EDITORIALE 2

“Spiragli” riprende la sua pubblicazione, colmando un vuoto di due anni. A partire dal 2005 la rivista inizierà una nuova serie con orientamenti più marcatamente letterari. Ampio spazio sarà riservato alle recensioni, che saranno curate dallo scrittore e critico letterario Donato Accodo, mentre le rubriche “Notizie e Opinioni” e “Schede “, rispettivamente, da Salvo Marotta e Ugo Carruba. 

Questo numero pubblica le relazioni deLL’incontro sul tema: «La cultura della guerra e il ruolo dell’intellettuale», tenuto a Marsala l’11 dicembre 2004 dal Centro Internazionale di Cultura “Lilybaeum“, che vuole così contribuire all’allargamento del dibattito su temi come questo tra persone di diverse estrazioni politiche o semplici cittadini, desiderosi di sentire o di esprimersi, di capire piuttosto che subire i continui martellamenti condizionanti dei media. Fermi nei loro propositi, essi ritengono più efficace, al di là di ogni altro mezzo, il dialogo, capace di risolvere le controversie, di avvicinare gli uomini e di restituire loro la pace, la solidarietà e il rispetto. Miracolo della parola che, a dire di Gorgia, pur con «un corpo picciolissima e invisibile compie le opere più divine». 

Salvatore Vecchio 




Editoriale

Il 22 Febbraio ’92 la Provincia Regionale di Trapani fu al centro di una giornata di studi di grande interesse che richiamò l’attenzione di uomini di scuola e della cultura. 

La manifestazione si svolse in due momenti, tra essi collegati, proprio come quando alla teoria vien fatta seguire la pratica. 

Nell’Aula Magna dell’Istituto tecnico Agrario A. Damiani di Marsala, gremita di un folto e scelto pubblico, proveniente da diverse parti della Sicilia, il prof. Davide Nardoni, dell’università di Cassino, teneva a battesimo il Centro Internazionale di Cultura “Lilybaeum”, sorto proprio a Marsala, soffermandosi nel suo discorso sullo stemma scelto (la “nave punica” contornata da scritta greca e latina) che rifà « nel toponimo di Marsala e nello stemma in stringata energica sintesi la storia di Marsala “, città che Cicerone definiva «“candidissima et ventosa civitas“, nei due attributi latinamente raccogliendo i dati della chorografia e dell’indole degli abitanti di Lilibeo >>. 

L’elogio cadeva su Marsala, ed evidentemente sulla sua Provincia, aperta ai richiami della cultura e dell’arte; di ciò bisogna dare atto ed essere riconoscenti. 

Il prof. Nardoni, dopo l’esordio, delineava le finalità del Centro: «In quella nave e nelle due scritte: la greca e la latina, racchiuso il messaggio del Centro pur mo’ nato: tutti i rami dello scibile devono aver stanza stabile nelle sue attività in una solida risonanza di accordi e comunanza di intenti per una più ampia diffusione della cultura e dell’arte; i problemi dell’Isola, della Provincia di Trapani, della Città di Marsala e dei Lilibetani devono aver la preminenza su tutti gli altri come si addice a Voi tutti che amate la vostra Città quanto più non si potrebbe”. Un modo, questo, perché – concludeva « i cittadini di Marsala vadan fieri di questa città, vaso e paniere di “romanità”, come una volta i “cives Romani” andavano fieri di Lilybaeum>>. 

La prolusione inaugurale, dal tema: Letteratura e vita“, è stata tenuta dal prof. Calogero Messina, dell’università di Palermo. 

Il relatore esordiva mostrando la difficoltà (spesso è facile cadere nell’errore) di una definizione della letteratura e i suoi legami con la vita. 

Il prof. Messina affrontava, poi, l’interessante tema dei rapporti tra letteratura e storia. La letteratura, meglio delle carte di archivio, è un documento aperto, palpitante di vita, di cui non si può fare a meno, specie quando si vuole delineare bene un quadro di un’epoca. Ma di una cosa metteva in guardia, e cioè che la letteratura non deve essere mai strumento di condizionamento della vita degli uomini. « C’è gente – diceva – che tutto sacrifica alla moda, rinuncia persino al proprio gusto, indossa un vestito che non è di suo gradimento, si rassegna alle scomodità, accetta le cose che fanno male alla sua salute, solo perché quel vestito, quelle scomodità, quelle cose son di moda: che direbbe la gente?>> 

E così c’è gente che si fa anche impressionare dalla letteratura, sbagliando, perché la vita offre e presenta sempre qualcosa di nuovo, di imprevisto, di diverso. «Nella letteratura, però, – concludeva Messina – l’uomo potrà sempre trovare una compagnia, tante spiegazioni, e potrà ricavare da essa una carica ideale>>. 

Si passava, così, alla seconda fase della serata, a quella operativa, con la presentazione, a esempio di quanto si era detto, di unafigura rappresentativa della scena letteraria e culturale del nostro tempo: Romano Cammarata, la cui opera è frutto di una vita ‘vissuta” e, pertanto, è letteratura nel senso più nobile del termine, e poesia. 

Se nella letteratura l’uomo dovrà cercare «una carica ideale>>, l’opera di Romano Cammarata è una miniera inesauribile di risorse morali e sociali, è fonte di arricchimento spirituale, ma è anche poesia che eleva gli animi in una dimensione di umana dignità e fa apprezzare la vita, nonostante gli affanni e le miserie di questo mondo. 

A distanza di un anno, il Centro Internazionale di Cultura “Lilybaeum”, che già si proponeva di raccogliere i lavori di quella giornata, ne assolve l’impegno (grazie a Spiragli, divenuta ormai suo strumento di divulgazione culturale), pubblicando le relazioni e gli interventi, integrati da prose e poesie edite e inedite e da testimonianze che mettono a fuoco la portata umana e artistica di Romano Cammarata. 

Le illustrazioni, riproducenti alcuni suoi lavori in rame sbalzato, contribuiscono ancor meglio a dare risalto alla poliedricità dell’artista siciliano. 

Così dedichiamo questo numero alla figura e all’opera di Romano Cammarata, rendendo omaggio non al dirigente della Pubblica Istruzione ma allo scrittore, al poeta e all’abile cesellatore o, meglio, dedichiamo questo numero al funzionario di Stato Romano Cammarata che, nonostante l’impegno profuso nello svolgere il suo non facile lavoro, riesce anche a trovare il tempo per dare sfogo con la sua creatività al mondo che si porta dentro, offrendoci il meglio di sé in opere di alto valore umano e poetico. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 5-6.




1989-1999

Dieci anni non sono pochi per una rivista che si pubblica senza scopo di lucro, con amore e tanta dedizione. Mario Pomilio, in una lettera dell’8 settembre 1989, poco prima di morire così mi scriveva: <<Caro Salvatore Vecchio, ho ricevuto ed esaminato (con un po’ di ritardo, dato il periodo estivo) il primo numero di “Spiragli”, e mi affretto a ringraziarla per l’omaggio della rivista, sulla quale, si sa, non potrei per il momento che dire poche parole provvisorie, dato che una rivista si definisce sempre cammin facendo, anche se le intenzioni iniziali sono chiare. A lei, ai suoi collaboratori, auguro intanto buon lavoro, e molto coraggio, ché ce ne vuole per far durare simili imprese>>. 

Ci vuole molto coraggio! Ed è quello che ancora mi auguro di avere, perché la rivista “Spiragli” venga pubblicata e diffusa tra quanti la conoscono e l’apprezzano, in Italia e all’estero. 

Con la nuova serie, oltre alla copertina che in parte sarà diversa, “Spiragli” cambierà volto. Si interesserà più da vicino di letteratura italiana e straniera e darà più spazio alle recensioni e alle schede. 

