BIAGIO SCRIMIZZI, Spigolature dall’isola, prefazione di Tommaso Romano, collana «Le Giade», Ila Palma, Palermo, 2008.

 Spigolature dall’isola di Biagio Scrimizzi: più di questo non si dovrebbe scrivere per non far innamorare, il lettore di quest’opera. Il libro è equiparabile ad un viaggio che sviscera le fiabe e le superstizioni dell’ isola, i suoi modi di dire come anche i suoi paesaggi. Ogni capitolo è abilmente composto da diversi elementi intrecciati tra loro in modo da creare una melodia perfetta; ritroviamo infatti parti di racconti e di storie di personaggi più o meno noti, riferimenti all’esperienze di vita proprie dell’autore, così come citazioni religiose, filosofiche, letterarie e storiche. Biagio Scrimizzi, solamente per citarne alcune, richiama alla memoria parole di Pitrè, Leonardo Sciascia, Ariosto, Plinio e Martin Lutero; citazioni che rivelano quanto la conoscenza dell’autore sia vasta e profonda. Le stesse poesie che Scrimizzi inserisce nei capitoli per spiegare, completare o agghindare ciò di cui sta parlando, sono tratte da sue opere precedenti ma anche da quelle di Pablo Neruda, Federico Garcia Lorca e tanti altri. 

Tutto il libro è realmente coinvolgente; tanto per citare un argomento: il capitolo sui modi di dire in cui l’autore disamina il perché ed il per come di molte frasi fatte o di termini che si usano correntemente nella lingua italiana, di cui noi frequentemente ignoriamo l’origine o il reale significato. Una tra tutte la spiegazione del mobile di tradizionale uso domestico, comunemente chiamato credenza. 

Con piccole Spigolature dall’isola, con i riferimenti alle storie ed ai personaggi siciliani, ma non solo, e con le sue poesie l’autore racconta la storia della sua terra, la Sicilia. E lo fa creando un’assoluta armonia tra un linguaggio raffinato, colto, ma nello stesso tempo semplice e comprensibile; lo fa abbagliando il lettore con un uso puntuale dell’italiano ma intercalato, come in un tentativo di fusione, ad un dialetto siciliano colto ed elegante. Un dialetto, purtroppo, spesso abbandonato e deprezzato dai giovani. 

La descrizione accurata e realistica di alcuni luoghi palermitani, come la Villa Giulia, permette a chi conosce la città di rivederla nella propria mente e, a chi invece non c’è mai stato, di immaginarsi la bellezza dei luoghi. La lettura del libro è per tutti; per chi è già innamorato della Sicilia ma anche per chi ha ancora voglia di innamorarsi di «una Sicilia alla quale, forse più che a ogni altra regione italiana, si può adattare l’appellativo di sconosciuta, anche da parte dei suoi stessi abitanti, che poco o niente sanno del luogo in cui sono nati, delle splendide chiese antiche, dei monumenti favolosi, dei palazzi aristocratici e di quant’altro la Sicilia è ricca». 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 63-64.




Franco Nicastro, autore di diverse opere sulla storia dell’autonomia regionale, ha una consolidata tradizione di impegno contro la mafia, dimostrato dal 1961 al 1978 attraverso il giornale «Sicilia domani » e testimoniato da Romolo Menighetti nel libro Un giornale contro la Mafia (Ila Palma, Palermo, 1984). 

Nei 4 volumi dedicati ai rapporti tra mafia e Pci, Nicastro ha insistito sull’intento dei comunisti di fare della lotta alla mafia solo uno strumento di competizione politica, e sulla loro incapacità di condurre una valida azione di contrasto al fenomeno mafioso. Intento dell’Autore non è di allargare l’arco delle responsabilità come alibi per una sanatoria delle responsabilità della D.C. e delle altre forze politiche, ma precisare che l’avere strumentalizzato l’antimafia ha impedito il formarsi di un fronte comune per una incisiva azione contro quella piaga storica della società siciliana. 

