il terrore e lo stupore del vuoto e del nulla che Padron scopre «vivo» nell’immanenza dell’essenza antropologica dell’atomo-individuo che non la voracità sartriana dell’altro o l’inferno della teologia cristiana di Dante. Forse il diabolico immaginario e surreale barocco di un Bosch meglio si presta per visualizzare le luci-fere smagliature di una écriture poetica che dia-bolizza il tessuto di una presunta epoca d’oro dispiegata della luce e della ragione, quale avrebbe voluto essere quella moderna della scienza o quella trasparente del «villaggio» totale di McLuhan, se non ci fosse l’ipoteca del «1984» di Orwell. 

La scrittura poetica di Padron, infatti, sottolineando lo spessore della disgregazione e del vuoto che occupano gli interstizi dello spazio-tempo conquistato dall’uomo, ce ne rende in gigantografie l’oscuro e le incertezze violenti – «il mondo è il terrore, e l’incertezza» – con scene sempre più spettacolari. I rumori di fondo e di primo piano non debbono attutire la vigilanza della coscienza e nascondere quel non del «sono» che è contemporaneamente una domanda di vita e di morte, di costruzione e di distruzione, di luce e scuro da quell’essere-possibilità materiale e infinitamente aperto che è «fondamento» dell’esser-ci. 

Ora questa tragica strutturale consapevolezza non costituisce, a parer nostro, solo il pre-testo dell’inter-rog(o)-azione poetica o dell’azione-durante- l’interrogazione di Padron, essa è anche il luogo della resistenza che, secondo noi, per analogia, rapporta in termini nuovi il poeta spagnolo alla generazione d’oro del ’27. Artur Lundkvist, infatti, nel prologo, dice che Padron «ha coronato le ambizioni della giovane generazione dei poeti spagnoli, un prolungamento modificato dell’epoca d’oro lirica della generazione anteriore alla guerra civile». La resistenza di questo «Mida del fumo» è quella della lotta all’«appestato» o a quel «nemico» che è l’uomo stesso come nemico di se stesso. Una lotta contro quella forza distruttiva che Padron, servendosi della poesia e del suo lirico «impegno», porta avanti con decisione, come ieri hanno fatto i poeti del ’27 nei confronti delle dissoluzioni portate avanti dalle forze del fascismo franchista ed europeo e contro la peculiare disgregazione del soggetto e dell’oggetto, della/e verità della nuova epoca di massa, un’epoca che demonizza il novum e sacralizza la ripetizione. 

Per quanto oggi sembra andare avanti la dimensione «favolistica» e deresponsabilizzata della fictio e dell’artificio di un universo fatto a immagine e somiglianza dell’immagine permanentemente metamorfosizzata, dove è diventato sempre più difficile, per non dire impossibile, individuare cause e responsabilità, Padron tuttavia riesce a farlo: vede «faccia a faccia» il nemico, lo prende e lo condanna nel suo stesso «inferno». 

Non diversamente dai poeti del ’27, l’«impegno» di Padron, per esercizio poetico, si connota e snoda poeticamente e, secondo noi, liricamente raggiunge punte di elevata resa in due componimenti (che riteniamo fra i più belli della raccolta): «Il sogno del ritorno all’infanzia» e «La donna della terra», del quale riportiamo qualche frammento: 

Il suo corpo era il profumo 

che inebriava l’ombra e la notte. 

Il suo collo era di marmo tiepido e ondoso fuoco, 

un arco nel silenzio totale della bellezza. 

Ma tropicali erano i suoi seni 

Due frutti che incendiavano il mattino 

con l’aroma della loro polpa aperta 

sparpagliata al sole. 

Con il lamento e il vento del lauro 

la cintola rotante. 

Bucchero del fiore. 

Il riposo arancio. Mezzogiorno. 

Antonino Contiliano 

*Questo saggio di A. Contiliano, che pubblichiamo in anteprima, costituirà l’introduzione di Los Cìrculos del Infierno di J.J. Padron, tradotto in italiano da F. Chinaglia, e sarà pubblicato a cura della Libera Università di Trapani. 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 23-26.




 Le politiche formative della Dirclassica

Quale sarà l’istruzione nell’Europa del 2000? Nel secolo che verrà l’esistenza non sarà più scandita tra scuola, lavoro e l’inedia della pensione, nel prossimo millennio si continuerà a studiare per tutto l’arco della vita alternando periodi di lavoro e fasi di aggiornamento, in un sistema che favorisce la continua mobilità, che promuove l’apprendimento trasversale. 

In questa società con più studio e meno lavoro le battaglie si faranno per accedere al sistema del sapere e delle informazioni e la posta in gioco della politica sarà la realizzazione della nuova democrazia, quella telematica. 

Questo lo scenario delineato da due grandi saggi dell’Europa, Jacques Delors e Umberto Eco, riuniti a convegno a Venezia per “L’anno europeo della formazione durante tutto l’arco della vita”. 

Delors, preside della commissione Unesco sull’Educazione nel XXI secolo, ha scritto un “libro bianco” sulla formazione e l’educazione; a lui va infatti il merito di aver chiesto all’Europa di non occuparsi solo di problemi economici e monetari ma di elaborare anche strategie sulle risorse intellettuali, di investire sul capitale umano. 

Siamo di fronte all’avvento della società cognitiva, la learning society, dove l’accesso alla formazione deve essere sviluppato durante tutto l’arco della vita. Una società del “tempo scelto” dove si alternano periodi di attività e periodi di studio ed aggiornamento. Già adesso in Danimarca, per un anno si può lasciare il proprio lavoro, continuando ad avere una retribuzione, un Umberto Eco sostiene che il problema della formazione permanente è fondamentale. In una prospettiva pessimistica si potrebbe prevedere una società alla Orwell con tre classi: i proletari che non hanno accesso alle informazioni, una borghesia che usa il computer in modo passivo ed una nomenklatura che usa le macchine e se ne serve. Il problema è come fare in modo che ogni cittadino appartenga alla nomenklatura. La scuola dovrebbe addestrare all’educazione delle nuove tecnologie fin dalle elementari. Nelle aule ci dovrebbero essere postazioni telematiche accanto ai banchi per la scrittura manuale”. 

Come si colloca l’istruzione classica in tutto questo? Nell’immaginario collettivo l’istruzione Classica è arroccata su posizioni elitarie, aristocratiche, legate alla tradizione a tal punto da essere impermeabile ad ogni innovazione o addirittura una scuola superata, rivolta più alla conservazione della memoria del passato che alla progettazione del futuro. 

In un momento in cui la scuola “attivata”, in attesa di essere istituzionalmente rifonnata, è notevolmente diversa da quella “congelata” nei “testi sacri” della legislazione scolastica, occorre focalizzare l’attenzione su alcuni fatti che, riteniamo, detenninanti per i risultati che consegue: la sperimentazione, il post-secondario, che rendono la scuola stessa più confacente e soddisfacente ai bisogni formativi del Paese. 

Sperimentazione. innovazione, post-secondario 

Nel processo di innovazione della scuola, la sperimentazione ha avuto e continua ad avere un ruolo determinante. Sul piano storico-pedagogico il concetto di sperimentazione educativa è venuto maturando nella disciplina della pedagogia sperimentale fin dal secolo scorso. Dagli anni sessanta si opera la distinzione tra pedagogia esperienziale, nel senso dell’uso delle scienze esatte, in pedagogia, e pedagogia sperimentale, che intende innovare nella pratica generalizzata. Con il D.P.R. n. 419/74, viene offerta la possibilità di manipolare variabili, introducendo innovazioni, e, quindi, di osservarne gli effetti. Viene offerta, agli insegnanti e ai collegi docenti, la possibilità di mettere in discussione le strutture e gli ordinamenti scolastici, di gestire funzioni propositive e promozionali e di tentare vie nuove con l’attivazione di progetti sperimentali. In altri termini viene introdotta e sollecitata nella scuola la mentalità del cambiamento. L’espansione dei processi sperimentali nelle scuole ed istituti di ogni ordine e grado diviene espressione dell’impegno assunto dalla scuola nell’elaborare progetti di innovazione formativa che incida sia sul piano dei contenuti e dei metodi, sia nell’organizzazione di nuove strutture curricolari. 

L’attività sperimentale nelle scuole dell’ordine classico, scientifico e magistrale, ha assunto una crescente intensità e ricchezza creativa interessando un sempre maggior numero di scuole. Il carattere dominante dei loro progetti è stata la “licealità”, a differenza delle scuole di altro ordine che si sono impegnate, prevalentemente, nell’adeguamento della formazione professionale alle richieste del mondo del lavoro. Mentre risulta difficile stabilire con esattezza il numero dei licei e degli istituti magistrali impegnati in sperimentazioni didattico-metodologiche, è possibile seguire il trend espansivo delle sperimentazioni di struttura, per lo più articolate in un biennio unitario orientativo più un triennio di indirizzo: queste, già in n. di 23 nell’a.s. 1974/75, interessavano 131 scuole, nell’a.s. 1977/78, 237 scuole nell’a.s. 1989/90 con una presenza complessiva di 238 indirizzi (157 linguistici, 94 pedagogici, 48 scientifici, 6 artistici e 8 tecnici). A questi nel 1990/91 si aggiungevano altri 56 sperimentazioni in scuole prima non coinvolte nel processo innovativo. 

Intanto si verificavano alcuni fatti importanti che dovevano segnare una svolta nella febbrile, e per quanto disorganica, domanda e attivazione di sperimentazione: 

– il D.M. 31-1-90 che introduceva misure limitative nell’attivazione di nuove classi sperimentali per esigenze di contenimento della spesa; 

– la C.M. 27 del 1991, primo tentativo da parte della Dirclassica di razionalizzazione dell’attività sperimentale, con la messa a punto, sulla base delle esperienze autonome realizzate, di due indirizzi, il linguistico e il pedagogico. 

– la stesura dei progetti della Commissione ministeriale “Brocca”, in cui si concretizza, da parte dell’Amministrazione, un’azione di governo delle attività sperimentali e insieme un’opera di sintesi, sia pure in termini di mediazione, in un progetto unitario, degli elementi comuni di successo ricavati dalle esperienze fatte e rispondenti ai bisogni formativi riscontrati. Tutto ciò faceva cambiare il precedente scenario della sperimentazione riducendo la molteplicità, ad iniziative unitarie ed organiche che favorivano l’estensione di modelli fondati su innovazioni collaudate e più rispondenti alle attese formative. 

