VINCENZO MESSINA, Con rispetto spar- lando, Ila Palma, Palermo, 2006.

 Un libro sconsigliato dall’autore, che si consiglia come diversivo 

Con rispetto sparlando è un esilarante spaccato di vita quotidiana, e lo stile del libro è già rivelato dalle due righe che arricchiscono la copertina: «Questo testo contiene espressioni dialettali scurrili e sgrammaticate. Se ne sconsiglia la lettura a chi è avvezzo a tuccarisilla c’a cammisa; frasi che sicuramente non introducono ad un’ opera arci filosofica e tediosa. L’ autore racconta con tresemplici episodi, tutti e tre ambientati in Sicilia, alcune caratteristiche che facilmente si possono riscontrare nella vita quotidiana. 

Il primo racconto si svolge a Palermo e il protagonista è lo stesso autore che decide volontariamente di imbarcarsi nel lungo e complicato percorso per ottenere la famosa placchetta «H»; non perché ne abbia realmente bisogno ma perché misteriosamente utile e potente. In chiave comica e satirica l’autore tratta il tema tristemente attuale del «tocca e fuggi » per ottenere ciò che si vuole pur non avendone diritto, e della estrema facilità di chi, pur non avendone diritto, riesce ad ottenere la misteriosa «H». 

Il secondo brano è ambientato a Pantelleria. Protagonisti un gruppo di musicisti palermitani che si imbarcano, nel senso letterale del termine, per l’isola per una notte … pantesca. Un transfer tristemente comico a causa di una serie di inconvenienti che attanagliano i musicisti siciliani. Anche qui, a mio parere, si mette in luce la tendenza, diffusa un po’ ovunque, di provare a fregare l’altro; soprattutto quando l’ altro non è della zona. 

Il terzo ed ultimo brano è un episodio tragi-comico che intreccia due realtà della vita maschile: la difficile convivenza tra il sesso maschile e quello femminile e la prostata. Particolarmente piacevole la conversazione tra il protagonista ed il medico, in cui le uscite in dialetto dell’ autore colorano ed aumentano la comicità della situazione. 

Consiglierei il testo ai siciliani ma non solo, grazie anche al «glossario» finale che spiega i coloriti ed appropriati termini dialettali utilizzati. 

Con rispetto sparlando è un libro che si legge d’un fiato, che diverte senza cadere nel banale e che, nello stesso tempo, fa riflettere su piccoli-grandi spunti che emergono dalla lettura. 

Elisa Fontana 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 64-65.




SALVO LOMBARDO, La clandestina dell’Aldilà, Editrice Sicilander, Partinico, 2007.

Un nuovo romanzo, complesso da raccontare, ma coinvolgente da leggere. La sua storia è un pretesto per parlare dell’uomo, della sua vita distratta e sempre di fretta, della sua anima confusa dal frastuono della vita moderna. 

La protagonista del romanzo non è una persona in carne ed ossa, come il lettore si aspetterebbe, ma un Soffio Vitale, Habel in ebraico, che impersona il desiderio dell’uomo di dare un senso alla propria vita, di trovare il significato ultimo della propria esistenza. 

Il libro inizia con la risalita di Habel nell’Eden; espediente che permette all’autore di introdurre il lettore in questo mondo immaginario e di intrattenerlo sulla creazione del mondo, e sul disegno divino. Nella seconda parte Habel viene promossa ad Aghné, non più quindi semplice Soffio Vitale ma Anima completa, e le viene assegnata una missione sulla terra. In seguito a un imprevisto, l’Anima si trova a viaggiare, spinta dalla sua curiosità insaziabile, da clandestina sull’Arca delle Anime. Tutta questa parte è incentrata sul viaggio di Aghné, sui mondi che visita e le anime che conosce. Infine l’Anima, si incarna in una bambina e riesce a portare a termine in modo esemplare la sua missione terrena, l’Amore. La protagonista, prima come Soffio Vitale e poi come Anima, non smette mai di interrogarsi sul perché della vita. Infatti, sia i singolari personaggi incontrati che le esperienze vissute sono espedienti che le permettono di crescere, e giungere all’illuminazione. 

