Un melanconico ottimismo 

Una “svolta” nella produzione letteraria di Romano Cammarata segna il breve romanzo Violenza, oh cara, apparso nel 1986. Dalle pagine autobiografiche Dal buio della notte, dalla raccolta poetica Per dare colore al tempo, trascrizione lirica del primo libro, egli approda, così, alla narrativa. 

La vicenda è collocata in una città anonima: Agostino Bertoni, un onesto pensionato, benché innocente, viene coinvolto in una vicenda giudiziaria, perché assurdamente accusato di essere stato complice di un sequestro di persona. Convinto di subire una violenza dalla giustizia (oltre a quella già subita dalla vita, con la morte della moglie che lo ha costretto a vivere in solitudine, con la compagnia di una cagnetta bastarda) rifiuta di difendersi e di collaborare col giudice che lo accusa; a costui, anzi, chiede di provare la sua innocenza. (Alla violenza del destino, che gli ha tolto la moglie, egli non ha saputo ribellarsi, si ribella, ora, alla violenza degli uomini, a suo modo.) 

Nella narrazione si inseriscono, intanto, vari personaggi; i quali, attraverso un inquieto, imprevedibile dipanarsi di eventi, tutti legati alla violenza, contribuiscono a sciogliere l’intreccio dell’azione con una soluzione inattesa. 

La trama del libro, quindi, è innestata sul motivo della “violenza” che si insinua in modo imprevedibile nelle cose degli uomini, e agisce su di esse, manovrandole e pilotandole oltre la difension di senni umani: sicché tutti i personaggi del romanzo sono costretti a subirne le conseguenze, da cui altrettanto impreviste, spuntano grossi risvolti positivi: è un incessante alternarsi di sfiducia, e fiducia, col susseguirsi di eventi lieti, che alla fine rendono più accettabile la violenza stessa, cara, che sia o che sembri tale. 

Il racconto è, dunque, una variata e talvolta allucinante meditazione sulla collocazione esistenziale dell’uomo, esposto ai colpi della violenza, ma serpeggia nelle pieghe della narrazione un’intima sofferenza, sfuggente e inquietante, che consente tuttavia di cogliere bene il giudizio dell’autore, sospeso fra pessimismo e ottimismo, perché questi atteggiamenti, eterni in quanto appartengono all’uomo, coesistono nel libro, senza che l’uno prevalga sull’altro, determinando sfiducie e fiducia; sicché anche il “lieto fine” è avvolto da una malinconia – appena un’ombra – : quella “felicità”, raggiunta dopo tante dolorose esperienze, ha in fondo la sua radice nella “violenza”, che può sempre riprendersi quello che, attraverso l’intrecciarsi di tanti avvenimenti, ha elargito. 

Le meditazioni di Agostino, dopo la raggiunta “felicità”, sono illuminanti: «… oggi comincia un giorno nuovo; quello tanto atteso; nascono altri interessi intessuti di motivi profondi. 

Ma non può non ricordare gli avvenimenti che, indirettamente, ora, gli consentono di recuperare la vita, la gioia di vivere. 

Eppure sono stati avvenimenti che avevano tutti la radice della violenza: il suo arresto, e il carcere; Carlo con le sue tristi e dolorose esperienze che lo avevano fatto criminale; l’uccisione della guardia, marito di Sofia, caduto per compiere il proprio dovere. 

Ognuno di quegli episodi, per un misterioso gioco del destino, per un intrecciarsi di segreti disegni, si era congiunto con gli altri…»l. 

La “filosofia” di Agostino non è problematica: egli parla a se stesso con confidente abbandono e si esprime con brevi riflessioni, con semplicità tranquilla, quasi rassegnato all’ordine immutabile dell’esistenza, che egli accetta per quello che essa è, ma che pure guarda con anima poetica, per concludere che in fondo “tutto questo è bello”. 