Ringrazio gli amici della redazione (Accodo, Salucci, Contiliano), i collaboratori tutti e quanti ci seguono e vogliono il bene della rivista. 

SalvatoreVecchio




Deleterio fondamentalismo

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Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 4.




 Calogero Messina, scrittore delle attitudini umane 

Parlando di Calogero Messina non posso non andare indietro nel tempo, per risalire ad un’amicizia più che ventennale, legata dal comune interesse verso la letteratura e l’arte. 

Sono ormai lontani gli anni caldi del ’60, quando negli androni della sede centrale dell’Ateneo palermitano parlavamo di poesia e di poeti, di progetti e di iniziative che ci avrebbero visti costantemente impegnati. E mentre amici e colleghi, come un gregge di sbandati (nel frattempo la Facoltà di Lettere era stata trasferita nell’attuale cittadella universitaria), vivevano quei giorni del ’68 palermitano, girovagando e discutendo per i corridoi, una volta venute meno le concitate assemblee e le proteste, un gruppo di giovani, tra cui Messina, Cangelosi e altri, di cui poi non ebbi più alcuna notizia, studiava la possibilità di pubblicare un libro (Motivi del nostro tempo), testimonianza dell’impegno non solo socio-politico, ma artistico-letterario che animava quegli anni. 

La laurea e l’insegnamento ci fecero perdere di vista. Ricordo che con Calogero Messina ci rincontrammo una decina d’anni fa nell’ufficio di un editore: era passato tanto tempo, ma l’interesse e l’amore per l’arte rimanevano immutati, anche se l’amico Messina aveva optato per gli studi storici. 

Calogero Messina è nato a S. Stefano Quisquina il 24 novembre 1945. Per continuare i suoi studi, a dieci anni si trasferisce a Palermo con i genitori e la sorellina, ma soffre molto la lontananza del paese natio, come documentano i suoi scritti. Frequenta le scuole della grande città e si distingue per intelligenza e serietà. 

Nel 1966 consegue la maturità classica al Liceo «Meli» con i risultati più alti: la sua versione di greco è giudicata la migliore dell’Istituto. Si iscrive al corso di Lettere Classiche dell’Università di Palermo. I classici greci e latini gli sono congeniali, in primo luogo i poeti; è avvinto dai valori di umanità e di arte che esprimono e ricerca la poesia anche nel mondo che lo circonda. . 

Calogero Messina è apprezzato per la sua formazione e solida cultura umanistica. Ancora studente universitario, comincia a tenere conferenze nella capitale e in diversi paesi della Sicilia, e a pubblicare. Ricordiamo il suo discorso sull’.Elegia lirica nel mondo classico», tenuto al Club Magistrale di Palermo il 19 maggio 1969; la pubblicazione del suo epigramma epitimbico, in greco classico, negli «Annali del Liceo Classico «G. Garibaldi» di Palermo (1968-1969) per la tragica morte del suo professore di greco, al quale dedicherà poi un libro: il Messina, infatti, si distingue anche per la sua eccezionale sensibilità, per la sua umanità e nobiltà d’animo. Pubblica altre poesie in diversi giornali e riviste e nell’antologia da lui stesso curata con la collaborazione di C. Cangelosi, Motivi del nostro tempo (Palermo, 1968). Nel 1970 si laurea in Lettere con la lode, con una tesi sulla poesia bucolica, e col massimo dei voti consegue, nel 1971, il perfezionamento in letteratura latina; nello stesso 1971 può addirittura pubblicare un suo scritto nella prestigiosa rivista specializzata Athenaeum: la cosa sorprende per la giovane età dell’autore. Comincia a insegnare latino e greco nei licei. 

Vive a Palermo, ma la sua mente torna spesso al paese natio; comincia a ricercarne la storia; nel 1972 pubblica S. Stefano Quisquina. Studio storico-critico (Palermo, Manfredi Editore), un’opera che ha un grande successo, considerata un fondamentale, esemplare contributo alla storia comunale, apprezzata dai più esigenti rappresentanti del mondo accademico (da Virgilio Titone a Francesco Brancato). E grazie a quell’opera, di S. Stefano Quisquina, un paese prima dimenticato o di cui nel dopoguerra si era parlato per certi episodi di criminalità (tutti ricordano il sequestro del Barone Agnello), ora si comincia a parlare in positivo nei giornali; per merito del Messina, il paese entra nel circuito culturale. E con quell’opera il Messina entra nell’Università di Palermo, presentatosi ad un concorso per titoli ed esami, e comincia a svolgere la sua preziosa attività nell’Istituto di Storia Moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia, dove insegna tuttora. Continua a pubblicare: Lu Recitu di S. Stefano Quisquina (Agrigento-Palermo, 1973), che presto diventa un classico, imitato e citato dai cultori di tradizioni popolari; La Quisquina (Palermo, 1973), che ebbe il grande merito di richiamare l’attenzione verso quel luogo, che andava «protetto, restaurato, e soprattutto valorizzato», come ebbe a scrivere nella sua recensione al libro don Biagio Alessi nell’«Amico del Popolo» del 9 settembre 1973, ricordando il furto delle tele di quella chiesa, avvenuto qualche tempo prima. 

Il discorso sulla tradizione popolare porta il Messina ad affrontare il tema più ampio della poesia in generale e nel 1973 pubblica l’originale e coraggioso scritto Poesia e critica e l’antologia Voci di Sicilia: di qualche anno dopo, del 1976, il manifesto letterario da lui fondato, «L’Orma». Così Tommaso Romano ricorda quell’evento: «Il 28 marzo 1976 un noto e apprezzato scrittore, Calogero Messina, dell’Università di Palermo, al Jolly Hotel di Palermo, affollato da un pubblico qualificato, presentava il suo Manifesto Letterario «L’Orma», edito dalle Edizioni Thule. L’interesse da esso suscitato fu immediato: venne accolto con inconsueta speranza, come un segno di luce in una notte d’incertezza e d’avvilimento, per la confusione diffusa del gusto. Artisti e scrittori giovani, ma anche di altre generazioni, non ancora soddisfatti delle esperienze da loro vissute, sottoscrissero il Manifesto… «L’Orma» s’impose all’attenzione soprattutto per l’esaltazione della libertà, della poesia e per l’affermazione del poeta come uomo totale; favorevoli furono i giudizi della stampa, nelle riviste culturali, filosofiche, politiche; interesse espresse anche l’Ordine Nazionale Autori e Scrittori. E per primo il Messina, raro esempio di poeta nato e di studioso profondo, ha continuato la sua opera intensa, altamente culturale, con la massima coerenza ai suoi principi. E a questi si sono ispirati non pochi critici dei nostri giorni, anche se non hanno sottoscritto ufficialmente il «Manifesto» (Sintaxis, gennaio-febbraio 1983). 

Ma proprio perché la sua libertà non fosse minimamente scalfita o insidiata, il Messina ha continuato a sottrarsi per lunghi periodi alla pubblica attenzione per condurre altri studi; le sue apparizioni sono sempre molto attese. 

Nel 1974 il nostro Autore pubblica Domenico Scinà e la letteratura greca di Sicilia: nel 1975 il commento al De senectute di Cicerone e l’originale monografia T. Calpurnio Siculo (Padova, Liviana Editrice), sulla quale il celebre filologo Raoul Verdière, in una lettera da Bruxelles del 10 dicembre 1975, gli scrisse di trovarvi «une finesse et une sensibilité que, d’habitude, on ne rencontre pas dans nos études». 

