Antologia de Los poetas del 27 ( a cura di J. L. Cano), Madrid, Espasa-Calpe, 1988. 

Chi vuole avvicinarsi alla splendida stagione dei poeti spagnoli del ’27, può farlo con questo libro tascabile della Colección Austral della Espasa-Calpe, curato da José Luis Cano. 

Nella sua ampia Introducción, Cano, sostenendo le posizioni di Guillermo di Torre e di Damaso Alonso, parla di una generación de poetas, rigettando la tesi di Jorge Guillén e di altri, secondo cui dovrebbe meglio parlarsi di «un grupo de amigos». 

Singolarmente passa, poi, in rassegna i poeti di questa generazione (F. Villalon, P. Solinas, J. Guillén, G. Diego, V. Aleixandre, F. Garda Lorca, Damaso Alonso, E. Prados, L. Cernuda, R. Alberti, J. M. Hinojosa, M. Altolaguirre), evidenziando l’impegno umano e civile e l’attaccamento agli ideali di libertà e di vita democratica’ per i quali alcuni affrontarono la morte, altri il confino, le umiliazioni e la censura. 

La scelta antologica è preceduta da una bibliografia generale ed ogni autore da una breve notizia biografica e una bibliografia essenziale.

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pag. 46.




Anna Vinci, La Terra senza (dramma in due atti), Palermo – Roma, Ila-Palma, 2010.

Una realtà tutta meridionale 

Cosa c’è di strano nell’abbandonare il luogo natìo per andare altrove, in una grande città o in uno sperduto paesetto di montagna? Niente – mi si risponde -, abituati, come si è al giorno d’oggi, a spostarsi da un capo all’altro dell’Italia o del mondo alla ricerca di un posto sicuro per lavorare e vivere. Più che strano, brutto è invece, lasciare il proprio paese per l’aria insopportabile che vi si respira, a causa della delinquenza organizzata che tutto soffoca e opprime. Non ci sono alternative, o adeguarvisi, e vedere e accettare l’illegalità imperante, o andarsene, perché la debolezza dello Stato rende deboli e impotenti i cittadini, costretti a far silenzio per non subire. 

Ludovico de La Terra senza di A. Vinci, dramma in due atti pubblicato da Ila-Palma, è dovuto andarsene dal suo paese perché non aveva avuto altra scappatoia, e lui non aveva voluto accettare una realtà così avvilente quale quella dei mafiosi che impongono il silenzio con l’arroganza e la forza delle armi. Non era per lui e non vi si riconosceva, dopo che il padre, per essersi ribellato, era stato malvisto dai paesani e considerato un pazzo, costretto a vivere in casa, e il suo amico migliore, Antonio il cantastorie, ucciso proprio per aver denunciato col canto uomini e misfatti nella pubblica piazza. Che vita sarebbe stata la sua, quali aspettative gli avrebbe potuto riservare un luogo che aveva fatto svanire le illusioni e le speranze della sua gioventù Una terra senza pace cosa avrebbe potuto offrirgli, se non di diventare come i peggiori dei disonesti? 

Anna Vinci ha saputo calarsi con questo dramma nella realtà meridionale e siciliana, rimasta invariata fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Non che ora sia cambiata, ma non c’è più quell’omertà che condizionava persino l’aria da respirare. In ogni caso, è un dramma ben riuscito, perché vero che trova linfa in quella realtà ma il suo sviluppo è nei personaggi, anzi in essi esplode e si realizza. 

Anche questi sono ben riusciti, e lo è Ludovico che, ritornato dopo tanti anni, quasi pronto a ripartire, una volta venduta la casa paterna, ha difficoltà ad accettare quella realtà e a riconoscervisi, tanto da venire in contrasto con Rosa, la sorellastra, che aveva atteso e desiderato la sua venuta; e quando gli chiede se è stanco, risponderà che più del viaggio è il ritorno a stancarlo. Lei, invece, accetta il passato nel ricordo dei giorni belli e fa di tutto per vivere il presente, anche se dentro le mura domestiche, perché sa bene che la gente è stata cattiva con tutti loro. Perciò si sforza di non pensarci, corroborata dalla fede che la sostiene nella solitudine e dall’affetto, anzi dall’amore che riversa sul figlio e su Ludovico. Con l’arrivo di Ludovico, atteso da chissà quanto, Rosa sperava di ricomporre in piccolo la famiglia. Ma il ritorno pesa come un macigno sulla testa di Ludovico a cui di tanto in tanto gli manca l’aria e ha fatica a respirare. 

