Grazia Guttilla, Nulla accade per caso, Palermo, Ila Palma, 2010.

Il fascino dell’amore provvisorio

Nulla accade per caso è un romanzo di Grazia Guttilla che la fertile editrice Ila palma di Palermo ha da poco mandato in libreria.

L’opera più che di storia sa di diario avventuroso ed intrigante di giornate vissute in un villaggio vacanze in Messico, scelto apposta per dimenticare i fallimenti affettivi, affogando nelle avventure e nella trasgressione. Sfilano perciò pagine tra balli e sballi, aperitivi e ubriacature, escursioni e lunghe nuotate, appuntamenti per cicaleggio da spiaggia e, ovviamente, concessioni al sesso provvisorio che l’attrattiva del luogo e la predisposizione psicologica della donna delusa e inquieta consentono. Difatti la protagonista è una Lisa, donna più che trentenne, fisicamente in forma e assai piacente, con appresso una figlia già in grado di prestarle all’occasione motorino o minigonna, con alle spalle un matrimonio fallito e la persistente ansia di comunicazione affettiva, per cui incorrerà in ulteriori delusioni con uomini affascinanti ma incapaci d’impegno durevole e di assunzioni di responsabilità. E nel molto animato villaggio non le mancheranno le occasioni di evadere, ora con uno spregiudicato Javier, ora con un misterioso Diego per il quale prenderà una cotta tormentosa.

Ma quello che fa di questa Lisa un personaggio tipico della femminilità come valore passionale è il suo continuo sentirsi legata al richiamo di un precedente amore, quello narrato nella prima parte del libro, un’esperienza che appare appagante in tutti i sensi, eccetto quello di voler prevedere qualcosa di duraturo. Nonostante ciò, quest’uomo, anzi il solo suo nome, affiorerà di continuo, quasi come fantasma nel corso delle vicende che animano i giorni di relax. Anzi alla fine, egli, Luca per l’esattezza, sembrerà addirittura rifarsi vivo per Lisa, come per agnizione teatrale, attraverso la figura del fratello, il Diego di cui sopra.

Forse questa conclusione disturba un po’ il clima di greve follia vacan  ziera al sole invernale dei Caraibi, nel  quale le pagine hanno coinvolto; o forse inficia la naturale leggerezza degli incontri e degli amplessi che nel libro a volte ben sanno di quella delicatezza erotica, umanamente plausibile, che però nulla ha a che fare con l’auspicata durevole felicità, raro sogno dei soliti amanti di questo mondo.

Elio Giunta

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 53-54.




Pino Aprile, Terroni (Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”), Milano, Ed. Piemme, 2010.

Apriamo gli archivi (e gli occhi), leggiamo la storia!

Di solito, dopo cinquant’anni, stemperati gli ardori e le passioni degli uomini che l’hanno condizionata, la storia si delinea e svela nella sua luce migliore. Ma non è così per quella unitaria del nostro Paese o, perlomeno, per la parte dello Stivale che fu conquistata per rendere grande il piccolo Piemonte. Questo pezzo di storia, a centocinquant’anni dall’unità d’Italia, non si conosce affatto e non si vuole che si conosca; meglio se rimane ancora richiusa a chiave negli archivi o distrutta, ad onore e gloria della retorica ufficiale che continua ad osannare ai “fratelli” che vennero a liberarci dalla “tirannia e dall’arretratezza”.

