Otto nuovi saggi di poesia cinese in una pregevole versione italiana 

 Il quaderno n. XX / 2008 di «Spiragli» ha presentato otto giovanissimi poeti cinesi, appartenenti all’ area di Pechino (Lin Ceng, Lai Pi, Mu Yun), Hunan (Chen Xiao, Peng Kan, Liao Wenjun), Huber (Chen Hai Bo) e Zhejang (Li Hui). Si tratta di testi che, quasi all’unisono inneggiano alla vita come bene supremo delle aspirazioni umane, e rivolgono lo sguardo alla natura come possibile scenario di una contemplazione salvifica delle problematiche esistenziali. È una poesia fluida e di ampio respiro che ci fa scoprire nuovi paesaggi scritturali nel panorama della poesia a livello internazionale, oltre a farci comprendere che talune tensioni interiori del genere umano hanno elementi comuni, a prescindere dalle latitudini e dalle situazioni sociali e politiche in cui si manifestano. Una poesia che si orienta verso una ricerca tematica e la sperimentazione di forme e linguaggi nuovi, dando spunti ad eventuali dibattiti sul ruolo dell’ «io» poetico, sul rapporto tra poesia ed esperienza umana, tra forme di espressione autoctone e quelle provenienti dal nostro Occidente. 

Certamente possiamo cogliere il concetto vero e proprio del dettato poetico, perché, se la traduzione può essere, come si suol dire, tradimento, dobbiamo rilevare che i testi integrali dei giovani poeti giungono a noi attraverso l’esperta versione dal cinese all’italiano di Veronica Ciolli e da un secondo registro di adattamento poetico effettuato da Patricia Lolli e Renzo Mazzone. E se dopo tali magistrali interventi gli esiti sono questi, dobbiamo senz’altro annotare che ci troviamo dinanzi ad una poesia matura, che scandaglia con mestiere le questioni del vissuto, e si propone al dialogo umano inserito nella sempre più incalzante globalizzazione da tentare anche a livello culturale. 

Un elemento che lega i testi degli otto giovani poeti segnalati dall’Università Normale della capitale cinese, è «la speranza» sgorgante dalle ariose metafore contenute nei testi, una speranza che non viene manifestata a seguito di risentimenti verso la politica (quale poteva essere la poesia degli anni Ottanta di Bei Dao, di Shu Ting o di Gu Chenh, tanto per fare qualche nome), ma una speranza di vita intima migliore, un’aspirazione in forma poetica verso forme di vita più armoniche e consustanziali. 

Abbiamo inoltre notato che, fra i riferimenti agli elementi della natura, se c’è un motivo che predomina, questo è il motivo «equoreo», dal momento che nei vari testi spiccano numerosi richiami all’elemento marino o sintagmi come fiume, torrente, lago, mare, luoghi che sembrano riflettere le singole scene di un panorama paesaggistico teso ad indagare la sensibilità degli autori, ma che in astratto rappresentano taluni luoghi dell’anima entro cui si dibattono tutte le contraddizioni e le solite dualità dell’ esistenza. 

Di sicuro una poesia molto più aperta rispetto al periodo di fine Novecento, in cui la poesia, pur risultando ancora oscura (in cinese veniva definita menglong shi), lasciava intendere la ricerca di una nuova espressione come strumento di approccio e di conoscenza del reale. E tale conoscenza si è sempre più sviluppata probabilmente grazie anche all’influenza del simbolismo e dell’immaginismo occidentale, sino a ritrovare fusi insieme nei testi la razionalità, l’ intuizione e l’originalità del gesto poetico. 

Nicola Romano 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 57.




LUCIA MEZZASALMA, Amo la pace, poesie, I.l.a. Palma, Palermo, 2006.

La poesia come messaggio sociale 

Dopo Amo la vita del 1999 Lucia Mezzasalma è tornata a sorprenderci con una nuova silloge lirica dai toni pacati e sereni, ispirata a temi universali: la pace, l’incontro tra i popoli, la solidarietà, l’amore per la vita … Ed è questa sua capacità di saper saldare lirica ed etica. visionarietà e saggezza, che marca a tinte forti l’appartenenza ad una cultura intrisa di valori, tradizioni e sentimenti. Una cultura in contrasto con quella formale alla moda, che usa tutti i mezzi per ridurla a espressione di controcultura. La quale non risparmia nessuno dei media, conniventi nelle ipocrisie con cui si offrono i fatti all’opinione pubblica; agli inganni del capitalismo sfrenato, della falsa democrazia; alla miopi a degli intellettuali che non vedono le dinamiche del mondo. 

