CRISTINA GIORCELLI, Abito e identità. Ricerche di storia letteraria e culturale, voI. VI, I.l.a.- Palma, Palermo-Roma.

L’abito come racconto del sé e rappresentazione della società 

L’identità è un abito, cucito su misura, aderente alla pelle dell’uomo. Di un tessuto elaborato, un ordito di fili tesi, plasmabili. I fili della auto-percezione, della visione e delle pretese che gli altri hanno su di noi. I fili di «come noi crediamo che l’altro ci percepisca». 

In tutte le epoche ci sono state contraddizioni , ma sicuramente non così forti come quelle che stiamo vivendo ora tra universalismo e particolarismo. Ai nostri giorni, la consapevolezza sia del carattere limitante dell’identità, come della prigionia del ruolo (habitus sta a significare sia vestito che modo di essere) ha istituito una aperta dialettica che sfiora le categorie del pensiero metafisico, tra i termini abito e identità. Proprio tale dialettica è stata oggetto di una approfondita e dettagliata ricerca interdisciplinare e interdipartimentale, una trasversalità più che appropriata al tema in oggetto, iniziata dieci anni fa da Cristina Giorcelli, direttrice del Dipartimento di studi americani all’Università di Roma Tre, già al suo sesto volume di ricerche di storia letteraria e culturale. 

Come leggiamo in apertura del volume, da secoli l’adagio «l’abito non fa il monaco» ha cercato di consolare coloro il cui apparire non dava testimonianza del loro essere. L’abito, dunque, come mezzo di comunicazione che produce un’informazione: l’io si veste e si traveste nel grande teatro del mondo. Questo sesto volume, come il quarto e il quinto, è dedicato agli accessori; «il soggetto maschile come quello femminile non ha una identità visiva se non grazie ai vestiti e agli ornamenti». L’ accessorio da sempre è stato considerato territorio dell’inventività: tanto numerosi e così differenti, gli accessori, come osserva Derrida, completano l’abbigliamento nella misura in cui questo manca di qualche cosa, diventando così indispensabili. Ossimorico per eccellenza, in quanto ornamento dell’abbigliamento, indicatore della classe sociale, segnalatore di uno stato civile o di un’appartenenza religiosa, ha finito per focalizzare su di sé l’attenzione dell’ arte, della moda, del pensiero in genere. 

I saggi del presente volume indagano il problema abitolidentità attraverso interventi che si riferiscono alle culture statunitense, francese e greco-classica in un’epoca che va dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri, in generi diversi come la letteratura, il cinema, la filosofia e il mito. Particolarmente interessante è sicuramente il saggio della stilista Anna Masotti, dedicato alla nonna, la celebre fondatrice del marchio «La Perla», Ada Masotti. Il saggio ripercorre, dalla nascita fino ai nostri giorni, la storia del gruppo «La Perla», nome scelto, non a caso, per alludere ad uno stile prezioso e armoniosamente femminile, unico nel suo genere. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 44-45.




ANGELA GIANNITRAPANI, Profili di donne, collana «Le Giade», I.l.a. Palma, Palermo, 2007

 

Sette suggestivi profili di donne un positivo esordio in narrativa 

Un’antologia di racconti a carattere introspettivo, in cui la vicenda è un delicato contorno allo studio psicologico, è merce rara in un panorama editoriale monopolizzato dai romanzi ad effetto e ancora più raro è trovare racconti che esplorano l’universo femminile come in un flash, in una istantanea a colori. 

Per esplorare la femminilità nelle sue forme più articolate, la neo-scrittrice siciliana Angela Giannitrapani ha messo insieme sette racconti che analizzano periodi differenti dell’ esistenza anche se tutti appartengono ad una maturità della vita e raccontano donne diverse. Inquietudine e ottimismo si mischiano in questa raccolta di sguardi femminili. Qui si racconta di frammenti di vita, di sentimenti quotidiani, di momenti iniziali o conclusivi di una crisi. A volte ci si imbatte in momenti anche scomodi, in sgradevoli disvelamenti di debolezze, come, ad esempio, il legame che unisce la madre con la figlia ormai donna. 

L’autrice non va alla ricerca di drammi, di avvenimenti eclatanti, più o meno veritieri. In ogni suo racconto c’è una lente di ingrandimento, un caleidoscopio di umanità. Tutto respira la semplicità di un dettato che nasce dall’osservazione della realtà quotidiana, degli avvenimenti che, seppur colti in punta di penna, risultano densi nel loro significato e nelle riflessioni che ne scaturiscono. Sono piccoli ma suggestivi racconti di fatti familiari, spesso intriganti, che lasciano un alone di mistero e si leggono con una semplicità di incredibile pregio. Racconti brevi ma intensi, ironici, bizzarri, ma anche dolorosi. Una varietà apprezzabile anche nello stile che varia da brano a brano, in cui già si riconosce la maturità della scrittrice. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 57-58.