Il dramma si gioca soprattutto tra questi due personaggi. Giacomo, il figlio di Rosa, fa la sua comparsa alla fine del primo atto e rimane in scena per buona parte del secondo. È come dice Ludovico, un “disincantato”. In effetti, egli rappresenta il nuovo, e il passato non lo conosce; non riesce a calarsi nello stato d’animo di Ludovico e nemmeno condivide quello della madre che pure vuole bene. 

L’ambiente, che è uno studio, permette di seguire da vicino ciò che si svolge attorno, mentre dal sottoscala alcune voci di donne s’intercalano alle scene. Molto interessanti e utili sono le didascalie che aiutano nella lettura e nella comprensione del testo, e quelle dell’inizio sono un’ottima introduzione al dramma. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 62-63.




AA.VV., Les critiques de notre temps et Ionesco (Presentazione di R. Laubreaux), Paris, Garnier, 1973, pagg. 188.

Un libro interessante per chi vuole conoscere nei suoi diversi aspetti l’autore di Le Roi se meurt (1963), e utile per chi si interessa di teatro in genere e del teatro dell’assurdo in particolare. 

È certo che leggendo questo libro l’assurdo non è proprio così assurdo come pensiamo, e siamo portati a riflettere sulla condizione umana. 

Ne risulta un Ionesco socialmente e umanamente impegnato, provocatore, ma veritiero e spontaneo, sempre alla ricerca di verità profonde, evidenti e, al tempo stesso, sorprendenti, perché portatrici di molteplici interpretazioni.

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 57-58.




A.V. Stallone – G. Accordo, G. Pantaleo, estratto da «Annali 2005-2006» dell’I.S.I.S. di Castelvetrano-Selinunte.

Un eroe siciliano dimenticato delle battaglie risorgimentali 

Giovanni Pantaleo (Castelvetrano 1831 – Roma 1879), nobile figura di uomo, di frate e di intellettuale, fu tra quelli che parteciparono, con senso di abnegazione 

e per il bene della Sicilia, al moto insurrezionale garibaldino che portò all’unificazione dell’Italia. Insieme con tanti altri (mentre la grande massa di picciotti non ebbe altra alternativa che seguire Garibaldi, perché – dietro preventivi accordi – quella era la volontà di baroni e mafiosi), fra’ Pantaleo sperò, abbattuto il Borbone, un riscatto che avrebbe portato migliorie socio-economiche dei ceti più umili e per questo lottò, brandendo la spada, senza abbandonare il Crocifisso. Fu un valido combattente e un convincente predicatore di sani valori e di principi liberali e solo all’ultimo, l’Italia unita, si rese conto che erano cambiati i sovrani ma erano rimaste immutate le realtà socio-politiche della Sicilia e di altre regioni, con un inasprimento della presenza militare, a causa delle proteste e delle rivolte sopravvenute. 

E tutto ciò perché non erano state mantenute le promesse. E la rivoluzione apparve agli occhi della moltitudine tradita. 

Se questa è la storia, che spesso viene sottaciuta per spirito patrio (ai Siciliani non so fino a che punto torni utile), è pure vero che uomini come fra’ Giovanni diedero e sacrificarono la vita per quello che allora era sembrato la soluzione dei tanti problemi. Per questo vanno ricordati e onorati uomini come Pantaleo, perché possano essere di spinta per il bene comune, che è la terra a cui apparteniamo. 

Lo scritto di Anna Vania Stallone e Giuseppina Accordo è meritorio e degno della massima diffusione specie tra i giovani, perché nel ricordo si perpetui la memoria di quanti patirono il carcere o morirono, e ci si adoperi sul loro esempio per una Sicilia riscattata, centro e non periferia, aperta e in competizione con i popoli vicini. Questo lavoro, frutto di un progetto scolastico veramente formativo (malgrado tanti progetti poco educativi. ma lucrativi, che una scuola seria non dovrebbe avallare), consta, a parte l’introduzione del preside Francesco Fiordaliso, di quattro capitoli che ripercorrono la vita e le opere di Giovanni Pantaleo, di un’appendice di lettere e documenti, e di due note delle curatrici. Abbastanza ricca è la bibliografia riportata, un valido aiuto per gli studiosi. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 53-54.




 A Tararà, professionalità magistrale come progetto educativo, Marsala, Ed. La Siciliana. 

Un’opera certamente utile per quanti operano nel mondo della scuola elementare e materna e per chi si accinge a sostenere un concorso magistrale,. questa di A Tararà. 