Per avere un’idea del mutamento che in pochi anni si verifica nel quadro delle sperimentazioni attivate nelle scuole della Dirclassica, si propongono, a confronto, i dati relativi a due anni scolastici, il 1993/94 e il 1995/ 96. All’apertura dell’a.s. 1993/94 nelle scuole dell’ordine classico, scientifico e magistrale risultano complessivamente autorizzate: 

– n. 328 sperimentazioni di progetti autonomi; 

– n. 85 sperimentazioni di progetti coordinati ex C.M. 27/91 di indirizzi linguistico e pedagogico; 

– n. 275 sperimentazioni di progetti “Brocca”; n. 3 progetti ad opzione internazionale attivati in seguito ad accordi bilaterali tra i governi italiano e francese, con riconoscimento reciproco del titolo di studi; 

– n. 8 progetti di Liceo Classico Europeo, avviato in altrettanti convitti nazionali o educandati femminili. 

All’apertura dell’a.s. 1995/96 i dati sopra riportati risultano così modificati, tenendo conto della messa ad esaurimento delle sperimentazioni autonome: 

– sperimentazioni “Brocca” n. 525; 

– sperimentazioni ex C.M. 27/91 n. 154; 

– sperimentazioni autonome n. 327 (di cui solo 20 proseguono, le altre sono ad esaurimento); 

– sperimentazioni ad opzione internazionale spagnolo e francese n. lO; 

– sperimentazioni di Liceo Classico Europeo n. 17; 

– sperimentazioni “Proteo” n. 5. 

Tralasciando le altre già ampiamente conosciute per la loro diffusione qualcosa va detta con estrema sintesi a proposito del Liceo Classico Europeo e del progetto Proteo che segnano le punte avanzate della sperimentazione nell’ambito delle scuole dell’ordine classico e probabilmente non solo in quelle. 

Il Liceo Classico Europeo vuole essere un evidente passo avanti verso l’organizzazione di profili formativi sovranazionali. Articolato didatticamente, per tutte le discipline nelle fasi della “lezione” e del “laboratorio culturale”, mira ad adeguare l’insegnamento ai ritmi dell’apprendimento mediante la metodica apprendere insieme. La formazione di taglio europeo, non è solo limitata all’attenzione ad altra lingua, utilizzata nell’insegnamento di alcune discipline, ma pervade l’intero percorso scolastico, in cui tutto, dai contenuti alla metodologia agli spazi operativi è improntato ai capisaldi della nostra tradizione scolastica di concerto e in parallelo alle recenti esperienze scolastiche dei Paesi Europei per favorire la formazione culturale in termini di piena integrazione. 

Il progetto sperimentale “Proteo”, nato in più seminari di scuole sperimentali impegnate in una metodica riflessione nel Progetto “Brocca” e dai risultati emersi da un suo monitoraggio, esprime il tentativo di coglierne gli elementi positivi e correggere quelli negativi, propone una evoluzione del “Brocca” tale che, non rifiutandone la filosofia di fondo e rimpianto programmatico, riconduca il suo numero di materie e il monte ore globale entro i confini di un sapere unitario. organico che: – governi e assorba le nascenti articolazioni entro le categorie generali e fondamentali della conoscenza -; realizzi in tal modo anche una economia d’orario che consenta alla scuola reali spazi di autonomia per la definizione e realizzazione di attività didattiche coerenti con le attese del territorio e le proprie specifiche scelte didattico-educative. 

Accanto e in contemporanea, alla sperimentazione di struttura, numerose sono le cosiddette minisperimentazioni, piccoli interventi per arricchire il piano di studi incrementando lo studio delle lingue, introducendo l’apprendimento di nuove conoscenze, estendendo al quinquennio lo studio di discipline limitato al solo biennio o triennio… 

Anche in questo campo. per evitare dispersioni è stata scelta un’opera di razionalizzazione finalizzata al sostegno delle iniziative coronate da successo e alla loro disseminazione. Si ricorda in proposito la C.M. 198/ 92 che regolamenta le sperimentazioni parziali di lingue straniere in licei e negli istituti Magistrali. 

Sia per quanto riguarda le maxisperimentazioni sia le minisperimentazioni l’opera di razionalizzazione e di omogeneizzazione è stata realizzata attraverso numerosi confronti tra i rappresentanti delle scuole coinvolte nelle sperimentazioni, che hanno portato all’elaborazione di ipotesi coordinate di piani di studio tradotti poi in sperimentazioni “assistite”. 

Ciò ha reso possibile la composizione di due istanze apparentemente contraddittorie: quella dell’autonomia di progettazione e quella della razionalizzazione di modelli operativi. In quest’ottica la Direzione Generale ha ideato e attivato un sistema di assistenza ai Provveditori agli Studi, con conferenze di servizio a livello interprovinciale o regionale tra il responsabile e personale della Div. N e responsabili dei Provveditorati al fine di pervenire ad un’univoca lettura e applicazione delle disposizioni relative all’attivazione dei progetti sperimentali. 

A fronte delle dimensioni veramente notevoli assunte dal fenomeno della sperimentazione (su 1332 scuole della Dirclassica solo 35 non risultano impegnate su progetti sperimentali) ugualmente notevole è lo sforzo che la Direzione Generale sta affrontando in iniziative di formazione ed aggiornamento sia a sostegno delle sperimentazioni, sia per rispondere alle crescenti esigenze, determinate dai processi di innovazione tanto nelle attività dirigenziali che di insegnamento. 

Numerosi sono i seminari e corsi di aggiornamento tenuti a livello centrale e per i Capi di istituto atti a far fronte ad esigenze di formazione e per migliorare la qualità del servizio in vista dell’autonomia. 

Particolare attenzione hanno suscitato i corsi di accoglienza per presidi di nuova nomina, il cui programma ha privilegiato l’introduzione delle nuove tecnologie, da affiancare al patrimonio didattico, senza trascurare l’acquisizione di capacità di esercizio e promozione organica della vita della scuola mediante la programmazione e soprattutto con il Progetto di Istituto, nel rispetto dei servizi dovuti all’utenza, come puntualizzato nella “Carta dei servizi della scuola”. 

La preoccupazione di dotare il preside di conoscenze che si traducano in abilità manageriali ha suggerito di attivare corsi a loro destinati sulla leadership; di mantenere precedenti corsi organizzati in collaborazione con la Confindustria e di idearne dei nuovi, calibrati sulle ideazioni scientifiche, la cui prima fase è stata già realizzata in Sardegna. 

Per l’aggiornamento e la formazione dei docenti hanno richiesto interventi sia di tipo disciplinare, sia didattico-metodologico a sostegno del progetto “Brocca” affinchè fosse attivato secondo esigenze di conoscenza e professionalità. Quando è stato possibile l’aggiornamento, oltre a valersi del contributo del personale ispettivo ha fatto ricorso a quello universitario come nel corso dell’insegnamento della matematica con l’intesa MPI/UMI, e in quello dell’introduzione di nuove tecnologie con l’intesa MPI/STET per l’util:l7.zo della telecomunicazione e la realizzazione di ipertesti, il cui modello è stato utilizzato dal Ministro nel progetto nuove tecnologie. 

La consapevolezza che, per quanto grande fosse stato lo sforzo, i benefici dell’aggiornamento sarebbero stati limitati ad una minoranza, ha spinto a provvedere alla pubblicazione, oltre che degli atti dei seminari, dei materiali organizzati in percorsi esemplificativi tali da poter consentire la realizzazione di simili iniziative a livello periferico, a costi ridotti. Sono nati, così, i quaderni della N Divisione della Dirclassica. A questi si arrincano, con il duplice intento di diffondere informazioni sui corsi di aggiornamento e di fornire materiali di ricerca e informazione su argomenti o iniziative di particolare interesse, i numeri di Classica News, pubblicazione che raccoglie le notizie sull’aggiornamento, attivato o programmato, inviato da scuole, Provveditorati, IRRSAE, Associazioni professionali. 

Connessa con le esigenze di sperimentazione e aggiornamento del personale direttivo e docente è la necessità di far circolare in tutte le scuole in termini di contemporaneità, tutto quanto viene elaborato a livello centrale nonché l’opportunità di stimolare a livello periferico la creatività, come risposta ai sempre nuovi bisogni di una scuola integrata nel territorio, interessata alle attese dell’utenza, in una visione che superi, nei problemi di fondo, gli steccati del particolarismo, favorendo il conseguimento di una formazione di tutte le scuole del territorio. Per far fronte a ciò è stata costituita una rete di altre centro scuole “Polo”, alle quali non sono stati affidati solo compiti di “sportello” per l’informazione, bensì quelli rispondenti alle esigenze sopra espresse e concordati tra i rispettivi presidi, in una serie di seminari all’uopo attivati e le cui risultanze, sotto forma di guida pratica, sono di prossima diffusione tramite un numero speciale di “Quaderni”. 

La consapevolezza che, a fronte di scorretta e generalizzata valutazione negativa della nostra scuola da parte di tanta stampa, esiste invece una realtà tangibile, con numerose scuole di eccellenza, contornate da altre attardate nel cammino del rinnovamento, ha suggerito l’attivazione di iniziative di formazione miranti al recupero di queste ultime non solo considerate singolarmente, ma nelle regioni di appartenenza. 

È emersa una situazione che non corrisponde a specifiche collocazioni e contingenze storico-geografiche, ma che riguarda tutte le latitudini e presenta caratteri di ampia omogeneizzazione per regioni. 

È nato così un progetto chiamato “L’Italia e le sue isole”, che considera connotazioni a livello regionali e quindi l’esigenza di fare interventi, in ambito regionale e che recuperino forme di collaborazione, di scambio e di sostegno reciproco all’interno del territorio nazionale per realizzare una crescita armonica di tutte le scuole. Il progetto prevede: 

– interventi formativi per ogni “isola” regione attivati dal Centro, nell’ambito di un coordinamento interprovinciale che determini confluenza dei progetti e delle risorse dei piani provinciali di aggiornamento: 

– interventi di monitoraggio delle dotazioni patrimoniali, strutturali di attrezzature, di professionalità, di attività, cui far seguire operazioni di colmatura; 

– interventi, anche con dotazioni di nuove strutture tecnologiche, per favorire collegamenti sia all’interno della rispettiva regione, sia nell’ambito nazionale con le scuole di “eccellenza”, per un discorso di collaborazione e di scambi culturali; 

– interventi per un esame approfondito delle attese del mondo del lavoro in collaborazione con le regioni, gli altri EE.LL., la Camera di Commercio, le Organizzazioni Sindacali, per l’individuazione di specifiche richieste delle professioni emergenti; 

– l’istituzione mirata di corsi post-diploma. Sulla formazione post-diploma, la Dirc1assica, ha avviato da tempo una approfondita riflessione, sebbene abbia dato !’impressione di disinteresse, perché intende occupare con essa spazi piùcoerenti con i suoi piani di studio a forte valenza culturale. 