R. Onano, Le ancora chiuse figlie marine, Bologna, Book ed., 1994.

La poesia di questo nuovo libro di Onano indossa le vesti del racconto, della narrazione. L’incipit, ellitticamente costruito o meno, spesso affidato ai connettivi temporali e ai tempi verbali del caso, decolla ora dalle sorgenti dell’indeterminazione ora da quelle delle anacronie del futuro e/o del passato: «Ancora, ancora le vedo attraverso le sbarre dove mi apposto»; «Quando divenni re degli Scebili, subito dopo il sole»; «Quando avevamo nostalgia dei conti dell’oste»; «Così raccontava il buffone di corte, noi ancora/incerti a chi corrispondere, riflessivi, la proiezione». 

Le iterazioni retoriche e l’accento espressivo, sottolineati dalla posizione trasgressiva e di scarto sul piano sintagmatico del verso, aiutano il lettore a cogliere meglio quella “fermezza gentile” che è stata osservata dalla nota di E. Grasso che accompagna e permea il testo dei toni e delle significanze, delle “parentesi” e delle trasparenti tensioni di tutte le poesie del libro. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag. 63.




Matilde Contino, Dove soffia il vento, La Meridiana, Palermo 1995, pp. 45.

Dove soffia il vento è l’ultima silloge poetica pubblicata da Matilde Contino. 

Anche in quest’opera, il mondo della Contino è quello delle due precedenti pubblicazioni – Symbiosis e Bagliori -, il “reale” filtrato dall’immaginario emotivo e immaginale dell’autrice. “Per i tuoi occhi! da berei con la vistal del cuore”; “Vecchio leone, I quante battaglie hai combattutoI quanti pericoli hai affrontatol e adesso? I Nessuno nella forestal si accorge della tua finel … 1″; “.. ./ Anche i bambini persero I la voglia di giocare, né scherzi, né risate I solo l’angosciai di non poter fuggire / … I”. 

Breve ma densa, la scrittura poetica di Matilde Contino, a volte, sembra imporsi con l’incisiva e tagliente leggerezza dell’espressione aforistica o, come ha osservato Ida Rampolla, con l’agilità e il salto degli Hai-Kai giapponesi. 

Fresche sono le immagini del metaphorein che mediano l’indeterminabile complessità del “reale” vissuto, pensato e filtrato nell’estetico della logica sensoriale rappresentativa o solo immaginata. 

Se la vita è della stessa sostanza delle ombre e dei sogni, come più di un poeta ha detto, la poesia della Contino, anche in quest’ultima tensione poetica, può esserne lo specchio più fedele e infedele al tempo stesso. Come nei sogni, infatti, nei testi di Matilde si emigra da un’assenza presente ad un’altra presenza assente che rimanda altrove, come i sogni che si riallacciano in una continuità di cui non è né facile né possibile rintracciare gli inizi e la regolarità. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pag. 62.




M. T. Verdirame, L’album dei percorsi, Ragusa. ed. Libroitalia. 1993. pagg. 62

La vita, il tempo, il loro intreccio, il loro articolarsi e snodarsi come in un “nastro della memoria” sono il testo di questo libro di poesie della Verdirame. 

Il nastro che si concretizza in immagini, simultaneamente, fissa i percorsi – impegni, sogni, emozioni, resoconti, speranze e partenze – in appropriati e seducenti fotogrammi che costituiscono, appunto, un album. 

E. Block direbbe che la produzione della poetessa è attraversata, poeticamente, dalla “malinconia dell’essere” e dalla “nostalgia del non essere ancora”, visto che, comunque, il sogno come proiezione e possibilità di ricominciare rimane una dimensione viva e lievitante. «Ricominciare / come se la vita iniziasse / domani / raccogliere respiri / … / stupirsi ancora… 

Privi di punteggiatura interna per aderire quasi analogamente al dettato fluente e fluttuante del tempo, il filo del libro coniuga in modo efficace sia le unità concettuali del messaggio – le parole forti e virtuali di significati e sensi – sia le unità della coesione predicativa del verso, sì che la “comunicazione trova la via sia per la se-duzione estetica che per la complicità partecipativa”. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 47-48.




M. G. Cataudella, Risveglio. Ragusa. ed. Libroitalia. 1993. pagg. 64

Risveglio è la rimemorazione, tentata poeticamente, degli eventi esistenziali che l’Autrice richiama nel campo della coscienza attraverso le configurazioni rappresentative. 