Sempre più in molti ci chiediamo: perché quest’accanimento contro la verità storica che non può essere taciuta? Forse si teme qualcosa? Ormai, l’Italia è stata fatta, e nel bene e nel male ce la teniamo. Nessuno la pensa diversamente, ma conoscere la storia, conservare la memoria di quello che è stato, è un diritto di tutti che avvicina a sé e all’altro. Venendo a mancare questa conoscenza, non ci può essere dialogo e si alimenta di più il razzismo. La riprova è in quello spavaldamente manifesto dalla Lega e dal leghismo di questi ultimi tempi. Qualcuno, nei primi anni dell’avvenuta unità disse, a ragione, che s’era fatta l’Italia, ma non gl’Italiani, e lo diceva con cognizioni di causa; a tuttora, non è cambiato niente. Si è creato un muro divisorio Nord/Sud discriminante, favorevole per il Nord e penalizzante per il Sud, con la complicità di tanti che, pur potendo, niente hanno fatto per risollevare le sorti del Sud, maltrattato sempre persino dai suoi uomini, tutti presi da pseudopolitica e da interessi di ogni genere. Tutto questo discorso, ben modulato e argomentato con solide pezze d’appoggio, è ripreso da Pino Aprile nel suo nuovo libro Terroni (Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”), pubblicato dalla Piemme ed., 2010. È un libro da leggere, a prescindere dalla geografia di appartenenza, perché è utile anche ai nordici conoscere la controstoria, se non altro, per ridimensionare il loro atteggiamento nei confronti della gente del Sud, e interessa quest’ultima per tenere alta la memoria e riconsiderarsi, riprendendosi l’orgoglio che era dei padri.

Il libro si compone di nove capitoli, e si legge come un romanzo, una pagina tira l’altra, ma romanzo non è, tanto meno è storia romanzata; bensì vera che non ha spazio (così vogliono!) nei libri di scuola e che è stata scritta da uomini che meridionali non erano prima dell’unità o, meglio, prima dell’occupazione piemontese del Regno delle Due Sicilie. C’è una frase che colpisce, leggendo il primo capitolo “Diventare meridionali”, a proposito delle malefatte, le angherie e le uccisioni perpetrate dai soldati piemontesi nei vari paesi messi a guerra e a fuoco: «Criminale non è quel che fai, ma per chi lo fai», come a dire che, se agisci per conto dello Stato, tutto è concesso; e, a colpi di crimini e di furti, si fece l’Italia, contro il diritto internazionale e contro l’umanità, così fu per la conquista dell’America, da parte di Hernán Cortés, così in Iraq e negli altri Paesi, dove Americani e Alleati fanno guerre in nome della democrazia. L’altro che difende la sua terra e la famiglia è un criminale e un terrorista, l’aggressore è il liberatore a cui tutto è concesso, anche lo stupro e l’uccisione di innocenti con la colpa di aver detto – ai soldati che chiedevano – Francesco, anziché Vittorio.

Eppure queste cose non si sanno, la storia ufficiale scrive ben altro; parla di briganti e dello Stato che interviene per imporre la legge dei vincitori, marcando di più la separazione dai vinti. A proposito del patriota borbonico Romano, Pino Aprile scrive:

«E mio padre ne doveva aver udito parlare in quei termini: da messia, non da delinquente. A lui, persone vicine ai fatti narrarono il coraggio di un uomo; a me, i libri di storia, il disonore di troppi ribaldi e del popolo che li espresse. Dall’orgoglio alla vergogna. Sono sempre più numerosi, al Sud, quelli che ripercorrono questo rio all’incontrario, per ritrovare, con la verità sull’origine della loro storia unitaria, la ragione di essere fieri. E uscire dallo stato di minorità.»

È, questo della “minorità”, un altro punto fermo del libro; è ripreso qua e là, e l’autore gli dedica anche un capitolo. Il Sud è stato – a cominciare dallo sbarco di Garibaldi a Marsala – oggetto di metodica spoliazione che lo rese nel giro di pochi anni povero e in condizioni pietose, sia dal punto di vista materiale che morale (basta pensare alla leva obbligatoria che tanti rifiutarono, dandosi alla macchia, e quella che fu una protesta di popolo fu chiamato brigantaggio), con la conseguente umiliazione del sé che, a lungo andare, condizionò di molto le popolazioni, facendole passare per arretrate e incuranti della legalità. Ma – ci chiediamo -, quale legalità poteva vigere in uno stato di continuo assedio in cui si trovava il Sud, vilipeso e martoriato dall’arroganza piemontese? La verità è che con quell’arroganza il Piemonte s’impadronì della ricchezza che aveva fatto potente il Regno borbonico, mentre l’umiliazione inferta alle popolazioni le condizionò tanto da subirne tuttora le conseguenze e, intanto, in quegli anni si sperimentavano ancora di più la mala politica, la delinquenza associata e la corruzione, che cominciò a interessare anche le istituzioni.