Nel quadro delle strategie volte ad adeguare l’offerta formativa del nostro Paese agli standard europei, emerge, infatti, con particolare rilevanza la questione della formazione professionale che si inquadra nel più ampio problema dei rapporti scuola lavoro. 

L’accelerazione delle trasformazioni tecnologiche con conseguente mutamento dell’organizzazione del lavoro ha determinato nel mondo occidentale esigenze sempre più complesse. Del resto in una società in cui l’informazione e la conoscenza sono più che mai elementi decisivi per lo sviluppo, il sistema formativo acquista di fatto, un ruolo centrale. E in particolare acquista spessore problematico quel delicato snodo costituito dal rapporto tra istruzione e formazione professionale, tra conoscenza e competenza, tra titoli di studio e spendibilità di essi nel mondo del lavoro. 

Come si sa, per un insieme di ragioni, nel nostro Paese manca un sistema organico di formazione post-secondaria non universitaria. E ciò pone l’Italia in una condizione di diversità rispetto alla maggior parte dei Paesi europei. Nella RIT, in Olanda, in Danimarca, in Francia e in Inghilterra – accanto all’Università esistono, da tempo, canali formativi che forniscono al mondo del lavoro un enorme potenziale di risorse umane. Di fronte alla crescente domanda di formazione tecnica e professionale, continuare a contare sulla sola possibilità accademica, appare una scelta perdente non solo per il difficile adeguamento delle strutture universitarie alla domanda, ma anche per lo snaturamento del ruolo e della competenza che ne deriverebbe. Del resto l’Università italiana presenta indicatori di efficienza tra i più bassi d’Europa, conducendo al titolo conclusivo solo il 30% circa degli iscritti (basti pensare alla Francia, dove circa 1’80% di iscritti consegue la laurea). 

È possibile che le cosiddette lauree brevi, una volta istituite e generalizzate, contribuiscano a modificare questi dati, ma non è possibile, tuttavia, pensare ad esse come esauriente risposta all’esigenza di formazione professionale; le lauree brevi pur essendo espressione del percorso universitario, non si prestano a fornire al mondo del lavoro il modello organizzativo auspicato. Ciò perché la caratteristica fondamentale di un modello di formazione professionale deve essere la massima sensibilità nei confronti della domanda di lavoro: sensibilità certamente non essenziale all’autonomia della ricerca, della cultura e del sapere degli studi universitari. 

Né la formazione che è attualmente affidata alle Regioni e alle aziende, costituisce una risposta alle esigenze e tale da rapportare l’Italia e a livello formativo diffuso in Europa. 

L’elaborazione di un modello organizzativo di formazione professionale deve coniugare l’esigenza di flessibilità alla domanda di lavoro, con l’omogeneità di caratteristiche strutturali necessarie per la certificazione e il riconoscimento del titolo rilasciato a conclusione dei corsi. 

All’interno di questo quadro e nell’ambito di una discussione che non può non coinvolgere una pluralità di soggetti, la Direzione Classica, ritiene di poter offrire un contributo al dibattito in corso, individuando potenzialità lavorative coerenti con la specificità dei suoi corsi di studio. 

Le grandi trasformazioni dei modelli organizzativi del lavoro richiedono competenze sempre più duttili e flessibili, capaci di adattarsi alla rapidità dei cambiamenti; e gli studi liceali possono presentarsi, per le caratteristiche generali dei percorsi fornmtivi che li contraddistinguono, come un modello pienamente rispondente a questa esigenza. 

La cultura specifica dei corsi dell’istruzione classica scientifica e magistrale si rapporta ad un insieme di potenzialità lavorative che emerge dalla profonda riorganizzazione del sistema produttivo cui stiamo da tempo assistendo. 

Ma una ipotesi di organizzazione della formazione professionale deve verificare la sua validità non solo attraverso il continuo confronto con la pluralità dei soggetti interessati. ma anche attraverso qualche concreta esperienza. 

È da questa esigenza che è nato il seminario organizzato dalla Dirclassica e dal Liceo Scientifico “G. Peano” “Formazione post-secondaria ed educazione all’imprenditorialità giovanile” svoltosi il 26-28 aprile presso l’Hotel American Palace di Roma. 

I risultati del seminario sono stati pubblicati nel numero quattro della collana dei Quaderni destinati ai Presidi. 

Dai pochi e non esaustivi flash sulla attività della Dirclassica, ritengo emerga a buon diritto, il quadro di una scuola in movimento e ben determinata nel percorrere la via del progresso con scelte oculate, che data l’importanza del suo servizio pubblico, passa attraverso ricerche, studi, sperimentazioni e monitoraggi, prima di tradursi in innovazioni estese all’ultima istituzione. E ciò va detto, non tanto e non solo per contraddire i facili detrattori, ma a sostegno di quanti nella scuola operano, in condizioni difficili, con serietà e impegno ma soprattutto per stimolare e coinvolgere coloro che sono rimasti fermi o attardati in vecchi moduli operativi. Tutto ciò va detto a tutti coloro che rinviano, sine die, la riforma della scuola e che prendendo a giustificazione la difficile congiuntura economica del Paese, tentano di ridurre anziché incrementare il già magro bilancio della Pubblica Istruzione. 

Eppure i soldi spesi per l’istruzione dovrebbero essere considerati come investimenti sicuri per un futuro migliore per tutta la nazione. 

Luigi Catalano

• Relazione tenuta presso il Liceo Se. “P. Ruggicri” di Marsala nel eorso del Convegno: “Realtà e prospettive: Seuola oggi, scuola domani”, Marsala-Mazara del Vallo, 23-24 febbraio 1996, organizzato dal Centro Internazionale di Cultura “Lllybaeum”. anno da dedicare alla fonnazione ma anche alla propria famiglia o ad attività sociali•. 

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 7-16.




La poesia di Saba

«In Saba – ha scritto Giacomo Debenedetti – è rimasto, inalterabile, un fondo di fanciullo e di popolano. La delicatezza e l’incanto di certi suoi impasti par che dipendano proprio da questo: che l’uomo, con la sua serietà morale, ha dato un significato spirituale ed intelligente ai vezzi del fanciullo, pur rispettandone la vivace fragranza primitiva; e che l’intellettuale, con la sua cultura, ha scoperta una grazia fine alle preferenze del popolano»1. È un rapido scorcio della poesia del grande triestino, un modo di definirlo che non può non renderlo diverso, profondamente e consapevolmente diverso dai suoi contemporanei colleghi. Ciò che fa particolare la poesia di Saba è la misura di semplicità e di stupore nello stesso tempo che riesce ad infondere nel verso. Siamo in epoca dannunziana, poeticamente alla ricerca dell’alto volo, minacciata dalla retorica2. Non mancava l’eredità spesso aulica del Carducci («Il poeta è un grande artiere», aveva scritto in «Congedo»), mentre si preparavano le innovazioni futuriste (il Manifesto di Marinetti, per interderci), così lontane da Saba.

In questo contesto, nel 1911, il Nostro scriveva in un suo articolo (Quello che resta da fare ai poeti) che «ai poeti resta da fare la poesia onesta», affermazione tanto più significativa collocandola a soli due anni dal Manifesto futurista (1909), là dove l’onestà manzoniana3 – tale era l’onestà poetica intesa da Saba – aveva ben poco da spartire con quel rifiuto della norma che caratterizzava il futurismo marinettiano. 

Saba aderisce alle cose, come Manzoni, del resto, le gestisce nella sua poesia, le utilizza, le accetta, le fa strumento dell’espressività, poiché aderendo alle cose aderisce alla vita. Di quelle cose ha bisogno, perché diventano indici di vita, segni dell’uomo, elementi della sua presenza. Sono le cose di tutti i giorni: la casa, il lume, il letto4, sono i segni tangibili (e quanta tangibilità occorre a chi non crede!) di questa vita. 

Accettando la vita, com’è, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore, accettando la vita proprio perché tale, si accetta la sua testimonianza, la sua presenza che oltrepassa il tempo, segno del tempo, perché calata in esso, e nello stesso tempo strumento al di fuori del tempo, (perché segno eternamente presente – si pensi alla casa e al letto, strumenti dell’uomo in qualunque tempo sia collocato -, indice insieme di immanenza e di contemporanea trascendenza rispetto al presente. Accettare le «cose», e le cose più umili, diventa un modo per accettare tutti gli aspetti della vita, anche e soprattutto quelli umili. Non a caso ne Il Poeta afferma: «L’ore del giorno e le quattro stagioni / un po’ meno di sole o più di vento, / sono lo svago e l’accompagnamento / sempre diverso per le sue passioni / sempre le stesse; ed il tempo che fa / quando si leva, è il grande avvenimento / del giorno, la sua gioia appena desto». L’uomo, calato nel tempo non può astrarsi da esso, e pertanto coglie le cose, indici e strumenti del tempo, e la natura, oggetto e soggetto del tempo, oggetto perché calata nel tempo, e soggetto perché indice del tempo, delle stagioni. 

Saba non è il solo ad avete utilizzato le «cose». Già i crepuscolari le avevano fatte strumento della loro poetica, attestando l’impossibilità di fare poesia nel mondo borghese, catalizzato dall’interesse per il guadagno. Lo notiamo, tra l’altro, in Gozzano, e precisamente in Ketty («È quotato in Italia il vostro nome? / Da noi procaccia dollari d’inchiostro… / Oro ed alloro!…» (vv. 30/31), che non può non ridere ascoltando «il più bel verso d’un poeta vostro…» (v. 32). Se «carmina non dant panem», se le due cose belle al mondo sono leopardianamente amore e morte (Consalvo), il posto per la poesia necessariamente scompare per rivelarsi nell’ironia gozzaniana inerente le cose. Ha scritto in proposito e molto opportunamente il Guglielmino che, a differenza dei crepuscolari, la poesia di Saba si pone come piena accettazione di quei segni di vita (le cose, gli oggetti, appunto). «Si può obiettare – rilevava, a proposito di quelli che accostavano Saba ai crepuscolari – che con i crepuscolari questa scelta di una realtà dimessa ed usuale era già stata fatta ed in effetti il legame tra questi e il primo Saba fu messo in luce dai suoi primi critici, ma quel che conta è sottolineare la diversa angolazione da cui Saba muove per accostarsi ad una materia magari affine, la diversa luce che vi proietta. Gozzano, ad esempio, col suo distacco ironico, ‘prendeva le distanze’ dalla materia umile e ‘le buone cose’ venivano qualificate, subito dopo. ‘di pessimo gusto’. La scelta di Saba è invece adesione sentimentale, calda simpatia umana»5. 