In tutto il racconto si coglie l’intricarsi del rapporto tra l’autore-narratore-personaggio, ma talvolta il rapporto si pone in maniera gerarchica, nel senso che l’autore prevale, come quando, nel carcere Agostino è colto da un sonno ristoratore, che “arriva ad acquietare quel fiume di pensieri, di meditazioni”, per riportarlo, mediante il rifluire dei sogni, “in un mondo innocente, lontano, intimistico, di ragazzo che amava la solitudine, in continuo rapporto-dialogo con la natura, le cose”. In quella circostanza l’autore si stacca, quasi con delicatezza, dal suo personaggio per annotare: «Un sorriso lieve si è posato sulle labbra dell’uomo che dorme in una cella di isolamento di un carcere sprofondato nel buio della notte e del tempo»2. 

Oppure, quando, a fissare la monotonia logorante dei giorni trascorsi in cella, l’autore interviene direttamente nella narrazione, sostituendosi al personaggio: « Il tempo passa, i giorni si succedono ai giorni e tutti figli dello stesso padre, con gli stessi caratteri scontati, tanto che si poteva scommettere sul giorno dopo e sugli altri ancora»3. 

Altre volte la presenza dell’autore si avverte in maniera meno evidente, come quando si sofferma o indugia su notazioni naturalistiche che, improvvise, qua e là, affiorano per dare alla narrazione il tocco lieve di un colore, o per insinuare un attimo di pace o di “straniamento”; «… il cielo sereno, limpido e luminoso che prometteva una giornata di sole, i cui primi raggi, ancora obliqui al di là delle case di fronte, indoravano le cime di alcuni abeti cresciuti alti in una villa vicina». «La primavera era inoltrata e la natura splendeva partecipando alla nuova stagione, ammantandosi di verde e di luce». «Allora il cielo sembrava vicino, sulla collina, nel silenzio bello della natura. Il vento, col cambiare d’umore recava ora la resina pungente dei pini, ora la salsedine del mare vicino … Ma allora in quel cielo azzurro oltre le nuvole bianche c’era Dio e a casa, vicino al mandorlo, l’amore della mamma». « Il riquadro del cielo è l’unico contatto con la natura, anche se il cielo sembra tanto alto e lontano. Almeno lo si può guardare a piacimento e perdersi a seguire le nuvole che mutano forma, libere come sono di sentire il vento “. « … corre ad aprire i battenti del balcone sul quale brilla il sole 

e dove i pochi vasi di geranio hanno ripreso i colori»4. 

L’autore si identifica e si diversifica al tempo stesso dal personaggio; in fondo, però, a dare respiro e colore alla pagina è sempre quell’inconfessato bisogno di Cammarata di ritornare alla terra e alle acque, ai venti e ai profumi della sua Sicilia. Ma nella conclusione del libro la presenza dell’autore è senza dubbio più scoperta perché in quelle ultime parole (“tutto questo è bello”) c’è lo stesso approdo delle altre due opere, sempre con quella melanconica consapevolezza del provvisorio, del transitorio, con lo stesso invito a continuare, a vivere, sia che siamo oppressi dal dolore e sia che siamo vittime della violenza5. 

L’avvio della vicenda farebbe pensare a Kafka (Il processo); ma si tratta di un riferimento del tutto esteriore, senza alcun riscontro effettivo, in quanto l”‘ideologia” sottesa al romanzo di Cammarata è tramata da una inespressa fiducia, che, senza essere rigorosamente ancorata ad una concezione metafisica, opera e agisce nella vita umana, con la stessa forma del suo antagonista, la violenza; sicché il mondo di Agostino è un mondo in cui splende sempre la luce: un pezzo di cielo si apre anche sullo squallore del carcere; e la sua solitudine non è mai angosciosa o desolata, ma è riscaldata dal calore della memoria del passato: la casa, l’amore della mamma, il cielo azzurro, il mandorlo fiorito, immagini salde e reali che legano il personaggio-autore alla “sua” terra, da cui non si sente “sradicato”. E l’attesa di qualche cosa che deve accadere non resta mai delusa, perché c’è sempre quel “varco” montaliano che riesce a stabilire, nella imprevedibile trama dei gesti e delle vicende umane, una comunicazione con la vita. 