La frase che rimane impressa ed è stata un po’ prima riportata («Criminale non è quel che fai, ma per chi lo fai»), al termine della lettura del libro, appare ancora più chiara perché nell’immaginario comune razza di criminali sono i Meridionali che, invece, hanno subito e continuano a farlo, per questi centocinquant’anni dall’unità, il male dei nordici; non quest’ultimi, perché vincitori e fruitori delle ricchezze saccheggiate investite nella loro terra, rendendola ricca e privilegiata da avere il primato delle industrie e degli inve stimenti, a scapito delle altre regioni. 

Il libro – abbiamo scritto – è fatto con amore, è ben documentato, e merita di essere letto perché è un gran contenitore di notizie che, altrimenti, non potremmo conoscere, sia per i motivi sopra esposti, sia perché l’informazione ufficiale non è disposta a diffondere e rivelare notizie di questo genere. Piuttosto ha interesse a divulgare il negativo, e ad essere colpiti di più sono i Meridionali per mettere in risalto la loro “minorità”, rispetto ai Settentrionali che godono anche di questi favoritismi. Persino il cinema segue questa tendenza, diffondendo un’immagine del Sud e della Sicilia stereotipata e falsa, nascondendo le magagne del Nord, dove s’annida la vera mafia dei capitali e degli intrighi.

L’auspicio, che poi è quello con cui Pino Aprile conclude la sua analisi, è ritrovare il passato e l’identità che ci è stata tolta quasi del tutto, e nella consapevolezza cominciare a riprenderci il maltolto e governarci nella vera autonomia (non quella della Regione Sicilia, ancora rimasta sulla carta statutaria). C’è l’intraprendenza, c’è l’intelligenza, ci sono anche le risorse per potere emergere! Sono esse i lieviti forti che da soli possono e devono risollevare il Sud.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 51-53.




Luigi Accattoli, Quando il papa chiede perdono, Milano, Mondadori, “collana Leonardo”, 1997.

Woitila chiede perdono

Stupisce la scarsissima risonanza che ha avuto sino ad oggi il libro di Luigi Accattoli Quando il Papa chiede perdono, Ed. Leonardo, cui si è ispirato anche il recentissimo incontro alla Stampa Estera a Roma al quale ho partecipato e dove non c’erano che pochissimi ascoltatori sia cattolici che laici nonostante la presenza del famoso teologo vaticano svizzero G. Cottier e di uno storico universitario, F. Cardini.

Eppure se l’intelligenza è flessibilità, e questo vale per tutti gli schieramenti, il libro-antologia di testimonianze degli interventi di Wojtila degli ultimi decenni è uno dei libri più sconvolgenti e sorprendenti ch’io abbia letto. Sono testimonianze che invitano a rivedere radicalmente se non a ribaltare non solo il discorso sulla storia della Chiesa ma della Storia stessa. Sopratutto dell’Occidente, del suo comportamento di fronte alle diatribe con l’Oriente, con le chiese cristiane ma non cattoliche, con l‘Islam, gli Ebrei, il razzismo, gli indios e così via.

Chiedere perdono? Che cosa significa e che importanza ha? Intanto è più difficile perdonare che chiedere perdono, questo lo riconoscono gli stessi presentatori. Ma perdono a chi ? E a quali fini? Più che di perdono si parla all’inizio di “confessione di peccato”, giustamente perché essa è cardine delle chiese della Riforma. Il perdonare comporta ovviamente prima di tutto l’autocritica. E bisogna ammettere, sopratutto per chi non ha seguito le interne vicende ecclesiastiche che Wojtila ha cominciato proprio da qui. Con il rischio di rimanere isolato di fronte alle obiezioni per non dire all’ostilità di molti cardinali.

