La guerra e le sue vittime: «Quando scoppia la guerra la prima vittima è la verità.» Senatore Hiram Johnson, 1917

       Un vecchio proverbio recita: «Chi semina vento, raccoglie tempesta». Ed è quello che avviene quando si entra in guerra. I nostri detentori del potere, incuranti della volontà del popolo e della Costituzione1, invece di dirimere diplomaticamente controversie e attriti fra nazioni, non fanno altro che schierarsi a favore di una o dell’altra delle parti belligeranti, come è avvenuto per le guerre russo-ucraina e israelo- palestinese, mandando aiuti ed armi, con i conseguenti aggravi sul popolo, “sovrano” nella Carta, ma nei fatti chi subisce le conseguenze di eventuali allargamenti dei conflitti o l’aumento esagerato dei prezzi di ogni genere, compresa la benzina. Una tempesta che vede in crescita i disoccupati, il numero dei poveri e dei senza tetto, e la ricaduta in negativo sugli enti pubblici e privati, la sanità, ridotta agli estremi, la scuola e tutto il resto.
      Il vento della guerra non cessa mai, perché non cessa nelle menti dei potenti l’ingordigia, la sete di dominio e di ricchezza. Ma l’homo omini lupus, ripreso da Hobbes, spesso non fa notizia, non se ne parla e non si sa niente delle tantissime guerre che si combattono nel mondo; interessano ai promotori e a chi sta loro dietro. In ogni caso, la prima vittima a cadere, come scrisse il senatore Johnson, è sempre la verità, accompagnata dalle tante vittime dell’una e dell’altra parte, spesso innocenti che non avevano niente da spartire con la guerra, tolte barbaramente alla vita e all’amore dei propri cari.
       La verità è la prima cosa che in guerra si oscura per insabbiare l’orrore, annebbiare le menti e farle parteggiare. Prima di agire, la stampa e l’etere vengono asserviti e non si fa altro che leggere o vedere immagini contro la parte avversa, con tutti gli orpelli che la tingono di nero; il tutto per giustificare azioni e stragi distruttive e seminatrici di morte. Sicché, dal febbraio 2023 ad oggi, assistiamo ad una danza di notizie, e siamo portati a credere come pecore al pascolo. Si condanna così la Russia, senza conoscere ciò che sta dietro alla guerra, trascinato per anni; si condanna Hamas, dimenticando che gli accampati dal 1948 aspettano una soluzione che ponga fine alla situazione precaria in cui sono costretti a vivere. Ma non si è portati a condannare soltanto, si è spinti anche ad accettare ogni sorta di reazione, bombardamenti a tappeto, senza pietà. Non importa se il tutto ricade sulle popolazioni inermi e indifese. Si arriva così a condannare l’orrore, ricorrendo all’orrore, senza un freno e con il beneplacito di tanti.
      Le grandi potenze e l’America, a parole, si danno da fare e dicono di impegnarsi per risolvere le questioni sul tappeto, ma in concreto non muovono un dito per una pacifica soluzione. Israele è una finestra aperta su quella parte di mondo, e la gestiscono a loro uso e costume. Perciò, vanificata rimane la promessa del costituendo Stato palestinese, promessa nel 1948 e non mantenuta. Così si vuole, così piace. Il «divide et impera» non è cosa passata, d’altri tempi; è attuale, attualissimo, e se ne giova chi sta dietro le quinte, che fa finta di mediare, mentre sottobanco impone.
Stando così le cose, le questioni in campo non si risolveranno mai, ed Eros e Thanatos, la pulsione di vita e la pulsione di distruzione, di freudiana memoria, non avranno pace. Questo i potenti lo sanno, ma curano il loro interesse, dimentichi che, se Thanatos dovesse avere il sopravvento, Eros languirà, e la sua caduta si ripercuoterà su di essi.
                                                                                                                                    S. V.
1 Art. 1: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Art. 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».




 Ricordo di Nello Sàito, utopista anarchico 

L’amara eloquenza del silenzio dello scrittore, così è stata intitolata una lettera che Nello Sàito inviò al «Manifesto» e alla redazione di «Spiragli» e fu pubblicata nel n. 1-4 del 2005. Quella lettera, che sprizza uno sviscerato amore per la Sicilia, sembrò premonitrice di qualcosa d’infausto che cercammo di fugare, pubblicando in quello stesso numero il saggio: Sàito narratore. Un omaggio all’uomo, per dire che non era solo e, soprattutto, un omaggio allo scrittore che nella parola scritta credeva e la professava. 

Nello Sàito, uomo e scrittore, non sopportava la chiusura, il conformismo del senso comune e voleva che si ragionasse seriamente per assumere posizioni nette, precise, che facessero valere l’uomo nella sua individualità e nel suo essere profondo. Voleva che ci si battesse per ciò che nobilita la vita e rende veramente liberi da ogni asservimento cui la modernità spinge con insistenza. Utopia? Può darsi. Ma questo era l’ ideale della sua vita, il sogno per il quale lavorò fino all’ultimo e si batté, a costo di essere solo, di non essere ascoltato e seguito; sogno a cui, novello Bruno, fu abbastanza coerente, tanto da continuare nella sua amara eloquenza. Sì, amara, perché il suo eloquio, più che aprirlo, lo chiudeva, limitandone l’azione, e i molti, tesi solo all’utile, s’allontanavano e di Salvatore Vecchio gli chiudevano le porte, restii a pubblicare i suoi scritti, perché la verità fa male. 

Eppure, nel suo silenzio, continuò a lavorare e a pubblicare (anche in proprio), diffondendo il frutto del suo ingegno tra quanti gli erano rimasti vicini e gli amici, che pure gli volevano bene, come fece con Lutero oggi, in cui riporta una puntuale traduzione di un saggio del riformista del 1545, sconosciuto in Italia. Così, indomito, portò avanti le sue battaglie, anche quando il dolore, che da tempo lo travagliava, non lo lasciava più un istante. Perciò, pochi giorni prima di morire, poteva scrivere: «La staticità della nostra esistenza è la nostra condanna. L’utopia anarchica è la nostra ancora di salvezza.» La caparbietà, che non lo fece scendere mai a compromessi, gli fu di aiuto nel perseguire il sogno di tutta una vita, quello di un nuovo rinascimento in cui l’uomo potesse realmente realizzarsi nella libertà e senza alcun condizionamento. 

Di origine siciliana – il padre era di Licata (Agrigento), la madre di San Cataldo 

(Caltanissetta) – Nello Sàito era nato a Roma nel 1920, ma si considerò sempre, come risulta dalle sue opere, siciliano, ultrasiculo, e non mancò occasione per tornare nella sua terra, sia che si trattasse di un convegno pirandelliano o di un esame di Stato. Portò la Sicilia nel cuore e nella mente, guai a parlargliene male! E andò contro quegli scrittori che, per avere credito tra i lettori, evidenziano sempre i lati brutti, contribuendo a dare di essa un’immagine falsa e stereotipa. 

Laureatosi giovanissimo all’Università «La Sapienza», ottenne alcune borse di studio che gli permisero di andare a Berlino per perfezionarsi in lingua e letteratura tedesca; qui, nel 1942, ricevette la visita dell’amico Giaime Pintor, altro giovane promettente di quella triste stagione di guerra. Tornato in Italia, fu assistente di Natalino Sapegno a Roma, poi professore di lingua e letteratura tedesca all’Università «Tor Vergata». 