Il lettore, durante questo viaggio, rimane incantato non solo dalla descrizione degli scenari e dei colori, ma soprattutto dalla semplicità e spontaneità con cui vengono trattate tematiche forti e impegnati ve, come l’arroganza, l’amore e la pace. Il linguaggio usato da Salvo Lombardo è semplice, ed emotivamente intrigante tanto da invitarti a leggere d’un fiato l’intero romanzo; ma soprattutto è da notare la fanciullesca ed incantata descrizione dell’ambiente onirico circostante che, attraverso l’emozione e la suggestione dell’ Anima-protagonista, meraviglia anche il lettore. Questo finisce per riflettere ed interrogarsi sulla vita e sui suoi valori. 

L’odissea di quest’ Anima è un misto di fantasia e realtà, sensazioni immaginarie ed altre realmente esperite nei numerosi viaggi di documentazione che, Salvo Lombardo ha compiuto, a supporto della della credibilità del racconto. 

Lisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 62.




SALVATORE GIULIANO, Corrado Ursi, l’Uomo dell’Amen e dell’Alleluja, collana «Memorie / Testimonianze», Ila Palma, Palermo, 2007.

 Una nuova figura esemplare dell’apostolato cattolico in Italia 

Salvatore Giuliano è riuscito a fotografare la figura del cardinale Ursi e la sua eroica azione pastorale, l’uomo che è stato promotore di una novità assoluta per il suo tempo: infatti, seguendo l’esempio di papa Giovanni XXIII e Paolo VI, convocò, nel 30° Sinodo, non solo i religiosi ma anche rappresentanti del mondo laico, risvegliando l’interesse della comunità cristiana tutta. 

Per la documentazione del testo, Salvatore Giuliano ha utilizzato come fonti gli scritti lasciati dal cardinale alla diocesi, oltre i molteplici articoli, i lavori accademici e le testimonianze orali. Ovviamente, come lo stesso autore afferma, Corrado Ursi non ha mai avuto l’intenzione di creare un manuale di teologia, quindi gli scritti sono sempre da intercalare con le sue azioni pratiche. 

Dopo una motivata prefazione del cardinale Crescenzio Sepe, successore di Ursi nella cattedra di S. Aspreno, il testo si divide in due parti. Nella prima si delinea il profilo umano e spirituale del cardinale, con la descrizione dei passaggi principali: la formazione, il ministero di rettore, l’episcopato e l’esperienza del Concilio Vaticano II. La seconda parte è dedicata all’ illustrazione dei tre pilastri del programma pastorale dell’arcivescovo di Napoli. Si può quindi suddividere in tre sezioni. La prima dedicata alla Cristologia pasquale, che si concretizza nell’eucaristia. La seconda relativa all’Ecclesiologia pastorale, centrata sul vivere intensamente il momento «della tenda», ossia la comunione eucaristica, per poi diventare Chiesa <<della strada», impegnata nell’aiuto missionario. La terza incentrata sulla Teologia ecumenica, con cui il cardinale Ursi riuscì a creare un clima di fiducia tra le confessioni cristiane di Napoli. Per lui la fede in Cristo è fede nella Chiesa, in quanto la comunità dei credenti è soggetto di fede. 

Don Giuliano usa, nel suo testo, un linguaggio lineare, che permette al lettore di crearsi un’immagine completa del cardinale Ursi, con la vita esemplare e il corredo delle sue rilevanti attività sociali, che ne santificano la figura. 

Lisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 59.




LUIGI PIAZZA, Identità e turismo. Città di costa lineari italiane, collana «Progetto e Architettura», Ila Palma, Palermo 2008.

 Trasmutazioni dell’identità territoriale e architettura 

Il libro tratta il difficile rapporto tra il fenomeno del turismo di massa ed il mutare dell’Identità locale dei luoghi che esso attraversa, con una particolare attenzione ai sistemi urbani lineari costieri italiani inseriti in un contesto più ampio del fenomeno di antropizzazione delle coste del bacino del Mediterraneo. 