I fatti che cita ricordano tante tragedie dimenticate, i falsi miti del mondo d’oggi, spiegato come prosperità e acquiescenza all’amore del cosiddetto consumismo, in un ordine in cui la deregulation significa nessuna regola di vita associata al cinismo individuale. A cominciare dal mondo del lavoro, coi suoi falsi miti, come quello dei vantaggidella flessibilità indiscriminata, che tradotta in parole povere significa: «se oggi avete un lavoro, domani chissà». Il risultato è un baratro che aumenta l’insicurezza e minaccia la società, strangolata nella morsa tra i privilegi di pochi e la riduzione dei diritti dei molti. 

Come milioni di altri uomini subiamo un bombardamento di bugie sull’economia, sulla sanità, sulla qualità della vita, e giorno dopo giorno sentiamo il bisogno di dire basta e riprendere il filo di un ragionamento, così come ha fatto Lucia Mezzasalma. In Amo la Pace, il verso suona vasto, ridondando dignità e altezza alla parola, oggi così abusata e vana. Difficilmente in poesia si trova questa globalità, resa come se avesse il compito di innalzare la parola ad invocazione universale purificante. 

Questo libro si impone come voce di tantissime voci che non hanno tempo e rappresentano il dramma di una umanità nella sua intima storia. E non serve citare questa o quella poesia, perché l’intera silloge si muove sul filo della memoria, per visitare le note tristi dei periodi bui della vita e chiedere ai ricordi il senso di ciò che accade; per riconfermare alla vita la voglia di esserne partecipe e offrire un contributo per l’affermazione della pace e dell’ amore. 

Un libro nel quale la donna e il poeta camminano insieme e l’Autrice non si risparmia in sincerità, come nel suo primo libro Amo la vita, dove c’è già il nucleo del messaggio spirituale che Lucia sviluppa in Amo la Pace, in un crescendo di visione allargata per un programma di pace e di incontro con l’altro, sia l’espressione dei nostri fantasmi inconsci, sia l’uomo estraneo al suo stesso nucleo sociale e dunque nemico … 

La poesia ha certo una funzione di ricerca ontologica, ma non ha poteri taumaturgici per guarire i mali del mondo. E tuttavia essa può rappresentare una spina nel fianco della demenziale attitudine alla sopraffazione e all’egoismo; può rappresentare un grido di protesta lanciato a profanare i sacrari della prepotenza ideologica e sociale; può rappresentare un momento di riflessione e uno stimolo all’azione. 

Adriano Peritore

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 61-62.




GIANNI GIANNINO, Il nido tra le stelle. Haiku e altri versi, collana «Pagine di Poesia», I.l.a. Palma, Palermo, 2007.

Quando nella parola si fa strada il Logas, esso esige necessariamente un silenzio per accoglierlo e allora la parola poetante diventa dono che tacitamente consente un rapporto tra soggetti che reclamano uno scambio differito. Dono sono, infatti, questi teneri haiku coronati da un mazzetto di liriche, specchio del creato che Gianni Giannino ha voluto, sì, regalarei per riportare lo spirito a un dialogo interiore. In tale direzione diventano una sfida per pensare, perché accettare un dono come questo significa impegnarsi a rendere di più. 

Se per i contenuti cui essi alludono occorre tuffarsi nella memoria storica d’un vissuto dolce-amaro di ricordi vivi del natio borgo di Acquaviva Platani: «una solitudine in bocca a un monte», non così è per ciò da cui essi provengono, perché impegna ogni lettore a diventare soggetto universale di questi poemetti brevi e originali. 

Siamo in presenza d’alta poesia lirica, dove la forma un po’ orientale radica ed illumina ancor di più i contenuti d’una cultura religiosa occidentale, che però qui non conosce tramonti. L’atteggiamento poetico antimoderno della nostra civiltà vuol salvaguardare un nucleo tradizionale di temi e problemi in quella forma originaria e originale che l’ Autore riesce a trasmetterei quale retaggio della migliore tradizione e gli consente di godere e cantare: «il mio nido sarà oltre le stelle, lontano lontano, per contemplare terre e cieli nuovi». 

Gli haiku sono brevissimi componimenti di tre versi, poco usati nella poetica italiana, pensieri da centellinare e auspicio che essi lascino nell’anima tracce di luce e desideri di santità. 