In quegli anni il Messina già dirige la collana di letteratura «I Dioscuri» del Centro Culturale «L. Pirandello» di Agrigento. Negli anni successivi pubblica il commento al De otio di Seneca (Palermo, 1976), Voltaire e il mondo classico (Palermo, 1976), molto apprezzato dal celeberrimo Pierre Grimal; Ritratto di Eugenio il Poeta (Roma, 1976), che il latinista Luigi Alfonsi trovò «scritto con simpatica penetrazione dell’animo di Eugenio» (Lettera del 1° gennaio 1976); Montesquieu e l’antichità greco-romana, negli «Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo», 1977. 

Pure nel 1977 del Messina esce la classica opera Il caso Panepinto (Palermo, Herbita); alla distanza di otto anni pubblicherà In giro per la Sicilia con «La Plebe» (1902-1905). Un giornale dell’Agrigentino introvabile (Palermo, Herbita, 1985): due libri molto apprezzati dalla critica per il rigore scientifico, fondamentali per ricostruire la figura del Panepinto, ignorato o frainteso prima che se ne occupasse il Messina, che dunque ancora una volta apriva una strada nuova; non sarebbero mancati, al solito, gli approfittatori. 

Nel 1978 il Messina pubblica una sua Lettura del Villabianca, nell’«Archivio Storico Siciliano»: presenta un altro saggio all’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo nel gennaio del 1979 e viene pubblicato negli «Atti» del 1980, La Mettrie e Diderot. Il Messina ormai, oltre che per i suoi libri, la sua collaborazione a giornali e riviste nazionali e internazionali, per la sua fama di storico e la sua attività di docente universitario, per le sue conferenze, è conosciuto per le sue trasmissioni televisive di storia e letteratura. Nel 1980 pubblica Settecento italiano classicista e illuminista e Giordano Ansalone in Sicilia, nel quale si possono leggere per la prima volta i documenti fondamentali relativi alla presenza del Santo agrigentino in Sicilia, scoperti dallo stesso Messina; al libro è dato ampio spazio in riviste e giornali di grande prestigio, quale «L’Osservatore Romano». 

Ma Calogero Messina è anche un appassionato e curioso viaggiatore; ha viaggiato per tutta l’Europa; ultimamente è stato a NewYork e in Messico, dove ha tenuto delle conferenze. Il suo primo viaggio fuori dall’Italia risale al 1969, quando il grande grecista Bruno Lavagnini lo mandò in premio in Grecia e qui il Messina ama tornare. Nel 1979 si è recato in Spagna e Portogallo e nel 1981 ha pubblicato il libro Viaggio in Spagna e Portogallo dalla Sicilia. 

Nei suoi viaggi il Messina ricerca soprattutto la società, l’uomo; non dimentica mai la sua Sicilia, che non ritrova solo negli archivi, ma soprattutto nella nostalgia, dal confronto con altre terre. Alla Spagna ha dedicato ancora i due saggi su Umanesimo nella Spagna «ilustrada», pubblicati nel prestigioso «Boletìn de la Biblioteca de Menendez Pelayo» (1981-1982), e il volume Sicilia e Spagna nel Settecento, pubblicato nella collana «Documenti per servire alla storia di Sicilia della Società Siciliana per la Storia Patria, nel 1986; il suo tema, ha scritto al Messina Helmut Koenigsberger, Professor del King’s College di Londra, non era stato mai trattato prima – certamente non con la ricchezza del materiale che il nostro Autore ha trovato proprio in Spagna (Lettera del 28 febbraio 1986); Giovanni Allegra ha sottolineato la capacità del Messina di documentare le attitudini «mentali» («Il Giornale», 7 settembre 1986). 

Nel 1981 lo scrittore pubblica Giuseppe Ganci Battaglia Poeta delle Madonie, la prima monografia su quel rappresentante della letteratura siciliana; nel 1982 Il contributo di Ignazio Scaturro alla storiografia municipale: oltre l’erudizione, in .Archivio Storico Siciliano» e Figure siciliane (Herbita), a proposito delle quali Virgilio Titone ha scritto che l’anima del Messina «vive della memoria, nella fedeltà alla sua terra, ai suoi figli più umili» («La Sicilia», 6 gennaio 1988). Ha così inizio la prestigiosa collana «Sicilia ieri Sicilia oggi» dell’Editrice Herbita, ideata dallo stesso Messina, e nel 1983 il nostro Autore pubblica l’opera, anch’essa ormai classica, Immagine della Sicilia. 

Così ha scritto Provvidenza Bonura Ferrante: «Il volume che, pur senza averne il titolo, è in realtà una vera e propria piccola enciclopedia, è dovuto all’ esperta penna di un valoroso studioso, Calogero Messina, che con quest’opera apporta un deciso, coraggioso mutamento nell’indagine metodologica, facendo brillantemente convergere le informazioni di carattere etnografico, filologico, artistico, letterario e storico alla realizzazione della corposa struttura del testo» (Archivio Storico Siciliano, 1984). Nello stesso 1983 lo storico cura la riedizione, con suo saggio introduttivo e aggiornamento, della classica opera di Luigi Tirrito, Sulla Città e Comarca di Castronuovo di Sicilia, dando un nuovo, decisivo impulso alla migliore storiografia municipale, della quale il Messina è considerato uno dei più autorevoli rappresentanti. Nel 1984 cura la pubblicazione di un inedito di Giuseppe Ganci Battaglia, La vita di Gesù in versi siciliani e nel 1985 pubblica Sicilia 1943-1985 (Palermo, Ed. Grifo), in cui, come ha scritto Bent Parodi, il Messina «ha carpito l’anima segreta, il sogno del vecchio reporter e ha significativamente prestato la sua mano di scrittore alle foto di Martinez, per un modello raro di simbiosi» («Giornale di Sicilia», 30 dicembre 1985). 

Negli Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo del 1985 è apparso il saggio Il viceregno di Spagna in Sicilia e Messico, la relazione del Messina al Seminario Internazionale «Sicilia-Messico-Lombardia» (6-8 giugno 1985). Nel 1985 la Società Siciliana per la Storia Patria ha pubblicato l’antologia Scritti editi e inediti di Virgilio Titone con una Nota di Calogero Messina, molto apprezzata dalla critica. 

Nel 1987 lo scrittore pubblica il suo settimo libro su S. Stefano Quisquina, Una chiesa nel cuore, nella cui presentazione scrive fra l’altro il Vescovo di Agrigento: «Auguro al volume non solo ampia diffusione ma che possa essere di stimolo e incoraggiamento perché altri figli delle nostre comunità cittadine seguano l’esempio del Prof. Messina che ama la sua terra e la canta da maestro e da figlio». E Domenico De Gregorio, che ha presentato l’opera nella gremita Matrice di S. Stefano, nel quadro delle manifestazioni in onore di S. Giordano Ansalone, la considera esemplare e «un monumento che sarà veramente aere perennius» («L’Amico del Popolo», 21 giugno 1987). È ancora fresco d’inchiostro il libro di Ignazio Gattuso, Le comunìe di sacerdoti in Mezzojuso, curato dallo stesso Messina. Il nostro Autore continua a dialogare con le persone con cui ha fatto un tratto del suo cammino; ritrova la loro anima nel ricordo e negli scritti che hanno lasciato. Così, dopo avere pubblicato opere degli scomparsi Giuseppe Ganci Battaglia e Ignazio Gattuso, si sta occupando dell’opera inedita di Virgilio Titone, per espressa volontà del grande storico. 

Calogero Messina è raro esempio di scrittore, anticonformista e intransigente, che aborre il compromesso, libero da condizionamenti, come ha scritto Bent Parodi nel «Giornale di Sicilia» del 17 febbraio 1983. È uno storico onesto e un autentico scrittore che fa onore alla cultura siciliana e italiana. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 35-40.




