FILIPPO GIGANTI, Ritorno a Jaffna, collana di narrativa «Meridiana», Ila-Palma, Palermo 1993, pp. 352.

Ci sono tragedie che, volutamente, vengono ignorate e non fanno più notizia, non essendo collegate a quegli interessi di cui si fanno garanti, forse nel proprio interesse, le grandi potenze mondiali. Il genocidio operato da più di un quarto di secolo nei confronti della minoranza di etnia tamil, da parte del governo cingalese di Sri Lanka è una di queste tragedie. 

Con il romanzo Ritorno a Jaffna, Filippo Giganti ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dei Tamil che, in una penosa diaspora, hanno lasciano la loro «Isola splendente», cercando rifugio in altre parti del mondo. Innestandosi sulle vicende di alcuni componenti della comunità vivente a Palermo, l’autore, in prima persona, riesce a condurre per mano il lettore da questa terra di immigrazione a quella di origine con una prosa viva e scorrevole che illustra una vicenda carica di avventure, in cui decine di personaggi, ora abbozzati, ora a tutto tondo, scorrono davanti agli occhi del lettore evidenziando problemi personali e familiari, tradizioni e fede religiosa senza che tutto scada nella tentazione della ricerca folclorica. Questa «opera prima» di un apprezzato notaio di professione, che ha sempre coltivato l’esercizio letterario con particolare inclinazione, sorprende per la naturalezza con cui si passa da momenti di forte drammaticità a situazioni di struggente tenerezza, da descrizioni paesaggistiche a intimi approfondimenti. Quei lettori che hanno già dimestichezza con i Tamil, che lavorano nelle loro case o aziende potranno aprire nuovi orizzonti nel reciproco rapporto quotidiano, mentre gli altri, che forse mai ne hanno sentito parlare, potranno apprendere fatti e situazioni ai quali i brevi trafiletti di agenzia, che raramente appaiono sui nostri giornali, non rendono giustizia alcuna. 

Il romanzo è permeato da una costante vena di suspence che suscita tutta una serie di speranze destinate, in gran parte, a rimanere romanticamente inappagate, lasciando il desiderio di un ulteriore complemento, che ciascuno potrà integrare, interpretando a suo modo lo snodarsi degli eventi. E questo è forse il suo maggior pregio. 

Bettina Agria

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 62-63.




Un monastero ortodosso in Oriente e una toccante storia di solidarietà 

Un monastero ortodosso in Oriente e una toccante storia di solidarietà 

Seydnaya è una storia. Seydnaya è un luogo. Seydnaya è amicizia, misticità. Seydanya può essere la storia di chi cerca di capire chi è, chi vorrebbe essere. Il romanzo è ambientato in un monastero singolare che raccoglie donne di religiosità diversa: cristiane, musulmane, ebree vi pregano per la Vergine, perché credono nella sua maternità e credono che «dal Suo grembo passi ogni figlio come ogni speranza del mondo». 

Ci sono due protagonisti e attraverso i loro pensieri. le loro azioni, il loro passato, il lettore impara a conoscerli e ad affezionarsi ad entrambi, seppure così diversi tra loro. Solamente nell’ultima parte i due personaggi si incontrano e basta un solo sguardo per far nascere una profonda amicizia: «Restarono convinti per sempre che in quei primi attimi della loro conoscenza si fossero detti tutto l’essenziale; le parole che quel giorno seguirono furono semplice conversazione, mentre i molti discorsi degli anni successivi rappresentarono la conferma di ciò che avevano provato nell’attimo del loro incontro». 

Il monastero ortodosso tra la Siria e la Terra Santa diviene luogo d’incontro, fisico e spirituale, di questi due personaggi, Gérard e Kurt, e delle loro anime. Due caratteri diversi ma uniti dal destino. Gérard un borghese alla ricerca di un ultimo congiungimento con sua moglie Anna; Kurt un fotoreporter che insegue il successo, la foto perfetta. Entrambi finiscono per trovare a Seydnaya sé stessi e la loro amicizia. 

Pochissime parole sono spese dall’autore nella descrizione del paesaggio, poiché ciò che importa non è l’esteriore ma l’interiore, non l’apparire ma l’essere. Non è il viaggio, né sono le storie dei protagonisti a costituire il cuore del romanzo, quanto piuttosto le loro anime e la loro crescita spirituale. 

Fabrizio Molina usa termini semplici, consueti, ma finisce per strutturarli in discorsi complessi, profondi, che si addentrano nella ricerca dell’ essere. Questo linguaggio, unito all’arcano monastero, contribuisce a creare un’atmosfera mistica, in cui il lettore si trova immerso. Infine, vale sottolineare anche l’obiettivo umanitario prefisso alla diffusione del libro, il cui netto ricavo è destinato ai bambini di «Nessun luogo è lontano-Onlus», di cui l’autore fa parte e che, sin dal 1998, agisce in campo socio-culturale. 

Bellina Agrìa

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 60.




ANNA BELLINA ALESSANDRO, Caminu di la vita, Repertorio dialettale, Ila Palma, Palermo, 2009.

Immagini che rivivono dal passato col sapore della lingua tradizionale 

Anna Bellina Alessandro con il suo Caminu di la vita ci regala un’emozione, un bagliore che riesce a illuminarci, anche se in poche pagine, l’anima. 

Una raccolta di poesie scritte in un dialetto siciliano elegante, usato come lingua maestra per descrivere diversi aspetti della vita quotidiana. 