Nel libro autobiografico Dal buio della notte il “varco”, attraverso cui Andrea riemerge alla vita dalle sofferenze del male, è l’amore per il prossimo; nella raccolta poetica Per dare colore al tempo il protagonista del male di vivere approda all’isola della poesia, con la voglia di resistere, di continuare; nel romanzo Agostino, senza essere mai abbandonato dalla sua coscienza critica, pur nella condizione di passività, scelta come estremo rimedio contro le “ragioni” del mondo, che con i suoi ingranaggi stritola ed umilia l’uomo onesto e dignitoso, trova la via d’uscita attraverso il “varco” dei vari risvolti positivi, che, anche se scaturiscono dalla violenza, sono stati sempre intravisti dalla coscienza critica del personaggio, che rafforza la sua fiducia nelle qualità positive dell’uomo, facendo appello alle potenti risorse spirituali che ciascuno porta in sé. 

Il rigore stilistico, a cui Cammarata ci ha abituato con le due opere precedenti, trova nel romanzo un’ulteriore conferma: il linguaggio semplice, scarno, lucido e nitido, da cui traspare la tensione intellettuale e morale dello scrittore, attento anche agli effetti di un’accorta punteggiatura, conferisce alla pagina una pulizia formale e sottende un significato profondo, straordinariamente intenso: il dramma dell’uomo sconfitto dai perversi meccanismi della realtà sociale, ma anche il suo anelito di speranza, di un ottimismo sano, capace di trovare nelle vicende della vita spazi sempre più ampi, dimensioni più durature e meno precarie. 

Altre caratteristiche emergono, però, dalla prosa del romanzo. Se le pagine dell’autobiografia (Dal buio della notte) si leggono tutto d’un fiato, come un diario, le pagine di Violenza, oh cara, precise, levigate, dal sapore talvolta realistico, o delicatamente liriche, rivelano non poche novità, che rinviano a frequentazioni di scrittori assai diversi, ma sempre impegnati sul versante formale e stilistico. Per prima cosa il ritmo della narrazione, che si attesta sulla cadenza, talvolta persino ossessiva, dei “ritorni verbali”, che si individuano nella coppia presente/futuro o presente/condizionale. Certo, il tempo presente domina l’azione del libro: l’ordine del vissuto e quello della parola scandiscono il medesimo ritmo; la vita, in fondo, è scrittura, e la «grammatica del vivere» (Svevo), diventa anche la grammatica del testo. 

La fissità rigida dei tempi storici (in particolare dell’imperfetto) è rispettata solo nelle prime pagine del libro e in quelle – brevi – che riproducono il “flusso della memoria”, e sono parti di racconto, operato dal personaggio-narratore, che parla o racconta o interpreta muovendo dal nunc: subito dopo, ricompare il tempo presente, con una persistente coerenza, nel “monologo interiore”, in cui Agostino si rifugia (ma Carlo, il giudice, e, in tono minore, un po’ tutti gli altri personaggi del romanzo), per esercitare al meglio le capacità di riflessione e di osservazione e per esplicare il massimo dell’immaginazione psicologica garantito dal massimo di verosimiglianza, la quale è verità fantastica – è bene avvertirlo -, lontano, quindi, dalla verità empirica e documentaria della cronaca6 . Proprio il “monologo interiore” immette il lettore, fin dalle prime pagine, nel pensiero del personaggio principale e di quelli secondari, i quali nello svolgimento ininterrotto del proprio pensiero allineano i dati della coscienza di quanto loro accade, attivamente o passivamente, come soggetto e come oggetto. 

Il ricorso, dunque, alla forma del “discorso vissuto” spiega l’uso dominante del tempo presente, che dà la connotazione del “non-essere” del futuro, ma spiega anche l’uso del passato, nei momenti in cui la memoria rifluisce al tempo andato7. E ciò rende anche ragione del modesto spazio riservato nel romanzo alle battute dialogiche: il dialogo, per lo più, tende a risolversi in monologo, in cui il personaggio, quasi collocato fuori della dinamica narrativa del racconto, segue il corso del proprio ragionare e riflettere, cioè dei suoi reali processi mentali attraverso l’invisibile intrico dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti8. 

