I versi della “ferita”
La luce: il paradigma della nostra cultura. Il punto di riferimento di filosofi, scienziati, letterati, artisti, poeti e creatori di miti.
Prometeo: la personificazione di quel paradigma e del mito che lo raffigura come il conoscere che si identifica con il vedere e il pre-vedere Pro- meteis -, l’eroe che rapì il segreto agli dei.
Prometeo, l’esploratore e il creatore che della luce scopre l’uso del fuoco come fucina e del raggio la funzione di «laser incisore». Il fuoco fa dell’uomo un faber, un poieta e un artigiano. Il raggio-laser ne fa una mano per “ferire” la notte del tempo, aprirne il contenitore e farsi pre-veggente di tutte le possibilità che la realtà virtuale nelle sue interazioni può fare emergere.
Il raggio di luce rapito agli dei, però, in-cidendo si ri-flette, torna indietro e ferisce Prometeo destinandolo al dolore di una ferita, cui la storia ha dato versioni diverse.
Qui prendiamo una delle quattro versioni che circolano sulla leggenda. Prometeo viene condannato dagli dei. Sulla roccia del Caucaso, un’aquila gli becca continuamente il fegato perché la sua ferita-apertura non si rimargini e il suo dolore sia permanente. Il dolore fu tanto che egli si schiacciò così profondamente contro la roccia da diventare tutt’uno con essa.
Memoria della colpa e del castigo? Memoria della “ferita” come processo ininterrotto e infinito intrattenimento presso la fonte delle emergenze del novum? Necessità di farsi tutt’uno con le concrezioni del tempo e impossibilità di sfuggire all’ambiguità e all’ambivalenza della “ferita” come raggio incidente eri-flettente?
Il richiamo del mito prometeico e l’associazione con il poeta Romano Cammarata di Per dare colore al tempo, lungi dal restaurare modelli di lettura moderno-illuministici o romantici, ci sopraggiunge dalla lettura delle poesie dell’autore siciliano, che, come poeta, al pari dell’eroe greco, si intramette nel processo del tempo fattosi pagina bianca. Incisa dallo stile o dalla parola del poeta, la pagina del tempo si fa rappresentazione del processo, che è ferita-apertura, e raffigurazione del suo inscindibile carico concrezionale di dolori-eventi.
I versi che in particolare hanno fatto scattare la molla della associazione sono i seguenti tre di tre testi diversi (versi e testi che per intensità e incisività hanno una loro peculiare seduzione lirica): “pilastri crudeli / piantati nella carne” (pag. 35); “ed io scoglio”” (pag. 83); “I ricordi come sassi” (pag. 92).
Il dolore, che è una delle costanti più appariscenti del libro, come nella leggenda di Prometeo su riportata, ha schiacciato il nostro poeta sino al punto di farlo diventare tutt’uno con la roccia dello “scoglio” e fino al punto che le “ferite” causategli dai “pilastri crudeli” (analogia con le beccate dell’aquila) anziché tenergli viva la memoria gliene pietrificano i ricordi nella concrezione dei sassi.
Il dolore, si potrebbe confermare, come dice una metafora d’uso, uccide l’anima delle persone e la rende – puntualizza il poeta – pietrificata spoglia ob-iecta: “anima appesa ad un chiodo / sono un’anima morta” (pag. 25).
Di straordinaria corposità il primo di questi ultimi versi, il secondo, che si articola nella contraddizione semantica della figura dell’antitesi – «dell’anima morta» -, però, ci ricorda che l’anima di questo poeta non è di pietra né tanto meno morta.
Come, del resto, potrebbe morire l’anima che è psiche, vento, spirito vitale, vita?
Altrove lo stesso poeta, infatti, ci dice che quella stessa anima è i suoni di una chitarra o che ha ” sete di luce”, o che “la vita si arrampica / su per la luce / si scalda di sole / Un grido / mi lacera dentro / mentre scendo / scale d’angoscia” (pag. 75).
Il dolore del poeta, dunque, nella sua ambiguità ha una polifunzionalità vettoriale e una significanza, scandita più dal ritmo del senso che della punteggiatura, che indirizza verso una dimensione che non è solo fisica, psicoanalitica ed esistenziale. Essa è anche ontogenetica. E’ una ferita-apertura che ha una tensione fluente verso l’origine e il tempo, e di questi ha l’oscuro fondo che assorbe e ni-entifica:
«I ricordi
uccelli migratori
tornano sempre
all’origine / … /
cerco un tempo
uno spazio
vecchie dimensioni / … /
Il tempo rotolando
beffardo sulla mia vita
ha dato a me
nuova dimensione
Non trovo i margini
i nomi delle cose
non trovo i simboli
miti realtà
e disperato cerco
vane coordinate» (pag. 51)
Il tempo è ciò che attraversa e scandaglia il nostro poeta come suono e luce che si fa parola. Suono in quanto intermittenza di bassa frequenza. Luce in quanto sequenza ondosa di alta frequenza, a volte “grido”. Parola perché stile / o che ferisce e taglia, dall’interno del flusso, il continuum temporale per spezzarlo, appunto, con la de-cisione e coglierlo nel dran (dramma) dell’evento stesso che destina la vita della persona. Il movimento e la successione dei versi, che simulano, rappresentano e raffigurano l’azione, si fanno poesia che narra i momenti della sofferenza del poeta, del poeta che vorrebbe essere processo e al contempo sottrarvisi. Da ciò il dolore. Quella di Romano Cammarata, infatti, è una possibilità impossibile che permane come costante variabile della vita. Il dolore così non diventa una spia della morte che disgrega il corpo e la mente, bensì il grido della vita che cerca nuovi equilibri, che lotta contro l’oblio, la quiete della morte e del ni-ente.
A questo tipo di percorso, secondo noi, il poeta piega bene, con le variazioni dell’usato, ma rispondenti alla sensibilità del nostro tempo, gli strumenti della inventio, dispositio, elocutio e altri espedienti d’arte, che risultano connessi e articolati sul piano degli assi linguistici.
Cammarata insiste molto, per esempio, con le anafore, le ripetizioni, la dispositio, intra e inter verso, per mettere in evidenza e in primo piano ciò che più lo preme e lo urge, così da evitare che l’assunto di fondo – la dolorosa ricerca – risulti monotona, ripetizione risaputa senza novità e sfumature d’approfondimento.
Singolare, nella sua viva ed efficace rivisitazione, il luogo retorico della definizione che determina, affidandola alla coniugazione del verbo essere, l’identità dell’anima con il proprio di una chitarra e dei suoi suoni:
«Sono l’anima di una chitarra
i suoi sonori accordi
sono le mie vesti
vivo nell’intimo del legno» (pag. 24).
Antonino Contiliano
Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 19-22.