MARIO TORNELLO, Colori di Sicilia, Mosca, 2004.

Questo volume di Mario Tornello (con traduzione in lingua russa a fronte di ogni pagina) è stato presentato in occasione di una mostra di pittura dello stesso autore, tenutasi nel giugno 2004 presso il Palazzo delle Nazioni del Governo di Mosca. Esponeva anche la pittrice Ludmilla Kukharuk. La manifestazione è stata curata dalla moglie di Tornello, la giornalista Irina Baranchéeva, corrispondente da Roma per la «Literaturnaja Gazeta». Il libro, di cui sono state lette alcune poesie in russo, ha riscosso un vivo successo, contribuendo al clima di simpatia esistente tra Russia e Italia. Può essere considerato un vero e proprio libro d’arte, contenendo, intervallate tra poesie e prose, riproduzioni delle sue opere pittoriche. Guttuso e persino Picasso (oltre che i critici Sobrino, Civello e tanti altri ancora) si sono espressi sulla sua validità di pittore e sul suo essere un adoratore di quell’isola senza tempo che è la Sicilia. 

Queste pagine prendono per mano il lettore e spiegano, attraverso descrizioni paesaggistiche (come quella splendida di Erice), saggi (esemplare la ricostruzione della visita dei Romanoff a Palermo), e soprattutto stralci struggenti di diario, come è avvenuta la formazione spirituale dell’uomo Tornello. E così il lettore può rievocare la dorata infanzia del giovane Mario a Bagheria, le sue sofferenze in seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale su Palermo, attraverso fatti e personaggi di forte interesse documentario. 

Lo rivediamo ragazzo in sella alla sua bicicletta, mentre fa amicizia con i soldati americani, o mentre si inerpica sulle macerie, per mettere in salvo i libri della casa sventrata. 

Degno complemento di questo volume scaturito dal cuore sono le poesie, musicali, evocative, mediterranee come l’anima di chi le ha composte. Basti qualche esempio: «Cercherò me stesso, / suggerirò umori di perdute stagioni»; «Festa di cicale / è il frinire sugli ulivi di cenere»; «Stanotte ho planato in sogno / sul mio caldo paese / disteso come gatto al sole»; «Conserverai un’onda azzurra / ed un frutto solare, / per quando, disfatto, / poserò in vista del mare». È opportuno, a conclusione, riportare un illuminante pensiero dello stesso Tornello: «Il poeta scende dal ciclo o risale, appoggiandovi, la scala dei suoi sentimenti che gli parlano con voce sommessa. Un uomo senza sogni non è un uomo.» 

Elisabetta Di Iaconi

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 45-46.




G. Trainito, Filo spinato, Torino, SEI, 1996, pagg. 166.

Lasciamo parlare i poeti… Sono le loro parole, che arriveranno fino a noi, a lasciarci sorridenti o sbigottiti. Omero, Eschilo, Dante, Manzoni, si scrolleranno sempre di dosso la polvere di tante, inutili parole, quelle che tutti si ingegnano a dire su di loro. 

Quanto tempo sui banchi di scuola ad imparare chiavi di lettura sussiegosamente fornite da pomposi portieri per camere che spesso dimenticammo di aprire (bastava credere per fede). E allora abbasso prefazioni, note e postfazioni; diamo libertà di circolazione a quelle parole che ” …hanno il profumo dell’erba/verde/ dove non passa l’uomo”. 

Al massimo, lasciamoli parlare tra loro, un colloquio a distanza, una filigrana da cui traspaia il loro richiamo e ci aiuti, anti-ulissidi, a cedere al canto delle sirene, e dimenticarci, per un po’. 