Valeria Patinella

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 61.




Padre G. Raimondi, Le nozze folli del giullare S. Francesco d’Assisi, ed. Krinon, 1991. 

 “Il Signore mi ha detto di volere che io intraprendessi una follia nuova nel mondo. Non ha voluto condurmi per altra via che questa”. Sono le parole che S. Francesco d’Assisi esclama ai frati, seguaci della sua regola, in un capitolo in cui si discute se essi debbano essere addrottinati. Dinanzi a taluni che si fanno sostenitori del valore della sapienza e della dottrina, Francesco ribadisce energicamente che la salvezza del cristiano può venire soltanto dalla “nuova follia”, la follia di chi, come lui, ha scelto di porsi al servizio della povertà evangelica. Di Francesco e della sua follia ci dà un ritratto, storico e al tempo stesso sovrumano, Padre Giuseppe Raimondi nella sua biografia del Santo, uscita per le edizioni Krinon. 

È un ritratto storico, perché viene puntualmente fornito un quadro minuto e realistico della società comunale entro cui si compì la predicazione del Santo: le rivalità tra Assisi, sua città natale e Perugia, le lotte, anche sanguinose, tra nobili e popolani, tra nobili e nobili, un mondo di violenze e di sopraffazioni, su cui Francesco fece valere la sua opera di pacificazione e di concordia. Ma è sopratutto un ritratto sovrannaturale, perché animato dalla visione tutta interiore che Francesco ebbe di Dio: nel momento in cui scelse, nella piazza principale di Assisi, alla presenza del vescovo, di rinunziare alle ricchezze del padre e di darsi interamente nudo nel corpo e nell’animo a Cristo, si avviò, ma, forse sarebbe meglio dire, si proseguì una comunicazione unica e irripetibile col Signore. 

Una metafora viva e reale accompagna il racconto, che a volte raggiunge toni leggendari, gli stessi toni dei primi testimoni del Santo: è la metafora delle nozze con Madonna Povertà, la decisione, cioè, di seguire fedelmente e integralmente il messaggio del Vangelo. Ed è una povertà vissuta non come rinuncia e disprezzo delle cose, ma accolta con gioia e semplicità. 

In un’atmosfera, che in certi momenti, può risultare idealizzata, a tal punto da richiamare la letteratura cortese o cavalleresca, si realizza la vicenda del giullare di Dio, che con animo lieto ne canta le lodi e la grandezza. Una vita, quindi, che ha quasi “l’andatura di un romanzo” come scrive l’autore nella prefazione, a rischio di sembrare un “sorpassato” rispetto alla critica storica più accreditata. 

Vito Parisi

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pag. 76.




DOMENICO FIORE, Uomini contro, collana «Poesia! Oggi», Ila Palma, Palermo.

L’ultimo canto di Domenico Fiore, poeta agrigentino 

Partendo dalla prefazione di Enrica Di Giorgi e dal saggio introduttivo di Pietro Mazzamuto vorrei soffermarmi sul contesto filosofico della poesia di Domenico Fiore, poeta siciliano di notevole spessore, venuto meno nel 2004. Il suo verso è una dichiarazione di pensiero, carico dei dubbi dell’umana esistenza, ma fiducioso nella misericordia di un Dio dell’Oltre che spesso l’Autore cita quasi ad evocarne una fine alla quale si sente destinato precocemente. 

La ricerca morale che anima molti versi lo spinge alla conoscenza del suo animo aperto agli altri. disponibile al dialogo ed alla conoscenza, che cerca di approfondire in un discorso che diventa ricerca dell’humus umano, parola che si fa pensiero e pensiero che diventa costrutto, anche se spesso è celato dietro l’analogia di certe espressioni, di nude confessioni, che mutano il verso in pura vocalità, nell’esame della fragilità umana e nella compiutezza addensata (cioè carica di impulsi e di rifrazioni) delle vanità umane, delle passioni e della continua ricerca dell’Eterno. 

In molti versi traspare una vocazione all’ermetismo, come definito da Francesco Flora (nei confronti di Giuseppe Ungaretti): <<in fondo, un rifugio di difesa>>; ed è dalle ripetizioni di alcuni temi che si rivelano nati da una certa intemperanza nel voler ampliare a tutti i costi la notazione descrittiva ed analogica, che invece nella base dello scritto sorge spontanea. 

