E. Schembari, Le macchie sul muro. Pisa, Tacchi ed., 1993, pagg. 111 

“La mia vita? …m’affacciai alla finestra, ho guardato il giardino e già ero grande. Poi ho guardato il pino alto… e già avevo i capelli bianchi. Poi mi sono girata a guardare le case del paese ed ero una vecchia… E mi sono coricata in questo letto, ad attendere la morte. È accaduto tutto quasi nello stesso momento. Cosa ho visto, nella vita? Niente!. .. Si vive per morire… Anch’io, un giorno, non avrei visto più nessuno, non avrei sentito, né detto parole e non mi sarebbe importato di nulla: né della luna, né della verità, né dei fantasmi, né dei bottoni perduti, né dei miei genitori, né delle macchie sul muro e nemmeno della nonna e della sua morte». Sono solo alcune delle pennellate del racconto di Schembari, di un racconto che si snoda con eleganza stilistica e vivacità di immagini, stampate con leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità di implicazioni. 

L’estetica delle Lezioni americane di Italo Calvino sembra che qui trovi pieno e personale campo di sperimentazione; nel racconto di E. Schembari, la realtà, la vita, il tempo è una trama, una rete complessa dove l’immaginario scrive e deforma le cose per diritto di diversità e libertà. 

Il pensiero della morte e del niente che sembrano dominare la narrazione, che si svolge con equilibrio tra passione e distacco narrativo, non hanno niente di cupo e pessimistico; sono soltanto le macchie sul muro. Ieri si sarebbe detto e scritto sui muri e sulla carta: “vogliamo l’immaginazione al potere”. 

I/L protagonista/i – la nonna e il nipote “matti” – del racconto, al di là del puro e semplice intento pedagogico-politico, in fondo, non sono altro che la negazione e il rifiuto di quanti, cose, persone, eventi, si impegnano a voler fare morire e nientificare la tua diversità e la tua libertà d’essere e di vivere. 

Tra i fili della propria rete, il racconto possiede anche colorazioni espressive che hanno recuperato e valorizzato la funzione significativa di diversi stilemi del linguaggio e dell’ambiente siciliano. arricchendo, così, il raccontare stesso di una memoria culturale che non deve essere annullata in tempi di omologazione tecnologica. 

La morte e il niente di Macchie sul muro è il nihilismo dei liberi. di chi non ha nessun possesso da perdere, di chi, come diceva un certo autore di Al di là del bene e del male, sa che i fatti sono stupidi come i vitelli, e di chi, come Schembari, scrive che la morte, forse, è un fiume e/o un sole. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 45-46.




E. Bonventre, Leone assiro, ed. Tracce, Pescara, 1993, pagg. 36

Rileggere le poesie di E. Bonventre alla luce del quadro interpretativo offerto da P. Valery per guardare la complessità – l’imprevedibilità essenziale -, questa è l’intuizione che mi è rimasta dopo la lettura. 

I titoli delle poesie fanno da cornice certa e referenza culturale classica inequivocabile per seguire lo stile del verso che, tra il modello epigrammatico e quello aforismatico, snoda il dis-corso delle emergenze poetiche. La figurazione e 

riconfigurazione possibile e continua dell’immaginario-reale, che vitalizza le poesie, si esistenzia però nell’incertezza dei paradossi autoriflessivi – (<< ••• / La Storia non consiste! / Ciò che pensa il grande Fratello / è sempre più Storia della Storia di prima») – o prende voce nella seduzione errante con cui, personificati metaforicamente gli elementi e fattane trasgressione semantica, il poeta, vago ed evocativo, sogna di una zeriba che raccoglie la voce del vento della “libertà Mandela” o di una chimera: «Un’altalena il mare / unico amico il mare / perché ti ricordo?». 

Intreccio di classico e di contemporaneo, la poesia di Bonventre è certamente traccia e testimonianza di come il linguaggio poetico, accanto agli altri linguaggi della società tecnologica, conservi intatta la propria vitalità e una propria ricerca ineliminabile per dire la pluralità delle cose. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pag. 48.




Domenico Cara, Bajlcàl, Milano, Editrice grafiche abidue, p. 1324

 Non posso evitare di dire che ho letto Bajlcàl, l’ultimo libro di poesie di Domenico Cara, che fra l’altro è una penna che non scrive solo poesia e di poesia, in compagnia delle indicazioni di percorso che lo stesso autore ha dato con una sua nota a fine testo e di quelle dell’introduzione di Mario Lunetta, che, a sua volta, cita, la figura del “poetaforista” di Stefano Lanuzza. 