Quale la collocazione storica del romanzo di Cammarata? Il lettore che si fermasse su alcuni elementi che, pur essendo i più appariscenti, sono senz’altro esteriori e poco determinanti per inquadrare l’autore in una precisa linea di tendenza, sarebbe senza dubbio indotto in errate valutazioni. 

Il “lieto fine” e la fluidità della narrazione potrebbero, infatti, indurre a definire il romanzo Violenza, oh cara, come un libro di stampo ottocentesco: ma un esame attento, o meno sbrigativo, della pagina e del libro complessivo non giustifica e non autorizza una siffatta definizione, Perché non poche sono le caratteristiche che conferiscono al libro un’indubbia attualità. L’architettura del romanzo, cioè l’organizzazione razionale degli eventi, colti nella loro successione logico-cronologica9 , l’ideologia sottesa ai fatti con la inquietudine per la condizione dell’uomo, legano intimamente il libro a problemi della realtà di oggi; ma è soprattutto lo stile, con le caratteristiche individuate e messe in risalto, che porta decisamente il romanzo di Cammarata fuori di certi schemi ottocenteschi. Senza dire che il continuo “interscambio” o intreccio di autore-narratore-personaggio, anche in quei momenti di sopra-impressione o gerarchia dell’autore sugli altri due, toglie alla realtà del libro i caratteri dell”‘oggettività” o della “rappresentazione scientifica”, per conferirle, invece, non solo quelli più propri e più personali dell’interiorità del singolo, della coscienza, soggetto-oggetto, che svela se stessa, ma anche i segni del desiderio del puro gusto del “raccontare”, di muoversi con originalità, appunto, nel mondo del linguaggio. 

Walter Tommasino

l. R. Cammarata, Violenza, oh cara, Caltanissetta-Roma, Sciascia Ed., 1986. pag. 192.
2. Op. cit., pag. 64. 
3. Op. cit., pag. 84. 
4. Op. cit., pagg. Il, 18, 61, 92, 174. 
5. Cfr. i nostri due interventi: Vivere attraverso il dolore, ovvero “Dal buio della notte”, in “Il Corriere del giorno”, 26-2-1984; La poesia di Romano Cammarata, tra sogno e realtà, in “Istruzione tecnica e professionale”, n. s., Roma, Palombi Ed., n. 84, 1985, pagg. 222-227.6. Per il “monologo interiore”, che i tedeschi chiamano erlebte Rede (“discorso vissuto”) e i francesi le style indirecte fibre, cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, pagg. 593-600: il volume, pubblicato postumo con presentazione di E. Montale, raccoglie le lezioni universitarie degli anni Sessanta (dal ’60-61 fino al ’65-66). Sul discorso critico che si è sviluppato sulla nascita in ltalia del romanzo antinaturalistico, cfr. anche, M. Guglieminetti, Strutture e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Milano, Silva, 1964, ora, in nuova edizione, col titolo lievemente diverso, Il romanzo del Novecento italiano. Strutture e sintassi, Roma, Editori Riuniti, 1986. 
7. L’autore introduce i monologhi con l’uso delle “virgolette”, come veri discorsi diretti che i personaggi stabiliscono con la propria interiorità; cfr. Op. cit., pagg. 11-12; 19-20; 39-46; 70-74; 91-92; 107-108; 186-187. 
8. Cfr. Op. cit., pagg. 28; 55-57; 75-76; 94-95; 98-106; 116-117; 129-130; 156-158; 176177. 
9. La separazione tra ordo artifteialis dell’intreccio e quello criticamente formalizzato dalla fabula consente di cogliere la dinamica del racconto. le intenzioni espressive del narratore, il suo modo di porsi nei confronti del lettore. Per un discorso critico più approfondito sulla narratologia si rinvia a T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino. Einaudi. 1968: C. Segre. Semiotica filologica, Torino. Einaudi, 1979: S. Chatman. Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche, 1981.