Intensa fu l’attività di Nello Sàito in quegli anni. Pubblicò saggi e studi di letteratura tedesca (studiò Schiller, Goethe e i romantici tedeschi, ne tradusse altri, Brecht, Kleist, Lutero) e si diede al giornalismo che – come lui stesso scrive – aveva nel sangue. Ai primi anni ’40 risale la collaborazione a «Roma fascista» (cui collaborarono tanti altri che passeranno a sinistra o saranno considerati tali, come Giaime Pintor), a «Primato», a «Il mondo» di Mario Pannunzio e a vari altri giornali. 

Come scrittore, Sàito esordì nel 1948 con il romanzo Maria e i soldati, che gli valse l’attenzione della critica e il «Premio Vendemmia». Questo romanzo, ripreso 

e ritoccato, venne ripubblicato nel 1970, conservando quella novità e freschezza di invenzione che lo rendono originale, per non essere caduto nella mitizzazione della Resistenza in cui tanti incapparono, visto l’abuso che in campo letterario se n’è fatto. 

Un altro romanzo, Gli avventurosi siciliani, è del 1954, pubblicato da Vittorini nella collana «Gettoni» di Einaudi. Se Elio Vittorini, da buon siciliano, vide bene in questo romanzo, spaesati si trovarono i critici, perché Sàito portava avanti un discorso a due angolazioni, per certi aspetti nuovo, ma tendente a dare della Sicilia un’immagine più rispondente al vero. 

Lo scrittore individua nuove strade e vi rimane coerente, tanto da ripercorrerle con maggiore sicurezza e maestria. Il romanzo Dentro e fuori (1970) è apparentemente diverso dal precedente, perché ne continua il tema ma lo svolge con più consequenzialità. La Sicilia acquista una fisionomia diversa, a seconda se si guarda da dentro o da fuori. Unanime fu il riconoscimento; finalista al «Premio Strega», sempre nello stesso 1970, ottenne il «Premio Viareggio». 

Contemporaneamente alla narrativa, Sàito si diede anche al teatro. Già nel 1969 aveva scritto la commedia I cattedratici ed altre ne seguiranno. L’autore affronta il tema dell’Università in modo critico e accusatorio (Il maestro Pip, 1971), della morte (La speranza, 1978; Déjeuner sur l’erbe, 1980; Com’è bello morire, 1986), delle libertà negate (Copione, la rivoluzione è finita, 1971; Il Pinocchio studioso, 1991). Si tratta di temi attuali, svolti in modo distaccato, umoristico ma non cinico, perché la dolente umanità dell’autore si dipana e tende a nuovi approdi, all’utopia, sede di libertà e di piena realizzazione. 

Quattro guitti all’ Università, pubblicato da Bulzoni nel 1994, è un romanzo che riprende il tema della scuola e degli studi accademici. Ancora una volta, lo scrittore va contro quei cattedratici che si chiudono in sé e non pensano alla funzione educativa dell’insegnamento. Sàito, che conobbe bene il mondo dell’Università, usa parole dure e ritiene i professori responsabili di tanto degrado in fatto di cultura e di società. 

L’ultimo romanzo è Una voce, pubblicato da «Terzo Millennio» nel 2001 ed è, a parere nostro, il romanzo di una vita, perché c’è tutto Sàito, uomo e scrittore, fresco di inventiva, essenziale, profondo, convincente, sprizzante di utopistica anarchia e un sentito bisogno di rendere l’uomo più consapevole e responsabile, capace di puri sentimenti. 

Nello Sàito se n’è andato il pomeriggio del 16 ottobre 2006, in un silenzio nel quale lo accompagnava l’autunno romano, mentre le foglie degli alberi, stremate dalla lunga calura dell’estate, resistevano senza fare rumore. E per la cronaca, mentre, per suo vivo desiderio e per la disponibilità dell’editrice I.l.a. Palma, andava in macchina una nuova edizione della sua frizzante pièce teatrale Il Pinocchio studioso, col vivace monologo finale Il Pinocchio avventuroso. Egli se n’è andato con la parola «Gesù» sulle labbra e la mano nella mano della moglie, come aveva desiderato. Così cessava di vivere la sua vita terrena il fustigatore dei cattedratici e dei politici, l’utopista anarchico, lasciando i suoi scritti e l’esempio di una dirittura morale irreprensibile, vera, con un ‘idea alta dell’uomo e della sua dignità. 

Ora che Sàito non c’è più, venuta meno ogni remora, sarebbe il caso di rileggere le opere e di farle conoscere come una parte di noi che, emergendo, si accetta e si ama. La sua opera appartiene a tutti, per l’anelito di indipendenza e di libertà che trasuda, per l’aspirazione ad un bene condiviso, per il bisogno che è nell’uomo di farsi valere, al di là delle apparenze e delle mistificazioni che lo schiavizzano e rendono anonimo o insignificante. Essa tiene a precisare che la dignità è un bene da tutelare e difendere, a costo di fuggire o chiudersi nella solitudine, come fanno Enrico e Carla di Una voce, che fuggono da Roma cadente e decrepita, salvando sé stessi e la propria umanità, ritrovando il loro essere autentico e vivo. 

Ma, a parte la sua significativa presenza nella letteratura e le prese di posizione nel dibattito politico-sociale, Nello Sàito fu un siciliano rispettoso della sua terra, sempre orgoglioso delle sue origini, pronto a difendere in ogni occasione e, al momento opportuno, altrettanto pronto a denunciare le negatività che oscurano l’immagine della Sicilia e la rendono refrattaria ai cambiamenti; e la sognava autonoma, spiritualmente indipendente, sovrana come nell’antichità, al centro del Mediterraneo, un’altra Svizzera, gestita da uomini non condizionati da politiche centriste ma da siciliani veraci e intelligenti. Questa la sua sicilianità, bella, sinceramente sentita e apertamente dichiarata. 

Vorremmo che Nello Sàito venisse ricordato anche per questo, ma, prima di ogni cosa, che la sua opera fosse conosciuta, perché lo scrittore, il commediografo, il saggi sta, possano emergere nella vera luce e indicare ai lettori quei principi di indipendenza assoluta per cui valse (e vale) battersi una vita. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 3-5.




 I 30 ANNI DELL’ACCADEMIA SICULO-NORMANNA  di PALERMO E MONREALE 

L’Accademia Siculo-Normanna di Palermo e Monreale ha festeggiato il suo 30° anno di attività. Un traguardo al quale il benemerito sodalizio presieduto dal prof. Pino Giacopelli è giunto avvalendosi di studiosi e di esperti di chiara fama, aprendosi al dialogo fra civiltà e culture diverse, coniugando le ragioni della storia e dell’arte con quelle della società, contribuendo in tal modo a sviluppare le potenzialità positive esistenti nella realtà siciliana. I suoi programmi mirano, infatti, a valorizzare l’opera di quanti concorrono al progresso e alla elevazione civile e morale della società, all’affermazione della libertà, della democrazia e della legalità. 