Filo spinato, un avviso, Achtung, un flash di orrore. È il rosso dell’olocausto della “fanciulla scarna” di Levi e il massacro di Bronte, della miseria dell’uomo di sempre; il cupo rimbombo, nella reggia vuota di Dario, del lamento dei vecchi persiani che evocano l’lÌtl..uxXeelcra 8 &poupav vacroç (l’isola dai campi insanguinanti) della loro disfatta finale. È il rosso del “tramonto sciolto dall’immensa nube di petrolio” di Gela. È, poi, il rosso delle rose di Gela, il “fiore in trono” di Rilke qui nasce da solchi neri, sarà recisa da “mani tozze/sospese a schiene curve da sempre”. 

Suoni aspri, fonemi di un mondo senza mezze-tinte, dolorosa fatica di vivere e cadere addormentati senza vedere la luna (Ciaula). 

C’è la Sicilia in quelle rose, troppo amata e troppo calpestata. 

E allora, ecco, solo il poeta spiega, per somiglianza o antitesi, e la rosa di Rilke “contraddizione pura/il sonno di nessuno sotto tante/palpebre” è la stessa offerta “con pudica modestia” di Trainito. 

Il gesto silenzioso (il “parlar tacendo”) in cui si compone il travaglio del nascere, il trauma dell’esser recise da mani tozze. 

Le dure dissonanze, le rozze consonanti in lotta fra loro, tacciono nell’improvvisa sospensione del tempo: un attimo di esitazione per un gesto nato da slancio generoso che si trattiene nel suo pudore. 

I colori, la materia (l’argilla nera, la terra, il sangue, la rupe di Prometeo), presenze di un immaginario che si ripiega su se stesso in urla senza voce. 

“Cortili oscuri di un paese abbandonato”, spazi che appartengono solo alla nostra memoria, forse diventati così solo in noi, come cresciuti e invecchiati dentro di noi, con noi. Ma li torna il poeta, il cieco cantore che “brancolando sopra le vecchie tombe” interroga “gli avelli” ponendo le domande di sempre a oracoli senza responsi. 

Cerca un’identità fra le pietre della sua Sicilia, spazzate da venti africani, il poeta, e ci ricorda Pasolini fra le malghe friulane, e nella stessa miseria, che non vuol perdersi nell’omologazione. 

Si è ritrovato solo e senza patria, il poeta, come Pasolini in quella nuda lapide nel piccolo cimitero di Casarsa, accanto alla madre. 

Ma non è forse essere risparmiati dalla retorica il miglior premio per un poeta? Lo chiede con insistenza (“non turbare il mio sonnoIcon nenie inutili.1 Lasciatel che il sibilo delle cicaleI canti sul mio silenzio”). 

Tornare ad essere cicale, come un tempo, quando dimenticammo di vivere storditi dal piacere del canto delle Muse, e la sorridente gentilezza degli antichi ci trasformò in quell’ostinato cantore dell’estate. 

Ecco la poesia del nostro poeta, fatta di luce, colori, vento, mare, silenzio assorto di chi si aggira fra le antiche pietre, e l’ocra si fonde all’azzurro lontano e al fruscio verde vicino. 

Se quei colori si spengono e tacciono i sibili delle cicale e il ronzio fra i cespugli, rimane la memoria “mentre si spengono gli occhi” e il canto del poeta, per noi, che soffriamo e gioiamo, amiamo e odiamo, ma non troviamo le parole per dirlo. 

E ancora, con Rilke, diciamo: (“Il poeta, lui solo, ha unificato il mondo / che in ognuno di noi, in frantumi, è scisso”). 

Paola Di Giuseppe

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 49-50.




Il borgo marinaro dell’ Arenella motivo ispiratore di poesia 

 La poesia dialettale siciliana di questi primi anni del Duemila ora canta pure – insieme a tutte quelle che già la rappresentano validamente – con una voce nuova, calda e appassionata, quella di Maria Rosaria Mutolo, la quale per il suo battesimo porta alle stampe il volume di liriche Lu paradisu è cca, in cui ci consegna della poesia autentica da un lato e dall’ altro poesia in cammino alla ricerca di quelle stimmate formali e stilistiche che garantiscono ai poeti veri identità di dettato e stabilità degli esiti sulle valenze letterarie. 