Con una metodologia comparativa e con il ricorso al confronto continuo di dati omogenei, si è analizzato il complesso dei fenomeni di interazione tra insediamenti turistici e territorio ed identità locale, sviluppando in maniera più approfondita l’analisi, come caso studio, di una realtà urbana, quale quella di Cefalù, che ha subito profonde modificazioni urbanistiche, territoriali e sociali, nel suo contatto con i flussi turistici internazionali. 

La tesi, che rimane in subordine e che aleggia in secondo piano, è che il depauperamento dell’aspetto paesaggistico e le modificazioni del territorio della fascia costiera non sono connessi direttamente con l’insediamento urbano, purché questo sia preordinato in un piano che, tenendo conto degli aspetti ambientali, geo-morfologici del luogo, sia teso a realizzare un rapporto simbiotico tra natura e artificio. 

Il ruolo del progetto di architettura in un contesto di fenomeni e di scale così ampio è questione non secondaria, che rimane sullo sfondo e che si è cercato di sviluppare attraverso l’esame di alcuni progetti di intervento sul costruito, finalizzati a ridare una qualità al territorio degradato, e di nuove installazioni turistiche a ridosso della fascia costiera in un dialogo con l’elemento territoriale e paesaggistico pre-estitente teso a rafforzare le caratteristiche identitarie del luogo. 

La conclusione cui il testo perviene, che è anche la tesi che si voleva dimostrare, è che l’Architettura, quando non scade e si dequalifica in mera edilizia, non è mai antitetica alla qualità del paesaggio, anzi è lo strumento attraverso cui evidenziarne le peculiarità. 

Lisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 56-57.




LUIGI PIAZZA, Identità e turismo. Città di costa lineari italiane, collana «Progetto e Architettura», Ila Palma, Palermo 2008.

Interazione tra insediamenti turistici ed esigenze ambientali 

Il libro tratta il difficile rapporto tra il fenomeno del turismo di massa e il mutare locale dei luoghi che esso attraversa, con una particolare attenzione ai sistemi urbani lineari costieri italiani inseriti in un contesto più ampio del fenomeno di antropizzazione delle coste del bacino del Mediterraneo. Con una metodologia di tipo comparativo e con il ricorso al confronto continuo di dati omogenei, si è analizzato il complesso dei fenomeni di interazione tra insediamenti turistici e territorio e identità locale, sviluppando in maniera più approfondita l’analisi, come caso di studio, di una realtà urbana, quale quella di Cefalù, che ha subito profonde modificazioni, urbanistiche, territoriali e sociali, nel suo contatto con i flussi turistici internazionali. 

La tesi, che rimane in subordine e che aleggia in secondo piano, è che il depauperamento dell’ aspetto paesaggistico e le modificazioni del territorio della fascia costiera non sono necessariamente direttamente connesse con l’insediamento urbano, purché questo sia progettato e preordinato in un piano che, tenendo conto degli aspetti ambivalenti, paesaggistici, geo-morfologici, sia teso a realizzare un rapporto simbiotico tra natura ed artificio. 

Il posto e il ruolo del progetto di architettura in un contesto di fenomeni e di scale così ampio è questione non secondaria, che rimane sullo sfondo e che si è cercato di sviluppare attraverso l’esame di alcuni progetti di intervento sul costruito, finalizzati a ridare una qualità al territorio degradato, e di nuove installazioni turistiche a ridosso della fascia costiera in un dialogo con l’elemento territoriale e paesaggistico preesistente teso a rafforzare le caratteristiche identitarie del luogo. 

La conclusione cui il testo perviene è che l’architettura, quando non scade e si dequalifica in mera edilizia, non è mai antitetica alla qualità del paesaggio, anzi è lo strumento attraverso cui evidenziarne ed amplificarne le peculiarità. 

Elisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 57.




LUCIO ZINNA, Il mondo narrativo di Lu- ciano Domanti, collana «Profili », Ila Palma, Palermo, 2008.