Ma non è solo un fatto di maggiore o minore partecipazione alle cose. Nei crepuscolari – pensiamo a Corazzini – quella realtà impoetica determinava. a livello poetico, una netta prosaicità del verso, portandolo ad affermare in Desolazione del povero poeta sentimentale: «Perché tu mi dici: poeta? / lo non sono poeta. / lo non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi: io non ho che le lacrime da offrire al Silenzio. / Perché tu mi dici: poeta?» (vv. 1-5). L’impossibilità di assurgere alla poesia scaturiva dalla propria dichiarazione di impossibile poeta. divenuto povero fanciullo malato (quanto è diverso il fanciullo di Pascoli!). desolato esistenzialmente. In questo contesto, a differenza di Saba, il rapporto con le cose, con la realtà del mondo, e la poesia, non più poetica, là dove risparmiava l’ironia, riduceva il verso a prosa. 

Non così avviene in Saba, specie nella sua prima produzione utilizza un tradizionalismo (prima spontaneo e poi sempre più in contrapposizione consapevole al modo dei suoi contemporanei di fare poesia) talvolta aulico (sul quale influisce non poco l’essere nato a Trieste), stilisticamente utilizzato per controbilanciare la qualità «rasoterra» del suo discorso. fortemente pregno di elementi linguisticamente quotidiani. 

A questi fanno da contrappeso gli endecasillabi, gli enjambements, certi arcaismi (pensiamo a quel «sentiva» anziché «sentivo» de La capra) che fanno della sua umiltà linguistica qualcosa di molto prosaico (Saba si arrabbiò quando Montale volle usare per lui questa definizione) e, conseguentemente, qualcosa di molto poco crepuscolare6. 

Saba, si è detto, accettando le cose accettava la vita. Sembrerebbe così facile e poco impegnativo collocarlo in una non ben precisata categoria realistica, che tuttavia ha poco da spartire con il Nostro, perennemente in tensione tra questa oggettività (poco oggettiva, in realtà, come vedremo) realistica e la trasposizione e trasfigurazione di quel realismo non poche volte soltanto apparente. Non vogliamo, si badi bene, con tutto ciò negare certa indissolubile adesione alla realtà, certo descrittivismo significativamente sincero e concreto. certa piena comunione con la natura. Forse, anche per questo, Saba non è (o non è sempre, se si preferisce) identificabile quale realista. Una lettura attenta ed un’analisi precisa del testo non potranno che darci ragione. 

«Tutto lo sviluppo di Saba – ha scritto Binni – verifica nelle sue diverse accentuazioni di canto, di figura persino a volte oleografica, un atteggiamento di aderenza alle cose essenziali che non è solo un guardare, di coscienza non impressionistica del ritmo vitale che dà, nei limiti di potenza fantastica, un diverso tono di serietà a quella che potrebbe sembrare un semplice edonismo di colori, di parole… Quando si nota la modernità di Saba pur nel suo originale rispetto delle forme chiuse tradizionali e nella possibile traducibilità discorsiva della sua musica che paiono imparentarlo con stagioni letterarie più lontane, si deve ricordare che la sua lettura esige in realtà una richiesta non diversa da quella dei nostri contemporanei e che le sue trame di parole. il suo apparente discorso valgono in realtà non narrativamente o decorativamente (…) ma proprio come allusione, come analogia di sensi segreti ed assorti»7. 

È una considerazione che merita di essere spiegata. Scrive il poeta nella poesia Il borgo: «La fede avere / di tutti, dire / parole, fare / cose che poi ciascuno intende, e sono, / come il vino ed il pane, / come i bimbi e le donne, / valori / di tutti».(vv.33-40). Sembrerebbe la prova di un’adesione realistica, attestante, proprio per quella sua .realtà» una piena comunione di vita. In versi precedenti aveva espresso il desiderio «di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni» (vv. 7-11), dandoci così l’impressione di volere ritrarre quel momento di vita autentica che è propriamente la vita di tutti, senza dir altro. Così però non è. Non ci è possibile, per ragioni di spazio, analizzare minuziosamente l’intera lirica «Il borgo». Tuttavia, anche se solo per somme linee, desideriamo porre l’accento su quei particolari (ci serva Il borgo come esempio non potendosi, a maggior ragione, analizzare gli innumerevoli altri casi di questo Saba solo apparentemente realistico) che fanno dell’autore un poeta che trascende il reale, pure gestendolo, in apparenza, solamente per quello che sembra essere. Si tratta in realtà di una rievocazione del desiderio, del «desiderio improvviso d’uscire / di me stesso», di ritornare indietro nel tempo. Saba utilizza il passato remoto («m’avvenne», v. 3) quasi a sottolineare la frattura con quel passato. Era il desiderio provato a vent’anni, irrevocabilmente trascorso, ora, mentre attraversa il borgo (un quartiere periferico sulla collina di Trieste). In quel momento l’autore era malato (vv. 14-15). La malattia non è certo un fatto occasionale (che ci importerebbe di conoscere adesso la malattia di un Saba ventenne?). Essere malato, non in senso fisico, significa non potere comunicare con gli altri. Il poeta infatti desidera la comunicazione proprio perché non è in rapporto con gli altri. Fu un desiderio «vano», attestazione di un’ulteriore scissione tra memoria e realtà, tra speranza e realizzazione, tra desiderio e frustrazione. «Poco fu il desiderio, appena un breve / sospiro. Lo ritrovo / – eco perduta / di giovinezza – per le vie del Borgo / mutate / più che mutato non sia io» (vv. 50-55). 

Dov’è il realismo? Nei desideri? Nella memoria? Nella frustrazione? Nel cambiamento? Nella coscienza? Ovviamente no! Realismo è riproposizione di quanto è immanente, presente, tangibile, oggettivo, effettuale. Il desiderio, la memoria, la coscienza, invece, sono necessariamente soggettivi (non realistici). 

Il poeta è diventato spettatore; non è nella realtà, ma la desidera, attende di rapportarsi con essa, ma, nello stesso tempo, è conscio della propria diversità. Non c’è vita, ma nostalgia della vita (e c’è una bella differenza!). «Ritorneranno, / o a questo / Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni / del fiore. Un altro / rivivrà la mia vita, / che in un travaglio estremo / di giovinezza, / avrà pur egli chiesto, / sperato, / d’immettere la sua dentro la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli appariranno gli uomini di un giorno / d’allora» (vv. 75-87). 

I risultati dell’analisi non si fermano qui. Gli enjambements fanno cadere 

l’attenzione su taluni aspetti: il verbo «avvenne», il «vano/sospiro», «la vita/di tutti», il desiderio «dolce/e vano», il velo che avvolge le «cose/finite», appartenute cioè al tempo… Non sono descrizioni, ma stati d’animo, trascrizioni di una realtà vista per mezzo dell’uomo, e conseguentemente soggettiva e talvolta trasfigurata. La piena adesione con il reale, infatti, deve portare per conseguenza, positiva certezza nelle cose. Queste ultime, invece cambiano, più ancora del poeta, proiettato per mezzo di quelle cose verso il suo ultimo cambiamento: «E morte/m’aspetta» (vv.73-74). 

Si tratta, dunque, a ben vedere, di un più complesso rapporto con il mondo. Da una parte l’accettazione della realtà come accettazione della vita, dall’altra la trasposizione di quegli elementi di vita ad altri elementi del soggetto che non saranno assenti al rapporto psicanalitico: la dualità vita/ morte, per esempio. 

Per ora, però, ci importa fissare la nostra attenzione su qualche altro esempio, ad attestazione di una chiave di lettura non soltanto realistica. Così Goal oltre che descrizione di una situazione calcistica, diventa anche e soprattutto spettacolo della vita e della morte, della gioia e del dolore. Non c’è gioia senza dolore, così come non può esserci sul campo una squadra vincitrice senza un’altra squadra perdente. Se qualcuno gioisce, qualcun altro piange (nella poesia i due portieri). Anche per queste espressioni come «amara luce» (v. 3) o «pieni di lacrime» (v. 6) trascendono, per la loro tragicità, la semplice scena della partita. Tra gli altri esempi andrà citato Il torrente, simbolo della vita e nello stesso tempo della morte. L’acqua è fuggitiva, passa come i nostri giorni, inesorabilmente, e «sempre è d’intorno a te sabato sera» (v. 19), fine del giorno e fine della settimana. Nella stessa Trieste, tanto apparentemente descrittivistica, si nasconde il poeta, con le sue emozioni. È chiusa da un muricciolo, funzionalmente simile alla siepe leopardiana. Al di là c’è la terra straniera, l’inconosciuto. Al di qua «un’aria strana, un’aria tormentosa» (v. 12), un modo, insomma tutt’altro che oggettivo di descrizione. Persino ne L’incisore, dove il protagonista osserva il vero, appare non 

8. E. Gioanola (a cura di), Poesia italiana del Novecento. Milano, Librex, 1986, pag. 290. Si rimanda allo stesso testo del Gioanola per le interessanti interpretazioni di talune poesie di Sabarealizzata quella comunione con la realtà. «Guarda e adora», senza partecipare, senza calarsi. Ne scaturisce una «difficoltà di vivere e di amare»8. La «calda vita» desiderata nel Borgo resta ancora desiderio perennemente insoddisfatto. «Toccò a noi scrivere – ricordava il Flora – che se l’animale si esprimesse sarebbe dannunziano». Con questa frase il celebre critico intendeva rilevare un aspetto particolare di D’Annunzio. Quest’ultimo non avrebbe «espresso se non il primo grado dell’umano», (cioè quello animale) attestato da una certa ricerca di primitivo, di ferino9. È questa l’animalità di Saba? 

In A mia moglie il poeta triestino paragona la propria donna ad una relativamente ampia serie di animali «che avvicinano a Dio». Qui la donna, in quanto femmina, è colta nella sua animalità, che diventa però diametralmente opposta a quella dannunziana, che esprimeva la propria lussuria e trovava avvicinamento alla tigre ed alla pantera’. Non c’era accenno di maternità, che diventa invece singolare aspetto della femmina-animale in Saba. «Tu sei come una gravida / giovenca: / libera ancora e senza / gravezza, anzi festosa», come «la pavida / coniglia» che «il pelo / …si strappa di dosso, / per aggiungerlo al nido / dove poi partorire», o come ancora «la provvida/formica» o la «lunga/cagna», o la pollastra o la rondine o la pecchia, ancora. Non c’è descrizione «scientifica» in queste immagini che accostano mammiferi ad insetti e ad ovipari. 