In questa circostanza la nostra autrice ha voluto coniugare (evitando la mediazione dei modelli archetipici della progettazione poetica) il proprio patrimonio interiore di esperienze, di sensibilità, di idealità e di memoria, con la innata spinta creativa che ne caratterizza la personalità e la visione del mondo. In senso più lato si potrebbe dire che la Mutolo abbia d’istinto coniugato femminilità a parola, umanità a poesia, sotto il segno di una riposta radicalità esistenziale, per risalire dalle emozioni ai contenuti spirituali della propria ragion d’essere. E quel patrimonio si è costituito nel corso della intera esistenza, segnata dai luoghi dove è nata, dalla umanità che in quei luoghi si identifica, dalle vicende grandi e piccole che, nello scorrere della vita, vi si sono depositate. Ecco perciò coesistere, nella sua ispirazione, tradizione e futuro, la nostalgia e il sogno, il coraggio della fedeltà e il ·coraggio dell’eresia, la cultura popolare e il filtro della modernità. Si aprono così in questo libro gli spazi tematici che il respiro della immaginazione attraversa e riporta a nuova, emblematica esistenza. «Il paradiso è qua» è una suggestiva metafora: se restiamo alla lettera, il paradiso di cui parla la Mutolo è la sua Arenella, la borgata marinara di Palermo, con le sue barche, i pescatori, le case, le tradizioni della civiltà del mare, i linguaggi della gente. Averla definita «paradiso» è un atto linguistico-simbolico che riferisce in chiave lirica del suo amore per quel luogo dove è nata e cresciuta, dove si sono formate le basi su cui si sono strutturate la sua personalità sociale, la sua anima di donna, l’impegno intellettuale. E la nozione di paradiso può essere estesa a Palermo, alla Sicilia. 

Sotto tale profilo la sua premessa alla silloge è rivelatrice («non illudiamoci che fuori dalla Sicilia tutto sia più facile» ci dice, e invoca la «speranza di cambiare con coraggio» mantenendo «attaccamento alle tradizioni») della sua intensa sicilianità, come pure i contenuti delle sue liriche ce ne cantano la «paterni tà» culturale-antropologica. Ma è sul qua che bisogna riflettere. In questo caso si va al di là della fisicità dei luoghi e della storicità del vissuto: il «qua» nasconde il punto segreto dell’anima: il luogo del sogno e della verità. Diceva Sant’ Agostino che nella interiorità dell’uomo vive la verità: quando la si raggiunge, il paradiso non è più né altrove né lontano, ma qua. Questo, a me pare il cammino di Maria Rosaria Mutolo che è cominciato dall’Arenella di Palermo, dal dialetto vivo della sua gente, e che si orienta verso più maturi traguardi di poesia. 

Salvatore Di Marco

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 63-64.




VINCENZO NOTO, Vendiamo grazie a Dio, collana di narrativa e diaristica, «Mondi d’ogni giorno», Ila Palma, Palermo, 2008.

 

Un libro di narrativa, del genere dei racconti lunghi, certo tra i più riusciti, nell’intensa e molteplice attività di pubblicista e di saggista di Vincenzo Noto. 

Si tratta però di un tipo di narrativa con un preciso carattere di impegno sociale, dato che in esso è ben chiaro, anche se implicito, un messaggio invogliante i lettori in generale e quanti ne hanno il compito specifico in particolare a svolgere attività umanitaria e/o di recupero in favore di quegli umili la cui esistenza è travagliata da sofferenze di vario tipo. 