La qualità e la quantità dei Riconoscimenti assegnati dal Senato Accademico in questi 30 anni ad eminenti personalità della cultura, della scienza, dell’ arte e delle professioni con il Premio di Cultura Città di Monreale (alla sua XV edizione) e con il conferimento del Diploma di Accademico Honoris Causa, evidenziano soprattutto la ricchezza ed il fermento del panorama della nostra Isola la quale, se da un lato presenta ancora fenomeni di imbarbarimento, come la mafia che insulta la civiltà, dall’ altro rivela la capacità del nostro popolo a sapere reagire e a portare avanti quel processo di liberazione che agisce in tempi lunghi, ma che (a cura di S. Marotta). ha cominciato a dare risultati significati vi tali da fare immaginare l’avvento di un nuovo Rinascimento. 

Non a caso Pino Giacopelli ama ripetere che l’Istituto Accademico, da lui presieduto, si propone di operare nello spirito delle gloriose Accademie del Rinascimento che, oltre ad essere fucine di arte e di pensiero originali, furono anche innovative ed oppositive. In ogni caso la funzione del sodalizio monrealese non avrebbe potuto avere una funzione di mera conservazione della memoria del passato. Da qui anche la continua ricerca e la realizzazione di rapporti di collaborazione e di cooperazione con Università, istituzioni scolastiche e centri culturali, italiani e stranieri, ed il farsi strumento privilegiato per esercitare quel ministero di verità che è proprio della cultura. 

In occasione della ricorrenza trentennale che si è svolta nell’aula magna del Palazzo Sora a Roma (via Vittorio Emanuele 2 17), è stato conferito il Diploma Honoris Causa al pittore Ugo Attardi, al presentatore della Rai-Tv Pippo Baudo, alla giornali sta Franca Calzavacca, alla poetessa Miranda Clementoni, al diplomatico Antonella Colonna, al pittore Fabrice de Nola, allo scrittore Melo Freni , all ‘ incisore Pippo Gambino, alla poetessa Maria Grazia Lenisa, al critico d’arte Angelo Lippo, al poeta Dante Maffia, al prof. Francesco Mercadante, al giornali sta Vito Sansone. 

Ma la ricorrenza dei 30 anni di attività dell’Accademia, piuttosto che momento di celebrazione, è stata anche occasione di riflessione. Una riflessione iniziata cinque anni fa con l’aggiornamento dello statuto, nel quale si è stabilito, tra l’ altro, che l’Accademia non può superare i 199 membri (è diventata, cioè, a numero chiuso). Tant’è che dal 1974 ad oggi gli accademici italiani “viventi” sono soltanto 

183. Molte, in questo trentennio, le personalità venute da ogni latitudine a ritirare il Premio di Cultura e/o il Diploma Honoris Causa: dalla Francia al Belgio, alla Spagna, alla Germania; dal Kossovo al Perù, alla Bolivia, al Kenia; dagli Stati Uniti al Giappone, alla Russia, alla Georgia; dalla Cina al Brasile; dalla Siria alla Tunisia, a Israele. Per fare soltanto qualche citazione, fra gli stranieri, ricordiamo Rafael Alberti, Eugenij Evtuskenko, Irina Baranchèeva, Dominique Fernandez, Andrée Chouraqui, HisiaoChin, Micha Van Hoecke, Jean-Paul De Nola e fra gli italiani Consolo, Bonaviri, Bufalino, Vasile, Collura, Gioacchino Lanza Tomasi, Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Gina Lagorio, Stefano Zecchi, Renato Civello, Giuseppe Quatriglio, Franco Buffoni, Tullio Tentori, Antonino Zichichi, Renato Guttuso, Bruno Caruso, Alfredo Muzio, Maurizio De Simone, Francesca di Carpinello, Carla Tatò, Carlo Quartucci, Paolo Borsellino, Pietro Grasso, Salvatore Vecchio, l’ex Comandante Gen. dell’Arma dei Cc. Gen. Umberto Cappuzzo, il Commissario straordinario del Governo dei beni confiscati ad organizzazioni criminali dott. Margherita Vallefuoco e lo scrivente. 

Mario Tornello




 Lettera da Motya 

 

Caro direttore, 

ho ricevuto il numero 2 di Spiragli. Ti ringrazio per lo spazio riservatomi alla rubrica «Arte» e per le opere riprodotte le quali, anche se in bianco e nero, conservano misteriosamente la loro forza espressiva. 

La rivista appare chiara, schietta, utile. Ed ha una sua «linea» nei titoli e nei caratteri ed in ciò che tratta. Si vede che nasce con intenti di sana inconsueta forma intellettuale, volta non a interessi di parte ma alla divulgazione della cultura come cibo indispensabile per vivere meglio. Rivista «di servizio» quindi, nella più generosa accezione. 

Il titolo Insieme nella pittura è quanto mai felice. «Insieme» indica unione, compagnia, colloquio, armonia, conoscenza. Ed è ciò che io mi propongo di fare nel mio campo, quello della «pittura» il cui fascino e mistero, da che esiste l’uomo, hanno prevaricato su qualsiasi altra emanazione dell’intelletto. 

Prima di intraprendere – cordialmente insieme – il discorso che tenda a far capire, una buona volta. che cosa è «la qualità» nell’arte (e nella pittura in particolare), consentimi di raccontare a te e ai lettori di Spiragli, l’avventura occorsami in una rapida improvvisa escursione a Motya, l’isola che si intravede appena, in faccia a Marsala. Con questa breve storia, vissuta personalmente, oltre che interessare il lettore per la sua singolarità, spero di dare un modesto ma convincente saggio di cosa io intendo per «chiarezza espressiva», il modo cioè di «raccontare» di se stessi e della pittura in maniera facile e scorrevole, alla portata di tutti. Favole. 

Di Motya (si pronuncia Mozzia, con due belle zeta siciliane?) hanno raccontato e scritto chissà quanti scrittori e viaggiatori venuti da tutte le parti. E quindi, nello scriverne, io non farei alcunché di nuovo, e ti deluderei. Ma è che ho trovato, avvicinandomi all’isola, un elemento così imprevisto ed operante, di così assidua e cocciuta presenza, da mozzarmi il fiato. Sono convinto che la storia di Motya è sì fatta di antichissime felicità o infelicità terrene – che puoi immaginare percorrendo il margine estremo fra la tremula striscia di schiuma salina e gli attoniti gruppi di fichi d’India, fra le pietre bionde e le macchie di estenuato verde cimarolo -, è sì, anche, una storia di morte di bimbi e di uccelli, di agguati e convegni, di sole e di rose tea, ma è soprattutto un’allucinante perpetua storia di vento. Non che ci sia sempre vento; ma qui, ed è questa la singolarità, c’è vento anche quando manca del tutto. 