Si tratta di animali tra loro diversissimi, ma tutti dolcissimi e comunemente domestici. Sono tutti vicini all’uomo, a tutti capita di vederne: ricordano la casa, il nido, la fedeltà, la naturalissima maternità. Non c’è in loro eccezionalità. Sono «i sereni animali / che avvicinano a Dio», e a loro e a «nessun’altra donna» Saba paragona la moglie. 

Un’ulteriore presenza «animale» si riscontra ne La capra, assunta a simbolo del dolore che è eterno. «Come si puo’ credere al dolore di una capra?» Quando, evidentemente, in quel belato si riconosce la realtà universale del dolore. La capra è sola, legata, bagnata. La sua condizione di prigionia, di isolamento, di solitudine, di disagio, non è soltanto prerogativa umana. Come la moglie si avvicinava agli animali, così qui la capra si avvicina agli uomini. Ed è nuovamente un animale domestico, simbolo seppur sui generis del nido10. 

Anche la figlia Lina, come la moglie, si avvicina alla natura. Non animalescamente, per quanto la semplicità animale non disdegni l’innocenza infantile, così come in Ordine sparso l’animalità dell’artista si fonde nel modo di vedere le cose. «E vedono il terreno oggi i miei occhi / come artista non mai, credo, lo scorse. / Così le bestie lo vedono, forse». Nel Ritratto della mia bambina la figlia è accostata ad elementi naturali, alla schiuma marina «che sull’onde biancheggia, a quella scia / ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde / anche alle nubi, insensibili nubi / che si fanno e disfanno in chiaro cielo: / e ad altre cose leggere e vaganti» (vv. 9-13). 

Non c’è nemmeno qui oggettività realistica. Il Saba che per A mia moglie aveva affermato di aver composto una poesia infantile, non poteva per la figlia diventare improvvisamente effettuale. I suoi occhi erano e restano quelli di un bambino. 

«Per fare, come per comprendere l’arte, una cosa è, prima di ogni altra, necessaria: avere conservata in noi la nostra infanzia; che tutto il processo della vita tende, dall’altra parte a distruggere. Il poeta è un bambino che si meraviglia delle cose che accadono a lui stesso, diventato adulto. Ma fino a che punto adulto?»11. 

Veniamo scoprendo un Saba ben più articolato di quanto sembrasse. La sua adesione alle cose nasconde soltanto un apparente realismo. Trasfigurare quelle cose ed anche se stesso diventa compito del Saba poeta e uomo. Per essere in armonia con la realtà bisogna essere in armonia con se stessi. «Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia». Sono parole di Ungaretti (I fiumi vv. 32-35), ma sono indicatissime anche per Saba. 

Saba è isolato, isolato perché ebreo, dunque diverso e perseguitato. È un isolamento fisico. Ma Saba è anche isolato culturalmente, nascendo a Trieste (se pur questo ·luogo di nascita vorrà essere, per certi versi, anticipatore, come per la psicanalisi freudiana), ed isolato fin dalla nascita, con un padre che non conosce, conteso tra la nutrice e la madre. Saba è isolato perché non riceve amore dagli uomini. Per questo, o meglio ancora, anche per questo, ha bisogno delle cose, degli animali, della natura. 

Isolarsi vuol dire rapportarsi con se stesso. Per vincere l’isolamento occorre rapportarsi con il mondo. Se il mondo non fosse in rapporto con il poeta, cioè se non si presentasse alla sua analisi, non sarebbe possibile la comunicazione. La certezza di quella comunicazione non può scaturire da quei segni del mondo che sono le cose, strumenti oggettivi di vita. Ma dietro l’apparente oggettività si nasconde sempre il poeta. E di questo già si è detto in precedenza. Occorre ora che il poeta scopra se stesso. Nel 1928 Saba intraprende la terapia psicanalitica per mezzo del Dott. Edoardo Weiss (al quale, non a caso, è dedicata la sezione Il piccolo Berlo). Durante la seduta, il Saba adulto doveva riportare alla luce il Saba bambino, il piccolo Berto, quel particolare bambino che era o immaginava di essere stata tanto tempo prima. «Sembrava strano – scriveva il Nostro – che un uomo dell’età e dell’esperienza di Saba, si fosse all’improvviso messo a fare all’amore con se stesso trentenne». Ed anche se la sezione Il piccolo Berto presenta ben poco di psicanalitico (sono semplicemente ricordi d’infanzia, ci dice Saba), tuttavia l’episodio appare significativo e ci conferma quella scissione ricorrente ed inevitabile del proprio io. 

Il piccolo Berto era rinato per mezzo di una cura psicanalitica, ma, così rinato, avrebbe dovuto morire. «In realtà non morì mai del tutto: che se questo fosse accaduto, il luttuoso fatto avrebbe avuto due conseguenze: la prima che Saba sarebbe completamente guarito, la seconda che non avrebbe più scritto poesie: non avrebbe avuto più bisogno di scriverne». La ragione è semplice. Saba canta la vita, che diventa oggetto della sua poesia, nella misura in cui serve a consolare della non partecipazione del poeta all’esistenza. La poesia, cioè, diventa un sostituto integrale della vita, nella sua duplicità di dolore e di gioia12. 

La guarigione di Saba, in questo contesto, avrebbe segnato irrevocabilmente la morte della poesia, che non avrebbe più avuto ragione di compensare la sua assenza dalla vita (poiché, guarendo, sarebbe entrato in contatto con essa). Ed è, tutto ciò, ulteriore conferma della sua personale scissione, espressa nella coincidenza ed opposizione nello stesso tempo del reale. «Figura fondamentale della poesia di Saba è infatti la tendenziale coincidenza fra ‘antico’ e ‘nuovo’ («con occhi nuovi nell’antica sera» dirà in Dopo la tristezza, v. 8), in altre parole il senso del dispiegarsi dell’esperienza individuale come ripetizione di un’esperienza già vissuta individualmente nel proprio passato13. 

La scissione di se stesso, la non partecipazione alla vita (scissione tra oggetto e mondo), la constatazione di una realtà oppositiva all’interno delle cose (il bene e il male, la gioia e il dolore, la vita e la morte, la felicità e il pianto…) si definiscono come elementi strutturali del mondo. La non partecipazione del soggetto con il mondo (segno di un rapporto conflittuale tra io e realtà) trova origine nella propria impossibilità di fondere quei contrasti interiori, originati da una primitiva frattura. 

Scoprire quella frattura (es. il mancato positivo rapporto genitori/figlio, o l’1ndefinibilità del suo rapporto con la madre, intendendo con madre tanto quella geneticamente vera, quanto quella effettiva, cioè la nutrice, entro se stesso, significa definire la frattura tra sé e il mondo, all’interno del rapporto conflittuale, con la poesia. 

Per tutto questo la risoluzione del conflitto interiore segnerebbe la sua morte poetica, testimoniando nello stesso tempo un rapporto non positivistico con la realtà esperienziale. In funzione di quella realtà andranno definendosi le cose o le trasfigurazioni di essa (es. le cose di Meditazione o gli animali di A mia moglie). L’animalità di talune trasfigurazioni andrà poi posta in rapporto con l’habitat. 

La riduzione infatti alla più essenziale esistenzialità, in virtù della quale viene a semplificarsi e ad indentificarsi in una elementare condizione infantile o animale la condizione umana, anche se non necessariamente di tutti gli uomini, comporta l’inserimento di quello stesso animale (o di quegli stessi animali) nel suo (o nel loro) ambiente. E poiché di animali domestici e comuni si tratta, si tratterà anche di un habitat comune e domestico, che diventa quello del poeta, inseparabile dalla sua terra, così come avviene per l’animale. E anche dove l’uomo non assume caratteri animali è l’essenzialità di quell’esistenza umana ad avvicinarsi all’essenzialità animale. Non a caso in Città vecchia afferma: «Qui prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / il dragone che siede 

alla bottega / del friggitore, / la tumultuante giovane impazzita / d’amore, / sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore» (vv. 11-19). Non era dissimile, se pur con sfumature e con motivazioni diverse, la conclusione di A mia moglie, dove gli animali avvicinavano a Dio. 

Date queste premesse, non sarebbe possibile ritrovare in Saba un autore staccato dalle sue cose. «Più d’uno dei poeti successivi imparò da Saba la lezione di osservazione minuta, la resa di un gesto umile, di un ricordo labile e improvviso, di una musica e di un colore sommesso che può risvegliare un momento di vita quando aderisce alla commozione del poeta».14 Per tutto questola parola deve configurarsi nel suo valore comune, deve essere semanticamente la stessa degli uomini, non può e non deve assurgere ad una sfera ermetica ed incomunicabile. Per potersi calare o, meglio, per potere desiderare di calarsi nella realtà, la parola non può essere quella della turris eburnea, ma deve aderire a quella realtà diventando strumento di essa. 

Anche per questo la poesia del Nostro è stata interpretata realisticamente. L’errore era comprensibile, anche se forse per certi aspetti di comodo; più politici che poetici. A scanso di equivoci converrà ricordare i versi di Parole: «dove il cuore dell’uomo si specchiava / – nudo e sorpreso – alle origini; un angolo – cerco nel mondo, l’oasi propizia / a detergere voi con il mio pianto / della menzogna che vi acceca. Insieme / delle memorie spaventose il cumulo / si scioglierebbe come neve al sole». 

L’ermetismo aveva fatto della parola la sua ragion d’essere, scindendola dal suo rapporto semantico con il mondo. Nell’ermetico la parola acquistava valore in quanto tale, scissa dal suo tradizionale valore d’uso (valore comunicativo), proprio della parola comunemente utilizzata. «Per Saba – ricorda G. Pozzi – scegliere la parola è un modo di scendere sul terreno dei contemporanei. E la poesia-manifesto d’apertura (Parole) non nasconde il distacco, l’ipoteca di una estrema diffidenza nei confronti della ‘servitù’ di Ungaretti, dell’estenuato abbandono di Quasimodo alla parola». Ne risulta una chiara dichiarazione di non partecipazione, di diffidenza per il mezzo espressivo15. Non a caso occorre detergere la parola stessa dalla menzogna accecante. La ricerca dell’«oasi propizia» è una precisa indicazione del proprio «prendere le distanze», nella ricerca di un’intima espressione di sincerità: la parola dove il cuore umano poteva, alle origini specchiarsi nudo, nella sua essenzialità. 

Abbiamo così visto delinearsi, nelle sue linee essenziali, il senso della poetica sabiana. Altre caratteristiche potrebbero aggiungersi, non ultime quelle del suo narcisismo, dovuto ad una carenza affettiva, nonché a certa classicità della sua poetica che non deve essergli stata estranea nel suggerirgli il classico titolo di Canzoniere. 