Il libro, infatti, racconta le varie opere di aiuto compiute da un generoso sacerdote, che è poi lo stesso Narrante, a beneficio di un pover’uomo, Nonò, quasi quarantenne e di limitate capacità mentali, sfortunato fin dalla nascita perché la madre gli morì nel partorirlo. Non avendo imparato alcun mestiere, Nonò sopravvive aiutato dalla sorella, ma questa, quando si sposa, lo deve mandar via di casa per obbedire alla volontà del marito. Venuto così a trovarsi in povertà totale, Nonò si sostenta con le elemosine che raccoglie frequentando tutte le sere una chiesa e che va a spendere in una vicina osteria, pagandosi da bere più che da mangiare, fino a ubriacarsi. Una sera, durante la messa, a chiusura della lettura del Vangelo, dà a mo’ di risposta le parole che formano il titolo del libro. La frase rimane senza spiegazione, suscita qualche risata nel corso di una riunione intesa a discutere di carità e, subito dopo, la benevola curiosità di don Vincenzo che, commosso dalla triste sorte di quell’infelice, si impegna come meglio può, e badando a evitare la scuscettibilità del suo protetto, a procurargli cibo, scarpe, vestiti, altre utilità e, soprattutto, a dargli il conforto di una saggia guida. 

Nonò si affida pur con qualche riserva istintiva al suo benefattore, ma non sa liberarsi dal vizio del bere, sicché si ammala di una cirrosi che non perdona. Muore assistito dal generoso sacerdote, dalla sorella che lo stesso sacerdote ha rintracciata superando tante difficoltà, e da molti compagni di osteria, di cui l’Autore fa notare la solidale presenza. È venuta anche Carmelina, una ragazza per la quale «Nonò era stato l’uomo della sua vita e forse lo amava ancora». 

Questa, in sintesi, la ‘materia’ dell’opera, una ammirevole successione di atti di esemplare umanità attestanti nel senso più completo il vero valore pratico del concetto di amore del prossimo, specie di quel prossimo che soffre le conseguenze di una vita particolarmente penosa e che tuttavia spesso dà prova di conoscere i buoni sentimenti e di praticarli. Eppure tante volte questi nullatenenti incorrono nell’incomprensione e nelle critiche, ora severe ora ironiche, dei benestanti. Sono critiche che l’Autore garbatamente biasima, in difesa di una classe sociale che ha pure buone qualità umane e quindi merita una valutazione più serena e solidarietà operosa. 

Altro aspetto positivo dell’opera sono i meriti letterari del linguaggio, ben valido quanto a precisione del racconto, a descrizione di ambienti, a caratterizzazione dei personaggi, e nel suo essere efficacemente comunicativo. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 61-62.

 




V. GALLO, Di la Bata ranni a la Marina – Usi e tradizioni di Sciacca, 2005.

Usi e tradizioni popolari locali, studi da incoraggiare 

Il volto di una città non lo compongono soltanto i suoi edifici, le sue vie, le sue piazze, ma anche i multiformi aspetti della vita dei suoi abitanti. Elementi statici quelli, dinamici questi, che infatti si esplicano nella varia mobilità di particolari momenti del pensare e dell’agire umano, connessi fondamentalmente a un passato ora più ora meno antico che al tempo stesso essi conservano e innovano, salvando una sostanziale coerenza che ne assicura la consistenza e la vitalità, oltre a produrre una certa diffusione nei centri viciniori, nei quali poi assumono peculiarità più o meno marcate e talora anche distintive. 

Si costituiscono così, nelle comunità, usanze e tradizioni di varia specie, un vero e proprio patrimonio di cultura, che ha meritato l’attenzione di valenti studiosi, animati da curiosità e interesse e dal conseguente legittimo desiderio di operare per conservarne le caratteristiche e la memoria di generazione in generazione. 

Rientra meritamente in questo tipo di studi il recente libro di Vincenzo Gallo, un impegnato docente di lettere nonché appassionato cultore di storia, tanto sensibile a quella che Dante chiamò «carità del natìo loco». 

Dotato di buona attitudine all’osservazione dei tanti aspetti della vita locale, si è dedicato da anni alla ricerca di notizie e curiosità di ogni tipo, relative a quell’ambito e, consapevole del loro valore documentario, sociale, civile, educativo, ne ha raccolte una quantità davvero considerevole, le ha riunite in apposite categorie, riferendo adeguatamente, anche sotto l’aspetto del loro formarsi storico, sulle singole voci. 