Ma Wojtila, anche chi è anticlericale deve riconoscerlo, è uomo di coraggio. Le sue battaglie contro il comunismo e contro l’invadente consumismo che tenta di sostituirvisi sono note. Meno note le sue polemiche all’interno della Chiesa. È i1 primo papa non italiano dell’epoca moderna e questo può essere un vantaggio per la sua apertura culturale. Leggendo per esempio le sue proposte contenute nel Pro memoria di Giovanni Paolo II al V Concistoro straordinario del 1994, mai pubblicate ufficialmente dal Vaticano ma riaffermate dallo stesso Wojtila più volte, un testo di straordinario interesse, anche le ardimentose polemiche di Hans Küng trovano una sia pur debole risposta.C’é la speranza che entro il Giubileo del 2000 molte colpe della Chiesa cattolica vengano quanto meno ammesse.

Intanto verso i protestanti. I riconoscimenti verso Lutero e la giusta esigenza da lui sostenuta per una immediata riforma della Chiesa in relazione alle Scritture e non ai problemi mondani sono molteplici. Wojtila va a Magonza nel 1980 quasi pellegrino e poi alla chiesa luterana di Roma come Lutero andò pellegrino a Roma nel 1510-11. Lutero, altro uomo forte, pur scomunicato, ma la scomunica finisce con la morte, è oggi sempre un interlocutore valido, importante per Wojtila. La separazione tra cattolici e protestanti nel 1997 in Europa, a tre anni dal Duemila è una delle realtà più assurde e dolorose. E Wojtila questo contrasto non lo vuole perpetuare. Le guerre di religione devono finire se non vogliono essere sopravanzate, ridicolizzate dalla scienza e da una laicizzazione ormai mondiale. È la Chiesa che deve cambiare. E poi le guerre di religione favoriscono l’ateismo? È un problema.

Necessaria è intanto una ‘purificazione della memoria’. Verso i protestanti ma anche verso gli Ebrei e i Musulmanì. Verso 1’Islam, nonostante gli appelli vaticani, non c’è stata adeguata risposta. Inutile l’insistenza che cristiani e musulmani sono ‘fratelli in Dio’ come li ha chiamati in Africa Wojtila riferendosi ad Abramo. Inutili le sue dichiarazioni di essere contro l’integralismo cattolico (“noi seguiamo il principio evangelico” (date a ognuno, a Cesare e a Dio quel che è loro). E allora Buonaiuti? E Maritain? Viene perfino il sospetto tra i laici che dietro tanta frenesia di viaggi e tanta voglia di perdono ci sia la speranza di unire tutti sotto la tenda del cattolicesimo, il che non significa più vero ecumenismo ma di nuovo una sorta di colonialismo cattolico.

E verso gli Ebrei. C’è una richiesta di perdono ma il perdono forse imminente dopo il riconoscimento di Israele e la visita alla sinagoga di Roma non è ancora avvenuto esplicitamente. Certo nel libro così accurato non si fa per esempio alcun motto sul silenzio dì Pio XII sull’Olocausto di cui egli pur conosceva l’orribile sviluppo. Ma un Papa non critica un altro Papa. Già è molto che almeno Wojtila dichiara che per lui gli uomini bianchi o neri sono eguali. II razzismo dovrebbe cessare anche se per ora questa è un’illusione.

Certo è che i cristiani, del XII secolo erano altra cosa dei cristiani di oggi anche perché la società è diversa, distratta e laicizzata. Per cui la fede in Dio è una cosa, e la Chiesa che molto lentamente può mutare nel tempo è un’altra cosa. Con questo Wojtila cerca di riportare la sua Chiesa al centro della problematica mondiale. Ognuno fa il suo gioco e Wojtila che vuol pareggiare i conti con l’umanità lo fa molto bene, quasi una sfida. Si è perfino detto che se Wojtila non avesse viaggiato tanto non avrebbe chiesto il perdono!