«La poesia di Saba è un dato quasi ‘animale’, la forma stessa del desiderio: in questo senso Trieste, e la balia, e la sua donna, e i fanciulli, e i sereni animali, e tutte le buone cose di questo mondo sono metafore della poesia, non suoi contenuti, essendo proprio il canto lirico il valore supremo, di cui tutti i valori nominati sono annuncio. Né si tratta, ovviamente, di chiusura nell’estetico, ché la poesia di Saba, in tutta la sua superbia, non ammette alcun lenocinio del ‘bello’: il poetico è valore supremo in quanto corrisponde alla sublime fioritura della disperazione»16. Un poeta, insomma, sempre lirico, anche quando sembra troppo realistico, e spesso, come si è visto, meno realistico di quanto sembri. 

1. G. Debenedetti, Saggi critici, Milano, Mondadori, 1952, pag. 163. 

2. G. Spagnoletti, Saba, Ungaretti, Montale, Torino, E.RI.. 1973, pagg. 13, 20. 

3. C. Bo, La nuova poesia: Saba, in Storia della letteratura italiana, Garzanti, 1969, Vol. IX, pagg. 336-337. 

4. U. Saba, Meditazione («Poco invero tu stimi, uomo, le cose. / Il tuo lume, il tuo letto, la tua casa / sembrano poco a te, sembrano cose / da nulla, poi che tu nascevi e già / era il fuoco, la coltre era e la cuna / per dormire, per addormirti il canto. / …Che millenni di strazi, uomo, per una / delle piccole cose che tu prendi, / usi e non guardi; .. ./ ma che gemma non c’è che per te valga / quanto valso sarebbe un di quel poco») vv. 11-16, 22-24, 29-30.

5.S. Guglielmino, Guida al Novecento, Milano, Mondadori, 1978, pag. 226/227. 

6. P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, pagg. 188-189.

7. W. Binni. Critici e poeti dal ‘500 al ‘900, Firenze, La Nuova Italia, 1951, pagg. 224-225., 

9. F. Flora, Storia della letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1967, Vol. V, pagg. 629-630. 

10. G. Spagnoletti, cit. , pag. 20.

11. C. Muscetta, Introduzione a Antologia del «Canzoniere», Torino, Einaudi, 1987, pag. XXXIV. 

12. U. Saba, Storia e cronistoria del «Canzoniere», In C. Muscetta, cit., pagg. 295-296; E. Gioanola, Storia letteraria del Novecento in Italia, Torino. S.E.I., pag. 183.

13. P.V. Mengaldo. cit. pag. 190. 

14. G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1970, pag. 58.

15. Ibid, pagg. 63-64. 

16. E. Gioanola, Storia della letteratura italiana, Milano, Librex, 1987, pag. 570.

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 19-30.




Sciascia e il cinema

Un amore ricambiato di Antonino Cangemi Il ventennale della scomparsa di Sciascia, caduto nel novembre dello scorso anno, non è passato inosservato. Lo scrittore di Racalmuto, di cui ancora oggi si sente la mancanza, è stato ricordato e celebrato, come era doveroso, in tutta la Penisola. Pochi, però, si sono soffermati sul particolare legame di Sciascia con il cinema1. Si tenterà di farlo con questo scritto che vuole offrire lo spunto per uno studio più approfondito.

È noto che Sciascia amava tanto il cinema. Una passione nata quando era ragazzo e frequentava con assiduità, assieme agli amici, la sala cinematografica del suo paese, che non doveva essere molto diversa da quella, colorata dalla fantasia di Tornatore, del “Nuovo cinema Paradiso”. Tant’è che Sciascia non solo esaltò il capolavoro di Tornatore ma, vedendolo (in una sala riservata dove si poteva fumare), si commosse. Quelle scene che mettevano in risalto, a volte in modo anche goliardico, l’infatuazione popolare per il grande schermo e per i suoi divi lo ricondussero, come Sciascia stesso ammise, agli anni dell’adolescenza e giovanili2.

Che il piccolo Nanà (così lo chiamavano familiarmente gli amici sebbene quel vezzeggiativo non lo entusiasmasse, ritenendolo “da ballerina”) dovesse diventare uno scrittore lo si poteva presagire: a scuola, i suoi temi rivelavano una scrittura rapida ed elegante. Più difficile era pronosticare, per un uomo nato in uno sperduto paese della Sicilia lontano dai centri della cultura che conta, il successo che lo avrebbe baciato. E d’altra parte, il giovane Sciascia è insegnante elementare prima, impiegato in un consorzio agrario dopo. Ma occorreva davvero un veggente per prevedere che il cinema si sarebbe alimentato dei suoi romanzi, traendone tanti film di successo. Tanto più ove si consideri che gli esordi letterari di Sciascia non lasciavano intravedere alcun rapporto con la settima arte. Le favole della dittatura (1950) è una raccolta di brevi prose allegoriche di ispirazione “rondista”, La Sicilia, il suo cuore (1952) una silloge di poesie, genere poi non più coltivato.

I film tratti dalle opere di Sciascia

Se già Le parrocchie di Regalpetra (1956) e Gli zii di Sicilia (1958) svelano alla letteratura un narratore dallo stile asciutto ed essenziale che si misura, con originalità ed estro, con temi civili, è il Giorno della civetta il romanzo che lo acclama al grande pubblico. Nel 1968 il romanzo di Sciascia viene tradotto in film da Damiano Damiani. La pellicola, intitolata come il romanzo, riscuote grandi consensi: magistrali le interpretazioni di Franco Nero, l’intransigente tenente Bellodi venuto dal Nord, di Claudia Cardinale, la sensuale e coraggiosa Rosa (entrambi premiati col David di Donatello), di Lee J. Coob, il capomafia che classifica l’umanità in “uomini”, “mezz’uomini”, “ominicchi”, “pigliainculo”, “quaquaraquà”.

Ancora oggi “Il giorno della civetta” è il film più noto tra quelli tratti da opere di Sciascia. Ma non è stato il primo. Nel 1967, infatti, con la regia di Elio Petri, venne realizzato “A ciascuno il suo”, ispirato all’omonimo romanzo di Sciascia edito due anni prima. Il film, che ha in Gianmaria Volontè l’interprete principale nel ruolo di un intellettuale che indaga su un misterioso delitto, fa incetta di premi alla ventesima edizione del Festival di Cannes. Non tutta la critica, tuttavia, lo encomia. Nel Dizionario Meringhetti3 si legge: «Forse il miglior film di uno dei più lucidi cineasti d’impegno sociale del tempo», non così è per Moravia4 che lo accoglie tiepidamente, evidenziando come in esso la denuncia appaia meno incisiva rispetto alla migliore tradizione neorealista.

Un altro dei più inquietanti “gialli” di Sciascia diventerà un film di Elio Petri, “Todo modo”, nel 1976, nove anni dopo di “A ciascuno il suo”. Ancora una volta è Gianmaria Volontè a vestire i panni del personaggio centrale, “il Presidente” che, nel volto e nella mimica, ricorda tanto Aldo Moro. In un albergo-eremo si radunano notabili democristiani col pretesto degli esercizi spirituali. Durante il soggiorno, tra alterchi e litigi, vengono misteriosamente uccisi gli esponenti più di punta del partito. Alla fine si scopre che l’assassino è Don Gaetano (Marcello Mastroianni), i cui delitti hanno lo scopo di liberare l’Italia dal potere democristiano, e che poi, a sua volta, si suicida.

Tornatore, intervistato sui suoi legami con Sciascia, ha spiegato che, secondo lo scrittore siciliano, il rapporto tra opera letteraria e film era vivificato dall’infedeltà. Un buon film può trarre spunto da un romanzo, ma perché viva di vita propria non deve riprodurlo pigramente, per quanto ne rifletta gli intenti e lo spirito, e ciò in virtù del fatto che cinema e opera letteraria utilizzano linguaggi differenti. Petri, ha ricordato Tornatore, era stato folgorato dall’immagine del rosario nel cortile dell’albergo Zafer, che si ritrova nel romanzo di Sciascia, dal quale però il film si allontanava, risolvendosi in un processo al Palazzo, quale l’aveva immaginato Pasolini.

Nello stesso anno (1976) un altro grande regista, Francesco Rosi, mette in scena un romanzo di Sciascia, Il contesto. Il film, “Cadaveri eccellenti”, stavolta più fedele al testo, è anch’esso un apologo del potere e fa riferimento alla strategia della tensione. Farà discutere molto la battuta, pronunciata nel finale da Florestano Vancini, «la verità non è sempre rivoluzionaria». La pellicola si discosta dalla tipologia del film-inchiesta tanto cara a Rosi e, sospesa com’è tra realtà e fantasia nei suoi richiami grotteschi, pare ispirarsi piuttosto al cinema di Buñuel.

Sciascia continuerà a ispirare il cinema anche quando, conclusasi la stagione dei film “politici”, i suoi romanzi, in cui i motivi civili assumono un ruolo nevralgico, sembrerebbero non adattarsi ai nuovi schemi narrativi che nel mondo della celluloide si vanno affermando. E così anche due tra gli ultimi romanzi di Sciascia hanno la loro trascrizione cinematografica.

Nel 1991 Gianni Amelio realizza “Porte aperte” dall’omonimo romanzo di Sciascia. Film introspettivo questo, come d’altronde l’opera di Sciascia, che si incentra sui conflitti di coscienza di un “piccolo giudice” chiamato, negli anni del fascismo, ad applicare la pena di morte. Il tema della giustizia, si ricorderà, è quello che assilla, più di ogni altro, gli ultimi anni dello scrittore siciliano.

Nel 1991 Emidio Greco firma “Una storia semplice”, l’ultimo romanzo di Sciascia, un “poliziesco” dove la parola mafia non compare. Sciascia confesserà, nell’onestà intellettuale che lo contraddistinse, che il fenomeno mafioso, come delineava in quegli anni, assumeva connotazioni tali da non comprenderne più la portata: era doveroso perciò non parlare di qualcosa di cui non aveva piena cognizione.

Sempre Emidio Greco, nel 2002, si confronterà con uno dei più riusciti e celebrati romanzi-apologhi di Sciascia, Il consiglio di Egitto, dove si intrecciano mirabilmente ricostruzioni storiche e motivi allegorici.