Bajlcàl è una raccolta di poesie che si suddivide in quattro parti: Arpa omofona, Charme assoluto (monoloquio sull’altrove), Flotiglia dell’orsa e Camera delle similitudini. 

Non azzardo nessuna cucitura tra questi quattro sottoinsiemi e l’insieme della raccolta. 

Dico solo che parole-luoghi come “interrogazioni, tempo, ironia, metafisica, logos, contingenza, caduta, altrove, lineamenti di realtà, aliquota del quotidiano, piazza, trascendenza, il punto dell’effimero, caso, caos, aleatorio, ecc. , erano quelle/i che mi prendevano con più insistenza e che più di ogni altra rete di connessione si ponevano come centro di gravitazione orbitale nel tentativo di un mio rapporto più ravvicinato col detto e il non detto della poesia di Cara. 

Non saprei spiegare perfettamente perché, ma sicuramente cercavo un filo, una trama, delle tracce, dei frammenti, anche aforismatici, a me familiari e da utilizzare come tali per “colloquiare”, si fa per dire, con il testo del poeta nel suo flusso di “accumulo barocco”, interrotto dalla necessaria discontinuità della scrittura e della scrittura poetica in particolare che si concretizza nella polimorfia del verso. 

Mi sono venuti in aiuto due versi di Maurice Blanchot – “Parlava, andando di parola in parola / per consumare la sua presenza” – che Cara ha utilizzato a fronte come segno d’incipit per la poesia Le trascendenze, l’attesa, l’oblio (p. 101). 

Domenico Cara, infatti, consumando le presenze sotterranee del «lago> , di Bajakàl nella consistenza della scrittura che si erode nella coesistenza oscillante tra profondità e limpidezza di pensiero e di sintassi, pone la sua poesia in un rapporto permanente di interrogazione col tempo. Un tempo che sosta divenendo in un ininterrotto seguirsi, senza principio e senza fine, di presenza e di assenza, dove la consumazione è una cancellazione senza la conservazione della memoria: il gioco dell’acqua del mare, ma anche del «lago>, quando il vento innesca il moto delle onde. 

“. . . la parole indicibile” così dice e non dice, e le “. . .cicali invisibili” consumando la loro invisibilità nella corporeità del canto cancellano il loro suono nei segni che vengono tradotti in scrittura, in un “ritorno” che Nietzsche chiama “eterno”. 

La citazione è un altro “luogo” dove Cara e Blanchot mi hanno portato, ma non chiedetemene una ragione logocentrica. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 82-83.




D. Cara, Ornamenti per sella, Bologna, Ed. del drago di seta, 1994, pagg. 58.

Il cavaliere che monta la “sella” del cavallo della scrittura e ne orna con lo stile la superficie non euclidea o a curvatura costante negativa – spazio, appunto, a “sella”-, come dicono gli artisti delle geometrie non classiche, è Esco. Esco sa che i sentieri di questo spazio sono quelli che si declinano con la consistenza delle dune del deserto o delle scie delle onde del mare. Si può dire che Esco, in questa nuova esperienza scritturale di Cara, sia la stessa scrittura che giocando sul piano non lineare degli assi logolinguistici del viaggio de-lirante del pensiero in cammino (.Adesso la fissità si è spostata e, quindi, c’è per tutti noi una possibilità di parlare…-, .A quanto pare, qualcuno ride di noi stamattina, taglia a metà le ragioni irreali come un uovo sodo e bianchissimo… -, aggruma e colora, quasi per nascosta aspirazione e vocazione conoscitiva, “casuali” significati e sensi congetturali e/o, a volte, aforismatici, argomentativi, inaspettate emergenze e “brezze casuali”: .Un modo diverso di pensare alla felicità è di sognare una foglia vagante•. 

Questo modo di viaggiare su uno “spazio a sella e in tempo miscelato”, dove la linearità del discorso cede il posto alla parola dei nodi, non fa perdere, tuttavia, la pregnanza e l’efficacia della scrittura e dei messaggi-non messaggi. I nodi infatti sono legati dalla concreta contingenza della rete discontinua-continua della vista, dell’ascolto, del gusto, dell’immaginario polifonico e dell’improbabile probabile di cui possono dire, deposto il terrore dell’aut aut, solo gli universi delle logiche che sposano la pienezza del tempo come miscela. Nei luoghi dove la leggerezza o l’esattezza della scrittura devono curvare i “bordi” della soglia attraversamento non dicibile – e decidere il passaggio del “referente” al livello del tra-dotto, il piano della pagina porta anche le tracce dello zoccolo dell’ironia (Il suo orgasmo era un’estasi nazionale…•. Non è un caso che Cara, ad apertura del testo, si presenta in compagnia di Majakovski, Ionesco e altri cavalieri della penna. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 62-63.