Addio a Mario Tornello 

Lo scorso febbraio è morto nella sua casa di Roma Mario Tornello. Vi si era stabilito ancora giovane, come tanti siciliani in cerca di affermazione, e qui s’era accasato, pur non avendo mai perso i contatti con la sua Sicilia. Era di Bagheria, la generosa terra di tanti uomini illustri, come lui. A darci la triste notizia è stata la signora Erina, a cui esterniamo il nostro sentito cordoglio. 

Noi della redazione di “Spiragli” avevamo conosciuto Mario intorno ai primi anni Novanta e da allora siamo stati in contatto, sentendoci per telefono o scambiandoci, nell’ultimo periodo, messaggi per via internet. Ci siamo visti diverse volte, a casa sua in mezzo ai dipinti, in via Rosa Raimondi Garibaldi, dove abitava, o al caffè Greco. 

Sempre cordiale, era amico affettuoso e pronto, da siciliano, alla battuta, tesa a manifestare la gioia dell’incontro. 

Mario Tornello era un artista che manifestò il suo estro nella pittura e nella scrittura, riversando amore per la Sicilia che dipinse nei suoi paesaggi e cantò nei suoi versi, facendosi apprezzare nel mondo artistico e letterario con premi e tanti riconoscimenti. 

Scriveva in una sua nota che abbiamo pubblicato: «È tempo di tralasciare le frenesie cittadine per ritrovarsi in quei luoghi religiosi che la natura e non l’uomo ha creato. È tempo di soffermarsi ad addolcire il proprio spirito immergendosi senza scia nell’abbraccio totale di un paesaggio come nell’osservare un insetto al lavoro». Ed era quello che faceva; la natura e la Sicilia erano al centro dei suoi interessi, dipingendole nei colori vivi della terra, ora arrossata dal sole, ora immersa nel verde della vegetazione. 

Egli non trascurò le tracce della presenza umana (ridenti coltivazioni o case addossate), cui guardava con tenerezza e con tanta comprensione. Apprezzava il lavoro dell’uomo e sapeva commuoversi dinanzi ai fossili che sapevano di vita passata e ai monoliti che per lui testimoniavano «le più alte espressioni di preghiera dell’uomo verso un Ente supremo, quale muta richiesta intercedente per attraversare l’Ade». Così cercava e salvava le sculture naturali, perchériteneva che la madre terra fosse essenza d’arte. 

Mario Tornello era un artista versatile. Nella prosa lasciò pagine di estrema bellezza. Ricordiamo, tra tutte: “Un cherubino a Parigi” o “Il signor Piazza”, racconti ricchi di molto sentire e umani, spesso di un’umanità dolente ma vivi per la speranza che mai non manca nei personaggi. Scrive, a proposito, Carruba: «Questi racconti sono legati tra loro dal filo sottile che porta alla nostra misera umanità Ed è quanto di più vero e di più nobile l’Autore ci possa dire, quasi a conforto e ad indicarci che, in fondo, sta a noi condurre il mondo verso una vita migliore». 

Così è in poesia, in lingua e in dialetto, dove il sentire del poeta si fa sentimento puro e parla la lingua di tutti, quella del cuore; la pubblicò in diverse sillogi, come: A braccia aperte (1994) e Comu petra supra ‘u cori (1995). 

Mario Tornello fu molto prolifico e scrisse di tutto, collaborando con giornali e riviste, e perciò tanti lettori ora noteranno la sua assenza. Ma lui rimarrà vivo per quelli che lo conobbero e lo ebbero amico, per quello che ha lasciato in dipinti sparsi un po’ dovunque nel mondo e per la poesia che ha saputo regalarci. Ora ci guarda di lassù e noi lo ricorderemo con l’affetto e la stima di sempre. 

Addio, Mario, sei con noi. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pag. 26.




A ROMANO CAMMARATA 

 Chi poteva immaginare che di lì a qualche giorno te ne saresti andato per sempre? Come crederci, se prima di lasciarci, c’eravamo detti di ritrovarci a Velletri nei primi di settembre per discutere e portare avanti i nostri progetti? 

Ma di lì a poco te ne sei andato in silenzio e senza alcun commiato! 

Il sole d’agosto con le sue impennate ha voluto farci questo brutto scherzo! 

Ora capisco perché, salutandomi non volevi che me ne andassi e, stringendomi forte nella morsa del tuo abbraccio di padre di fratello e di amico, m’intrattenevi con altri discorsi, con la tua parola calda, convinta, sincera. 

Ora so perché, proprio quel giorno, hai voluto affidarmi quella registrazione, dove ci sei tu, vivo, parlante, vero! Ora so che ho sbagliato ad andarmene, nonostante l’invito della signora Caterina e le tue insistenze! 

* * * 

La fredda morte lava in profondità le umane miserie, ma restituisce e mette in risalto quanto ci appartiene. Romano Cammarata ci viene restituito così com’era, integro, diamantino, nella bontà e nell’umiltà che gli erano proprie e che lo distinguevano dovunque, nella vita privata e in quella pubblica, al Ministero della P. I. o tra gli amici. Dovunque egli s’imponeva con l’autorità della sua persona, equilibrata, formata da un’esperienza di vita di dolore e di studio intenso, nobilitata dall’arte, e non mai con l’autorità della carica che rivestiva: suo motto era privilegiare l’uomo, ridargli la dignità, smussare i contrasti. 

Di qui il grande amore per i giovani e per la scuola, per cui spese le energie migliori. Romano Cammarata viveva la scuola: e guai a parlargliene male, guai a chi non mostrava un minimo di apertura ai problemi di cui essa oggi si fa carico. Agli uomini politici e di governo rimproverava l’averla gettata allo sbaraglio, a quelli di scuola l’inadeguata preparazione, la demotivazione, l’assuefazione ai luoghi comuni, l’attesa di magiche soluzioni venenti dall’alto, quando nella libertà delle scelte si può lo stesso operare e trovare soluzioni fattive e utili al bene comune. 

Le indicazioni – era solito dire – vengono dall’alto, ma devono essere i presidi, gli insegnanti a gestirle e calarle nella realtà dei vari istituti. E biasimava la chiusura mentale di tanta gente chiamata a gestire la scuola! 

Così sfogava la sua rabbia: ma era solo nei momenti di sfogo, perché trovava sempre le parole più inoffensive per dire le cose senza pesare, senza aggredire. E in questo era un gigante buono, un uomo forte, temprato dalla sofferenza, che comprendeva gli uomini e li amava di un amore profondo e, potendolo, li aiutava, rivolgendo, magari, una parola buona, di quelle che si dicono con il cuore e rimangono impresse per sempre. 

Il dolore gli aveva acceso il fuoco della poesia: e poesia è anche la sua prosa, dove le parole sono misurate e dense di significato, tanto che molte pagine vengono aformare lo splendido volume di poesie che è Per dare colore al tempo. E Romano Cammarata ha dato colore al suo e al nostro tempo, andando sul filo della memoria a rintracciare «i fantasmi buoni-, a rincorrerli, nel tentativo ben riuscito di catturarli per sempre, e restituirli alla terra, alla sua terra a cui tanto era legato e per cui soffri nei momenti di maggiore tensione e, di più, quando tristi eventi la martoriavano, facendola apparire agli occhi del mondo come una terra dove esiste e si coltiva soltanto il male. 