Suddiviso in 10 capp., il libro presenta la figura del nuovo «maestro» nel contesto sociale, soffermandosi sulla necessità di professionalità, di cui oggi, più che mal, il docente ha bisogno per’ svolgere la sua azione didattico-educativa. Importanti sotto questo aspetto sono i capitoli: «Il maestro nella società italiana», «Professionalità e deprofessionalizzazione: assenteismo e presenza educativa»,«Verso il futuro». 

L’autore, esaminando i mali che affliggono la scuola, auspica ai docenti maggiore senso di responsabilità e attaccamento al dovere, senza i quali sarebbe assurdo, appunto, parlare di «professionalità magistrale». 

Il libro è ricchissimo di citazioni e annotazioni bibliografiche e, per questo, si presta bene all’aggiornamento di quei maestri che vogliono puntualmente documentarsi sullo sviluppo dell’azione educativa di questi ultimi anni. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pag.74.




A. Contiliano, La contingenza/lo stupore del tempo, Milano, 1995.

L’idea di sperimentalità (del verso, per esempio) affligge più d’un critico che porta sulla sua pelle una serie cicatrizzata delle sue ferite, imposte dall’immagine fissa della “tradizione”, dalla traducibilità di essa come ordine, senso e stile buoni per tutti i semplici e regolari, secondo le definizioni intramontabili. L’algidità simultanea giunge da una critica accademica che non riosserva le possibilità del mondo moderno di farsi immagine-altra di uno schema consueto, voce d’altro conf1itto (senza i quali non avremmo avuto mai, né Cézanne, né Boccioni, né tutto lo stesso Cubismo e Astrattismo novecentesco, ma soltanto non “novecentismo” diretto alla lode della corporeità, senza scarti vitali, né simboli discutibili e pronti per affrontare la civiltà d’oggi). Così, in letteratura, in troppi benpensanti intellettuali, hanno fatto di tutto per devitalizzare la ricerca sulla scrittura’ l’impeto creativo oltre i canoni stabiliti da congeniali sclerosi della mente, a favore del gioco tenero e conformista della ripetitività delle zone semplici dell’abitudine, pur sempre rigogliosa; del patetismo generale, umori, odori, nutrimenti passivi e intelligibili a chiunque. 

Una lettura dei versi più recenti di Antonino Contiliano va effettuata proprio nel senso nuovo (o diverso dal profilo chiuso della comunicazione e delle sorti estemporanee, dovute a virtù ispirativa contraria alla stessa poesia caparbiamente convenzionale, e acclarata dalle antiche luci dell’Isola in cui vive) in cui s’intende che la “contingenza e lo stupore”, a cui essi si affidano, appartengono a emblemi comportamentali di esplicita educazione al percorso anomalo intorno a ciò che si dice verso di poesia, dove si catturano eversioni e sogni. Egli lo fa con linguaggio intensissimo su una formidabilità epigrafica che si vela di significato totale, ma indica il punto in cui l’evento ha una forza visiva aperta, non scrupolosamente aderente ai contenuti, o non soltanto versati su di essi. Per recita capziosa e per sommari arbitri, Contiliano affronta – in più strati – la storia collettiva e la cronaca del mondo al centro d’ogni pagina, in cui qualcosa si dissolve, si fa maceria del tempo, frammento sottile: la cui vertigine (e ciò che di esso si ascolta) fa la “poesia”, anziché una comunicativa prorompente e assoluta. C’è un luogo geografico che dà spazio a questa scrittura amara. solennizzata dal commento realistico, ricca di sintagmi espressionistici, che consentono estri efficaci, usi sospesi e partecipati (o sconnessi) di inquietudine, che dicono più di qualsiasi istrionica tesi sull’alterità degli scarti umani, e delle molteplicità di eventi per la conservazione della poesia. Ma il lettore rifiuta quella sottrazione di sintassi che celebra la simbologia del tema, preferendo l’enfasi levigata, l’immobilità eguale a se stessa nella sua crudezza pretestuale e il senso dentro cui meglio ristagna! 

Così, il poeta, che intende sviluppare gli straniamenti sul tutto detto o scritto in maniera fertile ed effusiva, viene scacciato dal suo rango più emotivo, e viene cancellato per l’aspetto che egli offre di una galassia, di un gesto. di una dimora, di una quaestio umana e politica, di un suono nomade: e allora si blocca (contro di lui) l’idea di messaggio, in un intento più spietato e – indubbiamente – più sofferente e acre. Il lettore tace proprio per codesto dominio di vitalità (velata), che resta una sapienza effettuale, e va cercata persino nei suoi echi che non possono dirsi soltanto appartengano ad una qualsiasi avanguardia, o a navigazione impropria. 