D. Cara, La conservazione dell’oggetto poetico, Ed. Laboratorio. Milano, 1993. pagg. 367

Dopo Traversata dell’azzardo, quasi un repertorio della poesia degli anni Ottanta e un rapporto sulle illusioni irrazionali. pubblicato per i tipi della Forum/Quinta Generazione, Domenico Cara dà alle stampe La conservazione dell’oggetto poetico. 

L’opera non vuole essere un’antologia bensì un repertorio di stili e referenze modali dal momento che non esiste più la Poesia ma “versioni di poesia”. 

Con l’attenzione alla lingua usata dagli autori inclusi. Cara divide il suo lavoro in quattro sezioni: l – i nodi dell’epoca: selva continua, nutrimento, allegoria, 2 – l’origine dei fili. indispensabilità della proporzione. 3 – dai lacerti dell’emozione, altra esistenza. 4 – Tornare dal fondo, consegnarsi all·assente. 

Non è senza ironia che l’autore del rapporto ci presenta La conservazione dell’oggetto poetico: le varie scritture poetiche, infatti, strappate alla solitudine del monologo o di un finto colloquio con un alter ego, vengono verbometaforizzate entro comici appese ai chiodi delle “autopsie… sali nell’acqua…”. D’altronde oggi non c’è indagine e riflessione sulla scrittura che non viva di ironia, se la lingua è diventata campo ermeneutico, orizzonte di realizzazione e derealizzazione che fonda e sfonda allegorie, spaesamenti, nostalgie fondative, assenze nichilistiche o altro. 

In ogni caso, dice l’autore, quella degli anni Novanta è una ‘poesia uscita per sempre dalle sincopatie della maniera e quindi libera di essere collocata nella rianimazione dei suoi equilibri». I poeti, così, raccontandosi nell’età che li attraversa con tutta la tensione di una realtà inquieta e dai bordi indefiniti, si interrogano e danno voce a· dei “versi” che triangolano gli eventi tra l’assurdo, l’immaginario e altri intrecci, facendo della “conservazione dell’oggetto poetico” una poesia come poesie che si collocano nei luoghi delle domande e delle risposte irrinunciabili. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 46-47..




 Boris Vishiski, Gli occhi del pittore

Pasian di Prato (Udine), Campanotto Editore, 1997, pagg. 170. 

“Gli occhi del pittore” è l’ultimo romanzo dello scrittore macedone, Boris Vishiski, che Matilde Contino ha tradotto in lingua italiana dopo Corona di Sabbia dello stesso autore. 

La traduzione ha reso perfettamente l’intreccio dei vari livelli del testo. Ne conserva la fluidità, la freschezza e l’incisività poietica che, tra implicanze di varia natura, articola e struttura il tessuto del romanzo. 

Realtà, fatti, eventi, storia, immaginario e immaginale, sogno, razionale e irrazionale, proiezioni psico-affettive e costruzioni “surreali” … sono miscelati e distesi con effetti d’intesa e costante tensione letteraria. Il perno della costruzione letteraria è, ormai, quello che nell’opera di Boris Vishiski può essere considerato un ideologema: un personaggio che vive la propria condizione socio-umana come una differenza di separata alterità, la cui complessa e sicura identità di singolo e di cittadino libero è permanentemente minacciata di distruzione. 

Per alcuni aspetti, lo sviluppo dell’intreccio sembra richiamare le tematiche dell’alienazione e della perdita d’identità dei personaggi kafkiani. Ai personaggi di Kafka il potere frustrante e deviante del “Castello” si presentava con l’impenetrabilità comunicativa e quasi metafisica. Al personaggio di Vishiski la violenza del potere, forte e ossessiva, continua e inafferrabile metamorfosi in agguato, si presenta con tutta la visibilità e la volontà dichiarata di annichilimento. 

I frammenti della vita di Marco sono la dolorosa allegoria di un ordine che ha distrutto e perso, per volontà di un potere assurdo quanto inaccettabile, a volte oscuro e inspiegabile, il senso delle relazioni umane e politiche plurali. 

Per contrasto, il messaggio dell’opera, ci sembra essere, fortunatamente, un invito alla resistenza e all’attacco vigile. 

Antonino Contiliano 

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 50-51.




Angela Scandaliato-Maria Gerardi, La Giudecca di Sciacca. Gli Ospedali della città, Castelvetrano, Edizioni Mazzotta, 1990.

