Le Oche Capitoline
Ai giorni nostri, il maschio in fregola di dar della «stupida» alla femmina, se la sbriga appioppando a garbo e sgarbo lo spregiativo «oca!» con grande offesa per la donna e senza riguardo per i pennuti animali quaqquanti che, secondo i Romani, sapevano i fatti loro e non di rado anche i fatti degli altri: cosa di non scarso peso!
Convinti della differenza che divide gli sgarrupati nipoti dai forti padri Romani, questa differenza vediamo anche nelle oche che i Romani urbici, amburbici e suburbici non cantilenavano a dileggio delle femmine se oca=anser in latino di genere mascolino solo ai maschi poteva essere indirizzata e volta a scherno, disprezzo e beffa.
Nell’Urbe ogni anno per la Sacra via dal Capitolio al Foro antico, si sgranava festevole processione a rinnovare il trionfo delle Oche Capitoline celebrate vincitrici dei Galli, salvatrici del Sacro Colle, conservatrici di Roma, dei Romani e di tutta la Romania in barba ai capelluti Galli dalle Gallie in Italia per le Alpi tracimati a far ruine e a menar danni per le regioni e per tutte le contrade della Padania, della Tuscia e del Lazio antico.
Andava accomodata in ricca lettiga un’oca addobbata in tunica stragula: e un corteo la seguiva pompatico al canto dei «triumphalia» con accompagnamento di tube, tibie e flauti a doppia canna: «incentiva» e «succentiva».
Triste seguiva un cane che non sapeva di dover morire di croce: si premiava l’oca per le antiche sue comari che starnazzando allarme avevano salvato il Capitolio; si puniva il cane per gli antichi suoi compari che se la dormivano della grossa mentre i Galli scalavano la Rocca per occupar di notte il Colle che non riuscivano a prendere di giorno, come a dire: la tenebra aiuta, la luce tradisce!
Nell’Ekumene Mediterranea e fuori fiorivano storici bilingui che, credendo alle Oche Capitoline, la leggenda tramandavano e illusi s’illudevano d’illudere i semplici sempre in attesa di farsi illudere per illudersi, e questo non gioco ma la verace realtà umana.
Nonostante le belle parole degli storici e le loro dotte e per Giove Capitolino laboriose elucubrazioni, la Filologia Sperimentale non fa credito e non presta fede alla leggenda delle Oche Capitoline per non farsi illudere e per non continuare a ficcar nel caleidoscopio altrui false credenze: le leggende.
Nel tentativo di scoprire le motivazioni della leggenda la giustificazione della Taratalla.
I Galli di Brenno, occupata l’Urbe e massacrati in giro i Senatori e tutto per colpa di Papirio che non si era fatta crescere la lunga barba bianca perché barbaro nemico in fregola di tenerezze gliela lisciasse, ponevano assedio il Capitolio.
Solitario il Capitolio tra gli altri Colli levava forma di mammella: «Roma»1, con il Foro Antico e il Palatino ad oriente, ad occidente con il Campo di Marte, con il Quirinale all’aquilone e a mezzogiorno con l’Aventino e con il Tevere: «Ripa Sinistra seu Ripa Romana» in quel punto tagliato dalla Tiberina in due rami di corrente impetuosa e di rapide schiumeggianti.
I Galli insistendo nell’assedio si logoravano nell’attesa della resa. I Romani assediati non volendo far cosa grata al barbaro nemico continuavano a guardar i Galli dall’alto al basso e, data l’altezza del Sacro Colle, non potevano fare diversamente e, data la petulca indole di quella gente, non avrebbero mai fatto diversamente.
I Galli non potendo spuntarla di giorno decidevano di provare di notte. Di notte i Galli lanciavano l’attacco generale ma non raggiungevano l’obiettivo prefisso. Sugli spalti dormivano le sentinelle: «vigiles», dormivano i cani: «canes», con i musi tra le zampe davanti ma per grazia di Giove Ottimo Massimo Capitolino vegliavano le oche: «anseres», animali ai quali chi riconoscerebbe valore, coraggio e comprendonio? Facevano confusione le oche all’avvicinarsi dei Galli e starnazzando svegliavano le sentinelle.
Al quaqquare delle oche si svegliavano le sentinelle e gettavano l’allarme e sui bastioni e su gli spalti della Rocca accorrevano gli uomini d’arme a ricacciare i Galli sulle basi di partenza. Così le oche salvarono il Capitolio, salvarono Roma e con Roma fu salva la «romanità» e con essa l’umana civiltà sulla faccia della terra. Il fatto d’arme passò alla leggenda, si gridò al miracolo delle oche e le mamme romane che amministravano l’educazione dei figli: «liberi sub imperio matris», ai figli e nipoti raccontavano il fatto delle oche; così si raccontava allora e si racconta ai giorni nostri nei quali maestri annoiati e maestre insonnate espongono ad alunni annoiati e insonnati il miracolo delle Oche Capitoline; e tutti contenti del racconto perché le favole deliziano tutti e chi le racconta e chi le sente.