Mi spiego. Prendo la barca per andare all’isola (il mare rumoreggia lontano, attraverso un tratto d’acqua appena increspata, come fosse un lago). Penso al vento che soffiava durante il tragitto del lungo molo che porta alla barca. Ora è cessato: non lo avverto più nel frenetico sbattere dell’impermeabile sulla gamba. Eppure, mentre la barca scivola verso l’isola, sento qualcosa nell’aria profumata di fresche alghe, e mi guardo attorno. Lui, il vento, sta in giro. C’è, su quel placido corridoio d’acque che unisce Lilybaeum e Motya, uno strano suono: una sorta di nenia che non è né musica, né rumore, né fischio. Forse un ronzio, un roco sibilare, un fruscìo. È il vento che ruota, caprioleggia, punta, guasta. E all’improvviso me lo sento addosso, in faccia, sulla nuca, sulle gambe, mi avvolge, mi spinge, mi fa barcollare. Ed anziché difendermi, trovare qualche riparo nella barca, apro la bocca e lo respiro quel vento, respiro, respiro e me ne inebrio come fosse un miracoloso farmaco. Il cappello è volato via, la barca si inclina, ed io sono lì, incosciente, i capelli bianchi sugli occhi, pervaso da una felicità sconosciuta (per chissà quale sortilegio fenicio… ). Poi il vento riparte, poco prima dell’approdo, e va ad aspettarmi sull’isola. 

Motya mi appare come quei giardini nascosti in cui non sai se c’è più verde o più fiori. L’amenità del luogo mi distrae dal pensiero che sono sbarcato sull’isola che contiene la più straordinaria miniera di resti di antiche civiltà – se appena scavi, trovi – che si possa immaginare. Alberi contorti – che sembrano atleti in lotta, per i rami che si divincolano e strisciano quasi sull’erba – nascondono il padiglione del piccolo museo; mi avvio. Motya è fatta di vigneti (certe viti nane che dicono siano le migliori del mondo), di ameni boschetti, di tenerissime insenature dove mi piace pensare che approdino minuscole galere variopinte, insieme a imbarcazioni moderne dai sottili alberi per tele bianche e arancione. 

Pochi ruderi intorno. Percorro il sentiero che fa il giro dell’isola sull’orlo vicino al mare (trema la frangia bianca che adorna tutta la riva). Ora il vento ritorna, prima furioso, poi cordiale, suadente, ti prende per mano e non ti lascia fino alla partenza. Nei furtivi atrii dei giardini, scopro mosaici quasi intatti eseguiti da artisti che Cartagine inviava a Motya. Alcuni, raffiguranti lotte di fiere, hanno uno straordinario senso dinamico quasi che gli animali fossero anch’essi mossi dal vento. Sono tentato di scavare col dito una stupenda anfora che affiora. O di toccare la finissima polvere delle mura funerarie: è ancora quella dei fanciulli sacrificati nell’orrendo rito pagano. Mi fermo all’ingresso di un piccolo porto, grazioso al pari di un laghetto dell’Olimpo, con pietre pulite e verdi prati che lo circondano, senza tempio. Qui dovettero sbarcare ninfe o regine, o dee, ad attendere un uomo; perché il luogo è il più vasto e soffice talamo che si sia mai visto, e l’aria è purissima. Il vento mi sussurra incredibili storie d’amore. Maschere di satiri e fauni ridono, negli anfratti. 

Ritornare alla barca è come uscire da un incantesimo. Motya si allontana, nella trasparenza che le concede il vento. Prima di lasciare l’isola (dove, si dice, nelle notti senza luna, nel buio fosforescente, si odono fitte variegate musiche di ignoti strumenti), ho guardato oltre una siepe: al centro di un rovo squassato dal vento, lo stelo alto e spinoso di una stupenda rosa tea, era immobile nel sole. 

Carlo Montarsolo 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 5-7.




Virgilio Titone  Uno degli ultimi maestri 

 Il 27 febbraio 1989 è morto Virgilio Titone, grande scrittore, storico, critico, sociologo: uomo onesto, coraggioso, generoso, schivo, veramente libero. 

Era nato a Castelvetrano (Trapani) il 15 marzo 1905. Già nei primi scritti, del 1923 o del 1924, rivelava la sua forza decisa, energica dello stile. Fra i suoi primi libri Critica vecchia e nuova (Firenze, 1932), nel quale mostrava che l’ammirazione per il De Sanctis aveva fuorviato il giudizio dei critici, non avendo quell’autore fatto se non «in moltissimi casi che della psicologia». Seguirono La poesia del Pascoli (Roma, 1933), Retorica e antiretorica nell’opera di Alfredo Oriani (Milano-Napoli, 1933), che il senatore Cian considerò uno scritto eretico, «incredibile, ma titonicamente vero»; allora difese il Titone Benedetto Croce, condannando severamente la denunzia di quel servo del regime fascista (La Critica, vol. XXXIII. 1935, p. 188). In varie circostanze il Croce espresse la sua stima per il giovane Titone e lo incoraggiò; gli scrisse manifestandogli il suo consenso, quando fu sequestrato il libro Espansione e contrazione (Trapani, 1934), con il quale Titone mostrava la contraddizione tra una politica di espansione imperialistica e la fase di contrazione che allora si attraversava. Di quegli anni è anche il volume Giovanni Boccaccio con un’appendice su ser Giovanni fiorentmo (Bologna. 1936), con cui il Titone dimostrava che il Boccaccio era nato a Certaldo, non a Parigi. 

Negli anni quaranta il nostro autore pubblicò Cultura e vita morale (Palermo, 1943), Teoretica della rivoluzione (Palermo, 1944), Il teatro di Racine (Palermo, 1945), Economia e politica nella Sicilia del Sette e Ottocento (Palermo, 1947), La Sicilia spagnola (Mazara, 1948), La politica dell’età barocca (Palermo, 1949). In La Sicilia spagnola fu sottolineato un atteggiamento troppo personale, ma per la sua originalità il libro poté screditare certe idee che per circa due secoli, a partire dall’illuminismo, si erano passivamente accettate sul rapporto Spagna-Sicilia e pertanto ebbe il merito di stimolare a una revisione e a nuove ricerche. Il nome di Virgilio Titone restava legato anche alla Spagna. per i suoi viaggi e fondamentali studi di storia e letteratura, che hanno soprattutto indicato molti elementi del carattere della sua gente, spiegandone così il comportamento, gli atteggiamenti, le relazioni, la politica. Con La Sicilia spagnola aveva inizio una nuova fase nella storiografia siciliana sulla Spagna, che continua fino ai nostri giorni, soprattutto con i contributi degli studiosi dell’Università di Palermo, nella quale il Titone fu per molti anni ordinario di storia moderna e maestro, uno degli ultimi maestri. 

Sebbene egli abbia collaborato come apprezzato elzeverista ai più autorevoli quotidiani italiani, dal Corriere della sera, nei suoi tempi migliori, al Tempo, e alle riviste più prestigiose e particolarmente al Mondo di Pannunzio e alla Nuova Antologia, molte delle sue cose più significative si trovano nelle tre riviste palermitane da lui fondate e quasi interamente scritte, La nuova critica, L’Osservatore, Quaderni reazionari. 

Degli altri libri del Titone ricordiamo: L’Italia oggi (Mazara, 1951), Politica e civiltà (Palermo, 1951), La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (Bologna, 1955), Origini della questione meridionale. Riveli e platee (Milano, 1961), Storia, mafia e costume in Sicilia (Milano, 1964), Storia e sociologia (Firenze, 1964), Il conformismo (Milano, 1966), Introduzione alla rivoluzione francese (Milano, 1966), Machado e Garda Lorca (Napoli, 1967), La storiografia dell’illuminismo in Italia (Milano, 1969), Commento al nostro tempo (Roma, 1972), libri che non poco hanno contribuito alla formazione di molti giovani di diverse generazioni. 