 Il testo, scritto a due mani, è uno spaccato della storia di Sciacca tra il XIV, XV, XVI e XVII secolo, la cui narrazione pesca nell’humus dei diversi strati sociali e nei rapporti di gerarchie e dominanze, sottomissioni e sfruttamenti, lotte aperte e clandestine, diplomatiche e non per il controllo del potere. 

Il lavoro, corredato da opportune note, rimandi in appendici, riproduzioni di documenti d’epoca già noti o inediti, indicazioni bibliografiche d’obbligo e da una inequivocabile chiave di lettura che si rifà alla storia come “lotta di classe”, affonda il bisturi dello stilo ricostruttivo nelle “zone d’ombra” e nella “microstoria” della Sciacca dei secoli sopra indicati. 

Da un confronto con il presente, verrebbe voglia di rispolverare Giabattista Vico con i suoi “corsi e ricorsi” o quanto meno ripensare a certe devianze delle istituzioni come a una costante piuttosto che come a un fatto “congiunturale”. 

Sono gli ebrei e il loro rapporto con il potere politico-economico laico e religioso-cattolico locale, i poveri, le prostitute, i vagabondi e il loro rapporto con le logiche ideologiche forcaiole e torchianti della classe dominante del tempo e i relativi ricambi, il vero soggetto che processa e giudica un’epoca e i suoi cosidetti governanti, più della sapiente ricostruzione delle autrici che a quelli hanno prestato la penna per dare loro voce e possibilità di memoria storica per gli altri. 

I capi d’imputazione: assenza dello Stato, clientelismo, compravendita del potere, compreso quello di far giustizia col “privilegio” – legge privata -, favoreggiamento della prostituzione anche come propaganda di “antitodo” contro la peste, sfruttamenti e peculati nelle istituzioni assistenziali (vedi ospedali), dominio di un’ “etica” improntata al più cieco e abietto clericalismo cattolico, che additava ebrei, poveri, prostitute e vagabondi come causa dei malesseri più diffuse perché “diversi”: gli estranei come male irriducibile al bene e alle “buone norme”. 

Senza misconoscere l’apporto della Gerardi, ci sembra che la mano della Scandaliato, ricca anche di una sua esperienza nella “microstoria” degli eventi della poiesis, sia quella che più abbia dato luce e filo alle “zone d’ombra” della storta di Sciacca del periodo preso in esame, anche perché la sappiamo versata in questi studi, senza nulla togliere, peraltro, ad altri che perseguono obiettivi analoghi. 

Nel segnalare l’evento editoriale consigliamo la lettura dell’opera che, fra gli altri pregi o difetti che altri possano trovarvi, sicuramente non ha accademismi da officiare. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 81-82.




AA.VV., Arrivederci a Sortino. Scritture di Autori Siciliani, Ed. Prova d’Autore, Catania, settembre 1997, pp. 263.

A cura di Sebastiano Terranova, per i “Quaderni di Sicilia nell’Arte e nella Letteratura” , l’Amministrazione del Comune di Sortino, con i patrocinio della Provincia Regionale di Siracusa, in edizione fuori commercio, pubblica un almanacco di autori siciliani in occasione della prima mostra Mercato-Mercato del libro A.S.E. (Associazione Siciliana Editori). 

Gli autori presentati, poeti, narratori, saggisti, scrittori di costume, tradizione, attualità, ecc., sono stati suddivisi in cinque sezioni: “testimonianze e ricerche, esordienti, conferme e riconferme, interviste, sezione sortinese”. 

Il libro, inserito nel contesto della cultura iblea e isolana, come testimonia il Sindaco di Sortino, Orazio Mezzio, è uno spazio meritevole di attenzione perché luogo ed esempio di una Sicilia attenta alla cultura come forza di crescita e di sviluppo civile e democratico. 

Una Sicilia troppo vilipesa e dimenticata non poteva esprimersi con migliore prova di sé e della sua gente propositiva. 

L’Almanacco sortinese delle nuove scritture, inoltre, è significativo e esemplare sia per gli autori presenti sia per la variegata qualità scritturale di cui gli stessi sono portatori. 

Sortino, mediante la raccolta di autori appartenenti a diverse aree dell’Isola, si fa voce rappresentativa di tutta la nuova Sicilia e ne indica lo spirito creativo e la decisa volontà associazionistica tesa a contraddire l’individualismo e il mercantilismo dell’arte e della letteratura. 

Sortino, un esempio da imitare e ripetere in altre realtà isolane! 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pag. 62.




Rossano Onano, Inventario del motociclista in partenza per la Parigi-Dakar, Ediz. Tracce, 1991 – Pagg. 54.