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 63-68. 




 Artifex additus artifici

Nel dicembre del 1984, in un’aula della Facoltà di Magistero di Torino, con una sobria ed assai significativa cerimonia, in perfetta armonia con il carattere e lo stile di Ettore Bonora, amici, colleghi e scolari hanno voluto degnamente onorare il settantesimo compleanno dell’illustre studioso, presentando in volume alcuni suoi scritti sulla critica letteraria del Novecento: Protagonisti e problemi, Torino, Loescher, 1984. 

A primo acchito sembrerebbe che a tenere legata la raccolta di saggi e di note sia il dato cronologico (il Novecento), ma a ben guardare vi è una unità interna, una disciplina strutturale ed una metodologia essenziale che li stringe e li annoda in un corpus organico. 

Il volume che si avvale di una deferente presentazione e di una completa bibliografia degli scritti di Ettore Bonora apparsi in varie riviste fra il 1939 ed il 1984, è costituito da nove organici ed omogenei interventi: Benedetto Croce e la letteratura del Rinascimento, La drammaturgia settecentesca nella storiograjia italiana da De Sanctis a Croce, Il dibattito sulla letteratura dialettale dall’età veristica a oggi, Il Seicento “protagonista vero e immanente” dei “Promessi Sposi” nella interpretazione di Luigi Russo. Appunti per un ritratto critico di Mario Fubini, Fubini direttore del “Giomale storico”. Breve discorso sul metodo di Gianfranco Contini, Dalla storia della letteratura alla scienza della letteratura. 

Il lettore attento sa accorgersi dell’improba e meritoria fatica di rendere lucido, anzi traslucido e sintetico, il pensiero critico di un Benedetto Croce, di un Luigi Russo, di un Mario Fubini, di un Gianfranco Contini o di un Hans Robert Jauss; lo studioso esperto riconosce non meno velocemente l’attenzione impeccabile del lavoro, la cura scientifica nell’organizzare e conseguentemente esprimere, con sicura evidenza, in una scrittura controllatissima, un organico panorama di idee di tutta una attività critica che, dai nomi summenzionati, passa alle generazioni future alcuni principi motori della nostra indagine letteraria. Ciò avviene perché lo studioso, con la sagacia e l’acribìa che gli sono pressoché unanimemente riconosciute, non si limita a rendere conto doviziosamente del pensiero del critico che è oggetto della sua riflessione, ma avanza sovente nuove e sostanziali ipotesi, propone e indica delle soluzioni, per cui i saggi di un Croce o di un Russo acquistano in intelligibilità. 

Arte del chiarire e dell’integrare ai fini di una corretta interpretazione è da dirsi quella del Sonora storico della critica letteraria. Ed è un “maieutico” aiutare non solo a capire. ma anche ed essenzialmente ad avvicinarsi al critico di turno (ma sarebbe più giusto ai critici per la vastità del respiro esegetico dato all’argomento) con ben altri strumenti interpretativi, con ben altre cognizioni. In questo individuato ambito è legittimo affermare che l’autore sia andato oltre il proposito di essere il semplice storico della critica, perché la rara esperienza e gli approfonditi studi, uniti, oseremmo dire, ad una “naturale” vocazione critica, gli hanno consentito di compiere quanto maggiormente è auspicabile: nel chiarire il pensiero del critico, costruire sulla critica nuova critica (ci si perdoni la voluta iterazione del termine), non solo illuminando. ma altresì prospettando chiavi di lettura, e probabili soluzioni senza mai influenzame l’oggettività critica. 

Lo studioso appare quindi come il sempre più auspicabile artifex additus artljìci che nell’utilizzo delle forme agili evita la pedanteria e rifugge dall’accademia “pura”. E non è certo solo un caso se il volume si chiude con 

l’osservazione del Thibaudet: “Un libro di critica è vivo solo se suscita la critica, se tiene la sua parte in un dialogo, se comunica la sua vibrazione a un movimento che lo supera – vale a dire, insomma, se è incompleto, se porta il lettore a rettificarlo”. 