È questa una caratteristica di Fiore e non si può disconoscere che merita una particolare attenzione di originalità. Forse il poeta vuole lasciare al lettore il compito di trarre dalla parola tutto ciò che va oltre, fuori dalla realtà contingente e umana, quasi un neoimpressionista della realtà, che produce però fascinanti giunture che legano il verso con una musicalità accennata, ma viva verso un profondo sentimento politico religioso. 

Peccato che questo filosofo del verso ci abbia lasciato così presto. Lo ricordiamo con rinnovata stima, anche per le sue sillogi poetiche Un’ora dopo l’altra (Ila Palma), 1967) e Sosia e uomini verosimili (Ags, 1995). 

Giovanni Matta

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 64-65.




Santino Spartà, Mi sono innamorato, Roma, Ed. Dossier, 1994, pagg. 48.

 Imbattersi in un sacerdote-poeta non sarebbe un evento eccezionale, eccezionale lo è se di lui scrivono critici illustri come Mario Sansone, Giacinto Spagnoletti e tanti altri non meno illustri. E, allora, apri con rispetto questo recente libro di don Santino Spartà dal titolo già accattivante “Mi sono innamorato”. Un titolo sollecitante quando la profferta d’amore è rivolta alla “Divina Presenza”, “Divina Presenza”, caldamente invocata dalle quarantotto pagine di questo bel libro nel quale c’è tutta la storia di un’anima che tende all’assoluto e che continua a colloquiare ininterrottamente con il suo Dio pur non ricevendo risposta alcuna. Ma la forza delle invocazioni matura un rapporto che a volte porta allo sconforto. 

Il Poeta è innamorato del suo Dio e a Lui affida le proprie vicissitudini, le prorpie pene, le confessioni dei propri errori. A volte, leggiamo pagine così originali da spingerci a tornare sulle righe; e parliamo di quella lirica a pag. 46 dal titolo “Da quel mitico faraglione” che è un esempio eclatante della carica singolare di Santino Spartà: “Da tutti i luoghi ti telefono…” “Ho chiamato a un altro numero…” “È proprio così difficile parlare con te, Signore o i tuoi segretari non capiscono l’urgenza di un colloquio?” Mai avevamo letto qualcosa di così originale e l’intera poesia meriterebbe di essere chiosata riga per riga. 

Ma, a prescindere da questa nostra scarna notazione (non siamo dei critici) il nutrito curriculum del sacerdote-poeta Spartà ha precedenti risvolti abbastanza noti e riconducibili a nomi altrettanto noti come quelli di Rebora e di padre David Maria Turoldo, anche se con stili diversi ma pur sempre di intensa religiosità. 

Quel che distingue Santino Spartà è la sua spontaneità, la vivacità del suo dettato, il florilegio delle sue tante opere e, soprattutto, la sua spiccata personalità che a qualcuno potrebbe sembrare poco idonea alla sua veste talare. Ma è questione di esteriorità, “in interiore hominis habitat veritas”. 

Irene Marusso

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag. 61.




A De Rosalia, Traduzioni di Ugo Foscolo da poeti classici, Estratto dagli Atti del Convegno su “La traduzione dei testi classici – Teoria Prassi Storia”, Napoli, M. D’Auria Ed., 1991, pagg. 315-337.

Dopo il Convegno, Antonino De Rosalia, dell’università di Palermo, ha dato alle stampe, per una diffusione più capillare, il suo intervento sulle traduzioni del Foscolo. 

L’estratto ci ripropone con capacità di sintesi l’attività di traduttore del Foscolo, iniziata fin dall’adolescenza e portata avanti in seguito attraverso un impegno che gli faceva prediligere gli scrittori classici a lui più congeniali, “sopratutto opere animate da calore di sentimento più che condizionate da freddezza di dottrina, insomma opere di poesia e non di erudizione”. 

Delle versioni da Tacito, Anacreonte, Teocrito, Catullo, Tibullo e Properzio (anche un’ode di Pindaro) eseguite da Foscolo nell’adolescenza, non vi sono tracce. Dice il De Rosalia che le più antiche traduzioni foscoliane rimasteci sono quelle da Saffo, e che “hanno un singolare valore di costanti nelle simpatie poetiche del Foscolo”, come asserisce il Bèzzola. E ancora il De Rosalia: “Il Foscolo, per dare veste moderna alla lirica della poetessa di Lesbo, ha interpretato con fine intuito e quasi con partecipazione i molteplici tratti della sua sensibilità, calandola certo nella temperie tipica dell’età romantica, ma evidenziandone anche, al tempo stesso e nonostante qualche enfasi del linguaggio, la perenne attualità umana. 