Fin qui i film tratti da romanzi di Sciascia. Ma, seppure di minor rilievo, si segnalano le produzioni cinematografiche che sono state ispirate da racconti dello scrittore di Racalmuto. Nel 1970 esce “Un caso di coscienza” di Giovanni Grimaldi dall’omonimo racconto, che verrà poi pubblicato nella raccolta Il mare color del vino (1973): una commedia ambientata in un paesino siciliano di infedeltà coniugali con l’interpretazione di Lando Buzzanca.

Nel 1976 “Una vita venduta” di Aldo Florio dal racconto “L’antimonio”, una storia che ha come sfondo la guerra civile spagnola.

Infine, per completezza, va ricordato l’interessante documentario di Davide Camarrone e Salvo Cuccia dall’eloquente titolo “Ce ne ricorderemo di questo pianeta. Un sogno di Sciascia in Sicilia”.

 

A questo punto è giusto chiederci perché le opere di Sciascia attrassero tanto il cinema. Due i motivi: uno legato al contenuto delle sue opere, l’altro alla forma espressiva.

La sua produzione letteraria si manifestò, in modo più compiuto, in due filoni, entrambi assai originali: il racconto-saggio che, attraverso la ricostruzione dettagliata e minuziosa, frutto di ricerche assidue, di vicende storiche e personaggi si sublima nell’affabulazione accattivante; il “poliziesco” che si insinua nel contesto del potere, nelle sue molteplici e sinistre rappresentazioni, ivi compreso il fenomeno mafioso. È quest’ultimo genere che attirò, in modo naturale, come una calamita, la fantasia dei cineasti, che si rivelò humus fertilissimo per la finzione filmografica.

La scrittura di Sciascia fu elaborata e semplice, ricercata e immediata. I suoi romanzi catturano anche per la cifra stilistica, studiata e attenta, che conduce a risultati stupefacenti. I fatti sono raccontati con una tecnica che assomiglia a quella cinematografica. Nelle sue pagine vi è una sequenza rapida (non a caso i suoi romanzi sono stati sempre brevi) di immagini, di primi piani, di descrizioni precise e puntuali, di rappresentazioni variegate e multiformi. Nelle opere narrative di Sciascia possono scorgersi quelli che Calvino, nelle sue “Lezioni americane”, individuò come i canoni dell’estetica letteraria: “leggerezza”, “rapidità”, “esattezza”, “visibilità”, “molteplicità”. Detto ciò, risultava facile trascrivere in copioni cinematografici i suoi romanzi.

Per certi aspetti i suoi testi avevano in sé qualcosa che li assimilava alle sceneggiature.

 

Sciascia sceneggiatore

D’altro canto Sciascia si cimentò pure nella sceneggiatura. A parte il film “Un caso di coscienza”, dove collaborò alla sceneggiatura, la sua esperienza più significativa e intensa è legata al film di Florestano Vancini, “Bronte.

Cronaca di un massacro”6. Vancini, nel ricostruire i fatti di Bronte, la rivolta dei contadini nell’agosto del 1860 duramente stroncata dai garibaldini, si rivolse a Sciascia. Ne nacque una proficua collaborazione: chi meglio del romanziere siciliano poteva descrivere il mondo contadino isolano, col suo talento narrativo e l’attitudine alla ricerca documentale? Il film, originariamente prodotto per la RAI, fu all’epoca accolto da polemiche per l’asprezza con cui vennero rappresentati i fatti, e destinato alle sale. La pellicola, che ora viene di tanto in tanto proposta nelle scuole, porta l’impronta della penna di Sciascia: in molti dialoghi si avverte l’anelito alla giustizia e la passione civile che gli furono propri.

 

Il saggio di Sciascia sulla Sicilia nel cinema

Sciascia non scrisse costantemente sul cinema, come accadde a Moravia e Del Buono, che tenevano una rubrica di recensioni, rispettivamente sull’”Espresso” e sull’”Europeo”. Tuttavia ci ha lasciato un lodevole breve saggio, “La Sicilia nel cinema”, raccolto nel volume, edito da Einaudi nel 1970, La corda pazza. Il saggio, risalente ai primi anni Sessanta7, analizza lucidamente il modo come la Sicilia è stata rappresentata nel cinema a partire dagli albori dell’arte dei fratelli Lumière ai giorni in cui venne scritto. Lo studio di Sciascia mette in luce come, complessivamente, sia prevalsa, nella finzione cinematografica, una Sicilia folcloristica, ricca di stereotipi e di luoghi comuni e si sofferma sui film più noti che hanno visto l’Isola come sfondo e motivo ispiratore.

Osserva Sciascia: «Vittorini, Brancati e Quasimodo offrirono, più o meno direttamente, i tre diversi temi siciliani al cinema. La Sicilia come “mondo offeso”; la Sicilia come teatro della commedia erotica; la Sicilia come luogo di bellezza e di verità»8. Di questi temi l’ultimo è stato quello più sfruttato dal cinema, con risultati deludenti. Ma intorno agli altri due temi sono stati girate le pellicole più interessanti, sulle quali Sciascia punta l’attenzione con notazioni intelligenti e spesso non tenere.

Il giudizio su “La terra trema” di Visconti, ad esempio, non è affatto benevolo. Sciascia non condivide, nella trascrizione cinematografica de I Malalavoglia, l’uso del vernacolo. «Perché il vernacolo (non si può nemmeno parlare di dialetto), un vernacolo così stretto e concitato da riuscire, in parte, di difficile comprensione agli stessi siciliani?»9. Verga, secondo Sciascia, elaborando una lingua che non si risolveva nel dialetto ma che da questo aveva tratto elementi essenziali nella formulazione delle frasi e nella sintassi, si era rivelato più “moderno” di Visconti. L’osservazione di Sciascia pone l’accento sullo sperimentalismo linguistico di Verga, non colto da Visconti, che è uno dei punti di forza de I Malavoglia e su cui, a mio parere, la critica letteraria non si è tuttora soffermata sufficientemente.

Riserve sono espresse anche sui due film di Germi “In nome della legge”e “Il cammino della speranza”. Il primo, tratto dal romanzo Piccola pretura di Lo Schiavo, ha il torto di cedere alla descrizione di una mafia redimibile che, riconosciuto il buon operato e l’onestà del pretore, gli offre il proprio appoggio per consegnare alla giustizia l’autore di un delitto. È una visione quella di Germi ottimista e superficiale «lontana dall’effettuale realtà del fenomeno». Germi, inoltre, compie un’operazione null’affatto encomiabile: esporta il West nella Sicilia e nella mafia («il buon pretore al posto dello sceriffo, la plaga del feudo in luogo delle selvagge solitudini dell’ovest»10). Il secondo, “Il cammino della speranza”, racconta l’espatrio clandestino di zolfatari grazie al favore di una guardia di finanza. Anche questo film è ispirato da un buonismo che impedisce un’indagine veritiera sulle realtà isolane. Scrive ancora Sciascia: «Come nel film “In nome della legge” era la mafia che abdicava alla propria legge per pacificarsi con quella dello Stato, nel “Cammino della speranza” è la legge dello Stato che scende a pacificarsi con i diseredati»11, e questo in nome di un ottimismo fuorviante.

Dello stesso regista Sciascia, invece, salva, “Divorzio all’italiana” «in cui la materia passionale è deliziosamente rovesciata sotto i segni dell’eros comico brancatiano» e «la Sicilia si fa teatro di una commedia della società italiana»12.

Note dolenti per Antonioni e Bolognini. Ne “L’avventura” la Sicilia fa solo da sfondo figurativo e l’Isola non è oggetto di disamina; “Il bell’Antonio”, invece, è una trascrizione sciatta del romanzo di Brancati che, giustamente, da Sciascia è considerato un autore profondo e complesso.

Il film che, nel saggio di Sciascia, riscuote un pieno consenso è “Salvatore Giuliano” di Rosi. La visione del film accanto a un gruppo di contadini, in quel tempo non abituali frequentatori dei cinematografi, gli suggeriscono considerazioni sottili e acute. Sciascia nota come in quei contadini le scene anche strazianti destano ilarità. Ciò viene spiegato per il fatto che la mancata dimestichezza col cinema da parte di quei contadini provoca lo stupore che si prova dinanzi alla realtà riprodotta da un mezzo tecnico non conosciuto: “il pubblico in effetti reagiva come chi non avendo mai visto uno specchio improvvisamente vi si trova di fronte”13. D’altra parte i contadini, pur non riuscendo a ben decifrare il contenuto di un linguaggio, quello cinematografico, che ignoravano, avvertivano che gli uomini e le scene del film non tradivano la realtà, non la deformavano. Da qui la loro partecipazione emotiva alle vicende narrate, il loro immedesimarsi nei personaggi del film, in particolare nella massa dei diseredati. Inoltre il capolavoro di Rosi era da loro apprezzato perché, malgrado il dubbio sulla strage di Portella della Ginestra, il mito di Salvatore Giuliano difensore dei poveri nella pellicola non veniva scalfito. Come? Attraverso un espediente usato dal regista: l’”invisibilità” del brigante; Salvatore Giuliano, infatti, non compare mai nel film, se non da cadavere. Scrive, appunto, Sciascia: «relegandolo nell’invisibilità Rosi ha reso più dura la condanna verso la classe dirigente che lo muoveva; ma al tempo stesso, per il pubblico siciliano, non faceva che confermare un mito»14.

Il saggio si conclude con un rilievo critico sul film di Lattuada “Il mafioso” che rivela uno Sciascia veggente. Nel film si rappresenta una Sicilia in cui tutto è mafia e la mafia si presta a diventare motivo di spettacolo. Sciascia si pone un interrogativo, che diventerà col tempo sempre più attuale: «noi che più volte ci siamo occupati della mafia, in libri ed articoli, siamo stati presi dal dubbio se il continuare a parlarne non finirà col rendere alla mafia quell’utile stesso che prima le rendeva il silenzio»15. Un triste presagio quello di utilizzare la mafia, anche nel cinema, per fini commerciali e, peggio, per scopi strumentali, di cui Sciascia avrà, negli ultimi anni della sua esistenza, lucida e amara consapevolezza.