Profilo di uno scrittore siciliano che ci ha dato pagine esemplari 

Il libro di Lucio Zinna, così come lascia intuire lo stesso titolo, è interamente dedicato allo scrittore, nato a Castronovo, in Sicilia, dove ha trascorso parte dell’adolescenza con i nonni, che hanno svolto un ruolo importante nella formazione dell’autore, così come la sua terra natale. 

Il libro si divide in due parti. Nella prima si introduce Luciano Domanti, le sue opere ed il suo genio artistico; nella seconda si raccolgono diversi brani di critica sui suoi racconti. Entrambe le sezioni sono estremamente interessanti. Permettono infatti, rispettivamente, di avere un panorama completo sul mondo dello scrittore e inoltre, diremmo, di toccare con mano singolarmente i suoi libri, facendo quasi un salto all’interno delle varie storie tramite i testi della critica. 

Si parla così de Gli occhi di poi, silloge di racconti che descrive la sua esperienza da giornalista, anzi addetto stampa della Presidenza della Regione Siciliana, che permette al lettore di immergersi in una vita di incontri tra pubblico e privato, conditi con il sale raffinato di una fantasia sbrigliata che sa rendere personaggi significativi persone a volte scialbe. 

Prima c’era stato Il cerimoniale, un manuale anzi una guida veramente preziosa, sulle norme che regolano le relazioni tra enti ed organi pubblici. Il libro non è esclusivamente un’elencazione di regole ma è arricchito e reso coinvolgente da descrizioni di ricevimenti, colazioni e pranzi ufficiali. 

Continuiamo con Che mafia quella mafia, in cui protagonista è la comunità di Castronovo coi suoi personaggi che rivelano l’animo di una popolazione e l’estro dell’ autore. Da notare come, anche se il titolo lo lascia pensare, il tema non sia la mafia della cronaca nera, tanto che la parola in sé è pronunciata raramente all’interno di tutta l’opera. 

Seguirà, più tardi, come l’autore stesso dirà, nel sottotitolo, «dietro le quinte del Palazzo», l’umoroso e, perché no?, alquanto umoristico Buongiorno Presidente, che narra episodi, edificanti o meno, dei primi governanti siciliani della Regione autonoma. 

Finiamo, giusto per citare i principali libri, con La luna di Serradifalco, che tratta di una storia reale ambientata in un luogo altrettanto reale. Lo scritto riconduce al tema dell’emigrazione interna, dal Sud al Nord d’Italia, precisamente a Prato, la zona forse più laboriosa della Toscana e così ci troviamo di fronte al solito stereòtipo che il siciliano buono si trascina a causa di quello malvagio: la solita equazione sicilianomafioso. 

L’estro e la genialità di Luciano Donanti ha fatto sì che venga collocato insieme ai grandi della letteratura siciliana come Verga, Sciascia e Deledda. Nelle sue opere non mancano le allusioni, se pur indirette, a questi autori. Ne La luna di Serradifalco domina il detto Cu nesci arrinesci ossia «chi esce riesce», vendicando il fallimento di ‘Ntoni di Padron ‘Ntoni dei Malavoglia; si fa riferimento ad una presunta presenza mafiosa, poi effettivamente assente, che supera Sciascia; si richiama Ciulà di Pirandello e così via. 

Luciano Donanti, aggiungerei meritatamente, ha vinto il Premio «Campofranco» ed ha ottenuto una targa al merito letterario dall’ Assessorato Cultura della Provincia di Palermo. 

Elisa Fontana 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 62-63.




GIUSEPPE BARBACCIA, La comunità cosmopolitica, Studi e ricerche di Scienze politiche, Ila Palma – Athena, Palermo, 2007.