Anche noi al nostro tempo credevamo alle Oche, ora alle Oche non crediamo più per due ragioni: la prima gagliarda quanto la seconda gagliarda non meno della prima. «In primis»; non essendo il Capitolio l’Arca di Noé come credere alla presenza di Oche in vetta al Sacro Colle? «In secundis»; come credere al sonno delle sentinelle: «vigiles» se i legionari delle Forze Combinate Romane non godendo della libertà concessa ai soldati «co’filo» e «senza filo» di re Franceschiello con buona pace degli amici del regno e con tema di tutti i Napoletani in genere e in particolare dei buoni Borboni del Reame, non potevano impunemente darsi al sonno in braccio a Morfeo durante il turno di guardia.
Negli accampamenti: «castra», nelle mansioni: «mansfones», nelle sedi: «secies» e nelle stazioni: «staziones» si montava di guardia di giorno, si smontava di notte; nella fattispecie, interessano i turni della notte: quattro turni di tre ore; il primo dalle 18 alle 21; il secondo : dalle 21 alle 24; il terzo: dalle 24 alle 3; il quarto e ultimo; dalle 3 alle sei del mattino. Durante il turno, il legionario vegliava, non poteva dormire. La sentinella stringeva nella destra la tessera che ex.gr., recitava: «IV HAST. II. VIG.» = «Quarto degli Astati Secondo turno» e per tre ore teneva alta la destra con l’indice teso nel gesto dell’«index sublatus» per mostrare ai cavalieri della ronda: «circuitores», d’essere sveglio2.
Le pene comminate ai rei di lesa disciplina escludono che sul Colle Capitolio le sentinelle «vigiles» si fossero addormentate in braccio a Morleo e se le sentinelle erano sveglie come potevano le Oche svegliare chi già sveglio? La leggenda negata dalla seconda ragione non più importante ma migliore della prima. Tutti i reparti legionari sulle picche levavano l’insegna: «imago» dell’animale simbolo dell’unità combattente.
La «Quinta Legio Gallica» levava l’«Alauda»; la «Quinta Legio Macedonica» alzava il «Taurus»; la «Trigesima Legio U1pia» aveva a simbolo il «Capricornus» e così facevano tutti i reparti: manipoli, coorti, legioni.
I Romani mancavano di fantasia ed erano «ope naturae» restii agli innovamenti. Perciò anche il reparto di guardia al Capitollo sulla picca alzava l’animale simbolo del reparto: l’oca, per il suo attaccamento ai luoghi e a persone nota ai Romani ancor prima che l’austrese Lorenz la ponesse al centro delle sue ricerche. Le sentinelle del capitolio: «vigiles» venivano chiamate: «anseres» = «oche» e non per dileggio come fa l’italica gente quando offende il prossimo femminino con lo spregiativo: «oca!» e non sa quel che dice e non imita i padri Romani che alle sentinelle: «anseres» = «oche» tributavano onori di trionfo e feste di gloria e l’oca. simbolo della memorabile difesa della Rocca Capitolina portavano in trionfo per la «Sacra via», discendendo dal Sacro Colle che da sempre mai leva fiaccola di civiltà agli occhi e alla mente di chi crede nella missione eterna a Roma assegnata dal «Fatum» nel suo imperscrutabile disegno che esclude avversari e negatori ma accetta pertinaci, contumaci e petulci contestatori a sua maggior gloria e solida glorificazione3.
1. D. Nardoni, «Spiragli», Anno I, n. 4, 1989, pagg. 8-10.
2. Id., I gladiatori romani, E.I.L.E.S., Roma, 1989, pagg. 101-108.
3. Fatum: non «destino» come inteso o dato per inteso, ma la «Parola» divina che nella sua onnipotenza designava il mondo universo e non ci sarà uomo capace di stravolgere il suo disegno. Ciò obbliga a rivisitare la teologia romana che da politeista (impropriamente intesa) passa a monoteista (propriamente intesa) con scorno dei sofoni che credono alla prima per non aver neppure intravisto la seconda teoria propria della Filologia Sperimentale.
– D. Nardoni, Sotto Ponzio Pilato. E.I.L.E.S., Roma, 1987, pag. 101, n. 38.
Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 8-14.