La conclusione non è di pareggiare i conti, attribuendo a tutte le forze politiche la responsabilità del deficit nella lotta alla mafia, ma di rilevare che il Pci con il suo comportamento ha impedito alle forze politiche di saldarsi in un fronte unico contro quello che Giovanni Paolo II ha chiamato «prodotto del diavolo». 

Nei primi due volumi dell’opera, si dimostra che la linea della purezza anti mafiosa del Pci si era inclinata fin dal 1944, con l’invito alla giovane mafia, rivolto su La Voce Comunista, di staccarsi dai padrini tradizionali e mettersi a disposizione del Pci! Purezza ulteriormente offuscata nel 1947, con l’appello di Girolamo Li Causi al bandito Giuliano; con l’appoggio dato nelle prime elezioni regionali del 1947, dallo stesso bandito al separatismo di sinistra, confluito nel Pci; con l’ospitalità offerta nelle proprie liste nazionali, nel 1953, al capo del separatismo agrario Andrea Finocchiaro Aprile (per il quale, se la mafia non fosse esistita, bisognava inventarla); infine col sostegno dato dalla mafia all’operazione Milazzo, voluta dal Pci, come è anche dimostrato dallo schiaffo del boss Paolo Bontade a un deputato che si rifiutava di votare per Milazzo. Per cui nel mondo massmediatico si è diffusa la convinzione che «le coppole storte pendevano a sinistra». Di ciò si può trovare riscontro nel nulla di fatto con cui nel 1959 si conclusero i lavori della Commissione di studio sulla mafia, nominata dall’ A.R.S. a fine 1956 e presieduta da un esponente comunista. 

Nicastro osserva che di una mafia di sinistra aveva scritto per primo l’ufficiale dei carabinieri Renato Candida, nel libro Questa mafia, trovando conferma in quanto affermato da Leonardo Sciascia sull’esistenza, in alcune zone dell’agrigentino, di una mafia di centro-sinistra superiore a quella di centro-destra, nonché dal mafiologo Michele Pantaleone (secondo cui, nel nisseno l’atteggiamento dei comunisti verso la mafia era improntato al «vivi e lascia vivere»). 

Mentre nello e 2° volume si contesta la pretesa verginità comunista nei confronti della mafia, nel 3° e 4° si oppugna un altro topos creato dal Pci sulla sua diversità etica rispetto alle altre forze politiche. Per contrastare l’assunto, Nicastro richiama la partecipazione del Pci al sistema dei finanziamenti occulti e delle tangenti pubbliche. Ad iniziare dal saggio monumentale, Oro da Mosca, in cui Valerio Riva riferisce sui finanziamenti erogati dal Pcus al Pci, sulla tangente multimiliardaria per il gasdotto Urss-Italia, e sulle risorse finanziarie ricavate dal Pci attraverso la rete di società di export-import organizzate fin dal dopoguerra. 

Nel volume Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta di Guido Crainz sono i verbali del Pci, da cui si rileva il malessere suscitato in alcune componenti dell’alta dirigenza del partito (tra cui Giorgio Napolitano) «dalle entrate straordinarie derivanti da alcune attività malsane». 

A dare corpo al sistema che consentiva tale pratica Nicastro riporta dai volumi Le carte del Pci di Giuseppe Averardi e L’oro di Mosca di Gianni Cernetti, il sistema per introitare fondi attraverso militanti disposti a scagionare il partito e ad assumersi ogni responsabilità (emblematico il caso giudiziario di Primo Greganti e il dissenso di Eugenio Reale da Palmiro Togliatti). Altre testimonianze vengono da Misteri d’Italia di Fabio Tamburini, suocero di Achille Occhetto, definito il re Mida della borsa, e la Politica a memoria d’uomo di Paolo Emilio Taviani, nonché da un servizio di Filippo Ceccarelli su la Repubblica nel vivo dello scandalo Unipol. 