Romano Cammarata amava di un amore filiale immenso la sua Isola e dedicò tutto se stesso per contribuire insieme ai tanti a riscattarla e presentarla al mondo per quella che è: terra generosa, ricca di colore e di sole, aperta ai contatti come è aperta al mare. E inveiva persino contro i pitoni nostrani, i quali spesso, allontanatisi dalla Sicilia, s’atteggiano a vati sproloquianti, dimentichi della realtà e della storia millenaria, che è freno ed è anche condizione per lo sviluppo sociale e per l’integrazione con il resto della Penisola. 

* * * 

Il nostro augurio è che il tuo ricordo, Romano, rimanga impresso nella mente di quanti ti conobbero e ti stimarono per quello che sei stato, per i tuoi scritti, per la tua poesia, per la tua arte, inconsueti e densi di umanità vera, senza fronzoli, bella. Che il tuo insegnamento abbia un séguito e sia di sprone a quanti vogliono che il bene predomini in una società più giusta e più umana, come speravi e volevi che fosse. E, per tutto questo, che tu rimanga sempre vivo in noi, a guidarci, a consigliarci, a volerci bene, perché possiamo con il tuo aiuto continuare i lavori intrapresi, a cui tenevi molto, e che speriamo vengano al più presto alla luce e onorare cosi la Sicilia che tanto amavi. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 3-4.




Singulare prudentiae specimen 

 Un premio Scala per la narrativa, un premio Calliope per la poesia, ambiti riconoscimenti per la pittura e la fotografia, una intensa collaborazione a riviste e periodici, fanno di Romano Cammarata un protagonista del mondo artistico e culturale italiano. 

Un fatto per molti aspetti eccezionale, se si pensa che Romano Cammarata è anche un alto ed efficiente Dirigente dello Stato, il supremo moderatore, presso il Ministero della P.I., della Direz. Gen.le classica, scientifica e magistrale: un settore particolarmente rilevante della cultura e della scuola del nostro Paese. 

Il rapporto fra illetterato, l’artista, il pubblicista, da una parte, e il ruolo estremamente impegnativo del Dirigente, dall’altra, lungi dal far registrare, come pur si potrebbe essere indotti ad opinare, iati e dicotomie, è invece perfetto, incredibilmente armonico e come tale produttivo di risultati non comuni che rappresentano – ed è questo l’aspetto che più vorrei sottolineare – un fatto nuovo nella storia della P. I. che è oggetto di particolare interesse dentro e fuori le mura della nostra “Minerva”. I due momenti, meglio le due dimensioni dell’uomo, fanno registrare esemplari connotati della stessa spiccata personalità che si illuminano e si integrano a vicenda. 

Ma non basta: l’avvertito bisogno di evadere dal chiuso del Ministero di Viale Trastevere, per raggiungere le varie regioni d’Italia, allo scopo di potere ascoltare, in maniera non mediata, la voce degli operatori della scuola, dei presidi, dei docenti, degli stessi studenti talvolta, per sentire il polso, per percepire le pulsioni di una istituzione (che spesso solo la dedizione e la passione dei suoi protagonisti salva dalle secche), l’esigenza di volersi rendere conto de visu di Situazioni spesso diversificate, questo bisogno di scendere in campo per conversare con animo sincero, scevro da pregiudizi e da stereotipati “tòpoi”, la piena disponibilità a recepire istanze da parte della scuola militante e a intrecciare con essa, anche in sede epistolare, scambi di vedute, fanno di R. Cammarata un Dirigente di tipo nuovo, una specie di magistratus novus atque mirificus, proprio perché singularis. Un ruolo certamente non facile, soprattutto in un momento di incertezze, di stasi, di lunghe e snervanti attese che contrassegna il mondo della scuola, a dispetto della conclamata volontà politica di riforme radicali o parziali, ma un modo di assolvere responsabilmente ad una funzione quant’altro mai complessa e delicata, spinto dalla forza impellente di un imperativo categorico, volto ad esorcizzare l’immagine di una Amministrazione centrale ferma, bloccata, passiva, mummificata, quasi, da un immobilismo di cui non è certamente responsabile e che essa vive con fastidio, con legittima insofferenza, sentendosi il tenninale di tensioni e di scontenti, che salgono dal mondo vivo della società e della scuola. 

E quel che sorprende in questi contatti con R. Cammarata è l’atteggiamento di ascolto rispettoso, paziente, inteso ad offrire la sua proposta che, si badi, non è mai impositiva, ma di dialogo: testimonianza di questo suo modo di essere, la recente lettera ai presidi e ai docenti interessati sull’insegnamento delle discipline classiche. 

Io debbo confessare che, nella mia ormai lunga milizia di ispettore centrale, non ricordo Direttori Generali che, in occasione di Convegni culturali o di Seminari di aggiornamento, abbiano partecipato con più vivo interesse di lui, vivendo le varie problematiche anche con una costante presenza fisica per tutto l’arco dei lavori, tirando alla fine le fila di lunghi e spesso divaricanti dibattiti, con competenza, con estremo equilibrio, con indiscussa sagacia. 

Questa figura di Direttore Generale, per così dire “itinerante” e per molti aspetti davvero “inedita”, risponde, oltre che ad un’ottica moderna del ruolo direttivo, ad un intimo bisogno dello spirito, portato non ad esaurirsi in comode crociere attorno al proprio ufficio o attorno alla propria scrivania, ma a dialogare, a conversare, a cogliere l’ansia dell’inter1ocutore ed insieme a dar voce al proprio “io”, sensibilissimo ai richiami del mondo circostante. Questo modo di vivere la sua alta funzione non è perciò un fatto formale, esteriore, finalizzato a certo esibizionismo di gusto scenico: è una viva, profonda esigenza del suo spirito che, se non realizzata, lo farebbe sentire, se non un frustrato, certamente un dimidiatus! 

E la stessa esigenza è alla base della sua attività di narratore e di poeta. Senza entrare in questo specifico campo, io vorrei soltanto sottolineare come il narrare, il poetare, rispondano ad una precisa tipologia umana, portata alla ricerca di uno strumento particolare per esprimere meglio, in maniera più compiuta, immediata ed incisiva, inquietudini, speranze e – perché no – un gran bisogno di certezze, in un’ottica che, nella sua sostanziale laicità, converge naturaliter verso le vette di un Cristianesimo avvertito non come qualcosa di estrinseco, di rituale, di moralistico, ma come una realtà di liberazione, di alleanze, di comprensione, di comunione, di amicizia! 

Narrare, perciò, e poetare per dare voce al proprio “io’, per dare un senso, un colore alla vita: e la partecipazione è alta ed intensa, coinvolgente tutta l’esistenza, come quella che è intesa a riscoprire l’interiorità, non come fuga, bensì come luogo in cui contemplare e collegare insieme le due dimensioni di cui è intessuta la nostra vicenda storica: l’uomo e il mondo. 

Chi come me, a parte la pagina scritta, a tutti accessibile, ha il privilegio di una continua frequentazione dell’Uomo, avverte che l’opera di Romano Cammarata, narratore e poeta, è lievitata, da quello stesso leit-motiv che pervade le più belle pagine delle “Meditazioni” di un Marco Aurelio, nelle quali tutto ruota intorno ad un aetemum intemum che è il motore di una continua rigenerazione, di un vero e proprio rinascere, che l’Imperatore-filosofo esprime con un verbo greco di particolare efficacia “ava~l(òvat” (VII, 2). 

Un colloquio, dunque, quello del nostro Autore, con se stesso, vissuto come mezzo per la ricerca di una perfezione più alta, un colloquio che, lungi dall’essere, come dicevo isolamento dal mondo, si appalesa come lo strumento in virtù del quale l’uomo-cittadino collauda la virtus e, una volta fortificato, intende, senza iattanza, adoperarla per l’umanità, in un generoso ed operante ottimismo: una connotazione precisa della sua Weltanschauung che non mi pare lo collochi, come pure da qualcuno è stato detto, nella scia del suo illustre conterraneo: Luigi Pirandello. 