Antonino Cangemi

Note

1 Su Sciascia e il cinema vedasi Cinema e letteratura- Leonardo Sciascia, Cinemazero, Pordenone 1993, e Leonardo Sciascia, a cura di S. Gesù, Catania, Maimone, 1992.
2 Su Sciascia spettatore si segnala E. Morreale, “Il cinema di Leonardo Sciascia”, in “Segno”, pp. 185-200.
3 P. Merenghetti, Dizionario dei film, Milano, Baldini &Castaldi, 1993.
4 A. Moravia, Cinema italiano, Recensioni e interventi 1944-2000, Milano, Bompiani, 2010. Vi sono raccolti tutti gli scritti dello scrittore romano sul cinema, da quelli giovanili alle recensioni su “L’Europeo” e “L’espresso”.
5 Le Lezioni americane: Sei proposte per il prossimo millennio, Torino, Einaudi, 1988, comprendono le conferenze che Italo Calvino avrebbe dovuto tenere, se non fosse scomparso prima, nel 1986.
6 Per la sceneggiatura del film “Bronte. Cronaca di un massacro”, vedasi www.culturaitalia.it.
7 Il saggio uscì originariamente in Film 1963, a cura di V. Spinazzola, Milano, Feltrinelli, 1963.
8 L. Sciascia, La corda pazza, Torino, Einaudi, 1970, p. 243,
9 Ibidem, p. 245.
10 Ibidem, p. 247.
11 Ibidem, p. 248
12 Ibidem, pp. 248 e 249.
13 Ibidem, p. 252.
14 Ibidem, p. 254.
15 Ibidem, p. 254.

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 17-22.




Il sentimento religioso 

di Virgilio Titone 

di Antonino Cangemi 

La lettura dei Diari di Virgilio Titone svela, tra l’altro, il profondo spirito religioso dell’illustre storico di Castelvetrano, che si accompagna, in modo naturale e coerente, all’umanità che ne ha contraddistinto l’intera esistenza. Un’esistenza segnata dalla passione per gli studi umanistici, non solo storici ma anche letterari, che condussero il Titone a pubblicare un’infinità di scritti mai aridi o astratti, ma sempre ricchi di partecipazione emotiva e spesso connotati, nella loro assoluta originalità, da una cifra espressiva polemica genuina e per nulla fine a se stessa. 

La vena di polemista si coglie anche in diverse considerazioni espresse nei suoi Diari1 su temi religiosi. Titone, infatti, ha vissuto la sua religiosità con quel pudore intimistico e quel legame alla tradizione che temeva la Chiesa stesse perdendo. Non solo: Titone, da acuto osservatore della società, coglieva in essa alcuni aspetti che denotavano un affievolimento dello spirito religioso, e di ciò si doleva accoratamente. 

«La chiesa è tradizione» osservava in un suo scritto Panfilo Gentile2, e Titone non solo condivideva ma, per specificare quell’assunto, sottolineava come dovessero conservarsi le ritualità delle cerimonie religiose e, con esse, le preghiere, che in nessun modo potevano essere modificate. «Non si può parlare a Dio solo col cuore o con il sentimento. È necessario che quest’ultimo si esprima con precise parole e, se queste san quelle antiche e venerate delle preghiere delle nostre madri, dei nostri vecchi, di intere generazioni che hanno confidato a Dio le loro angosce e speranze, quel colloquio non solo sarà possibile, ma acquisterà un carattere di sacralità che altrimenti non avrebbe»3. Ciò Titone notava richiamando l’intuizione del suo maestro, Benedetto Croce, per la quale ogni pensiero prende corpo in una forma espressiva. Lo stesso vale per la fede, che si esprime nelle parole delle preghiere. 

La preghiera, pertanto, assumeva, nella religiosità di Titone, un’importanza fondamentale. Che Titone si fermasse spesso nelle chiese a pregare è un fatto non solo noto a chi lo ha conosciuto, ma testimoniato da diverse pagine dei suoi Diari. Alcune malinconiche, come era d’altronde la sua indole: «Non vedo più a San Michele quei vecchi che vedevo una volta … Sempre più spesso mi trovo a essere solo a pregare. I vecchi li trovo al bar. Non li condanno e talvolta penso a un giorno in cui tutti abbandoneranno la chiesa e sarò sempre più solo … So che quel giorno non verrà. Ma ci penso, forse per pietà di me stesso. Sarò fermo allora nella fede che fu di mia madre»4. Altre attente al decoro e al rispetto della tradizione nei luoghi di culto, come la lettera del 20-3-1986 al cardinale Pappalardo: «Mi permetto di rivolgerLe una preghiera per la chiesa di San Michele, nell’omonima piazza, di cui sono parrocchiano. Forse sarebbe opportuno far sostituire le maioliche, di per sé pregevoli, del Cuore di Gesù e della Vergine, specialmente quest’ultima. La tradizione iconografica, che va rispettata, non la rappresenta come una languida attricetta americana»5. Altre ancora esortative e di stimolo per chi non crede. Così, per esempio, si rivolgeva all’amico sofferente e ateo, Augusto Guerriero6 : «Qualche volta entri in una chiesa. Guardi coloro che pregano: gente umile, poveri vecchi, povere vecchie, ragazzi e giovinetti che hanno negli occhi la malinconica dolcezza della loro età incerta. Crede che tutti si ingannino, che siano ingannate le migliaia di uomini e donne che nel corso dei secoli e delle generazioni succedutesi l’una dopo l’altra hanno pregato su quelle stesse pietre, in quella stessa chiesa? Non si sono ingannate. Chi prega è sempre nel vero: Dio è nella sua preghiera»7. 

È da notare, peraltro – e in ciò si manifesta la non comune umanità e il vivo senso dell’ amicizia del poliedrico, e spesso incompreso, uomo di cultura -, come Titone, a margine di diverse lettere indirizzate ad Augusto Guerriero, si soffermi sulla fede. L’ amore «suppone non solo la nostra anima, ma le altre anime capaci di amare, vive nel bisogno di destare una vita negli altri: una vita spirituale»8. Oppure: «Penso alle sue notti insonni e prego per lei. Perché Dio c’è e l’anima è immortale»9. È davvero singolare e testimonia una fede molto salda: Titone, nel contesto di missive che trattano di altre cose, tira fuori, divagando, inattesi argomenti per convertire l’amico; perché, ci si rende conto, ciò che più gli sta a cuore è offrire uno spiraglio alla sua anima. 

Titone, si sa, è stato un uomo concreto, nemico degli astrattismi e delle riforme quando queste si profilavano vacue e prive di spessore. Perciò non stupisce come egli rifiutasse taluni nuovi modelli che una chiesa burocratizzata tentava di imporre e rimpiangesse i vecchi parroci. «La figura dei vecchi parroci, fino agli ultimi loro giorni solleciti della parrocchia; di questi padri, amici, consiglieri, spesso umili e sorridenti e sempre ricchi di indulgente esperienza, è sembrata improvvisamente anacronistica. Si vuoi sostituire con i preti-impiegati, che i fedeli vedranno succedersi nel giro di pochi anni e non impareranno a conoscere o amare»10. Così come appare in linea col suo pensiero e col suo stile di vita, operativo e pratico, il rifiuto polemico di quello che lui definisce «egoismo altruistico»: «S. Ignazio di Loyola ha scritto che è più facile amare l’umanità intera che il compagno con cui bisogna dividere la stessa cella. Infatti accade che gli apostoli dell’avvenire spesso si mostrano egoisticamente indifferenti dinanzi alla sofferenza presente. La bontà, la carità, gli affetti veri e profondi si trovano invece in quelli che silenziosamente fanno ogni giorno il loro dovere né mai pensano di guardarsi intorno per cercare gli applausi degli ammiratori»ll. Queste pagine ricordano, per certi aspetti, altre, mirabili, che Titone, anticipando di decenni tesi oggi di dominio comune, scrisse contro l’ideologia. 

Ma sbaglieremmo, e di grosso, se considerassimo Titone, anche per gli aspetti legati al suo sentire religioso, un mero nostalgico del bel tempo andato, un paladino della tradizione difesa a ogni costo o un pervicace reazionario. È questo un errore in cui molti sono caduti e continuano a cadere: Titone è stato sì un conservatore, ma a modo suo; ha difeso le tradizioni, ma in quanto espressioni di valori. La sua complessa personalità, piuttosto che in posizioni preconcette, trova il suo punto fondante in un liberalismo aperto e ricco di umanità. 

Ciò vale anche per la sua religiosità. Il cristianesimo evangelico di Titone si manifesta nella pietà per gli umili e per chi vive in condizioni di disagio. Illuminante, in questo senso, è la sua approvazione per le posizioni di una rivista cattolica olandese sugli omosessuali (si badi: siamo nel 1970). La rivista edita in Olanda («L’Olanda è ancora la patria della tolleranza» )12 si interroga: «Che cosa debbono fare i genitori, quando il loro figlio o anche la loro figlia dicono loro di essere omosessuali?» E risponde: «Essi debbono accettarlo e appoggiarlo emozionalmente senza riserve». Titone commenta: «Tutto ciò è certamente più cristiano della condanna sia della Chiesa sia dell’opinione comune e naturalmente suscita un senso di scandalizzato stupore in molti italiani, che, qualunque ne siano le opinioni politiche o religiose, si mostrano ugualmente indignati di tanta umanità o comprensione». Qui sta tutta la carica umana e il radicato cristianesimo di Titone, come pure – è la stessa anima che la ispira – nella pietà che egli provava per i defunti abbandonati. Al sindaco di Palermo segnalava perché intervenisse: «C’è poi un cimitero, quello degli inglesi all’Acqua Santa, dove ogni giorno vanno scomparendo le lapidi e i monumenti tombali di quei poveri morti che nessuno ricorda»13. 

Antonino Cangemi

NOTE 

1 «Diari», a cura di Calogero Messina, Novecento, Palermo, 1996. 
2 Panfilo Gentile, a cui Titone era molto legato, è stato uno scrittore e un giornalista di rara efficacia, assai noto nella seconda metà del ‘900. Il suo saggio Democrazie mafiose (1969), rimane, purtroppo, attuale e sinistramente profetico. In esso Gentile, ispirandosi alle teorie elitarie del Mosca, dimostra come gruppi di potere formati da figure mediocri impongano, in una democrazia non matura, le loro scelte dettate da interessi di lobby e non della collettività. Gentile si interessò anche a temi legati al cristianesimo. 
3 «Diari» (1970-1976), p. 84. 
4 «Diari» (1920-1969), p. 212. 
5 « Diari» (1977-1989), p. 266. 
6 Augusto Guerriero, ovvero «Ricciardetto», suo pseudonimo, è stato uno dei più noti giornalisti italiani, oltre che uno scrittore di non comune cultura. Tenne su «Epoca», dal 1950 al 1981 (anno della sua scomparsa) la fortunata rubrica «Conversazioni con i lettori». 
7 «Diari» (1920-1969), p. 251. 
8 Idem, p. 273 
9 «Diari» (1970-1976), p. 250. 
10 «Diari» (1920-1969), p. 221. 
11 «Diari» (1977-1989), p. 107. 
12 «Diari» (1970-1976), p. 33. 
13 «Diari» (1920-1969), p. 252.

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 22-24.