Ma Nicastro non abbandona il filo dell’incoerenza del Pci sul tema mafia. Così non manca di coglierne un aspetto eclatante nella decisione del Pci di accordarsi, nel 1976 e fino al 1979, per l’amministrazione del Comune e della Provincia di Palermo con gli esponenti della Dc, che nello stesso anno Pio La Torre aveva indicato come i più esposti. Di questa tregua beneficerà Vito Ciancimino, allora segretario della Dc palermitana e come tale interlocutore dei dirigenti comunisti locali. Un’operazione inutilmente contestata da Emanuele Macaluso in sede di direzione nazionale. L’accordo avviene nel contesto del compromesso storico, per cui il Pci manifesta la sua disponibilità a smettere la lotta alla Dc, pur di avere responsabilità di governo. Tale linea si realizza, oltre che al Comune e alla Provincia di Palermo, alla Regione siciliana con il governo di unità autonomistica di Piersanti Mattarella. In questo contesto si consuma l’esperienza governativa di Mattarella, che i comunisti, ai .primi del 1979, mettono in crisi avviando una deriva che si concluderà con il disimpegno dei socialisti, e nella tragica epifania del 1980. Così come i comunisti avevano fatto con l’on. Giuseppe D’Angelo, il cui governo, come quello di Mattarella, rappresentava la trincea istituzionale più avanzata contro il prepotere mafioso. 

Sulla discontinuità e la strumentalità comunista nella lotta alla mafia, Nicastro riporta le critiche del libro Un lungo incantesimo di Simona Mafai al Comune di Palermo negli anni Ottanta, e segnala i possibili riscontri in Sicilia alla politica della doppia morale comunista, citando la dichiarazione dell’esattore Nino Salvo di aver finanziato tutti i partiti, compreso quello comunista. La cosa assumerebbe contòrni significativi, se rispondesse al vero la denuncia di Bettino Craxi alla Camera, secondo cui una cantina sociale dei Salvo era grande esportatrice in Urss; e c’è una dichiarazione del senatore Ludovico Corrao, secondo cui il presidente dell’Ente minerario siciliano, Graziano Verzotto, aveva distribuito soldi a tutti i partiti, compreso il Pei. Significativo è il fatto che le querele annunciate non abbiano avuto seguito, come eloquente è il fatto che, a proposito del procedimento giudiziario per la costruzione della raffineria Isab in provincia di Siracusa, gli inquirenti fondavano le accuse su un file in cui comparivano finanziamenti a partiti, burocrati e giornali, tra cui il Pci e «l’Ora». Certo l’attività delle Commissioni antimafia nazionali non corrispose alle speranze suscitate. Si veda l’esito fallimentare dei processi di mafia celebrati tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70, nonché l’evoluzione della mafia, trovando una logica nelle uccisioni di magistrati, giornalisti, funzionari e imprenditori, avvenute non per il ruolo che ricoprivano ma secondo il grado di pericolosità per i loro affari. È il tempo delle uccisioni del giornalista Mauro De Mauro, del procuratore della Repubblica, Pietro Scaglione, del segretario provinciale della Dc palermitana Michele Reina e del giudice Cesare Terranova. 

Il libro è corredato da una attenta postfazione di Ferdinando Mannino, che riferisce dei tentativi di tacitare le tesi sostenute da Nicastro e cioè che «qualitativamente la morale pubblica del Pci non è stata dissimile da quella degli altri partiti. Escludendo i finanziamenti sovietici e delle attività commerciali, la misura dei proventi illeciti può essere stata inferiore, per il fatto che l’area di governo del Pci era molto più ristretta di quella della Dc e dello stesso P.s.i.». La conclusione è che nessun Partito può chiamarsi fuori da collusioni con la mafia, e non serve proseguire il tragico balletto per cui ogni partito continua a scandalizzarsi della mafia degli altri. 

Renzo Mazzone

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 54-56.




ELIO GIUNTA, Il diritto al disprezzo. Cosa pensa la gente della politica, collana «I corsivi», Ila Palma, Palermo, 2007.