A me sembra che l’analogia col grande agrigentino può essere data solo dal fatto che entrambi, figli di una terra che fu teatro fra i più interessanti della grande civiltà mediterranea, e centro di commercio spirituale fra i popoli, hanno saputo fare, talvolta, di certa “sicilianità” una chiave di interpretazione dell’universo umano. 

Un viaggio, come dunque si vede, nel gran mare dell’essere quello del nostro Cammarata, il quale, nonostante il buio della notte, nonostante gli imperversanti marosi e lo sferzare dei venti di tramontana, non smarrisce la bussola, riuscendo sempre ad ancorare la sua navicella a quei lidi, prima intravisti e poi fermamente tenuti, che sono i fascinosi approdi illuminati dalla superiore luce del giusto, dell’onesto, della libertà, dell’umana dignità. 

Di qui la presenza di un’etica civile e sociale profonda, saldamente radicata nell’uomo e nello scrittore: ed io mi chiedo, in proposito, se il dramma di un Agostino Bertoni, il protagonista di “Violenza oh cara” non sia un grido in faccia a certa società di oggi, – fonte spesso di violenza occulta o palese – proprio nel segno della libertà e della dignità dell’uomo e del cittadino, in nome di quella solidarietà, pronta ad essere da più parti sbandierata, ma altrettanto farisaicamente disattesa e tradita! 

Di qui il bisogno di rifondare, da parte del nostro Autore, la sua fiducia nell’uomo, di qui il suo patto con l’esistenza, proprio a dispetto di quella violenza che, più di quanto non appaia, costituisce quasi sempre il tessuto connettivo della storia e contro la quale è possibile lottare con successo se ognuno di noi sa portare alla ribalta del vivere quotidiano con costanza, con coerenza, senza tentennamenti, le innate e latenti capacità reattive: una lezione, perciò, in sostanza, un vero e proprio messaggio a tutti, ma in particolare alle giovani generazioni. 

Ora se questo è il senso della pagina di Romano Cammarata, si comprende benissimo come il colloquio con se stesso, su cui ho ritenuto di dover mettere l’accento, scaturisca dalla convinzione che solo nell’interno, in interiore homine, per usare l’espressione di Agostino, è la sorgente più vera e più pura, che può riprendere e zampillare purché l’uomo la cerchi e la scavi. E come diceva il vecchio filosofo Epitteto, solo che tu lo voglia, troverai sempre un’ora di calma per farlo! E non è fuor di luogo richiamare in proposito anche una pagina delle ”Tusculane”, in cui Cicerone afferma che la massima forza morale è data dal colloquio che si svolge nell’interno del nostro cuore. Proprio da questo continuo ascolto vien fuori quel larghissimo senso dell’umano, fatto di misura e di signorile compostezza, che contrassegna Romano Cammarata come uomo e come dirigente: è il frutto, molto raro nella nostra convulsa e spesso alienante società, di una humanitas saggiamente dosata fra “‘3″toç ‘tCOPl1’tlKOç” e “pioç 1tpUK’ttKOç” e che lo autorizza, riecheggiando Menandro, a ripetere col poeta latino: Homo sum, nihil humani a me alienum puto. 

Amante della riservatezza e della modestia, cultore dell’amicizia, espressione di una cultura per nulla aduggiata da conformismo o inquinata da estremismi ideologici, Romano Cammarata, quale Direttore Generale dell’istruz. classica scientifica e magistrale è un sicuro punto di riferimento per equilibrio e senso di responsabilità, sempre pronto a convogliare, sulla giusta rotta, ottiche non sempre ortodosse, come quando, ad esempio, invita a riflettere su certe strumentalizzazioni o pretestuose discussioni (valga per tutti la presunta antinomia fra le due culture), non esitando ad evidenziare i rischi di un sapere scientifico troppo spesso presentato come alternativo a quello umanistico. 

Ma qui si è voluto dare solo un limitato specimen di quella prudentia, nella più pregnante accezione latina, di cui l’uomo è depositario ed insieme generoso dispensatore. 

Giovanni Vanella

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 59-62. 




 Un solido iter propositivo 

Gentili Signore, gentili Signori, quando qualche tempo fa il mio amico Salvatore Vecchio mi rammentò che proprio in quest’anno sarebbe caduto il ventesimo anniversario della nascita della rivista “Spiragli”, di cui è stato fondatore e, a tutt’oggi, direttore, e aggiunse che avrebbe voluto dare un certo e giusto risalto all’avvenimento, gli promisi di dare, come Associazione per la tutela delle tradizioni popolari del trapanese che mi onoro di presiedere da oltre un ventennio, la mia disponibilità e quella dell’Associazione. 

Siamo qui presenti per mantenere il nostro impegno ma, soprattutto, per rendere omaggio alla rivista, il cui primo numero vide la luce nel mese di gennaio del 1989. 

La titolazione della rivista, appunto “Spiragli”, era già simbolo di un impegno, come a volere accendere un lumicino all’interno delle tante difficoltà che l’editoria, spesso, presenta e un cercare spazio e consistenza in mezzo all’indifferenza ed allo scetticismo che contornano iniziative del genere. A queste, spesso, si accompagna l’indifferenza se non la critica del tessuto sociale a cui la rivista cerca di proporsi. 

Così nel primo numero: 

“Spiragli” al di là di ogni connotazione politica, vuole essere una rivista aperta al dibattito e al confronto 
delle idee. Ha carattere culturale e, volendo essere mezzo valido di conoscenza, pubblica articoli originali di 
carattere letterario, artistico, scientifico, socio-economico, scolastico e concernenti problemi del nostro tempo”. 

Queste le caratterizzazioni individuate dal fondatore e direttore responsabile, caratterizzazioni cui hanno 
mantenuto fede, in questi quattro lustri di vita della rivista, tutti i collaboratori e che hanno fatto sì che essa mantenesse uno standard elevato di qualità. 

La stessa durata testimonia che si sia colto nel segno e che, ai giorni nostri, può benissimo trovare spazio e suscitare interesse una rivista di letteratura e scienze. Sappiamo, d’altronde, le difficoltà cui si va incontro nell’assumere un impegno di tal fatta, sappiamo altrettanto bene che continuare a vedere in vita l’iniziativa fa scordare sacrifici, impegni e, a volte, frustrazioni. 

La rivista nasce nel lontano 1989 proprio nell’anno in cui, nel novembre, si aprirà uno spiraglio nel processo di democratizzazione che fu la caduta del muro di Berlino ove, per la prima volta, concretamente crollarono quelle barriere che non fecero tanto onore al vecchio continente culla della civiltà. 

Spiragli s’erano aperti qualche anno prima nel 1956 con i fatti d’Ungheria e di Cecoslovacchia e Polonia dopo. Spiragli quindi come attese, aspirazioni, realizzazioni di altro tipo naturalmente che sono stati alla base dell’ideazione e messa in opera della rivista cui facciamo riferimento. 

Ci sono stati altri momenti in Sicilia e in questa nostra provincia in cui si è dato corpo a riviste che dessero spazio ad iniziative tendenti ad evidenziare l’esigenza di mettere assieme forze ed intelligenze e far crescere e coltivare l’amore per la letteratura e le scienze. 