Negli anni 1971-72, in più edizioni, Mondadori pubblicò le Storie della vecchia Sicilia; nell’Avvertenza il nostro autore scrive che quei racconti, o come egli li chiama, le sue storie, «vogliono essere un contributo alla storia dell’isola: una testimonianza della sua anima antica e vera». E questo gli è stato riconosciuto anche dai critici: Indro Montanelli sottolineò nel libro il vigore degli squarci di vita; trovò quei racconti .scritti più con lo scalpello che con la penna» e dichiarò che «per trovare pezzi di Sicilia altrettanto densi e compatti bisogna risalire a Verga», dal quale si dovrebbe fare discendere Titone «in linea retta» (Corriere della Sera, 30 aprile 1971, p. 3). Il solito vizio di classificare e di ricondurre qualsiasi autore ad un altro autore! Da Verga Titone è lontanissimo e ciò risulta evidente proprio dal fatto che narrano entrambi la Sicilia, con uno stile del tutto diverso. L’originalità di Virgilio Titone, riconosciuta nei suoi vari scritti e di diversi periodi, emerge anche e soprattutto dalle sue Storie. 

Negli anni successivi il Titone pubblica Il pensiero politico italiano nell’età barocca (Caltanissetta-Roma, 1975), Dizionario delle idee comuni (Milano, 1976), La società siciliana sotto gli Spagnoli e le origini della questione meridionale (Palermo, 1978), Il libro e l’antilibro (Palermo, 1979), La Sicilia e la questione settentrionale (Caltanissetta-Roma, 1981), La festa del pianto (Caltanissetta-Roma, 1983), Scritti editi e inediti 1924-1945 (Palermo, 1985). Fra i temi ricorrenti ne ricordiamo almeno uno: la critica all’intellettualismo: «Un vero poeta, un vero pittore, scultore, architetto, un medico, un fisico, un biologo, un filosofo, uno storico non possono classificarsi tra gl’intellettuali. Rappresentano la cultura del loro tempo. L’intellettuale infatti è il parassita di questa cultura e lo è per due motivi essenziali, perché dal suo prestigio deriva il proprio prestigio e perché nessun avanzamento della scienza e nessuna opera di scienza o di arte può da lui farsi o pensarsi. Potrà fare il mezzo poeta, il mezzo politico, storico, economista e così via, ma nessuna di queste cose egli farà seriamente e professionalmente. Non cerca la verità, che per altro non lo interessa. Il suo solo interesse si riferisce a se stesso: al suo bisogno di apparire intelligente, originale, spregiudicato. Perciò le sue formule, le sue sistemazioni dell’universo, le sentenze definitive sugli uomini e le cose che lo circondano ci appaiono altrettanto vuote e irreali quanto aggressive» (Dizionario delle idee comuni, vol. I, pp. 233-34). 

Nel 1987 sono usciti, a Palermo, i due ultimi libri di Virgilio Titone, Vecchie e nuove storie siciliane e Le notti della Kalsa di Palermo, dei quali si è occupato fra gli altri Helmut Koenigsberger nel Supplemento letterario del Times del 18-24 dicembre 1987. Scritti del Titone sono stati tradotti in inglese e in spagnolo. 

Tema ricorrente dell’opera narrativa del Titone è la solitudine virile e la ricerca religiosa del passato, qualunque esso sia, anche triste. Alla solitudine e alla ricerca del passato si accompagna la struggente ansia del futuro: «…noi custodiamo i nostri ricordi, lettere ingiallite, lontane fotografie, mute reliquie di coloro che non sono più. Ma un giorno tutto questo sarà distrutto e qualcuno verrà a sgombrarne frettolosamente la nostra casa» (Storie della vecchia Sicilia, p. 101). 

Calogero Messina

da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg. 10-12. 

 




 ELIO GIUNTA, La mia città. Poesie. Con opere pittoriche di Montevago, Spirali, Milano, 2006. 

 

Dovrebbe considerarsi un avvenimento il fatto che Elio Giunta si ripresenti con la poesia, il suo primo amore. In effetti, dopo un lungo esercizio di prosatore che ha fruttato opere di narrativa notevoli e saggi problematici di cultura e di costume, 

ora manda in libreria, nella elegante veste editoriale voluta da «Spirali», trentaquattro testi scanditi in cinque sezioni che non mancheranno di interessare gl’intenditori per la loro singolarità. 

Giunta non è autore di facile consumo e non intende esserlo neppure come poeta, anzi pare proprio che anche questa pubblicazione nasca dietro precisi intenti di proposta impegnata nella direzione di rinnovata fedeltà alla dignità letteraria e umana, quali i tempi oggi richiedono. Pertanto vanno lette e interpretate in tal senso le frecciate nei confronti della cultura che si pratica a Palermo e il distinguo sul fare poesia che oggi andrebbe di moda nei centri del potere culturale in Italia. Dunque un libro che conta anche come intervento critico di un intellettuale non avvezzo a perder tempo sulle carte per farsi bello. Se ne ha sentore se ci si sofferma sui rifacimenti di alcuni testi della lirica greca, scelti quasi con cattiveria. Deve dirsi che la poesia di Giunta attinge a momenti di vita che vengono fissati, interiorizzati e resi motivo di riflessioni universalizzanti. La sua è parola poetica che ci appartiene in quanto viene dal nostro vissuto, che si ripropone in occasioni magari estemporanee, ma che sempre forniscono ricreazioni di immagini e ripensamenti tipici di un’autentica coscienza critica. Si osservi, poi, come ciò che è colto dal reale o che viene dalla memoria si ripropone con versi armonicamente dicibili, anche a volte con recupero del parlare corrente, ma che non smentisce la presenza vigile di un esperto maestro di lingua e di buon gusto. 

La città di cui si parla è Palermo ed è questa che suscita le polemiche del poeta, perché è emblema di quella condizione disumanizzante che purtroppo oggi le città offrono. 

Renzo Mazzone 

A questo punto non ci sembra fuor di luogo richiamare, per il forte spirito di civismo cui è improntato, un poemetto inedito dello stesso autore, letto in un corso di letteratura sul tema «Dante poeta attuale e popolar(Università europea del tempo libero, Palermo). Elio Giunta così ripropone l’invettiva dantesca del canto IV (vv. 76-151) del Purgatorio»

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 62




 Letteratura e stroncature domenicali 

Un buon periodico nasce e si sviluppa per colmare lacune o qualche insufficienza che si riscontra nella stampa corrente e in sostanza per portare avanti un’ idea di fondo che si ritiene necessario affermare. Ne viene fuori pertanto una specie di missione per la quale, ovviamente, occorrono le persone adeguate allo scopo, che abbiano entusiasmo e le relative capacità. Se così non fosse, pubblicare un giornale sarebbe una cosa balzana, destinata al fallimento, come per lo più accade ai molti periodici che qua e là sorgono per subito scomparire. 