L’antipolitica del poeta 

Il poeta Elio Giunta non è nuovo a pubblicazioni di forte impegno socioculturale, tant’è che la sua produzione ha sempre registrato l’alternanza di scritti tipicamente letterari con libretti riguardanti problematiche del tempo, in genere provocatori e polemici. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se, nell’odierno clima di malcontento generale della gente contro il tipo di politica che si pratica, egli se ne fa interprete e ci dà una urtante pubblicazione col titolo Il diritto al disprezzo. In sostanza, per Elio Giunta ormai la gente non è più capita dai politici, è demotivata dall’esercizio di una vera democrazia, sa che le pretese cadono nel vuoto; le rimane il diritto al disprezzo di una politica, per così dire, sceneggiata sul gioco elettorale o pressappoco. 

Il discorso che l’Autore porta avanti nelle pagine è tuttavia tutt’altro che sbrigativamente polemico. Vi sono addotte, seppure in sintesi, profonde motivazioni corredate di esemplificazioni. In una prima parte, rivolta a modo di lettera a suoi ex allievi illustri Ce tra questi figurano Leoluca Orlando e Marcello Dell’Utri, il procuratore De Francisci, Gianni Puglisi e il prefetto Finazzo), si pongono le basi storico-sociologiche del recriminare: la crisi della civiltà che sacrifica l’uomo al mercato, la tecnologia che accelera il processo di disumanizzazione, la televisione che mistifica la politica e la reale portata dei suoi problemi, non ultimo quello che ormai le decisioni della politica sono quasi nulle rispetto a quelle dei poteri forti, della finanza, cui la politica è asservita. 

Di fatto, in Italia non si è riusciti ad avere ricambio, per cui i politici sono sempre quelli, anche se legati a un sistema usurato, responsabile dell’abituale dissenso del paese. Insomma, la politica in Italia è solo gioco di conservazione del potere. Il che è quanto accade anche nel mondo della cultura, a proposito del quale Giunta rileva il tradimento degli intellettuali, la loro libidine di primi piani, i loro asservimenti o lo spirito di cricca. 

La seconda parte parrebbe indirizzata a suggerire lo slancio, specie dei giovani, verso l’utopia, ma in realtà finisce solo per attualizzare la prima, con l’aggiunta di sollecitanti esemplificazioni circa le principali tematiche dei nostri giorni, come la crisi dell’Europa, il problema del lavoro precario e del futuro dei giovani, l’impossibile liberazione della politica dalle trame clientelari, con l’auspicio tuttavia che sorgano nuovi attori disposti a far tabula rasa di quanto in politica si vede fare per puntare a ciò che si deve fare, purché sia connesso a un fine il più umano possibile. 

Adele Liberati

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 55-56.




ALESSANDRA PERA, La tutela degli interessi collettivi dei consumatori. Modelli e regole in una analisi comparatistica, Ila Palma – Athena, Palermo, 2008.

L’autrice analizza l’insidioso e complesso campo dell’ accesso dei consumatori alla giustizia, attraverso un approccio metodologico storico e comparatistico. In particolare, lo studio condotto riguarda gli strumenti rimediali, contenziosi e non, concessi ai consumatori a livello comunitario e non solo. Più precisamente, nei primi capitoli l’autrice analizza i modelli comunitari di azione inibitoria collettiva e individuale, nonché di conciliazione, e li raffronta con gli omologhi modelli di attuazione nell’ordinamento italiano ed in quello inglese. Nell’ultimo capitolo, l’Autrice si confronta con un istituto risarcitorio extracomunitario – la class action americana – pure utilizzato quale strumento di tutela degli interessi collettivi dei consumatori e imitato in ordinamenti sia di civillaw che di common law, caratterizzati da una tradizione giuridica e processuale diversa da quella statunitense. 

In generale, l’analisi è stata condotta non soltanto attraverso l’esposizione delle regole normative di riferimento, ma con attenzione ai meccanismi con i quali le regole, le definizioni e i principi si compongono, mettendo in rilievo il processo storico, culturale, giurisprudenziale, dottrinale, che porta all’affermazione di una determinata regola. La prospettiva dinamica con cui l’analisi è condotta viene valorizzata dall’utilizzo del metodo comparatistico, che permette al lettore, soprattutto nella prima parte riguardante modelli intraeuropei, di comprendere il grado di armonizzazione ed omogeneizzazione sistematica delle regole a tutela dei consumatori, segnalandone pregi e difetti. 