Particolarmente emozionante è la poesia A Palermu vecchia. In pochi versi l’autrice descrive la bellissima città ed uno dei suoi rituali: l’arrivo de lu gilataru e del suo A st’ura v’arrifriscanu con il quale, in pochi secondi, riesce a radunare una folla di picciutteddi. Sono versi che nella mente del lettore creano un flashback, un ritorno al passato, a quando si era bambini. Chi infatti da piccolo non ha avuto un gelataio preferito e chi non ha corso sudato sotto il sole, così come perfettamente descritto nella poesia, per accaparrarsi il gelato al primo rintocco della campanella? 

Anche La picciuttedda rivela, nel ritmo dei suoi versi, l’ animo sincero della scrittrice palermitana, un po’ come l’occhi ca sunnu lu specchiu di lu cori. In realtà, tutte le poesie sono interessanti, tutte emozionanti e tutte degne d’essere descritte: Miraggiu, Lu latru, Littra a Federicu II Imperaturi … 

Caminu di la vita è un’opera impegnativa come lingua e come tematica, ma semplice e travolgente nella lettura. 

Svelare più di questo non si può … Tocca adesso al lettore scoprire tutto il resto e le emozioni che il Caminu di la vita riesce a suscitare. 

Agria Bettina

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 65.




 Vittorio Morandini, Cronaca di un’amicizia, Edigraf, Roma, 2005. 

È la storia fedele che muove non da ispirazione unitaria di un patriottismo soltanto a parole e da un’amicizia al limite del sublime, bensì da una fattiva e intensa partecipazione a straordinari eventi tra innumerevoli sofferenze in una guerra che non le risparmia a vincitori e vinti. La morte dell’amatissimo Piero colpito da piombo nemico genera nel protagonista un angoscioso turbamento che lo accompagna tutta la vita, nell’incessante ricordo dei giorni trascorsi con l’amico del cuore, quando, ardimentosi entrambi, profondevano energie per il raggiungi mento dei loro ideali. Nell’estremo tentativo di salvarlo: «Quel corpo Vittorio sollevò con fatica, sotto quel corpo scivolò nel fango e l’acqua motosa entrò nella bocca del vivo e del morto; avvinti i due amici avanzarono lentissimi nella melma fino alla scarpata! Qui Vittorio cedette, la carne esausta, lo spirito affranto. Un pianto lungo, convulso, urlato, chino sopra l’amico che giaceva sulla riva del gran fiume con tutta la propria morte addosso.»

Prodigo di ricordi, ora tristi ora lieti, l’Autore ce li fa conoscere attraverso carrellate di lontane memorie, con descrizioni che esaltano la sua narrazione ricca di rincorsi ideali, di audaci speranze, di affetti profondi ampiamente espressi anche nei fluidi versi di Momenti lirici, oltre che nella limpida prosa delle sue varie vicende. 

Particolare commozione suscita la raccolta dei miseri resti del citato Piero Menichetti sottratti all’inclemente incuria del tempo, dopo essere stati a lungo sul margine del Po, finché ricuperati e tumulati accanto a quelli del padre e della madre. Il tutto in un clima di religiosa compostezza, nel rimpianto struggente dell’adorato commilitone caduto nel fiore degli anni. 

In questo diario di guerra, amore e morte dominano lo scenario di contrapposti ideali: un valido stimolo per allargare la conoscenza dei tanti fatti e misfatti che i deprecabili conflitti comportano con distruzioni devastanti, come quella, ad esempio, di Amburgo, orrenda e inespiabile, e di tante altre volute in forza di un presunto diritto di superiorità e di preminenza, diritto che in ogni tempo, tirate le somme, non ha mai avuto obiettivi riscontri di vera giustizia per vinti e vincitori, né mai è stato foriero di pace duratura tra la stirpe degli uomini. 

Diario pieno anche di esuberante freschezza giovanile, di sincerità, di altruismo: sentimenti gentili eppure non privi di disapprovazione per il mancato riconoscimento di quegli ideali di patria negati ai ragazzi della R.S.I. che avevano operato fino all’ultimo giorno, saldi nella loro fede per la quale «il nemico rispettoso e ammirato concesse loro l’onore delle armi in quei campi di Conselve, quella notte del 29 aprile 1945». 

Mai retorica, mai posizioni di parte, mai vedute distorte nelle pagine di tutto il diario, ma fedele corrispondenza dai resoconti inalterati, all’insegna della più scrupolosa obiettività, la stessa che spinse il Maresciallo Montgomery, visconte di El Alamein e comandante dell’VIII armata inglese, ad affermare: «Penso che l’armistizio del Savoia e di Badoglio sia il più grande tradimento della storia.» Distacco sereno di chi prende le dovute distanze da coloro che, esibendosi col pretesto di fare ad ogni costo cosa gradita ai fuoriclasse del trasformismo e voltagabbana al cambiar dei venti, spesso stravolgono verità storiche dando a divedere lucciole per lanterne, in un intreccio di improvvisati soloni, figli della menzogna, squallidi nel cuore e nella mente ottenebrata dalla torbidezza d’insane passioni. 

Si può dire che, prima di essersi dato cura di trovare uno stile e una forma di distinzione a lui ascrivibile, il Morandini ha preferito esprimere la propria umanità lontano dal fare accademia. Scelta, questa, che può essere sgradita a chi è abituato ad esprimersi con magniloquenza, viceversa gradita presso un pubblico che apprezza l’arte dell’onestà in una narrativa lontana da inflazionistici premi letterari e comunque ricca di appropriate capacità espressive di un’apprezzabile tecnica che ci riporta a un verismo più vicino ai sentimenti del Nostro. 

Habent sua fata libella, avverte Terenziano: i libelli hanno un loro destino, ed anche i libri che tali non sono, aggiungiamo noi, augurando all’autore il successo che merita per avere scritto qualcosa di buono. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 47-48.