Fa notizia a proposito sapere che da un certo tempo va in edicola un settimanale, definitosi di pura cultura, e che rivela un impegno preciso, quello di frenare l’eccessivo predominio delle voci di sinistra nel campo appunto della cultura: un impegno chiaramente di tipo ideologico, ma che si sta a vedere, a sua volta, se anche muove da un’ idea precisa, cioè se ha dietro una sostanza culturale alternativa nei propositi, cui corrispondano uomini e criteri capaci di sostenere una proficua dialettica. Intanto la polemica la fa e su un campo che non può non destare il nostro interesse e sulla quale avanziamo più di qualche concordanza. 

Tempo fa le pagine di detto settimanale – dal titolo Il Domenicale, per l’esattezza, – erano tutte vistosamente impegnate in dettagliate stroncature di opere di autori noti e meno noti che hanno tenuto banco nelle recentissime cronache librarie italiane e che, evidentemente, hanno fatto pensare ad una situazione di canali editoriali ispirati in un certo modo e praticabili secondo determinati rapporti ligi ad un sinistrismo di maniera. 

Da convenire comunque che il discorso di base del direttore del detto Domenicale è decisamente condivisibile. In Italia si stampano troppi libri, ci sono troppi scrittori o soggetti che si definiscono tali, mentre nessuno o pochissimi leggono. E tutti si danno da fare per avere la recensione o la presentazione, e tormentano amici e conoscenti per un rito divenuto ormai inutile e fastidioso. Come sono troppi quelli che hanno magari snobbato a tempo debito la scuola ed ora vogliono salire in cattedra a fare i professori, così sono troppi quelli che coltivano la vanagloria di fare la comparsa nelle vetrine dei librai: anzi; chiunque ha una posizione in qualche modo sfruttabile dal punto di vista mediatico, s’improvvisa scrittore, romanziere, anche se non si accorge neppure che quel che gli è venuto da dire non interessa nessuno. Diventano scrittori i politici in cerca di accattivarsi il pubblico, i tanti distributori di buonismo antidroga ed antimafia come i preti televisivi, lo diventano attori e soubrettes e vari esperti soprattutto di faccenduole piccanti; oggi credono di esserlo i versati alle furbizie delittuose, per cui vengono fuori a ripetizione gialli su gialli, spesso senza buon gusto e sempre ad oltraggio della vera letteratura. Evidentemente a puntare al successo c’è un esercito di cosiddetti scrittori che ci prova, e qualcuno che ha i giusti agganci ci riesce. 

È indimenticabile, per esempio, il caso di certo Faletti, autore di un giallo, un grosso libro d’intrattenimento, letterariamente inutile, ma che, celebrato da un recensore di un periodico come il più importante scrittore del momento, balzava subito in testa alla classifica dei libri più venduti. Citiamo il caso per portarci alle motivazioni di fondo della querelle, cioè la mercificazione del prodotto libro, determinata dalla mercificazione professionale della funzione dei critici, cioè di coloro che dovrebbero onestamente indirizzare i lettori e scoraggiare gli avventurieri della penna. Se si avesse ancora un qualche rispetto per la funzione umana oltre che sociale della letteratura; perché questo è il problema: la valutazione di un libro di narrativa o di poesia non può continuare ad essere affidata a scambi tra amici e conoscenti, all’opera di faccendieri degli uffici stampa dei grossi editori che premono sulle redazioni dei giornali di grido, che a loro volta premono sui critici accreditati e li condizionano. Chi recensisce poi dovrebbe essere persona di tale prestigio (ma ce ne sono?) da non restare acritico servitore di interessi poco conducenti, specie se ideologizzati, ma deve affermare piuttosto dei criteri di valutazione, sicché vadano all’ approfondimento, spesso alla rivelazione di ciò che ci riguarda come esistenza, come vita interiore, come pensiero, come storia. E così distinguere l’alto, il medio, il mediocre e il superfluo. 

Ecco: tornando al discorso del Domenicale, per altro molto apprezzabile per la disinvoltura, riteniamo siano da aggiungere dei suggerimenti su come ovviare all’impasse, smascherando i responsabili. 

L’uno l’abbiamo fin qui dato, l’altro sarebbe quello di denunciare ormai i nomi di coloro che detengono i poteri occulti di tanto scempio culturale, quelli che dirigono le collane delle più note case editrici, esplicitando i loro metodi di scelta e magari la loro ispirazione ideologica o l’essere contro un sincero pluralismo. Nel contempo proporre delle alternative ai gestori delle cosiddette terze pagine dei giornali o delle rubriche dei periodici, espressione delle stesse case editrici, dove attualmente i soliti nomi s’incensano tra loro (e si vogliono accostare gli studenti alla libertà di pensiero della stampa! Figurarsi!); perché combattere l’omertà mafiosa non è solo faccenda di coppole storte, ma anche di cultura che non va per la dritta. 

Elio Giunta

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 3-4.




 La poesia e la fine del secolo (*) 

Questo XX secolo è alla fine. ma con la sua fine non verrà certamente quella della poesia. Direi piuttosto che il peso della poesia e il suo indice di gradimento. oggi, sono più elevati che in altri periodi. Non alludo soltanto alle pubblicazioni, ai convegni che ad essa si dedicano. Penso anche alle citazioni. ai riferimenti che si trovano nei libri di filosofia, di scienza ed arte in genere. Persino i politici ufficiali, durante le interviste e i convegni, amano fregiare i loro discorsi con riferimenti testuali e poetici. 

Tutto questo, naturalmente, per dire, in breve, quanto vitale sia la poesia e la pressione dei suoi sensi e significati, mentre un secolo carico di rivolgimenti planetari e interplanetari ci sta lasciando. La sua scomparsa però non lascia il vuoto e il nulla bensì un carico progettuale che investe di enormi responsabilità tutti e in specie i poeti. Quegli uomini cioè che, comunque, disse Mahmud Derwish, scrivendo poesia nell’era dell’atomica, sono soggetti rivoluzionari. Faccio mio questo concetto e dico che ciò è valido ancora nell’epoca del postatomo, nel tempo cioè delle guerre stellari al laser o nel tempo, il nostro, della distruzione irresponsabile dell’ordine degli ecosistemi. 

Ma non è di questo che desidero parlare, bensì delle nuove frontiere e delle nuove possibilità che questo secolo morente ha aperto alla poesia, e che, secondo me, sono quelle della quasi fusione (fatte salve le differenze) dell’immaginario-reale della poesia con quello della scienza e delle sue esplorazioni, quello dell’interscambio dei loro linguaggi e delle loro logiche teoretiche, una soglia dove si verifica une vento unico: il reale si fa immaginario e l’immaginario si fa reale. 

Un mondo questo, per dirla con Edgar Morin, dove il pensiero autentico si mantiene alla «temperatura» della propria ebollizione e distruzione, e l’incertezza attraversa la «vera conoscenza». Un mondo cioè che vive in una ricerca e in una interrogazione che sono permanentemente fare e crisi: taglio e decisione, specie se il terreno di indagine è quello della complessità in cui viviamo e che in fondo siamo, come un tessuto intrecciato di tanti fili e colori. 