Nella seconda parte, si affronta il modello extra-europeo della class action americana, raffrontandolo con l’omologo inglese, cercando di individuare pro e contro, ed anche al fine di valutare il recente trapianto dell’ azione risarcitoria nell’ordinamento italiano. Tale indagine è condotta, partendo da una analisi dell’evoluzione storica dell’istituto e proseguendo con un raffronto tra le regole americane e inglesi, con quelle contenute nelle proposte di legge italiane, che hanno portato all’introduzione dell’ art. 140-bis del Codice del Consumo. Si tratta, però, di una vana aspirazione. Infatti, l’Autrice si mostra particolarmente critica rispetto all’intervento del nostro legislatore in questa materia, peraltro non ancora riuscito, atteso che la norma non entrerà in vigore prima di luglio 2009, viste le proposte di restyling in corso d’opera. 

Dall’analisi condotta emerge che il modello italiano di azione risarcitoria collettiva si allontana per molti aspetti dagli omologhi inglese e americano e che le limitazioni che tale modello condivide con gli analoghi europei vanno contro lo spirito di uno strumento geneticamente predisposto ad assicurare l’effettività dei diritti sostanziali attraverso l’accorpamento in un unico procedimento di più pretese simili. Infatti, se l’obiettivo è ridurre i costi privati e pubblici della giustizia, allontanare le imprese da comportamenti opportunistici, realizzando economie di scala, il legislatore italiano ha fallito già nel momento in cui ha previsto una procedura farraginosa ed ha negato la legittimazione ad avviare l’azione al singolo consumatore, limitandola alle associazioni e, comunque, ad enti collettivi rappresentativi di interessi diffusi, senza peraltro disciplinare il regime delle spese legali e processuali, che nei sistemi di common law è il motore di queste macchine complesse. 

Adele Liberati

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 58-59.




MARIA PATTI, Fermenti socio culturali nell’800 e don Giuseppe De Gennaro da Corleone, vol. I – Scripta varia graece et latine di don Giuseppe De Gennaro, vol. II, Ila Palma, Palermo – Palladium, Corleone

Pagine storiche e letterarie dell’Ottocento minore in Sicilia 

Carattere culturale specifico ha l’ultima fatica letteraria di Maria Patti, professoressa di latino e greco, scrittrice, poetessa e studiosa corleonese. 

«Solo una studiosa del livello di Maria Patti», scrive lo storiografo Giuseppe Virgadamo, «poteva dare l’avvio ad un’opera di così difficile, grande spessore letterario e di notevole interesse storico. Un gioiello della storiografia corleonese che conduce il lettore a rivivere i sogni e i valori di un passato che appartiene alla nostra storia e che è fondamento e sostegno della nostra cultura e delle nostre tradizioni.» 

Maria Patti è autrice di numerosi libri di poesia e saggi storici e filologici, degna di essere annoverata tra i protagonisti della cultura siciliana. La critica si è ampiamente occupata della sua multiforme attività culturale. 

Scrive ancora il Virgadamo: «La riscoperta delle proprie radici , la salvaguardia della propria memoria, l’amore per il mondo classico, sono beni preziosi cui Maria Patti non è disposta a rinunciare. L’antico fascino della poesia greca e latina avvolge l’autrice, che non tralascia mai di misurarsi in occasioni di dialogo e di riscoperta con autori classici» di indiscusso valore. 

L’opera, interamente dedicata alla vita e alle opere del letterato Giuseppe De Gennaro da Corleone, merita di essere letta e divulgata. È stata scritta con grande passione e competenza. 

Stella E. Gois

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 52.




GIOVANNI PIONE, Gloria, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a Palma, Palermo 2006.

Un’opera prima che rivela una sicura maturità della scrittura 

Una scrittura che coinvolge, una storia che commuove e stupisce. Questo il romanzo dal titolo Gloria, col quale esordisce il medico siciliano Giovanni Pione, che opera nelle Eolie. Protagonista una donna, Gloria, felicemente sposata e mamma di tre figli. Una donna semplice, animata da un credo puro che conosce solo amore e piange solo per gioia, di colpo viene proiettata verso l’inferno di un dramma di cui non possiede la chiave di lettura. Un terribile incidente stronca la vita del figlio maggiore Tony, e lei ora, per la prima volta, si ritrova a fare i conti con la divinità. 