 La comunità cosmopolitica di Giuseppe Barbaccia è un originale testo filosofico-politico. Iniziando con un approfondito excursus sulle tendenze cosmopolitiche, a partire dal VI secolo a.C., l’autore finisce per delineare un quadro completo delle caratteristiche e delle necessità di una comunità cosmopolitica; passando per Cicerone, Leibniz, Kant, Habermas e la nascita dell’O.N.U., solo per citare alcuni passaggi, l’autore arriva ai nostri giorni, in cui ad una integrazione (sociale, culturale ed economica) cosmopolitica deve corrispondere un’altrettanto adatta struttura, basata sulla democrazia e con appositi poteri e strutture operative. 

Fondamentale per lo scopo è l’O.N.U. che, però, secondo Barbaccia, deve superare le sovranità statali per giungere ad essere unitaria ed universale. 

Il tema è complesso e non fruibile da tutti, ma l’autore lo tratta in modo chiaro e lineare, tale da renderlo adatto a tutti i lettori interessati a questo attuale e fondamentale argomento, che ci riserviamo di trattare ampiamente. 

Lisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 57.




CARMELA PICCIONE, Micha van Hoecke, collana d’arte «Prisma», Ila Palma Mazzone Produzioni multimediali, Palermo-Roma-Sao Paulo, 2006.

L’anima nella danza: van Hoecke, tutta una vita per l’arte 

Micha van Hoecke, un artista di origine russa, è uno dei più grandi coreografi viventi. Con la sua compagnia, l’Ensemble, e con il balletto Maria Callas, la voix des choses, ha rappresentato il nostro paese in Cina per l’Anno della Cultura e dell’ Arte italiana, dopo il trionfale successo di San Pietroburgo. 

Personaggio poliedrico, oltre che coreografo è attore, musicista, pittore. Da oltre venti anni vive in Italia, a Castiglioncello, con i suoi danzatori e le sue danzatrici in una sorta di «famiglia allargata», ma soprattutto in una comunione artistica e umana: da Marzia Falcon, col fascino delle sue gambe sinuose, all’infinitamente plasmabile Miki Matsuse, dall’intramontabile Yoko Wakabyaski, all’intensa Catherine Pantigny. Per non parlare della grande Savignano, trasfigurata dalla sua recente collaborazione con Micha, che sembra averla condotta a una seconda giovinezza. Tutti validi artisti che lo hanno seguito da Bruxelles dove lui ha lavorato con Béjart, il quale lo aveva chiamato, ancora giovane, alla guida della sua famosa scuola Mudra. In Micha convivono due mondi: l’Oriente e l’Occidente. Due modi di intendere la vita, di interpretare l’arte, di proporsi al pubblico. Per i suoi sessant’anni, Carmela Piccione, una giornalista romana studiosa di musica e di danza, ha dedicato all’artista Micha van Hoecke un robusto saggio, ricco di notazioni critiche e documenti fotografici, da servire per un capitolo di storia della danza in Italia. 

Una edizione pregiata, che fa onore al mondo dell’editoria. Contiene, tra l’altro, un lungo, appassionato colloquio con il coreografo sull’arte, la danza, la musica, la politica, la religione, la società. Vengono svelati fatti e avvenimenti inediti, i suoi amori, i motivi ispiratori delle sue creazioni, i rapporti con gli altri protagonisti. Il volume offre una serie di testimonianze di eminenti personalità del mondo dell’arte e dello spettacolo, come Jean Babilée, Luis Bagalov, Riccardo Muti e la moglie Cristina Mangiavillani, Maurice Béjart, Roberto De Simone, Carla Fracci, Liliana Cavani, Suso Cecchi D’Amico, Piero Lorca Massime, Vittoria Ottolenghi, Nicola Piovani, Luca Victor Ullate, Marella Ferrera, Catherine Pantigny, François Weyergads e tanti altri. Ne viene fuori un uomo e un artista inflessibile, rigoroso, severo, di straordinaria classe, appeal, ironia. 

La danza accompagna le pagine del libro, ne scandisce i capitoli, le dichiarazioni di intenti, le riflessioni, le confessioni. Un leitmotiv che abbraccia una vita costellata di creazioni, soprattutto di incontri importanti come quelli con Béjart, Riccardo e Cristina Muti. 