Il lettore ha così passibilità di apprendere le numerosissime ‘nciurie, cioè i soprannomi assegnati a un cospicuo numero di famiglie saccensi o a qualcuno dei componenti, lo svolgersi all’aperto di tanti giochi di ragazzi, le varie fasi del costituirsi di un nuovo nucleo familiare, dal fidanzamento al matrimonio, talvolta con specifici atti notarili, tal altra, specie a livelli sociali modesti, dopo la classica fuitina. 

Inoltre lo studioso registra, opportunamente commentandole, superstizioni e credenze, ricette mediche, filastrocche, testi di proverbi e modi di dire, aggiungendo alla fine un utile glossario. 

L’opera che Vincenzo Gallo ha prodotto è da considerare ben valida sia come testo di piacevole lettura sia come documento che illustra e consegna alla memoria un vasto materiale di indubbio interesse etnografico ed etnostorico, come hanno rilevato, in apertura, l’avv. Gaspare Falautano, il dott. Enzo Fontana, presidente della Provincia di Agrigento, e il prof. Enzo Puleo. 

In questo libro, valido, ben articolato, gradevolmente comunicativo, quasi compendio delle usanze e delle tradizioni della sua gente, Sciacca ha trovato un ritratto fedele di tanta parte della sua fisionomia umana. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 52-53.




VINCENZO BORRUSO, Alle radici della 194/78. Pratiche abortive e controllo delle nascite in Sicilia, collana di studi sociologici «Processi culturali, Ila Palma, Palermo, 2007.

Antiche pratiche abortive nella Sicilia contadina 

L’aborto è una piaga sociale fin dalla notte dei tempi; anche nell’antichità le maternità indesiderate erano spesso oggetto di decisioni estreme, mai semplici da prendere. Solo nel ‘900 si è affacciata, e poi diffusa, la tesi che lo Stato debba garantire alle donne che si ritrovano in questa situazione di potere decidere (da sole) se interrompere la propria gravidanza. Fino al 1975 l’aborto era in Italia ancora una pratica illegale: uno degli ultimi paesi europei a considerarlo un reato. Ciò non significava che gli aborti non avvenissero: anzi le donne italiane, già svantaggiate da una legislazione punitiva nei confronti della contraccezione, quando incappavano in una gravidanza non voluta si dovevano rivolgere clandestinamente alle famigerate mammane, donne senza scrupoli che, con mezzi assolutamente non idonei, risolvevano il problema, talvolta al prezzo della vita. 

A rivivere il clima di quegli anni, il dranuna dell’aborto clandestino, è il siciliano medico-scrittore Vincenzo Borruso, nel libro Pratiche abortive e controllo delle nascite in Sicilia, edito quarant’anni fa in maniera quasi clandestina per lo scalpore che destava il tema trattato, ed ora in nuova edizione con il titolo Alle radici della 194178, proprio perché la legge 194 è riuscita in gran parte a eliminare la piaga degli aborti clandestini. 

Il libro è il risultato di una accurata indagine sul campo e un excursus sulle tradizioni popolari siciliane e non siciliane in merito, sul controllo delle nascite nella storia, sulle legislazioni dei vari paesi. Molto articolato e interessante è il capitolo dedicato alla consistente classificazione dei farmaci utilizzati e capaci, a dosi adatte, di provocare un aborto. Tra questi vale la pena di ricordare i veleni minerali, sconosciuti alle giovani generazioni, come il fosforo bianco che veniva ricavato dalla infusione delle capocchie dei fiammiferi, o tra gli alcaloidi il tabacco, la cui nicotina è capace di produrre contrazioni, e la cosiddetta segale cornuta, la cui droga è ricavata da un fungo parassita che, nelle annate piovose soprattutto, innesta le spighe della segale. Ancora l’olio di ricino, la ruta, lo zafferano, il prezzemolo che nella storia dell’ aborto criminoso e della medicina in generale in Sicilia occupa un posto a sé. Interessante è anche il capitolo dedicato alle manovre fisiche (marce forzate, il sollevamento e il trasporto di grossi pesi, i bagni caldi e freddi …) e alle applicazioni strumentali (ago ad uncinetto, l’ago da materassaio, pezzi di fili di ferro, stecche da ombrello, stecche da arbusto, spilloni da capelli da calza …) nella provocazione criminosa dell’aborto che hanno seguito, modificandosi, lo sviluppo dell’ arte medica e di quella ostetrica in particolare, così come è successo per l’uso di farmaci e droghe. Oggi, per fortuna, molte di queste situazioni non si verificano più. La medicina è cresciuta così come è cresciuta l’istruzione delle donne e delle coppie. 