Comincia il viaggio sino in fondo a se stessa, una sfida incessante. 

Gloria lotta da sola contro la tempesta spirituale, aspettando di cozzare contro gli scogli della vita. Un percorso che prende le mosse dal dubbio e dalla rassegnazione fatalista fino alla rielaborazione personale, convinta, al recupero della volontà decisionale tarpata, con il superamento di quegli ostacoli che impedivano il cambiamento. Una sorta di liberazione da un peso interiore, sino all’ultimo incontro, che ha in serbo per lei un inaspettato regalo. 

La magia di un incontro rimette inaspettatamente tutto in discussione e riapre il suo cuore, che ora le appare grande più di quanto immaginasse, accogliente più di quanto credesse. «L’uomo ha già la verità dentro di sé, la vita è divenire e non esiste un traguardo solo nella vita di nessuno.» Un sorriso, il ricordo indelebile di uno sguardo, un vigoroso abbraccio: sono le carezze positive, a dispetto di ogni dolore, sole in grado di trasformare l’esistenza lungo la via di avvicinamento a Dio. 

Lo stile dell’autore è fluido e caldo. Periodi brevi con incredibili capacità di sconvolgere ed emozionare. Pagine vergate da lame taglienti che scuotono l’animo dei più sensibili. Uno scrittore che fotografa espressioni di vita e sa cogliere sfumature di situazioni maledettamente reali. Un testo che fa riflettere su un microcosmo di persone, espressioni, dolori appena fuori dalla porta di casa. 

Stella E. Gois

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 60-61.




ANTONINO GIUSEPPE MARCHESE, Giacomo Santoro detto Jacopo Siculo, pittore del sec. XVI, collana «Prisma», I.l.a Palma, Palermo. 

La riscoperta di un artista siciliano del sedicesimo secolo 

Può accadere che due regioni italiane distanti, sia per latitudine che per esperienze storiche, trovino una comunanza intellettuale nel vissuto di un individuo, inconsapevole protagonista di un consorzio culturale in tempi non sospetti: Sicilia e Italia centrale. 

Questa è la storia di un Maestro del Cinquecento, Jacopo Santoro di Giuliana, uno dei quattro centri minori che assieme a Bisacquino, Chiusa Sclafani e Corleone disegnano il quadrilatero geografico nonché storico della provincia di Palermo e si distinguono per la ricca produzione di artisti dall’età del Manierismo a quella del Barocco. Jacopo Santoro rappresenta purtroppo uno dei tanti esempi di trascuratezza degli studiosi e delle istituzioni culturali: è stato avversato per molto tempo e poi posto nel dimenticatoio dagli storici dell’arte siciliani. Per nostra fortuna non dallo storico A.G. Marchese, medico di professione, studioso dedito alla cultura del recupero dei Beni Culturali dell’ entroterra dell’ isola. Egli in questa monografia ha dimostrato encomiabile abilità e pazienza degna di una rara figura di intellettuale non omologabile e super partes, che ancora una volta lo hanno contraddistinto nell’ aver squarciato il velario del dimenticatoio. E nella dotta presentazione Giovanni Sapori dell’Università di Roma/3 lo mette in evidenza. 

La ricerca è stata condotta con estremo rigore scientifico a partire da indagini di carattere storico-ambientale, che hanno portato il Marchese a dedurre l’appartenenza del pittore a quella etnia ebraica presente a Giuliana dal 1486 e sottoposta al decreto di espulsione nel 1492, che Jacopo porterà come segni indelebili, che se da un lato arricchiranno il suo patrimonio artistico, dall’altro contribuiranno a far perdere, per circa quattro secoli, sinanche le tracce della sua identità. 