Il libro, per citare le parole dell’autrice nella introduzione,«non è solo un omaggio ad un grande artista, è una testimonianza di vita, di meravigliose utopie che si trasformano in realtà inseguendo sempre i propri sogni, nell’ambito di una rinascita e di una rigenerazione continua, che il teatro esplicita, che il cuore e la mente inseguono». 

Ed ora alcune testimonianze. «Con la sua creatività e intelligenza, Micha è l’artista che ha infranto confini estetici» (Bacalov). «Micha è stato sempre il mio doppio … Ancora giovanissimo, gli affidai la guida della mia scuola Mudra. Aveva una grande esperienza del palcoscenico e soprattutto amavo quel suo modo così personale di accostarsi alla scena» (Béjart). «La sua è stata una fedeltà al proprio credo in un teatro totale conquistato tramite la preparazione non solo al balletto, ma anche alla recitazione, alla musica, al canto» (Bentivoglio). «Credo che chiunque abbia avuto occasione di incontrare M. si sia messo in viaggio prima di tutto dentro se stesso» (Caccavale). «Con M. ho scoperto che la danza è un’ arte severa» (Caroli). «Il suo modo di accostarsi al teatro è sorprendente e singolare. La sua danza, le sue immagini hanno qualcosa di cinematografico» (Cavani). «Professionista tenace, poeta della danza, mi ha sempre sorpreso con la semplicità delle sue immagini e la sorprendente felice ingenuità » (Damiani). «M. è un artista il cui gesto creativo parte dalla profondità abissale di un uomo visionario, di uno sciamano in trance, capace di trasmetterci gli echi del macrocosmo e del microcosmo, il respiro di una universale pulsazione cardiaca» (De Simone). «Nei suoi spettacoli conduce ad una chiave di lettura fatta di suggestioni, immagini spesso evocative piene di poesia che suscitano emozioni profonde» (Ferilli). «Fra tanti regali che la fortuna mi ha fatto e di cui ringrazio il Cielo, ci sono le occasioni che ho avuto di lavorare col grande Micha» (Piovani). «In ogni sua coreografia non c’è solo movimento, la sua danza non è pura gestualità. È uno dei pochi registi e coreografiche sanno raccontare una favola con l’anima e il candore di un fanciullo» (Lorca Massime). «Un compagno di viaggio straordinario, un fratello nelle intenzioni sulle vie dell’alto artigianato dello spirito, un maestro educatore, un uomo buono che coltiva la vera solitudine, consapevole però delle esigenze di questo mondo perché il mondo ha nell’anima» (Mazzavillani Muti). 

Letizia Ferrazzano

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 59.




Marcello Veneziani, Amor fati – La vita tra caso e destino, Milano, Mondadori, 2010.

Amare il destino

L’ultimo libro di Marcello Veneziani è intitolato Amor fati. L’autore, editorialista del “Giornale”, con al suo attivo diverse opere di filosofia, storia e cultura politica, afferma scherzosamente che si tratta di un saggio da leggere a piccole dosi, perché una lettura tutta d’un fiato potrebbe causare effetti collaterali da sovraddosaggio.

Già a partire dal titolo, il libro invita ad amare il destino, che vuol dire accoglierlo e accettarlo con tutti i suoi limiti e le sue responsabilità.

Invece, «nel senso corrente il destino è pensato come un crudele gendarme che strappa alla vita e inchioda a una sorte». Secondo l’autore, è proprio questa mancata accettazione del destino da parte degli uomini contemporanei che ha tolto il senso alla loro esistenza, svuotandola della sacralità di un piano escatologico e consegnandola alla cieca inconseguenza del caso, che li disconnette irrimediabilmente da passato e futuro, risucchiandoli nel vortice del presente.

«Oggi molti vivono una vita priva di senso, ma gremita di accessori». Da ciò la perdita d’identità e persino uno sradicamento dal proprio humus, che alla lunga induce paradossalmente a cercare rifugio nella superstizione degli oroscopi, dello zodiaco e della scaramanzia, misero residuo dell’ormai perduto spirito religioso.