Una verità essenziale che il Sonora ha da tempo tesaurizzato nella sua integralità aprendo sempre un autentico e chiarificatore dibattito di idee ove è facilmente rilevabile l’avvertito bisogno di inverare con proprie convinzioni posizioni critiche che pur mantengono sovente inalterate le loro prerogative di validità. Ciò senza nulla togliere alla messa a fuoco delle posizioni e delle ragioni critiche da cui gli interventi erano scaturiti. Pertanto il senso del dibattito lievita nella ri11essione che si rivolge al testo problematizzandolo. 

Una capacità di lettura, quindi, aderente al testo e all’autore, ma nel contempo sostanzialmente dialettica: un saper leggere che il Sonora ha attinto dalla sua lunga esperienza di solerte studioso e di fine e sensibile interprete. Un leggere con volontà di collaborazione che rivendica alla critica il suo ruolo legittimo di crescita sociale e culturale additandone i caratteri peculiari su cui si regge e prospera: il confronto, l’integrazione e lo scontro di idee che ne garantiscono il progresso e ne legittimano la essenzialità. 

Rigorosamente calati in un preciso diagramma storico-critico questi studi tengono sempre in debita considerazione l’intero arco critico degli studiosi esaminandone l’opera specifica in una visione radiale e globale di insieme, rifuggendo da arbitrari e spesso fuorvianti estrapolamenti. Anche per ciò, a nostro avviso, i saggi sono altamente esemplativi di quanto l’intelligenza critica, messa a disposizione della serietà di lettura, pur se in un settore così complesso e vario come l’ermeneutica, diventi una proposta destinata ad inl1uenzare tutto un modo di fare storia della critica. Singolarmente esemplativi a tal proposito sono i saggi su Benedetto Croce, su Mario Fubini, su Gianfranco Contini e su Hans Robert Jassus, per non parlare della “querelle” fra il Garlanda ed il Pirandello sulla struttura dell’endecasillabo dantesco che appare quasi come un pretesto per una più ampia ed articolata discussione. Che dire poi della esemplificazione magistrale che il Bonora ci fornisce del pensiero di Luigi Russo a proposito del “Seicento protagonista vero e immanente” dei “Promessi Sposi”: “Il Seicento è il protagonista del romanzo non già per gli elementi storici, chè questo poteva essere ingrediente esteriore, impalcatura, scenografia del così detto romanzo storico, ma in quanto spirito, logica, gusto, vita morale”? Non minor pregio per sintesi e precisione ha il discorso sul metodo del “postcrociano” Contini, ove lapalissianamente si evidenzia che alla base della metodologia di uno dei maggiori rappresentanti della critica stilistica sta l’analisi della tecnica di uno scrittore e dell’organizzazione di un’opera, intesa come prodotto linguistico: analisi che si fonda su un attento esame delle varianti per individuare le direzioni di lavoro dello scrittore ed il processo formativo del testo. 

Sobrietà, chiarezza ed una singolare accuratezza informativa ne fanno un volume fondamentale sia per gli specialisti che per i lettori comuni di buona cultura che anche dal Sonora storico della critica riceveranno la conferma della sua onestà critica ed intellettuale (una dote che si va vieppiù rarefacendo nella larga schiera degli studiosi), sia nelle note dedicate al “maestro degno di essere ascoltato” (Fubini) sia nei saggi sul Croce, di chi proprio crociano il cento per cento non è, ma che certo sarebbe pronto (e noi con lui) a “bollare” di “imbecillità” chi pretende di ignorare l’entità notevole della sua opera di critico e i filosofo, e misconoscere financo “il gusto sicuro di lettore” e la essenzialità di non poche sue pagine. 

Anche questa, ormai assodata, onestà concorre a qualificare il Bonora come uno degli ultimi veri grandi maestri, accanto a quelli che sono stati oggetto della sua riflessione, da cui le giovani generazioni di studiosi possono copiosamente attingere sicuri di trovarvi gli stimoli necessari al loro non comune e faticoso impegno. 