L’Autore nella monografia ha ricomposto in undici schede il corpus delle opere dell’ artista, a corredo della sua genialità compositiva e stilistica, mettendo bene in luce la purezza del raffaellismo che nello stile del Santoro si traduce nella sublimazione dell’ eleganza terrena e focalizzando le sue peculiarità correlate alla geniale costruzione cromo-spaziale dei retabli, tecnica caratteristica dell’impianto scenico. 

Stella E. Gois

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 47.




ANNA MAIDA ADRAGNA, I colori del silenzio, Ila-Palma, Collana di narrativa «Meridiana», Palermo, 2006.

 

Un caleidoscopio di frammenti umani tutto al femminile 

Storie di donne tra passioni e essenze, emozioni e sentimenti bloccati, una fugace giovinezza e confusi cambiamenti sociali, odii e confidenze, lavoro e sogni di esistenze diverse come diverse sono le protagoniste del secondo libro di racconti di Anna Maida Adragna: I colori del silenzio. Queste storie di donne sono una piacevole conferma di quanto aveva dimostrato con Spremute di limone, il suo autentico talento letterario. 

In questi racconti brevi, la fonte psichica è forte e introduce all’origine dei drammi che sovente attraversano l’esistenza di molti esseri umani. Psicodrammmi talvolta vicini alla paranoia. Vite al limite dei sensi. Donne del nostro tempo che ricordano con l’animo anziché con la mente, che vivono e muoiono con la stessa caparbia intensità, accomunate dall’unica matrice del non-detto. 

Con un linguaggio essenziale, ma estremanente efficace, l’autrice racconta di sentimenti, drammi personali e familiari, incubi, frustrazioni; certi luoghi oscuri dell’anima, certe colpe lontane soffocate nel fondo della coscienza che possono condizionare tutta la vita e impedire un’autentica libertà di azione e di scelta. Così il peso di un’ infanzia infelice, l’assenza di un rapporto familiare caldo, il ricordo della fuga del genitore, la malattia. 

Il piano narrativo che passa dalla descrizione dei fatti al monologo interiore, senza soluzioni di continuità, rende efficacemente la contraddittoria esplosione di sentimenti e di riflessioni dei vari personaggi, così che il lettore riesce a seguire il percorso logico che accompagna azioni e pensieri, ma anche i colori del dolore e dello smarrimento. In un libro dove a brevi pagine delicate si alternano pagine fortemente incisive, l’autrice riesce a mettere in luce il groviglio di pulsioni inconfessabili e a trovare le parole che le protagoniste hanno perduto. 

Stella E. Gois

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 56.




ANGELO LIVRERl CONSOLE, La scuola del cambiamento nella società complessa, «Processi culturali», collana di studi sociologici, I.l.a Palma, Palermo.

Autonomia delle scuole e unità dell’istruzione 

La scuola si caratterizza oggi in termini di sistema organizzativo complesso, volto a realizzare gli scopi istituzionali fissati da uno Stato che regola i percorsi delle scuole autonome. Di qui i complessi obiettivi formativi, i progetti innovativi, la flessibilità, l’organizzazione della scuola tra tecnologie, processi e relazioni, tali da orientare e soddisfare gli utenti dell’istruzione e i soggetti nel territorio. Si tratta, allora, di realizzare un’organizzazione in grado di rilevare correttamente la domanda formativa personalizzata, anche nel caso di difficoltà di apprendimento, realizzando percorsi formativi da verificare, valutare e documentare. 

Il legame col territorio non può ovviamente essere considerato sufficiente per conferire cittadinanza in una società sempre più globale e complessa: anzi, solo la comprensione dei grandi scenari e delle cause remote dei fenomeni permette di elaborare soluzioni e prospettive corrette e sostenibili a livello locale. 

Di qui la necessità di promozione di uno sviluppo professionale continuo da parte di un dirigente scolastico con competenze professionali strategiche, in grado di gestire le professionalità dei docenti in perenne, indispensabile sviluppo. Le rapide e radicali trasformazioni che hanno investito la società richiedono una scuola capace di garantire ai ragazzi di oggi, uomini di domani, i saperi e le competenze essenziali per rendersi artefici di uno sviluppo ordinato e costruttivo dell’ attuale società. 