Ci riferiamo a quel nobile tentativo che fu l’Antigruppo degli anni Settanta cui diedero contributo autorevoli scrittori e poeti, quali Rolando Certa, Nat Scammacca, Franco Di Marco, Gianni Diecidue, Crescenzio Cane, Ignazio Apolloni, Santo Calì per citarne alcuni. Loro obiettivo era quello di dare spazio ad un’editoria, se vogliamo, d’avanguardia e scomoda che non trovava posto nell’editoria ufficiale e di moda. Il tentativo si spense piano piano, cosìcome si spengono, in questa nostra terra, quasi tutte le iniziative autonome e che non fanno comodo ai potentati locali di turno. Assume, quindi, maggiore risalto ed evidenza, in questo contesto, la rivista ”Spiragli“ che da vent’anni continua imperterrita a vivere e crescere. 

C’è, mi chiedo, oggi l’esigenza di una rivista del genere e quale ruolo può essa rivestire? La risposta non può che essere positiva. “Spiragli”, infatti, oltre a soddisfare l’esigenza di ‘dire’ da parte dei redattori e di quanti vi collaborano, soddisfa quella fascia di lettori che non vuole farsi indottrinare da riviste e quotidiani litigiosi, mistificatori e, spesso, asserviti. Essa soddisfa coloro che cercano valori più duraturi tali da contribuire alla formazione e all’approfondimento di tematiche particolari da proporre come riflessioni a chi ad esse si accosta. 

La rivista, sin dalla sua nascita, ci appare equilibrata nella sua composizione. Consiste di una sezione che offre informazioni sul recente e del recente: “Notizie ed Opinioni”, con un taglio non solo locale ma ampio, internazionale o, con un termine in uso ai nostri giorni, globale. Sono notizie ed opinioni che riguardano avvenimenti culturali, scientifici, artistici e di cronaca seria. 

Segue “L’Argomento” dove si considerano tematiche impegnate di filosofia, di letteratura, di problematiche sociali, esistenziali, trattate dalla penna e dall’intelligenza di intellettuali di indubbio spessore culturale. Anche qui è sorprendente come, nel tempo, siano stati coinvolti eminenti studiosi, docenti universitari, uomini di cultura non solo locali ma di altri posti della terra. È il caso di Oliver Friggeri dell’Università di Malta, docente di Teoria letteraria ed autore di una Storia della Letteratura maltese; Jorge Velasquez Delgado dell’Università Autonoma Metropolitana del Messico; Helmut Koenigsberger, storico inglese di fama internazionale che ebbe rapporti di vera amicizia con lo storico siciliano Virgilio Titone, che apprezzòl’analisi storica che l’inglese fece sulla Sicilia durante il regno di Filippo II; Ángeles Arce dell’Università Complutense di Madrid, italianista; Maxime Louise Lawson, David Boyd Carrigan; Calogero Messina che scrisse le belle pagine sul rapporto tra Koenigsberger e Titone, già citato. Poi, Antonino Contiliano, Vincenzo Monforte, Oreste Carbonero, Donato Accodo, Irene Marusso, Rita Vecchio, Romano Cammarata, per citarne alcuni. 

Altra sezione della rivista è dedicata all’“Arte” ed anche qui si affrontano temi e scrittori di indubbio valore, vuoi come collaboratori, vuoi come pittori recensiti. È il caso di Germana Parnykel, russa nata a Kiev e morta a Torre Pellice, artista di fama che sposa il marsalese Tommaso Giacalone Monaco ed alla quale viene offerta la possibilità di allestire una mostra nella cittàlilibetana. L’avvenimento è ricordato da uno scritto di Gaspare Li Causi nell’“Itinerario umano ed artistico di Germana Parnykel”. La rivista riporta in bianco e nero alcune tele esposte in quell’occasione. 

Trova spazio con un articolo di Donato Accodo l’opera pittorica di Emilio Guaschino che “sulla scia della matrice guttusiana racchiude, nelle sue tele, storie della sua terra, con un’attenzione particolare alle tematiche vicine alla condizione del bracciantato siciliano”. 

Ma, ancora, la rivista presenta le opere di Antonello da Messina, Morandi, Marcucci, Milluzzo, La Scola, 

Laura Cutuli, Mario Tornello e tanti altri di rinomanza internazionale. 

La poesia ha trovato sempre spazio nella rivista che ha riportato testi di autori italiani e stranieri. Questi ultimi andrebbero sistematicamente tradotti perché i lettori ne colgano i contenuti ed i valori. Ma questo già si sta facendo con i poeti di lingua portoghese e latina. 

Le schede di recensione degli ultimi anni hanno presentato ai lettori un numero rilevante di testi costituendo un vero serbatoio di contenuti e di stimoli per chi alla lettura voglia approcciarsi. 

Anche la veste tipografica ha subito una positiva evoluzione passando dal monocromatismo dei primi anni alla quadricromia degli ultimi. 

Vorrei evidenziare, a questo punto, la copertina dei primi numeri raffigurante, a mio avviso, una strada lastricata convergente in un punto di fuga, “spiraglio” appunto, e contenente delle figure solide che, sempre a mio avviso, possono benissimo starci con i solidi propositi di chi sa di dover trattare argomenti rilevanti ed impegnativi allo stesso tempo. Le modifiche alla copertina, che hanno portato alla quadricromia, ritengo non siano state dettate da un puro fine estetico e che siano, invece, testimonianza del successo della rivista e della colorita soddisfazione che essa ha dato al suo direttore e all’intero gruppo di redazione. 

Mi piace, infine, evidenziare come la rivista “Spiragli” sia rimasta fedele alle sue promesse iniziali, cioè quelle di dare spazio a tutti coloro che avessero da esprimere il proprio pensiero nella massima libertà. 

Mi sia concesso, però di chiudere questo mio intervento, rivolgendo un ringraziamento ed un augurio affettuoso al mio amico Totò Vecchio, compagno di liceo e di università lui palmese di Palma di Montechiaro, io favarese di Favara, ambedue di quell’agrigentino non sempre sulle cronache per positività ma in grado di esprimere, in ogni tempo, filosofi, scrittori di talento da Empedocle a Pirandello, a Sciascia, a Russello, a Camilleri e tanti altri. 

Totò Vecchio, dicevamo, che è stato della rivista “Spiragli” ideatore e, a tutt’oggi, direttore responsabile, è firmatario di articoli e saggi in ogni numero della rivista. A lui vanno i nostri ringraziamenti per tutto quello che, sin qui, abbiamo detto e per l’impegno costante profuso in tanti anni come docente, educatore e come coordinatore della rivista che comporta sacrifici e dedizione. La sua “dolce modestia” ne fa un uomo forte ed impegnato, sensibile ed attento verso i tanti problemi in generale e quelli del sociale e della letteratura in particolare. 

Leggerò parte di un suo articolo apparso in “Spiragli”, Anno I, n. 4 dell’ottobre-dicembre 1989, dedicato a Jerry Essan Masslo, da cui traspare tutta quella sensibilità delicatezza e, nello stesso tempo, forza che attribuiamo a Salvatore Vecchio. 

Jerry Essan Masslo fu uno dei tanti giovani provenienti dalla profonda Africa che giunto in Italia, a Villa Literno, in cerca di lavoro e riscatto, trovò invece, la morte. 

«Jerry, amico mio, perdonami il lungo silenzio. Sei urtato, lo so! Dopo il fattaccio e la gran cagnara che s’è fatta, tutto sembra sia rientrato nella normalità come se niente fosse mai successo. Anzi a dir la verità i giornali se ne sono occupati per un po’ a causa della Chiesa Battista che, facendoti un suo adepto, ha denunciato l’egemonia cattolica per averti imposto quel rito funebre. Sono situazioni da cui una persona esce sconcertata: gli speculatori colgono tutte le occasioni e le fanno buone per imbastire ogni sorta di discorso che dia loro credibilità e potere, a scapito della povera gente o di chi non può difendersi. Come te, d’altronde! Cosa si aspettano, che venga fuori a dir la tua? 