Un convegno minuscolo di fronte a problemi enormi. Con affermazioni perfino strabilianti. Come quelle di F. Cardini secondo cui, sono parole sue, «Cristo non sarebbe che uno dei tanti cabbalisti che circolavano all‘epoca» e che «la storia della Chiesa comincia da Costantino». E Dante? per non parlare di mille altri. ln effetti questo incontro con giornalisti e intellettuali é stato indetto più per ascoltare ipotesi e correzioni pregevoli all’interno della storia della Chiesa dopo il Vaticano II e della personalità imponente di papa Wojtila che non per metterle in rapporto con il Vangelo o più semplicemente con Gesù.

Eppure la figura di Gesù, esaltata o  criticata, è di moda, al centro di decine di libri in Francia e in America. Nonostante la presenza del teologo svizzero Cottier e l’invito del papa a fare un esame di coscienza (dove siamo? Dove Cristo ci ha portato? Dove noi abbiamo deviato dal Vangelo?) nel convegno il nome di Gesù non è stato nemmeno pronunciato. Ma la storia della Chiesa italiana, nella critica feroce o nell’apologetica (alle Inquisizioni nel libro sono riservate solo tre pagine) è la nostra Storia . Mai una parola da me richiesta su Savonarola, di cui l’anno prossimo cade il centenario della morte sul rogo o su Giordano Bruno.

Un silenzio terribile, che chiederebbe anch’esso il perdono.

A cura di Ugo Carruba
Nello Saito

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 49-51.




Rosa Barbieri, Il volto delle Madri, Foggia, Bastogi, 1992.

Un viaggio dell’anima

Non a caso la nuova silloge poetica di Rosa barbieri, dal titolo emblematico Il volto delle Madri è dedicato ad Andrea, il nipotino adolescente incompreso, a tutti i fanciulli che soffrono, poiché la genesi ispirativa ed esistenziale di questo canto risale a questa remota pena nel salvifico dono della poesia.. La raccolta si allinea su 70 composizioni liriche (suddivise in tre segmenti: Adolescenza, Il viaggio delle madri, Iside cantare), senza titolo, quasi stazioni di un “viaggio” dell’anima, tenero e struggente, nelle contrade della memoria, ognuna, autonoma e singolare ma, in realtà, legate tra loro da un filo di luce, in progressione dialettica, per delineare un diorama, estetico e ideologico, dell’eterno rapporto madre-figlio, donna-bambino, che si dilata, da una testimonianza vissuta e sofferta, agli orizzonti della società e del mondo.

Un atto d’amore, trafitto dall’infelicità e dal dolore, tramite un lirismo intenso e vibratile, si trasforma un atto d’accusa verso la disintegrazione di giovani vite avviate a un domani senza bussola e senza ideali. La poesia di Rosa Barbieri raffigura, così, un elemento di rottura, una scheggia di polemica pungente contro le aporìe della incivile civiltà contemporanea, balenante di violenza, di odio, di droga, di scientismo, di egoismi, di razzismo, che minacciano di travolgere le nuove generazioni. Il verso si fa ora grido di protesta, ora sussurro di preghiera, ora rabbiosa disperazione, ora mistico incantesimo,ora consolante messaggio. Le problematiche, a sfondo etico-pedagogico, sono come fiori di montagna sospesi su baratri di luce o madrepore sprofondate negli abissi memoriali o di frammenti di cristallo custoditi nel segreto dell’inconscio. La tessitura semantica degli stilemi, a volte si fa affannosa e franta, quasi imbrigliata nei viluppi criptici del pensiero che rischia di soffocare il sentimento e i sogni. Ma il linguaggio è, tuttavia, coerente nell’architettura dell’impeto che governa i moduli ispirativi, i ritmi musicali, mai banali, raramente patetici o retorici, spesso doviziosi di colpi d’ala e di dissolvenze pindariche, con opportuni richiami mitologici, riferimenti biblici o evangelici, frutto di una robusta cognizione umanistica e filosofica, di autori classici e moderni. L’Autrice, infatti, ha coltivato con lungo studio letture di filosofi e di poeti, e si è dedicata con passione alla pittura e alla musica. Il talento naturale di Rosa Barbieri, incanalato verso le arti, ha trovato, nel rapporto con le cose, con la vita, con la visione del mondo, il suo sbocco spirituale nella fede cristiana che l’ha sorretta nelle ore crudeli che hanno ferito il suo sensibile cuore di donna e di madre.. E potrebbe dire con Maritain: «…solo chi è accesa può accendere, solo chi è convinto, può convincere, solo chi è stato scosso può scuotere, solo chi è entusiasta può entusiasmare, solo chi ha pianto, può commuovere…»