Paradossalmente il futuro della poesia, in questa fine secolo, è stato preparato anche dalla scienza attraverso quelli che possono già essere chiamati i viaggi negli spazi interplanetari e nell’infinito, la cui paradossale dimensione di eterno e temporale è stata sempre cantata dai poeti come una tensione e una ferita ora dolorosa ora felice. Dico paradossalmente perché la scienza, che si è sempre contrapposta al sapere e alle esplorazioni dei poeti e del loro vissuto, oggi, invece, porta concretamente l’occhio, il vedere e l’estetico delle sensazioni dell’uomo in quelle regioni dell’infinito spazio-temporale che era stata la dimora privilegiata dei sogni del poeta. Questo immaginario, con tutta la forza delle sue vibrazioni vitali, ora viene processualizzato e quasi attualizzato senza nulla perdere, però, del suo fascino nascosto e lunare. 

La morte dei secoli, come abbiamo imparato dalle metamorfosi delle cose e della storia, coincide sempre con la nascita e la vita di altre dimensioni e di universi altri. La fine di un secolo è perciò solo una tappa nel transito di kronos e di quella infinita modalità della natura, il cui delirio creativo è stato già cantato da un poeta come Lucrezio. 

La scienza, come il potere delle sue ricerche teoriche e delle sue realizzazioni ai limiti della fantascienza, non solo infinitizza la poesia perpetuandola come creatrice e compagna di viaggio, ma ne chiede, ove gli strumenti euristici le difettano, i mezzi linguistici e logici. Niels Bohr, uno degli scienziati forti di questo secolo nella ricerca della «consistenza» delle particelle elementari e delle virtualità del mondo subatomico, ebbe a dire che quando l’analisi scende a questi livelli, dove cioè non c’è più il vedere e il rappresentare, lo scienziato deve usare il linguaggio del poeta. Gli strumenti euristici cioè della retorica poetica, come le «congetture», le metafore e le analogia, per esempio, se vuole far vedere l’invisibile, dire l’indicibile, finitizzare e determinare l’infinito. 

Cosa di più bello e meraviglioso, nel futuro secolo, di questo connubio felice della scienza con la poesia? I prodotti della loro praxis si somigliano così tanto che possiamo affermare senza scandalo che gli universi del sapere scientifico sono altrettanto derealizzati e fantastici di quelli creati dai poeti che possono quasi interscambiarsi. 

E cosa dire della logica, delle logiche o di quelle loro parti e funzioni come le contraddizioni, i paradossi, le ambiguità, ecc., che ieri erano appannaggio del solo poeta e oggi sono elementi integranti della struttura della scienza contemporanea? 

Proviamo a pensare solo per un po’ (facendo qualche semplice esempio) alle contraddizioni del principio di complementarità dello scienziato atomico quando deve parlare del suo campo di onde e corpuscoli. di continuo e di discreto o discontinuo, al principio di indeterminazione di Heisenberg per determinare posizione e velocità di un elettrone; pensiamo per un po’ al vuoto quantico, alla nuova geometria dei frattali. agli «effetti farfalla. o sensibilità alle condizioni iniziali di certi fenomeni non prevedibili delle scienze del caos, alle loro combinazioni di turbolenza e coerenza, alla chiusura e apertura, dipendenza e indipendenza dei sistemi autopoietici, al tentativo di imprigionare gli eventi stocastici, aleatori e contingenti, e poi chiediamoci se questa non è la logica del paradosso e dell’ossimoro – l’acuta follia – del poeta. L’acuta follia del poeta che cerca di afferrare. di comprendere la contingenza dell’attimo nella sua complessa concretezza: il luogo-tempo-energia dove l’essere e il non essere, la vita e la morte. il gioco delle metamorfosi è una sfida perenne ai confini e l’attimo non è più l’atomo del tempo ma appunto il cum-iangere – la contingenza – di tutte le dimensioni del reale, compreso l’immaginario della poesia. Poesia che dalla fine di questo secolo riceve la linfa di nuove forntiere e nuovi termini linguistici per esprimersi anche in una nuova sintassi. 

Antonino Contiliano

* Relazione tenuta al Symposium per il 29° Incontro internazionale di poeti a Struga il 24 agosto ’90.

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 6-8

 




 Intervista ad Elio Giunta 

(a cura di A. Contiliano) 

Nella recente pubblicazione .Dai margini inquieti. il poeta palermitano Elio Giunta raccoglie in antologia i componimenti più significativi della sua trentennale produzione poetica. 

Antonino Contiliano lo ha intervistato per Spiragli, ponendo domande che, al tempo stesso, mettono in risalto la figura del poeta d’oggi e la condizione della poesia. 

Anzitutto, il titolo ..Dai margini inquietill allude, forse, al tema dell’emarginazione, che è costante nella tua poesia? 

L’emarginazione nella mia poesia è elemento che certo si ripropone frequente, ma più che un tema, cioé una nozione denunciata, è, direi, una condizione di fondo, sofferta ma necessaria, vista più come scelta che come effetto di coazione. In un mondo di eccessiva partecipazione, meglio a dirsi. di eccessiva compromissione della cultura coi persuasori occulti di massa e meno occulti degli apparati e delle cricche, l’emarginazione richiama al vero ruolo del poeta, che è quello dell’intellettuale inquieto, seminatore d’inquietudini, punti di riferimento del possibile, spesso del’opposto. Qui il senso del titolo. 

Come è nata l’idea di quest’antologia? 

È venuta all’editore, come proposta di richiamo alla poesia in un mondo in cui sembra che il suo spazio si faccia sempre più esiguo. I miei testi non saranno tutti buoni, comunque hanno segnato il passo dei tempi, hanno talvolta contratto il rischio della parola comune e molti la gente può leggerli ancora e farli propri, sentire in che misura li anima una dimensione umana. Così li hanno visti presso questa Casa editrice, decisa, come credo, a realizzare un’operazione culturale con una proposta letteraria praticabile. 

Allora, se la poesia oggi ha visto ridurre al minimo il suo spazio, di chi è la colpa? Per quelli meccanismi la poesia è in crisi? 

Premesso che il posto della poesia è stato sempre quello della crisi, con qualche eccezione nei tempi andati. dico che oggi la colpa è anzitutto dei produttori di poesia quali grossi editori e critici accreditati, che mandano in giro operazioni poetiche dirette a nessuno, votate all’autocompiacimento. Gli editori sono serviti assai male dai loro consulenti e responsabili di collane, che gestiscono tutto entro la sfera di pochi amici e di calcolati scambi, tra parolai sofisticati con la testa piena di teorie letterarie per lo più incomprensibili; i critici, in particolare, oggi, dopo le neo-avanguardie, sono in cerca di un’idea della letteratura e quindi della poesia che non trovano o non vogliono trovare. privi come sono di coerenza. Il resto lo fa l’inconscia ma devastante idolatria del tecnologismo detto produttivo. Dunque non andiamo cercando perché la gente non legge e non compra la poesia. 

E tu, come vivi da poeta questo tempo? 

Dici piuttosto da intellettuale: la poesia non è campo d’astrazione o d’artificio, è modo di espressione con cui ci si rivolge agli altri partendo da una coscienza critica del presente. Quindi in poesia si sintetizza ma si incide e, magari, si canta. 

Vorrei vivere questo tempo nella speranza, invece lo vivo da un banco di 

sofferenza e di provocazione. Già, provocazione. Ad esempio, cercheremo sempre di opporci alla mentalità di un pese come il nostro, dove è possibile affidare quasi le ultime sorti ed anche le sorti dei mezzi di diffusione della cultura ad un venditore di gassose e minerali, magari rivestito per l’occasione della tonaca 

del buon pastore. 