Un coraggioso rischio che giunge dalla provincia, una insorgenza inconciliabile con ciò che sa di retrivo fra molte efferatezze irte. 

Domenico Cara

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 45-46.




Un libro a misura di un bambino

 

 Il libro di Wanda Rabita: The Magic Bag, propedeutico all’ insegnamento della lingua inglese e alla padronanza lessicale di quella italiana nella scuola dell’infanzia, ha un suo grande pregio, quello di andare intelligentemente controcorrente per le tematiche affrontate, quello di lanciare una sfida a favore di un’innocenza tradita! 

Un piccolo libro per un bimbo negato dalla società dei disvalori, quella della violenza e delle guerre, negato dall’imposizione frequente dei beceri spettacoli televisivi, negato da un’industria dei giocattoli che lo vede acquirente passivo di giochi computerizzati che dilagano creando immagini di piccoli mostri, ibridi della natura. Un bimbo negato da un’industria cinematografica che lo vede spesso spettatore inerme e violato nel suo imprescindibile diritto alla vita ed alla serenità degli affetti e alla sperimentazione spontanea e all’assimilazione guidata, ma personale dei primi apprendimenti, capisaldi della sua futura cultura. 

L’autrice nel presente media il passato, da quello più remoto a quello prossimo, e lo modula alla luce delle necessità del presente. Nel villaggio globale dello sperimentare ed esplorare, ritrova se mai ha avuto occasione di viverla, la solidarietà e un’affettività che la famiglia non gli nega, ritrova il rapporto uomo, natura, animali, secondo un equilibrio che suona armonia, armonia nel creato fra esseri viventi, ma soprattutto ritrova la fantasia, libera espressione di un io senza catene. 

A compimento della lettura viene spontaneo chiedersi: è possibile che il bimbo d’oggi torni ad essere innocente? Si badi bene, innocente, non sprovveduto. La risposta la lascio all’ intelligenza, ma soprattutto al cuore dell’ adulto che lo mette al mondo, dandogli il grande dono della vita, dimentico però spesso di una profonda realtà, quella che dovrebbe vedere rispettate le stagioni, prime fra tutte quelle dell’esistenza di cui fa parte la più fragile e delicata: l’ infanzia. Splendida la veste tipografica corredata da immagini dai nitidi contorni e dai vividi colori. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 61.




SALVATORE, I ragazzi del liceo Virgilio, collana di narrativa «Le Giade», I.l.a. Palma, Palermo, 2005.

Brindisi coi bicchieri colmi d’acqua ... 

Immaginazione, forza di volontà, spirito creativo, desideri carnali, amori proibiti, taciuti o dichiarati, successi e fallimenti: una miscela di stati d’animo prende forma e contenuto attraverso i ragazzi del liceo Virgilio di Caltanissetta nel lontano ’46, Tempi passati, spazi distanti e diversi ma con le stesse emozioni e passioni, paure e rimpianti di sempre. 

Protagonista il quattordicenne Max Perini, un ragazzo raggiante, sensibile e pieno di vita. Spirito libero e contraddittorio, ama lo studio, i compagni, le chiacchiere di corridoio, le probabili interrogazioni, i tic dei professori, le corse al mattino prima che chiudesse il portone, l’uscita in allegria. Un’adolescente non facile a causa della morte prematura della madre e del difficile rapporto col padre che cerca di ostacolare il suo sogno: il teatro, la voglia matta di recitare. 

Un racconto ricco di toni e di sfumature in cui si mescolano il ricordo, il sogno e la realtà. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 53-54.




NELLO SÀITO, Il Pinocchio studioso, collana di teatro e di cinema «Scene & Schermi», I.l.a. Palma, Palermo, 2006.