Quali competenze, allora, si richiedono oggi? 

Il lavoro di Livreri, ricercatore di sociologia presso l’Università di Palermo, pur nella sinteticità della sua impostazione, traccia una panoramica degli interventi di riforma dal 1985 ad oggi e mette in evidenza l’attuale configurazione come risultato di un disegno riformatore progressivo e coerente affinché possa venir fuori una scuola che risponda alle esigenze reali del paese. 

Stella E. Gois

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 50-51.




GIUSEPPE BAGNASCO, L’amore viola. collana «Poesia Oggi», l.l.a. Palma, Palermo, 2008.

Il colore del sentimento e la vitalità della memoria 

L’amore viola, cioè, l’amore come un nome, come un colore, forse come uno strumento a corda che vibra e produce suoni profondi. Sono poesie che, in una fitta trama di rimandi e nell’inarcatura tra verso e verso, ci restituiscono lo stupore, la magia, il dolore di un canzoniere d’amore che, come tale, si sottrae ai livelli della storicizzazione” che esprime l’uomo, la sua cultura, i suoi vissuti. 

È una poesia dell’io, che parla all’amore e dell’amore, che guarda dentro di sé per scavare le vibrazioni più intime. 

Fra le cinquanta poesie, ce ne sono almeno cinque (Felice il vento, La pazzia, Senza cuore, Poi arrivasti tu e Mura il tuo silenzio), in alcuni versi delle quali abbiamo trovato, quel senso del labirinto assunto emblematicamente da alcuni poeti siciliani della fine del’ 500, in primis il poeta di «Celia» nelle sue Canzuni amurusi. il monrealese Antonio Veneziano – limitatamente alla esperienza amorosa. Laddove il sentire la passione d’amore con un lirismo che ci confermaquanto il sentimento amoroso sia consonantico e senza tempo, e come la poesia di Bagnasco raggiunga vertici di espressione così nobili e rari. 

Fare poesia significa mettersi a servizio della natura, non per imitarla nel canto, ma per darle espressione; significa esplorare quel luogo segreto all’interno di noi per tirame fuori immagini e fantasie che non appartengono solo a noi, ma che racchiudono tutti i sogni del mondo. Non a caso Hermann Hesse ha scritto che «nei sogni dei poeti risiedono una bellezza e una grazia che si cercano invano nelle cose reali». 

Il poeta scrive una poesia, non inizia affatto un libro. Soltanto dopo si rende conto che, tra le diverse poesie scritte, si ri-trova la linea di un percorso, il tracciato di un discorso. Dove iterazioni, sineddoche, sinestesie, anafore, metonimie, ispirano ed evocano stati d’animo che si trasformano in immagini. 

Bagnasco propone una poesia in cui fantasia e verità si incontrano nel segno di una superiore armonia: «E poi arrivasti tu / e il tempo / non fu più il tempo. / Si accesero le vetrine dell’ amore … ». Molte sono anche le suggestioni (da sub gerere) con cui, attraverso metafore fortemente fisiche, i testi poetici si possono leggere come partiture dell ‘anima: «Se dovessi descrivere l’amore / disegnerei un chiodo / e lì appenderei tutti i suoi sogni / e per vincere la solitudine / starei solo assieme a un cane / a dividere la zuppa con lui» (Calcinacci). 

Una poesia, dunque, che più sembra lontana dalla vita veloce ed ipertecnologica 

di oggi, più riporta alla condizione eterna dell’uomo, alla maledizione e alla ricchezza della sua corporeità. Sì, perché la poesia non dà risposte, ma interroga «il silenzio delle cose» (Luzi). 

Voglio concludere riportando alcuni versi della poesia Mi manchi. Qui l’amore si fa confidenza e si circonda di letteratura senza perdere nulla della sua immediatezza. E per me è come chiudere un cerchio: come se l’ultimo pezzo del puzzle fosse stato già pronto a combaciare: «E tu mi manchi / mi manchi appena dopo / esserci lasciati / [ … ] Mi manchi oltre la vita / perché in me non c’è vita / se tu mi manchi … ». 

Pino Giacopelli

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 62-63.