Riprendere queste pagine, ricordare l’ambiente sociale e culturale dal quale hanno avuto inizio le battaglie, ricordare le difficoltà esistenti per una corretta educazione alla salute, è sicuramente, come sostiene l’autore, di grande utilità per fare comprendere ai cittadini i mutamenti che i progressi della medicina hanno provocato nei rapporti fra l’uomo e le malattie e nella percezione dei bisogni di salute all’ interno della società contemporanea. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 55-56.




PASQUALINO BARRECA, Lerodìa, prefazione di Dante Maffia, collana «Poesia/ Oggi», I.l.a. Palma, Palermo, 2003. Lerodìa,

Lerodìa, o delle piccole cose di un magistrato-poeta 

«Occorre che 1’amore assuma la sua vera forma e dimensione: una finestra sul mondo che crea il vero pensiero, mentre la poesia resta la sola memoria del tempo che registra per intero l’essenza dell’uomo.» 

Si avverte già da queste poche righe, tratte dall’ epigrafe del magistrato Pasqualino Barreca e riportata da Dante Maffia che ha curato la prefazione al libro Lerodìa, o delle piccole cose, l’esigenza di lasciare una traccia del proprio passaggio sulla terra, di dire al mondo che, nonostante le avversità e il dolore, la vita è piena di ricchezze e soprattutto di amore; quell’ amore che Barreca ha il merito di saper raccontare nelle percezioni, nelle sensazioni. 

In questo libro, che non a caso s’intitola Lerodìa, o delle piccole cose, il poeta medita sul mondo, sull’uomo, sulla presenza umana nella storia. Spesso, nei suoi versi, ricorre il senso del nulla, delle stagioni che passano, della vecchiaia: Temo la vecchiaia / con la vista spenta, / l’udito debole le carni stanche e flosce, della morte: La morte gioca col vecchio / come il gatto col topo; e nonostante si renda conto che molto è stato distrutto, alterato o reso inutile, quando i suoi versi toccano l’amore si fanno leggeri, penetranti, insinuano l’unico orizzonte oltre il quale è ancora salvo un futuro possibile, la speranza: Ma per l’uomo l’amore è la vita / il dolore del cuore / il principio del sogno / la luce sperata / la finestra aperta sulla scena del mondo. 

Una poesia ricca di riflessioni, di pensieri: pensare è parlare senza parole / è solo sentire, piena di momenti e battiti umani resi con grazia e delicatezza poetica, e ciò contribuisce a renderla varia ma pure limpida. 

C’è nei versi la vita, ci sono i sentimenti, le sensazioni del poeta, i suoi ricordi di una Sicilia che egli ridisegna non con tratti convenzionali ma attraverso stilemi essenziali; la sua poesia è fatta di immagini concrete, dipinte in modo vigoroso. Ciò che colpisce dell’arte di Barreca è l’autenticità del linguaggio e il poeta non si preoccupa, come sostiene Dante Maffia, di adoperare vari registri linguistici. La sua poesia non ha timori riverenziali; è originale e mira a ricavare suggestioni, sempre con naturalezza creativa, Autenticità ma pure nitidezza di linguaggio, che esprime momenti particolari, di ispirazione. Una poesia ben organizzata e realizzata, ricca di realtà umana e pure di denuncia. 