In questo libro, Barbieri ha toccato le cuspidi più alte del suo itinerario artistico, perché, con uno stile perentorio, icastico, articolato, elitario e, nello stesso tempo, umorale, cattivante, e umano, ha saputo trascendere i confini del suo dolore per parlare a tutti i figli di mamma, di oggi e di sempre, esaltando, con appassionata esaltazione polifonica, la miracolosa vigilia dei “bambini di luce” nell’amorosa visione delle piccole madonne terragne che recano, con dolore nel loro grembo i destini della storia. Non c’è tesoro più prezioso, non esiste bene più grande che il candore e l’innocenza di un fanciullo che dorme o che sogna; non c’è bellezza più bella di una madre che veglia la sua creatura che gioca; non c’è preghiera più alta di una nenia su una culla che dondola nell’ombra. Sono gocce d’azzurro le lagrime e le sofferenze di una donna che, con gioia senza confini, consegna alla luce del mondo il frutto del suo amore. Ma, spesso, l’umanità, la sorte, la vita lacera e distrugge questa dolce poesia del sangue e dell’anima e, allora, dinanzi a un “figlio crocifisso”, il volto delle madri “indossa il cappuccio dei monatti”. E il pianto di una madre umiliata e offesa, diventa il pianto del Cielo, il pianto della Madre celeste, il pianto degli angeli. Unico rifugio alle sovrumane tragedie dei tanti figli che cadono sotto la croce dell’infamia, la pietà di Cristo, la voce dell’Eternità, il sorriso delle Mnemosine che raccolga il grido delle donne smarrite nelle ceneri della solitudine e dell’abbandono, le lucciole della poesia, le perle di ogni nuova poesia, come allodole innocenti verso il sole, dischiudono, allora, paesaggi ancora inesplorati, dove, unica sorella del dolore, è la speranza.

Franco Calabrese

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 59-60.




 J. Ben Jelloun, L’écrivain public. Seuil, Parigi, 1983, pagg. 197. 

Lo scrittore marocchino Jelloun, di lingua francese, in questo romanzo, che – come ogni altro suo scritto – sa della sua terra, parla per quelli che in senso letterario del termine .non hanno la parola•. 

Non affronta, quindi, argomenti pubblici, ma espone al pubblico dei suoi possibili lettori la sua esperienza, la sua vita, le città dell’infanzia, la sua infanzia con le privazioni di quell’età, volendo così manifestare qualcosa che, in fondo, non è soltanto vissuta dall’Autore, ma di ognuno di noi, non sempre in grado di palesare agli altri i propri sentimenti e le proprie sensazioni. 

Ugo Carruba




 J.J. Padrón, I Cerchi dell’Inferno, Libera Università del Mediterraneo, Trapani, pagg. 75, s.p. 

Diviso in 4 sezioni dedicato ad amici poeti, questo libro di J.J. Padrón non è altro che l’insoddisfazione dell’uomo moderno alle prese con la realtà e i problemi della vita, e al tempo stesso segna la sfiducia del poeta dinanzi a questo mondo che va giorno dopo giorno alla deriva. 

Padrón va letto, ed ha fatto bene la Libera Università trapanese a pubblicarlo nella traduzione di F. Chinaglia, perché è un poeta che ha in sé un’angoscia profonda dovuta a questo andare verso un abisso senza fondo e la manifesta agli altri perché se ne rendano conto. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pag. 56.