E procedendo da Saffo a Callimaco, attraverso la traduzione catulliana della “Chioma di Berenice”, per la quale il Foscolo entrò in polemica con alcuni suoi detrattori (anche lo stesso Foscolo riconobbe che quest’ultima non fosse opera di alto merito), il Nostro si dedicò ad Anacronte, “risentendo, però, dall’anacreontismo penetrato nella cultura del seicento e del Settecento europei, e delle sue tendenze”. Quanto a Lucrezio, è da notare l’evoluzione della personalità del Foscolo traduttore dei classici con progressi nella tecnica della versificazione e dell’espressione realizzando un lavoro di gran pregio, “degno di accompagnarsi tra le migliori traduzioni italiane da Lucrezio”. 

Questi e tanti altri i motivi che Nino De Rosalia pone all’attenzione degli studiosi del Foscolo traduttore, e che vale la pena di consultare nella preziosa plaquette di cui stiamo parlando. Plaquette che si chiude con un’appendice di versi da Saffo ad Orazio, a Callimaco, ad Anacreonte, a Lucrezio, e altri. 

Irene Marusso

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 67-68.




Salvatore Valenti, Matrimonio (Usanze e costumi antichi e recenti in provincia di Trapani), Trapani, 2010.


Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 60-63.




Manfredo Bertazzoni, La terra è un luna park (uss’ fà accsé par scòrrar – si fa per dire -) Bologna, Girardi ed., 2007.

 “Si fa per dire” o, meglio, temi e problemi della vita di tutti i giorni
L’Autore, romagnolo, nato a Faenza, porta nel cuore i colori, gli odori, i sapori e, persino, gli umori e i rumori della sua terra e della gente che vi abita. È veramente un fiume in piena che minaccia di straripare ma si contiene, trascinando verso il mare ciò che gli capita lungo il tragitto. Questa è l’impressione che dà a primo acchito, la lettura del libro La terra è un luna park (uss’fà accsé par scòrar – si fa per dire -), un caleidoscopio di discorsi che abbraccia tutto, filosofia e storia, società e costume, divagazioni varie e, poi, argomentazioni rientranti tutte nell’attualità Anche quelle che apparentemente sembrano molto lontane, per l’arco di tempo a cui si riferiscono, esse fanno da ponte per risalire a riflessioni che toccano da vicino l’uomo. 

Il libro, più che un saggio, è una raccolta di scritti che rotea attorno al luna park che effettivamente è la terra. Azzeccato nel titolo, esso consiste nell’«organizzare una serie di pensieri in maniera un poco organica – scrive Manfredo Bertazzoni – o un po’ meno casuale, ha costanti riferimenti alla cronaca spicciola, alla politica e alle istituzioni, all’uomo con i suoi pregi e difetti, tutti riflessi sull’attuale, e per lo più letti in scenari a noi vicini, Bologna e la Romagna». Evidentemente, per cognizione di causa, si riferisce a Bologna e alla Romagna che è la sua terra, così come uno di Palermo può riferirsi alla Sicilia. Non c’è campanilismo, perché il discorso verte sull’uomo e come potrebbe cambiare in meglio la società in cui vive. In questo Bertazzoni ha fiducia; esamina la realtà con le difficoltà che presenta, ma non trascura le potenzialità che possono aiutare al cambiamento e al miglioramento. 

Già nel sottotitolo c’è l’argomentare che costituisce l’ossatura del libro, ed è l’argomentare della gente che nei vari momenti del giorno affronta i temi e i problemi della vita di tutti i giorni con semplicità e tanta spontaneità senza pretese, ma con quella sapienza propria di chi la vita la conosce e la pratica. Perciò non c’è da parte del suo autore, un voler prevenire; egli scrive come parla, a ruota libera, così come i tanti altri anonimi che capita di veder parlare o sentire e che ricorrono spesso al “si fa per dire”. Che, poi, è un modo rilassante di fare e di vedere le cose e il mondo, con un distacco che aiuta ad affrontare la vita e ad avvicinarci alla verità. 