Emozioni, ricordi, riflessioni, desideri, allora, utilizzando il veicolo di un linguaggio né traumatico né sperimentale, si ob-iectano come “piena, ciclo, croce, contatto, isola, dialogando. …” e si fanno ascolto comunicativo piano, disteso, senza, tuttavia. ignorare la regolarità trasgressiva del dire poetico e la tipicità essenziale della scrittura poetica. 

L’essenzialità, allora, per dirla con F. Hoefer, per cogliere il silenzio, si fa voce e parola sonora che naviga “tra immenso e immenso” perché “volare / è ancora possibile”. 

La definizione metaforica, altre volte, invece, nei testi dell’Autrice gioca a dar spessore logico-visivo alla sfera psicologica del soggettivo e dello scoramento e trasforma la riflessione empatica in riflessione di pensiero: «Non è credibile / quella nullità / … / È solo / tenera solitudine / sopravvivenza… 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pag. 47.




Lucette Junod, Verso un’altra dimora, ed. La Meridiana, Palermo, 1991.

Il libro di poesie Verso un’altra dimora di Lucette Junod è stato tradotto in italiano da Amalia Contino e pubblicato a Palermo. 

Lucette Junod, vivo il poeta mazarese Rolando Certa, frequentava gli “Incontri fra i popoli del Mediterraneo” che ogni due anni, voluti da Certa, si svolgevano a Mazara del Vallo. 

Verso un’altra dimora è un classico della poesia che sottende una visione spezzata della vita e della realtà, motivo per cui gli esseri umani, inquieti e in pena, cercando le cifre di una ricongiunzione possibile, di erranza in erranza, con il poeta tentano: -Ah! Saltare oltre le barriere/E correre verso l’acqua viva/Che sgorga da sotto i deserti». Orfeo riprova la discesa agli “inferi” per una “Ambizione cosmica”, ma le sue soste trovano gli approdi del freddo (parola che ricorre molto spesso nei versi di Lucette, e quindi emblematica), della morte, del deserto (“Sogno/Follia/Demenza”, “Vibrazione di luna/Sul fascino /Al vortice del tempo”, “Feralie noturne” e “Gli effluvi di Néroli”. 

Il linguaggio e lo stile, come ha fatto notare in prefazione Ida Rampolla, a questo punto, non possono che richiamarsi all’ermetismo e al simbolismo delle correspondances. Il verso ha l’andamento frammentato e una costruzione personalissima fatta, a volte, di versi monolessematici coesistenti, legati dalla tensione plurivettoriale del testo più che dalla sintassi dei singoli versi. 

Il costrutto poetico della Junod, per rispondere all’assunto movimentato del proprio viaggio, risulta dinamicamente vivacizzato dall’uso della poesia in verso e in prosa, della pagina bianca e del verso bianco. Giocano anche la dispositio, la sostantivazione degli aggettivi (“feralie, nérule”), le contraddizioni semantiche (“Fiori morti sempre vivi”) e altre chiavi retoriche. In esergo la intertestualità petrarchesca. 

Mi affascina pensare alla serittura della Junod come alla caduta della luce nel lago dello spazio-tempo della pagina bianca che provoca, per successivi e intrecciantesi cerchi e vortici, diversi “coni di eventi”. Qui la parola-evento del cono del passato condiziona la parola-evento del cono del futuro, rimanendo salva la “singolarità” dell’altrove -il verso dell’altra dimora- che si trova fuori dalla superficie dei due coni. In questo altrove, infatti, si possono saltare le barriere, vedere scorrere “l’acqua viva”, “…il sangue della memoria ferita” e “Immobile/In mezzo al deserto/La carovana” che “Insegue il suo sogno”. 

I fotoni, di volta in volta, sono parole ricercate e raffinate, esatte, rapide, leggere e visibili come se seguissero le “lezioni americane” di Italo Calvino. Ci sono anche fotoni fossili, i “rumori di fondo” di versi assolutamente indecifrabili, ma complementari al dettato della poetessa svizzera. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 66-67




I. Principe, Papaveri di serra, Firenze, “Atahualpa”, Quaderni di Collettivo R, 1994, pagg. 144.

Scegli tu quella che vuoi:/la poesia è il mio vuoto, /e ama ciò che non è amatole dice ciò che non è dettole vibra con noi. Per sempre.. È un invito alla complicità del lettore perché insieme all’autore corra e percorra gli stessi itinerari del poeta, le stesse zone d’ombra e di luce che velano e s-velano, allontanano e dis-allontanano le verità forti e deboli, dolci e amare personali e storiche. 