L’anello di congiunzione che collega la produzione poetica di Onano (Gli umani accampamenti – 1985; L’incombenza individuale – 1987) è la figura femminile, a tratti smembrata, analizzata sino all’inverosimile (….sullo scoglio tormenta la sirena / la chioma azzurra: vanno i capitani / di barche a vela con la stiva piena / di tesori, tarocchi, alberi nani / rari; pesano i pegni per le bianche braccia… »). Si distingue un gioco di parole e sensazioni, rimescolate con sagace ironia che raggiunge l’effetto direzionale cercato,voluto con energia e decisione, usando armi sempre diverse e pur uguali nel contesto generale del comporre lirica .coscienziosamente trasgressiva», non delimitando altresì nessun tipo di frontiere ideologiche, trasmigrate nell’evolversi del pensiero cosmico, .circonciso» in una esclusività propria, con ampio margine del .consenso inconscio». 

L’allegoria nasce spontanea, una naturale tendenza al convincimento -ermetico» del .dire» (•…A pensarci. sono tenuti a corrispondere / il toporagno e la cavolaia: peccato / quell’ultimo anno di lei, finalmente / provveduta di ali bianche… »), offrendo curiosità e intrigante penetrazione nella teoretica mentale del giudizio umano, non trascendendo dal divenire ricerca obiettiva. rigorosa verifica -dell’elaborare», nel segreto comparto dell’io» non disgregando il senso della realtà, mai sfuggita oltre le sembianze ottenebranti di immagini congiuntive della memoria. 

Notevole l’impegno essenziale nei versi, accerchiati senza il vizio della noia e del ripetitivismo. La continuità di una efficace indagine della .nuda. e dunque -vera» espressione dialettica, non cede il passo alla regressione accettazione di .stanca tolleranza» terminologica. 

Il lavorio di -ape operaia. non conosce soste per questo autore. mai pago del suo raggiunto .stile programmatico., così -dissimile’ nell’essere propagazione interconnettiva del frasario generico usato dai più. 

La trasparenza del dettaglio non si identifica nell’equiparare stemperare rivelazioni dogmatiche. 

Il creare poesia resta, dunque, sorgente inopinabile. al di là delle -personificazioni oggettive» usate per caricare di accattivante affermazione la silloge (il re Salomone. Cavalcanti, Angiolieri. ecc.). 

Il tabù psicologico, che frena e livella ogni nostra azione verso noi stessi e gli altri, contribuisce a -intossicare. il rapporto d’interdipendenza con la vita, unica alternativa alla -vegetanza intrappolata» in cui ci dibattiamo come animali feriti, prossimi alla mattanza, per cui, il -Totem», intorno al quale ruota l’esigenza morale e sincera dell’individuo, viene demonizzato e in più reso idoneo a simboleggiare l’unica e l’ultima barriera alla follia (….il totem contrappone un silenzio ostinato ai nostri / balli rituali (per vecchie beghe di famiglia, furti / di mele, che noi daremmo dimenticati). Questa/ intraprendenza, sospettiamo, viene intesa con qualche insufficienza….). 

La mutazione progressiva di Onano come uomo e come poeta si protende con graduale lotta indirizzata ai due fronti, prospicienti -punte di attacco». Ma altri -orientamenti interiori. attendono e contendono l’autore che viaggia -senza bagaglio» nel tunnel dell’esistenza spirituale mai disgiunta dalla materia, così utile e importante oggetto comparativo. 

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 60-61.




F. Hoefer, Senza partitura – diario poetico dall’ U. R. S. S., Ragusa, Ed. Duemila, pagg. 58.

Quest’ultima raccolta di poesie di F. Hoefer si evolve con graduale e visibile intensità affettiva che confluisce in una vera e propria “dichiarazione d’amore” a quella terra così sterminata e così lontana che è la Russia, quasi fosse un mondo di favole oltre l’umana dimensione, un mondo sospeso eternamente fra antichissime tradizioni che accendono la fantasia e una realtà immutabile, avvolta nel mistero. Tramite un’impalpabile velina di “metafisico respiro”, l’autore rivela i sentimenti ispirati da luoghi, immagini e situazioni, realizzando un diario di viaggio sospinto senza forzature dall’anima, intrepida e instancabile moderatrice di emozioni. 

Il titolo stesso del libro ne è il segno premonitore, che indica come la spiritualità poetica sia sciolta da qualsiasi costrizione lirica, per librarsi nella marea di motivazioni psicologiche che agiscono sull’impulso creativo. Eppure non è eluso, neanche per un istante, quel tratteggio ironico che caratterizza Hoefer, misto il più delle volte ad una malinconica briciola di amarezza, mai esaurita. 

G. M. Cataudella

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pag. 78.