Un libro ben articolato, una scrittura dove ognuno di noi si può ritrovare, in uno stile semplice ed efficace, ricco di sensibilità umana. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 51-52.




 PAOLO PINTACUDA, Il paese delle ombre. Sceneggiatura per un film sui desaparecidos,collana «Scene & Schermi», I.l.a Palma, Palermo – São Paulo. 

I desaparecidos nella cultura. Un dramma da non dimenticare 

Tra il 1976 e il 1983 in Argentina scomparvero 30 mila cittadini: oppositori politici, intellettuali, studenti, sindacalisti, religiosi e persino bambini. Furono sequestrati , torturati e fatti sparire nel nulla. La repressione fu parte di un piano preordinato e sistematico, eseguito da militari agli ordini dei comandi delle forze armate. Ebbe così inizio il più grande genocidio della storia argentina. Le operazioni venivano compiute nei posti di lavoro dei ricercati o per strada in pieno giorno, ma la maggioranza dei sequestri avveniva di notte, in casa delle vittime. La vittima veniva catturata e incappucciata, poi trascinata fino alle macchine che aspettavano mentre il resto del gruppo rubava tutto quello che poteva, minacciando il resto della famiglia. Anche nei casi in cui i vicini o i parenti riuscivano a dare l’allarme, la polizia non arrivava mai. Si incominciò così a capire l’inutilità di sporgere denuncia. I corpi venivano sepolti in fosse comuni. bruciati o mutilati per evitarne il riconoscimento; centinaia furono anche i prigionieri narcotizzati e gettati in mare dagli aerei militari. La maggioranza della popolazione era terrorizzata. Non era facile trovare testimoni. Nessuno aveva visto nulla. In questo modo migliaia di persone diedero forma a una fantasmatica categoria: i desaparecidos. 

Il clima di quegli anni è perfettamente riportato nel lavoro di Paolo Pintacuda, Il paese delle ombre. L’autore ripercorre le strade di una tragedia prevedibile e forse evitabile, che in un crescendo di commozione ci porta dallo spaccato di vita quotidiano dei protagonisti fino ai limiti della violenza protetta dalle istituzioni. Vi è la crudeltà degli esecutori, l’inutile rabbia degli oppositori del regime, la disperazione dei parenti delle vittime ma anche la rassegnata indifferenza di molti cittadini, come quella del protagonista Jorge, che si ostina a non capire che non vive in un paese normale. Fino a quando non prende coscienza della verità, scoprendola nel modo più drammatico, cioè subendola in prima persona. 

Il libro ha il merito di insistere non solo sulle efferate torture ma piuttosto sul dramma psicologico della vicenda. Una narrazione chiara, in una sceneggiatura accurata, quella di Pintacuda: uno sguardo lucido e crudo su un periodo storico popolato di molte ombre e pochi spiragli di speranze, ma sul quale si cerca di fare luce per avere giustizia. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 58.




 FRANCESCO CANFORA, La libera fattoria degli animali, collana di narrativa, I.l.a Palma, Palermo – Sao Paulo. 

L’utopia del comunismo, come volevasi dimostrare 

Questo libro di Francesco Canfora, avvocato a Roma e scrittore, trova diretta ispirazione nella famosa Fattoria degli animali, di George Orwell nei primi anni quaranta del Novecento. Il romanzo, ambientato in una fattoria situata nelle verdi campagne dell’Inghilterra, è una parodia della riuscita iniziale, del graduale tradimento e del definitivo fallimento della rivoluzione sovietica. Un modo ironico di Orwell per sottolineare l’utopia del comunismo, in quanto nessun uomo riuscirà mai a debellare il desiderio di potere. 