E sei urtato Jerry, per quello che ti hanno fatto, per come ti hanno trattato e continuano ancora a fare. È valso a qualcosa il tuo sangue innocente? 

Tu che eri desideroso solo di un po’di giustizia e di tanto amore, ora proverai grande commiserazione per questa meschinità che è negli uomini; ti ripugnano le loro bassezze, così come la malvagità che tante volte ti aveva visto soffrire: le morti violente dei tuoi cari, un esilio silenziosamente vissuto, lontano dalla tua terra e dalla gente assieme a cui eri cresciuto, l’accanimento dell’dio fratricida … 

Eppure, so cosa pensavi quella sera d’agosto: un mondo che ti avrebbe socialmente riscattato! E questo chiedevi: il diritto alla vita senza discriminazioni. 

Disteso su una brandina sgangherata, la tua mente volava al Paese d’rigine, così vario nei colori, così diverso nella vegetazione, così ricco che, se non fosse per l’stinata apartheid, potrebbe competere a pieno titolo con i Paesi europei più industrializzati. Pensavi a ciò che ti era stato negato solo perché ti eri battuto per la parità dei diritti; e non potevi restare certo indifferente al solo pensiero che i bianchi spadroneggiassero, a scapito dei fratelli negri costretti a vivere una vita di stenti nei lavori più duri e, per di più, considerati di seconda classe. E volevi che gli uomini fossero veramente umani, nel rispetto dei valori più semplici e profondi al tempo stesso, non addossando agli Africani la sola colpa di essere scuri di pelle e per ciò segregandoli e non privilegiando i bianchi che, solo perché tali, vogliono arrogarsi la superiorità. 

Mi chiedo: com’è possibile che ancora sussistano queste differenziazioni? 

Addirittura, in certi Paesi – come nel tuo – il razzismo è legalizzato, quasi a voler togliere dalla coscienza dei singoli il complesso di colpa che tale pratica genera; in altri lo spettro razziale è vivo e vegeto, e il suo spiritello s’insinua là dove apparentemente tutto sembra vivere in pace. E noi non potremo mai dimenticare le votazioni antitaliane tenute qualche anno fa in Svizzera, l’accanimento della Germania contro i Turchi, della Francia e dell’Italia nei confronti degli immigrati provenienti dalla vicina Africa». 

Ho voluto leggere di proposito questo articolo, perché da esso viene fuori la sensibilità dell’uomo Salvatore Vecchio e per sottolineare come questa sua sensibilità abbia permeato, permei e continuerà a permeare, sono sicuro, non solo i suoi scritti ma anche l’intera impostazione della rivista. Lunga vita, quindi, a “Spiragli” e un affettuoso complimento a tutto il suo staff. 

Salvatore Valenti

Da “Spiragli”, anno XXII n.1, 2010, pagg. 4-8.




 I 30 ANNI DELL’ACCADEMIA SICULO-NORMANNA  di PALERMO E MONREALE 

L’Accademia Siculo-Normanna di Palermo e Monreale ha festeggiato il suo 30° anno di attività. Un traguardo al quale il benemerito sodalizio presieduto dal prof. Pino Giacopelli è giunto avvalendosi di studiosi e di esperti di chiara fama, aprendosi al dialogo fra civiltà e culture diverse, coniugando le ragioni della storia e dell’arte con quelle della società, contribuendo in tal modo a sviluppare le potenzialità positive esistenti nella realtà siciliana. I suoi programmi mirano, infatti, a valorizzare l’opera di quanti concorrono al progresso e alla elevazione civile e morale della società, all’affermazione della libertà, della democrazia e della legalità. 

La qualità e la quantità dei Riconoscimenti assegnati dal Senato Accademico in questi 30 anni ad eminenti personalità della cultura, della scienza, dell’ arte e delle professioni con il Premio di Cultura Città di Monreale (alla sua XV edizione) e con il conferimento del Diploma di Accademico Honoris Causa, evidenziano soprattutto la ricchezza ed il fermento del panorama della nostra Isola la quale, se da un lato presenta ancora fenomeni di imbarbarimento, come la mafia che insulta la civiltà, dall’ altro rivela la capacità del nostro popolo a sapere reagire e a portare avanti quel processo di liberazione che agisce in tempi lunghi, ma che (a cura di S. Marotta). ha cominciato a dare risultati significati vi tali da fare immaginare l’avvento di un nuovo Rinascimento. 

Non a caso Pino Giacopelli ama ripetere che l’Istituto Accademico, da lui presieduto, si propone di operare nello spirito delle gloriose Accademie del Rinascimento che, oltre ad essere fucine di arte e di pensiero originali, furono anche innovative ed oppositive. In ogni caso la funzione del sodalizio monrealese non avrebbe potuto avere una funzione di mera conservazione della memoria del passato. Da qui anche la continua ricerca e la realizzazione di rapporti di collaborazione e di cooperazione con Università, istituzioni scolastiche e centri culturali, italiani e stranieri, ed il farsi strumento privilegiato per esercitare quel ministero di verità che è proprio della cultura. 

In occasione della ricorrenza trentennale che si è svolta nell’aula magna del Palazzo Sora a Roma (via Vittorio Emanuele 2 17), è stato conferito il Diploma Honoris Causa al pittore Ugo Attardi, al presentatore della Rai-Tv Pippo Baudo, alla giornali sta Franca Calzavacca, alla poetessa Miranda Clementoni, al diplomatico Antonella Colonna, al pittore Fabrice de Nola, allo scrittore Melo Freni , all ‘ incisore Pippo Gambino, alla poetessa Maria Grazia Lenisa, al critico d’arte Angelo Lippo, al poeta Dante Maffia, al prof. Francesco Mercadante, al giornali sta Vito Sansone. 

Ma la ricorrenza dei 30 anni di attività dell’Accademia, piuttosto che momento di celebrazione, è stata anche occasione di riflessione. Una riflessione iniziata cinque anni fa con l’aggiornamento dello statuto, nel quale si è stabilito, tra l’ altro, che l’Accademia non può superare i 199 membri (è diventata, cioè, a numero chiuso). Tant’è che dal 1974 ad oggi gli accademici italiani “viventi” sono soltanto 

183. Molte, in questo trentennio, le personalità venute da ogni latitudine a ritirare il Premio di Cultura e/o il Diploma Honoris Causa: dalla Francia al Belgio, alla Spagna, alla Germania; dal Kossovo al Perù, alla Bolivia, al Kenia; dagli Stati Uniti al Giappone, alla Russia, alla Georgia; dalla Cina al Brasile; dalla Siria alla Tunisia, a Israele. Per fare soltanto qualche citazione, fra gli stranieri, ricordiamo Rafael Alberti, Eugenij Evtuskenko, Irina Baranchèeva, Dominique Fernandez, Andrée Chouraqui, HisiaoChin, Micha Van Hoecke, Jean-Paul De Nola e fra gli italiani Consolo, Bonaviri, Bufalino, Vasile, Collura, Gioacchino Lanza Tomasi, Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Gina Lagorio, Stefano Zecchi, Renato Civello, Giuseppe Quatriglio, Franco Buffoni, Tullio Tentori, Antonino Zichichi, Renato Guttuso, Bruno Caruso, Alfredo Muzio, Maurizio De Simone, Francesca di Carpinello, Carla Tatò, Carlo Quartucci, Paolo Borsellino, Pietro Grasso, Salvatore Vecchio, l’ex Comandante Gen. dell’Arma dei Cc. Gen. Umberto Cappuzzo, il Commissario straordinario del Governo dei beni confiscati ad organizzazioni criminali dott. Margherita Vallefuoco e lo scrivente. 

Mario Tornello