«In realtà il destino radica l’essere nell’avvenire, dà senso all’accadere, connette l’esistenza a un disegno e a una persistenza. Essere è avere un destino ». Infatti, nell’ottica di un disegno di ampio respiro che ci rende tutti interdipendenti, pur nell’autodeterminazione del libero arbitrio, nulla accade per caso e il più piccolo evento può essere letto come segno di una grande volontà progettuale.

Brigida Fagone

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 59-60.




Una rilettura in chiave poetica di uno sport a due ruote

Una rilettura in chiave poetica di uno sport a due ruote 

I soliloqui del passista. Breve storia del ciclismo in versi di Antonino Cangemi è una raccolta di poesie corredata di brevi note biografiche dedicate ai grandi campioni dello sport su due ruote. L’autore, a cui non manca una buona dose di autoironia, invoca in apertura l’intervento della musa, come un cantastorie dell’antichità classica, affinché lo assista nell’impresa che si accinge a compiere: «Cantami o diva / lo stridore dei tubolari / sull’asfalto / la leggenda popolare / di storie vecchie e nuove». 

Cangemi affida alla sublimazione letteraria uno sport che inaspettatamente si rivela permeabile a una profonda rilettura in chiave poetica e leggendaria. E questo in virtù soprattutto della particolare natura della disciplina che, nata povera e lontana dai fasti degli sport più alla moda, conserva tuttora un fascino impagabile derivante non solo dalla fatica smisurata che mette a nudo l’umanità dei suoi novelli eroi, ma anche dal contatto con lo scenario naturale che le fa da sfondo, di cui essa mette in risalto la bellezza suggestiva, spesso ancora selvaggia e incontaminata. 

Le note biografiche accompagnano di pari passo i ritratti poetici, completando e illuminando con rara arguzia situazioni e caratteri. Ampio spazio è dedicato alla figura di Coppi, alla sua rivalità con Bartali e all’amore travagliato con la «dama bianca», di cui furono piene le cronache rosa degli anni Cinquanta. Coppi incarnò il mito del ciclismo. Proprio nella poesia a lui intitolata, il personaggio reale sembra volutamente eclissarsi per cedere il passo al mito, felicemente reso dall’Autore nell’immagine dell’uomo che «si lasciava guardare negli occhi / nessuno osava a quel punto parlare / gli occhi che videro – gli ultimi occhi – / su quei tornanti Coppi arrivare». Gioco sottile di specchi che insinua atmosfere surreali di dialoghi muti fra anime. 

Cangemi non dimentica nessuno, neanche i gregari e i cronisti del Giro. E neppure la pioniera del ciclismo femminile, Alfonsina Strada, «paladina remota / di nobile causa / un giorno proclami / s’alzeranno nel cielo / uguali diritti / tra uomini e donne / stessi poteri / a chi porta le gonne». Eroica, perché vinse 36 corse contro ciclisti di sesso maschile e nel ’24, già in pieno fascismo, le fu consentito di partecipare al suo unico Giro d’Italia, figurando fra i 30 su 90 partecipanti che riuscirono a completarlo. 

Gli anni Sessanta vedono il trionfo di un altro eroe leggendario del ciclismo italiano, Felice Gimondi: «vanitoso e fiero / come una donna / sul viale di Sanremo / mentre la folla / che tanto l’ amava / lo inondava di fiori». Poi, nel decennio successivo, il fenomeno del doping giunge a gettare ombre inquietanti sul binomio ciclismo-poesia, contaminandolo e affliggendolo fino ai giorni nostri con i suoi risvolti tutt’altro che sublimi ed eroici. 

Riuscirà il ciclismo a vincere il confronto con le tentazioni sempre più invadenti di una gloria effimera e di basso profilo? È questa la domanda che si pone il poeta, lasciando però spazio, nell’ultima lirica (quella dedicata a Damiano Cunego) alla luce della speranza: «chiediamo di più / la vittoria senza inganno / siringhe o pastiglie / il volto pulito / sporco di sudore / d’eterno ragazzo». 

Brigida Fagone 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 58-59.