Il libro, composto di sei sezioni (“Gente”, “Storie”, “Bologna”, “Costume”, “Società”, “Prospettive”) che sono ampiamente sviluppate, affronta temi vari che sono sotto gli occhi di tutti, dove l’Autore espone aspetti e punti di vista molto condivisibili per la gran parte, oggetto di discussioni e di approfondimenti per tanti altri. Tanto per fare un esempio, il capitoletto dell’inizio, ha una verità di fondo, ben visibile e palpabile; cioè la microstoria ha un peso fondamentale nella storia vera e propria, anzi è quella che la determina, senza darlo a vedere, perché non ha altri scopi ed è per questo, obiettiva; mentre quella che di solito è conosciuta, spesso è orientata da interessi di parte che la condizionano. Ma più avanti, quando parla di Bologna e della Romagna in genere, il pensiero va all’Impero d’Occidente che in questa terra ebbe il suo fulcro centrale e che qui lasciò tracce indelebili. 

È normale che dietro tutto c’è l’amore per la propria terra, e valorizzarla più di quanto si fa significherebbe darle il dovuto lustro che la storia le ha riservato. Scrive Bertazzoni: «Bologna utilizza poco il suo motore per se stessa e per gli estranei, fatto di piccole scoperte che appaiono ad ogni angolo a chi presta un poco di attenzione; occasioni che avrebbero il dono di vivacizzare un patrimonio disperso ed ignorato. […] Una piccola città come Bologna avrebbe bisogno di maggior contributo partecipativo, senza la trappola inutile del “fare per poi disfare” dove a rimetterci è sempre il vanagloriato e poco applicato concetto del “ciò che è di tutti». Un’osservazione che richiama all’uso che si dovrebbe fare del bene pubblico, spesso in balì e depredato dai cattivi amministratori che sono spesso i nostri politici di turno. 

Discutibili – dicevamo – sono, invece, altre considerazioni e affermazioni, come, per esempio, quelle a proposito di Oriana Fallaci e delle posizioni assunte nei confronti dell’Islam e del fondamentalismo. Questo è il volto bello della democrazia, quella vera, che dà a ciascuno l’opportunitàdi dire e di esprimere le sue idee e convinzioni per un aperto dialogo con gli altri che possono condividere o rigettare, ma in ogni caso è sempre un momento di confronto e di crescita nel rispetto di tutti, frutto di quella che i Greci chiamavano “politèa”, di cui lo Stato e la popolazione si facevano forti. Proprio quel sistema politico a cui Manfredo Bertazzoni guarda fiducioso, perché possibile, solo se l’uomo riacquisti la capacità di pensare con la propria testa e di agire con la forza della razionalità. È questo il filo conduttore del libro che ha una forte valenza umana e culturale che il lettore non può non rilevare e apprezzare. 

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 53-54.




H. F. Winnington-ingram, H. DuranD- Brager, Lo sbarco a Marsala. Un af- faire internazionale raccontato da due testimoni, Marsala, 2010.

 Il racconto di due stranieri

Sono stati pubblicati, per l’occasione dello sbarco e dei 150 anni dell’unità d’Italia, il diario di bordo di Winnington-Ingram, relativo ad alcuni mesi che precedettero e seguirono l’occupazione della Sicilia da parte di Garibaldi e dei suoi, e un opuscolo, sempre relativo a quei mesi, di H. Durand-Brager. Il titolo è: Lo sbarco a Marsala. Un affaire internazionale raccontato da due testimoni; la traduzione è di Vita Maria Montalto e di Nuccia Clarkson che hanno saputo bene ri-creare i testi, calandosi nel modo di vedere e di dire dei due autori, i quali, trovandosi per l’occasione a Marsala, riportano fatti e circostanze attinenti allo sbarco e all’avanzata garibaldina in Sicilia. Da ciò che emerge dalla lettura, questi stranieri erano a conoscenza dell’impresa; e gli Inglesi ne erano accondiscendenti, minacciati dalla concorrenza del Regno dei Borbone nei loro commerci. Ma lasciamo stare!

La sua lettura è piacevole; dal punto di vista letterario sono generi differenti, anche se rientranti nell’ambito della prosa, essendo diario il primo e testo di narrativa il secondo. La narrazione dei fatti si conosce, cambia nella forma ma non nella sua sostanza. Sarebbe auspicabile che si pubblicassero altri documenti e scritti che non siano una continuazione della retorica che ormai ha fatto il suo tempo. Conoscere per come realmente sono andate le cose, non potrà intaccare di certo l’unità d’Italia (ciò che è stato fatto, è fatto!), significa rendere giustizia alla storia che reclama la verità. Che poi al vincitore vadano tutti gli onori, è cosa risaputa!

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 63-64.