Il racconto rinnova e modifica la storia della fattoria ribelle. Egli non solo mostra, con velata amarezza, le difficoltà che gli uomini, sotto le vesti di animali di una lontana fattoria, incontrano per gestire la propria organizzazione sociale e la propria libertà, ma esamina anche, con sottile ironia, il comportamento complessivo degli animali. Questa, infatti, è la vera protagonista del racconto. 

È il popolo che si smarrisce dietro i propri egoismi e che, per paura di perdere la libertà, trova alla fine, a differenza di quanto avviene nel libro di Orwell, la forza di ribellarsi riacquistando la propria dignità. 

Giocato mirabilmente sui registri del comico e del grottesco, il racconto è una spietata disamina delle mostruosità che può produrre una politica intesa come puro e cinico esercizio del potere, quale che sia l’ideologia che la informa; ed è anche un accorato richiamo alla necessità affinché i valori etici continuino a trionfare sulle ragioni diaboliche del predominio sociale e della sopraffazione economica. È un libro che parla al cuore delle persone, dal forte significato allusivo, che unisce ricchezza di tematiche ad uno stile ponderato nella sua semplicità, e fluente nella proposizione. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 55-56.




DANIELA MUSUMECI, Doveri d’allegria, con disegni originali di Sabrina De Pasquale Mafai, collana «Poesia/Oggi», I.l.a. Palma, Palermo-Sao Paulo, 2006

C’è forse tra i doveri anche quello di essere semplici creature umane 

È questa la prima antologia organica di Daniela Musumeci, divisa per argomenti: gli amori, l’impegno politico, il mestiere di scrivere, la corrispondenza con la natura, il ricordo di chi non c’è più e, infine, la meditazione. Ciascun percorso si sviluppa diacronicamente dalla metà degli anni Settanta a oggi: si va dalla Padova degli anni di piombo (riconoscibile anche se non nominata) alla morte di Karol Woytila, passando per le manifestazioni non violente contro i missili a Comiso e per le stragi di mafia. 

Non è un diario, né un testamento spirituale oppure è entrambe le cose. Rappresenta, ad ogni modo, una sorta di viaggio interiore che dalle emozioni profonde ascende, lentamente e dolorosamente, verso il rasserenamento e il distacco: dov’era anima viene facendosi, a fatica, spirito. Le piccole scene di vita quotidiana, suggestive di un qualche desiderio o di una riflessione, si alternano a rapidi, taglienti aforismi; gli squarci di paesaggio agli enigmi della coscienza, senza alcuna pretesa didascalica. 

Nonostante le spezzature dei versi, la musica resta quella dei ritmi classici, endecasillabi e settenari, lievitati nel cuore di chi ha cari innanzi tutto i lirici e i tragici greci; ma ci sono poi rimandi, seppur non espliciti, a Lorca, Neruda, Ungaretti, come pure a poeti della beat generation e infine alle voci femminili; le più amate, Emily Dickinson e Cristina Campo. Uno sguardo libero, di fronte alle vicissitudini storiche e ai tormenti personali, insieme alla immedesimazione con la natura, sono il frutto della consuetudine con le filosofie orientali, con gli haiku giapponesi, per esempio, che ispirano l’omaggio a Kiarostami: aspirazioni a una trasparenza mai perfettamente realizzata e di cui si va continuamente in cerca. 

C’è una sorta di nodo tra poesia e filosofia che diventa inestricabile proprio quando è più lento: «la poesia è la dimora dell’Essere», avvertiva Heidegger; è dall’ ascolto della poesia (Dichtung), che ci viene dettata, che nasce la filosofia. Scrivere è dunque un modo di distillare esperienze per farne archetipi condivisibili, occasioni di compassione. 

Un modo per suggerire a chi legge, attraverso la delizia della fatica ermeneutica, un lavoro di scrittura. E allora forse è così che si piega l’ossimoro nel titolo: abbiamo tutti un dovere d’allegria nei confronti di ciò che esiste e di ciò che accade, dovere di gratitudine e di levità, che può farci tornare in mente altrettanto bene Violetta Parra o Giobbe. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 57.