Gli intellettuali ancora esistono; e i poeti pure.




 Morte di un Gladiatore 

Non troviamo né la disposizione mentale né, tantomeno, le parole per dire il dolore dovuto alla perdita così inaspettata quanto desolante del socio del Centro Internazionale “Lilybaeum”, del collaboratore redazionale di “Spiragli”, dell’amico vulcanico, buono, Davide Nardoni. 

La notizia della morte ci ha colti di sorpresa, essendosene «andato in punta di piedi». Impotenti dinanzi al triste evento, mentre ci stringiamo, partecipi al loro lutto, attorno alla cara Signora Ermelinda, ai figli e ai nipotini, ringraziamo Donato Accodo che prontamente ha colto il nostro invito a ricordare il compianto prof. Nardoni, essendogli stato per più di un decennio molto vicino come amico ed editore, avendo avuto modo di conoscere, meglio di altri, l’uomo e il grande cultore di latinità che fu o, meglio, è per le opere già pubblicate e quelle ancora inedite che, speriamo, possano vedere quanto prima la luce. 

Se n’è andato in punta di piedi, senza nemmeno darci alla lontana il benché minimo indizio dalla sua imminente dipartita; si può dire ch’è morto in piedi, forte e tetragono qual era, alla maniera dei gladiatori romani, di quegl’indomiti lottatori che amava di un amore smodato e dei quali scrisse in una delle sue tante opere dal titolo appunto I Gladiatori romani, esaustiva e originale in una superba interpretazione storico-filologico-sperimentale, unica e irripetibile, un autentico gioiello del suo multiforme ingegno, oggetto di consultazione e di studio nelle varie università e accademie di numerose nazioni. 

Chi scrive ben sa che la scomparsa di Davide Nardoni è stata una grave perdita per tutta l’umanità. Chi in lunghi anni di sodalizio gli è stato vicino e lo ha seguito in tutte le sue affascinanti scoperte, non può fare a meno di sentire il vuoto incolmabile della mancanza di un uomo che, stravolgendo il metodo di ricerca tradizionale, rivisitando tutte le fonti del passato, infliggeva un duro colpo alla nefasta filologia classica, spiazzandola dal soglio della sua pretesa infallibilità del “principio di autorità”, sempre da lui avversato con fermezza e inoppugnabili argomentazioni alle quali, di certo, non è mancata l’ispirazione degli uomini eccezionali. 

Col metodo anabatico e cotabatico della filologia sperimentale (sorregge il diacronico crivello nardoniano), rifacendosi al significato delle parole che gli uomini prima inventavano e poi impietosamente abbandonavano all’incuria del tempo nel secolare cimitero dei fossili linguistici, egli le ripescava e risuscitava dando loro il giusto posto di connotazione e descrivendone i vari mutamenti e il perché di tali trasformazioni nel ciclo millenario dell’eterno divenire. Con questo suo sistema Davide Nardoni ha ricostruito la storia di Roma e della romanità, volendo dimostrare quanto sia stato infausto alla verità il temerario ardire di coloro che si sono lasciati traviare da pregiudizi con i quali per secoli hanno invano tentato di oscurare la fama dell’Urbe. 

Ora che non c’è più il Maestro di vita e di battaglie combattute insieme nel fervore di dimostrare la fondatezza dei nostri sforzi, saranno in molti a voler ricredersi e a seguirlo nel fascinoso mondo delle sue ricerche, rinunciando a quel perverso “principio di autorità” e alle sue mostruose contraddizioni. Gli daranno ragione e col tempo la grideranno ai quattro venti anche perché e soprattutto perché da morto – credono i sofoni sofastri, com’egli era solito definirli – più non darà loro fastidio, avendo deposto per sempre, nel segreto della tomba, la magica chiave che ha dischiuso le porte a incontrovertibili verità da altri mai nemmeno una sola volta sospettate. Ma la loro è solo illusione, ipocrita illusione di chi avvezzo a denigrare i vivi e a offendere la memoria dei morti! Nessuno potrà mai riuscire a confutare e a stravolgere le sue certezze tenacemente radicate nel più profondo sostrato linguistico della storia dell’umanità, se è vero, come incontestabilmente vero, che nulla è più potente della parola, scintilla di facoltà divina, che tutto eterna col trascorrere dei secoli. 

Nel corso della sua laboriosa esistenza, sorretto da una ferrea volontà e da una competenza di vero e proprio scienziato, Davide Nardoni è riuscito a dimostrare che la storia dei popoli è la storia di quel che la parola ha detto e fatto scrivere senza mai alterare il significato delle proprie origini, se non per deviante volontà degli uomini e quindi per loro crassa ignoranza. Altrimenti, alterando o eludendo questo significato, anche le nostre, prima o poi, diverrebbero origini ignote, insufficienti a farci conoscere chi realmente siamo perché prive di elementi che ci riportano al principio di quando con la parola e per la parola avemmo un nome e, via via, una connotazione in tutta la gamma della sua significatività espressiva. 

La nostra collaborazione e le nostre fatiche non sono cessate con la morte né mai cesseranno, se è vero che questa non spegne la fiamma della verità che ha sempre spinto i generosi a conoscere nuovi orizzonti. Di concerto con Lui di là e noi di qua continueremo insieme a parlarci e a sorreggere finché non avremo compiuti i compiti che ci prefiggemmo di raggiungere sin dal nostro primo incontro, sempre caparbiamente uniti nell’unico desiderio ch’è stato sempre il nostro più grande amore: liberare la storia dalle incrostazioni della menzogna, ritrovare verità sepolte e dimenticate per incuria degli uomini e dei secoli, tramandare ai posteri una visione più chiara e più credibile delle trascorse società per consentire loro di capire quella dei nostri giorni sempre più alla deriva per aver voluto “rompere” ad ogni costo con quel che di meglio c’era della tradizione dei nostri padri. 

Credenza e fede popolari vogliono che per ogni anima che sale in cielo una luce si accende e brilla con le altre: se ciò è vero, è allora altrettanto vero – ci sia consentito almeno per pio desiderio e ancor più per arcano presentimento -, è vero che, nel momento in cui il gladiatore del pensiero e della penna pervenne ai superni lidi del mondo ultraterreno in cui non c’è posto per le passioni e per le meschinità degli uomini, le elette schiere dei trapassati Latini esultarono di viva allegrezza, facendo ala ad un confratello di sì grande ingegno. 

A noi, scrivendo da queste pagine dalle quali Egli ci ha spesso deliziato e illuminato con le sue dotte argomentazioni ora seriose, ora inconfutabilmente vere e comunque tutte di un’acutezza che sa dell’incredibile, a noi piace chiudere l’elogio di Lui con un tacitiano giudizio di uno dei suoi tanti estimatori, il quale, interrompendo un nostro collaboratore che aveva cominciato a intessere i pregi dell’insigne vallecorsano, si espresse dicendo: «Lei non mi parli di Nardoni. Nardoni è un genio». Una breve pausa, e poi annuendo: «Il genio della Filologia sperimentale, il più spaventoso mostro della storia di Roma e della romanità». 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 3-5.