Due volte Pinocchio a teatro per la penna di Nello Saito 

Quante volte abbiamo visto trasformata in celluloide la storia di Pinocchio, il burattino bugiardo che desidera tanto, tra pericolose avventure ed amicizie sbagliate, di poter diventare un ometto in carne ed ossa, proprio come tutti i suoi conoscenti. Sicuramente la maggior parte degli spettatori, al di là della rilettura per mano di Roberto Benigni, ricorderà, per lo più, la versione disneyana del 1940 o il bellissimo Le avventure di Pinocchio, diretto nel 1971 da Luigi Comencini. Ma la fiaba di Carlo Collodi è stata in realtà più volte portata sullo schermo, da registi come Giannetto Guardone (Le avventure di Pinocchio, del 1947), Attilio Giovannini (Pinocchio e le sue avventure, del 1954), Steve Barron (Le straordinarie avventure di Pinocchio, del 1996) e Michael Anderson (The new adventures of Pinocchio, del 1999). E non parliamo della numerosa saggistica pedagogica che ha ispirato nel mondo intero la «storia di un burattino che diventa uomo» (Epifania Giambalvo, 1971). 

Nella valanga di perbenismo che ha avvolto comunque le varie riedizioni del Pinocchio collodiano è utile la voce drammaturgica di dissenso espressa in questa pièce teatrale dal titolo Il Pinocchio studioso, dello scrittore di origine siciliana Nello Sàito, autore scomodo e irriverente che ha dato prova di insofferenza per l’appiattimento culturale italiano. Autore purtroppo dimenticato, anche se si tratta di un «premio Viareggio» e «premio Strega». 

Il mondo di Pinocchio è avvolto in un’atmosfera magica, sfumata e trasgressiva, ma è regolato da una morale concreta e dura. Molto curioso e intrigante è il monologo del Pinocchio avventuroso che chiude la pièce teatrale. Qui l’autore ironizza su tutto un mondo che è duro a scomparire. Egli immagina un Pinocchio che non si trasforma in carne e ossa, ma rimane un burattino per sgonfiare quelle che lui chiama le bolle di sapone che sono la storia, la divinità, il passato e il futuro. 

«E si ci fosse un mondo fatto solo di Pinocchietti tutti di legno, indistruttibili, insensibili alle malattie, ai dolori, alle lacrime? Quante lacrime risparmiate nel mondo! Forse un universo senza uomini non sarebbe male! Pensare che non ci sarebbero neanche i politici che per secoli non hanno fatto altro che parlare e litigare.» Sarebbe un mondo colorato dove Pinocchio sarebbe felice. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 57




 MARIA PAOLA ALTESE, Portrait della Memoria. Lo spazio come simbolo, collana di studi Athena, Ila Palma, Palermo, 2005. 

(Auto)ritratti d’Artista: quattro romanzi del Novecento 

In una successione cronologica l’autrice, anglista ma con una formazione comparatistica, attraversa quattro «romanzi d’Artista» del ‘900: Tonio Kroger di Thomas Mann, A Portrait of the Artist as a Young Man di James Joyce, Portrait oJ the Artist as a Young Dog di Dylan Thomas, e Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria di Gesualdo Bufalino. Si tratta di quattro saggi con una propria autonomia interna, eppure legati da un unico filo conduttore, un’indagine sullo spazio del racconto, una dimensione che viene presentata come simbolica, e che sembra evocata dalla presenza di una immaginaria cornice da portrait che (già dai titoli, come in Joyce e in D. Thomas) racchiude la storia. 

Scopriamo un gioco prospettico tra autore e personaggio nel quale si snoda la memoria dolce-amara di un apprendistato d’artista: e risuonano accordi conosciuti provenienti dalla letteratura di formazione o «Bildungsroman» che ha avuto la sua grande stagione europea nel XVIII e XIX secolo. Nell’evoluzione novecentesca del giovane esteta e nel suo incontro-scontro con il mondo, i luoghi diventano porte d’ingresso della memoria e le immagini si trasformano in stati d’animo, risvolti passionali nell’universo stratificato della coscienza moderna. 

La casa, la scuola, il collegio, la città, il corso principale del paese, il mare, la campagna, spazi chiusi e spazi aperti, reali o immaginari, tutto nella narrazione si evolve in un complesso dialogo tra l’autore e il suo doppio, dialogo che nell’ultimo capitolo Bufalino scopre apertamente al lettore. 

Memoria e desiderio s’intrecciano costruendo itinerari di derivazione del senso che l’autrice interpreta ispirandosi, senza però seguire un rigido modello di analisi semiologica, alla lezione di Greimas, alla sua «semiotica delle passioni». In tutti i romanzi torna una costante novecentesca: il disincanto, spesso venato d’ironia, che nasce da un mondo borghese in dissoluzione e che trasforma la vita in teatro, sullo sfondo di un ritratto dell’ artista da giovane. 

Maria Angela Cacioppo 

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 48-49.