Il taglio che incide sullo scenario poetico eventi, fatti, riflessioni, è quello di un attento e leggero cursore ironico, per cui il taglio è ferita, dolore, amarezza ma anche sospeso intreccio di permanenti interrogazioni e/o richiami politici: .Dal tuo punto di vista/il sole non tramonta mai:/e dal nostro?/… / Attento Compagno,fè la luna che c’inganna.•; «I sensi vietati sono in realtà/l’unica cosa libera/che abbiamo.; .Prendi il tuo numero/ e aspetta:/.. ./I1 tuo turno/ sarà allora/libertà concessa; / strettamente vigilata•. 

Il poeta Principe è alla sua prima esperienza ma i filati e tessuti versi dei suoi testi conoscono bene l’uso degli utensili poetici: .Perché dire chi sei/se sono certo che sei? . 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag.63.




Gaetano Longo, Diario di un pagano, MCMXCVII Campanotto Editore, Paisan di Prato (UD) 1997, pp. 90.

Presentato con testi divisi in tre ambienti – VISIONI DI VIAGGIO, DIARIO DI UN PAGANO, INTERVALLI MACEDONI -, il poeta triestino, Gaetano Longo, per i tipi di Campanotto, pubblica il suo nuovo libro di poesie Diario di un pagano. 

Come nel precedente libro, Atmosfera di tatuaggio, Longo tematizza il quotidie personale e storico con sapiente leggerezza poetica e tagliente vena ironica per farne oggetto di riflessione critica e offrirlo in pasto all’intelligenza viva e malinconica per una realtà che sempre più spesso offende gli stessi limiti nazionali ed etici del vivere. 

L’intertestualità più ampia Trieste, Parigi, Zagreb, Ulisse e Omero, Genesi, Skopje, il lago di Ohrid, l’ubriacane, l’orgasmo, il mago, ecc. – diventano il pre-testo più agile e provocatorio per passare a setaccio se stessi e le ideologie di copertura della falsa coscienza. 

«C’è odore di pace & noial nella notte profonda e rossa I bagnata e sudataI vuota di clacson e parole I … I Dov’è il diavolo e l’acqua santa?» 

«Me ne vado con passo vellutatol in giro per la città scuraI I Con un po’ d’impegno ucciderò la nottel Con qualche trucco arriverò a domaniI e con un po’ di fortuna inventerò l’alba. E gli ortodossi posero monasteri e cattedrali I perché tutti avessero luoghi di riposo e di rifugiai E i musulmani posero le montagne e le moschee I … I E i cattolici posero ancora un dio con chiese/ … I». 

L’uso ironico dell’intertestualità e il senso di una forte malinconia per una realtà che contraddice le promesse che aveva avanzato prima di nascere fanno del racconto poematico di Gaetano Longa un testo poetico che coniuga perfettamente il gioco della poesia e quello del giudizio etico-politico dello spettatore che non è né “il poeta cieco” né l’attore “disinteressato” sebbene coscienza critica ed estraniante. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pagg.62-63.




 G. Bella, Congiure celesti, Catania, Prova d’Autore, 1991, pagg. 225. 

Presentando i dieci racconti che formano Congiure celesti di Giuseppe Bella, S. Lanuzza dice dell’affinità dell’autore d’esordio con i padri fondatori della letteratura del “realismo magico”: Gogol, Landolfi e Bulgakov. Forse si potrebbe anche dire che gioca l’immaginario kafkiano delle metamorfosi, se è vero che il corpo delle ombre, degli indizi, delle ipotesi. delle intuizioni, delle interpretazioni ‘congetturali’ del de-lirio dei vari personaggi prendono forma e configurazione secondo i termini di una “congiura celeste” che fonde sogno e realtà, enigmi e paradigmi, conscio e inconscio, razionale e irrazionale e attraversa sia i soggetti che la loro soggettività. Questo cum-iurare celeste, quindi strutturalmente e metafisicamente dato, poi, sine nomine e polimorfo, quanto permanentemente soglia, si versa come in un ‘bricco’ -i vari protagonisti-, che così si vedono e si dicono come un ça parle lacaniano. 

G. Bella, insomma, conosce l’arte e il mestiere di scrivere letteratura. In realtà, già fin dal titolo -Congiure celesti-, che categorizza i vari racconti, il sintagma stesso è una spia più che indicativa. Un macrosistema complesso che interagisce con chiusure e aperture permanenti con altri sottosistemi -i vari racconti-, altrettanto complessi ma autonomi, dove l’inventio, la dispositio e l’elocutio di volta in volta tracciano un itinerario seducente quanto logico, ineccepibile e unico ma sempre differenziato sul piano dell’intreccio narrativo e del tempo che miscela attività reale e onirica, eventi e congetture. E se facessimo incontrare i personaggi di Bella e le loro vicende con il poeta-fingitore di Pessoa e il poeta viandante di Machado? 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag. 62.