 M. Crestani, Jules Verne, Fontanelle di Conco, 1995. 

Marco Crestani indulge a un privato diletto: rivisitare l’infanzia attraverso la figura che più di tutte ha stimolato l’infanzia di questi cento anni – quel Jules impressionante profeta dei nostri futuribili. 

Il privato sogno rivela consistenza non aerea grazie all’evocazione di una figura coeva, quella di Edmondo De Amicis, che nella finzione narrativa procura all’incondizionato ammiratore -narratore l’incontro col romanziere. È l’italiano appunto a veicolare nelle proprie parole abitudini carattere e genio del gran francese. 

Pochi giorni dopo la visita giunge la notizia della morte di Verne, e quella lontana giornata del 1905 acquista ancora di più pregnanza e suggestione. L’ignoto visitatore la racchiude nell’aureo scrigno della memoria. Il viaggio sentimentale resta così affidato al vissuto della pagina, in un’atmosfera di realismo elementare, e perciò magico, e perciò fascinatorio, che l’autore sa restituirei. 

Cosma Siani




 S. Lanuzza, Vittorio Imbriani – uno spadaccino della parola. Napoli, E. Cassitto ed. 1990, pagg. 127, s.p. 

Stefano Lanuzza ha dedicato un agile volumetto, denso di informazioni e di notazioni critiche a uno scrittore dell’Ottocento ingiustamente trascurato. Lanuzza si muove con sicurezza nel «gran mare» degli scritti di Imbriani e degli scritti su Imbriani, conducendo il lettore nella progressiva riscoperta di questa presenza dirompente ma emarginata della letteratura del secolo scorso. 

«Pochi scrittori del suo tempo furono attivi, profilici e capaci di spaziare in “tutte le scritture” quanto Vittorio Imbriani, che nello stretto arco della sua vita ha pubblicato un’infinità di titoli, talmente tanti che non è stato ancora possibile redigerne la completa bibliografia» (p. 10). 

Attraverso undici capitoli il lettore è condotto sempre più addentro l’opera di questo «affabulatore di razza, capace di fondere complessità strutturale e lessico in una scoppiettante trama di fatti», nato a Napoli nel 1840 e morto il 31 dicembre del 1885. 

Antimanzoniano «sostiene l’integrazione nella lingua italiana dei dialetti tutti, perché, a suo avviso, «non potrai esprimerti mai bene in una lingua, che non è viva nell’animo tuo, che devi imparacchiare nella pozzanghera d’un vocabolario» (pag. 41). 

Lanuzza richiama opportunamente l’attenzione dei critici come Croce (che ripubblica alcune opere) e Flora (che curerà una antologia «Le più belle pagine di V.I. – Milano, Trevres, 1929») ebbero per questo scrittore e polemista, ingiustamente trascurato per tanto tempo ma che è necessario riscoprire non solo per una più completa comprensione del nostro Ottocento ma per l’attualità della ricerca linguistica e per la ricchezza dei suoi scritti, sempre interessanti anche quando non sono condivisibili. 

Conclude Lanuzza, dopo l’attenta disamina della vicenda umana e artistica di Imbriani: «Ingegnarsi per valorizzare il lavoro di scrittura al di là d’ogni specializzazione disciplinare indotta da esigenze di opportunità è lo scopo dell’opera imbrianesca, sempre condotta sul filo di un rigore che lo preserva dai dilettantismi dell’eccentricità programmatica e ne giustifica appieno l’onnivora, tipica intellettualità barocca. Questa è sostenuta da un’intelligenza multidimensionale mai dimentica delle ragioni letterarie, dell’esigenza di uno stile che se è sempre virtuosistico non è in nessun caso affrancato dall’esigenza di formare concetti e dar luogo anche a occasioni pedagogiche ed espedienti di verifica generale del sapere, oltre che del narrare e criticare» (pag. 115). 

Giovanni Lombardo

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 46-47.




R. Riggio, Frammenti di spiritualità, Milazzo, 1997, pagg. 62.

 Frammenti di spiritualità esprime il travaglio di uno che, vittima del dolore, trova rifugio in Dio. I riferimenti evangelici coronano i sentimenti di amore, di speranza, di pace e di carità, che sintetizzano la ragione d’essere dell’Autore. 

C’è nella parte finale lo sconforto, dovuto ad una drammatica realtà sociale, che Riggio vive in prima persona, ma c’è anche un sentito bisogno di amore e di bontà, perché gli uomini diventino più buoni e più giusti. 

M. Lombardo

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pag. 61.

 




V. Monforte, Battaglie editoriali del ‘500 dal Veneto alla Sicilia, ed. Ila Palma, Palermo, 1992, pp. 144.

Con questa sua ultima opera Vincenzo Monforte crea, tra Veneto e Sicilia, un ponte ideale che assume il valore di un messaggio di unità in questi tempi confusi in cui leghismo e separatismo sembrano dominare le coscienze o piuttosto irretirle, plagiarle verso chi sa quali nascosti interessi ciechi ed anacronistici. 

La cultura, invece, non separa, unisce. E certo è di grande conforto scoprire o riscoprire l’indissolubile unità della cultura italiana .dal Veneto alla Sicilia-, sin dai primissimi avvii dell’arte della Stampa e poi durante tutto il Cinquecento. 

Queste .Battaglie editoriali- volte a ricostruire casi clamorosi di concorrenza fra tipografi della stessa città (gli eredi di Aldo Manuzio, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Vincenzo Valgrisi ed altri stampatori veneziani), oppure fra tipografi di provincia ed editori delle città che egemonizzavano la stampa delle grandi opere della cultura classica ed umanistica, ci danno un’immagine confortante ed intimamente unitaria di tutta la civiltà rinascimentale: e ciò al di là e al di sopra della separatezza fra i vari staterelli che componevano l’Italia d’allora. 

Vincenzo Monforte scopre e dimostra che gli entusiasmi che la nuova arte della stampa accese in tutta l’Italia sul finire del ‘400 e il suo prosperare in numerosi centri della regione padana, ma anche in altre città come Roma, Firenze, Napoli, Messina, Perugia, Foligno, Urbino, sono le prove di un’unità culturale ed etnica che faceva sì che l’intera penisola – dal Veneto alla Sicilia – si riconoscesse nella tradizione letteraria e linguistica che, avviata dai poeti siciliani e dal mecenatismo di Federico II di Svevia. si era affermata poi in Toscana, come la lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, lingua del bel paese .dove dolce il si suona-. 

Questa unità culturale e spirituale degli Italiani – nota il Monforte – si consolida proprio grazie alla nuova arte della Stampa, con la sua opera capillare ed insistente, estensiva ed intensa. Per quest’opera – dice l’autore – si rese necessario da una parte la delega della cultura umanistica e dei suoi principali centri (Firenze e Roma) in favore di Venezia. affinchè essa si facesse veicolo di diffusione della nuova cultura e delle opere prodotte dalla nuova arte. dall’altra una continua osmosi fra centro e periferia. fra i letterati (o i tipografi) che si trasferivano a Venezia per avere successo (potendo da lì giovarsi della rete e degli itinerari commerciali della Serenissima) e stampatori veneziani che un po’ dovunque creavano succursali in altri centri dell’Italia o della Francia, specialmente a Lione. 

Un quadro d’insieme ricco ed articolato. nel quale Vincenzo Monforte sa inserire, privilegiandola con l’equilibrio e il garbo che lo contraddistinguono, sia la vicenda del Cieco d’Adria, coinvolto nelle battaglie per la supremazia fra gli editori Veneziani, sia le avventure .tipografiche» di Emanuele Filiberto di Savoia che seppe servirsi della nuova arte per italianizzare il suo Piemonte e conquistare all’unità culturale italiana tutti i territori al di qua delle Alpi.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 59-69.