Vito Titone 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 41-44




 La realtà del labirinto irreale nella pittura di Emilio Guaschino

Emilio Guaschino è un pittore tutto figurativo: nel senso di rappresentare volti umani, cieli visibili, muri e finestre controllabili nella realtà, mari navigabili, sentimenti persino aperti all’immediata comunicazione. 

Così delineata, la lettura di Emilio Guaschino, pur se aperta su correnti d’arte che già fanno storia, potrebbe spingerci verso una illustrazione della realtà, anche se somatizzata, cioè trasferita sui volti delle donne e degli uomini, tutti e sempre lavoratori, e resa sentimento dolorante nelle angosce dei calli sulle mani e delle rughe. Ma resterebbe sempre un artista del realismo, sublimato da passioni e compassioni. 

Invece in Guaschino, accanto e dentro questi suoi aspetti, che restano qualità, va individuato quel dosaggio di astrazione mentale per cui il suo realismo si innalza e fa innalzare l’occhio di chi guarda il suo quadro o il suo disegno (perché è gran disegnatore, cosa rara) verso sensazioni e significati multipli, astratti e concreti simultaneamente. Sta in questo la pittura come poesia, e quindi la pittura come ricerca di Bellezza equiparata alla Verità. 

Un carro siciliano (talmente carro che potrebbe essere letto in tal senso sotto qualsiasi cultura e latitudine), volti, braccia, bocche aperte al grido, seni tesi alla provocazione e alla vita, usci chiusi come i nodi sulle mani dei personaggi, tutti gli insistiti ma cangianti problemi e temi di questo artista hanno sostegno mentale e poetico di tanta carica realistica da universalizzarli. 

Si verifica, quindi, il fenomeno di confluenza tra intenzione realistico-figurativa e la sotterranea spinta a costruire un romanzo, cioè una «fantasia». Mi spiego: Guaschino è narratore di ceppo veristico con innesti sociali, la cosiddetta «realtà sociale», che però stabilisce un rapporto fantastico tra le due verità. La grande narrativa siciliana, tra le più ardite ed alte della cultura mediterranea, trova in Guaschino non una replica pittorica, ma un’autonoma e riuscita resa. Una antologia delle opere di Guaschino potrebbe arrivare, se guidata dallo stesso autore con le stesse sensibilità evidenti di ogni singola opera-pagina, a possibilità narranti unitarie, da romanzo. Del resto, la sua tendenza a cicli di temi e di volti è chiara vocazione narrante. 

Guaschino sa concludere opposte spinte verso saldature che firmano l’opera con una evidente sigla tutta propria, pur se con le ascendenze lealmente dichiarate. Quello che conta è questa sigla che gli dà il diritto di avanzare sulla linea dello sparuto gruppo di artisti nostri , riconoscibili, leggibili, godibili sul doppio binario della poesia-verità. 

Si tratta di un saggista della pittura. Cioè un artista che sviluppa spinte di apostolato. Anche tali qualità sono preminenti in questa misteriosa Grande Madre ch’è la sua Sicilia. 

Pertanto l’ analisi di questo artista andrebbe eseguita su interi cicli di produzione del pittore, per ricavarne i significati e gli allarmi multipli della passione d’ arte e di poesia portata avanti sulla tela o sulla carta. Basterebbe la constatazione di questo desiderio del critico, e del lettore del quadro, a prolungare la sosta e 1’analisi davanti e dentro l’opera di Guaschino per verificarne la forza di rappresentazione e di possesso su chi gode l’opera.

Giuseppe Selvaggi

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 41.




Serena La Scola. Un dolore oltre lo specchio

Un viaggio nei labirinti dell’inconscio, un richiamo alle dimensioni immaginarie del sogno, uno sguardo al dolore e alle malinconie di una artista. Non sempre le parole riescono a comunicare stati d’animo; spesso occorre un lessico parallelo dove segni, colori, luci, ombre, volti, sono note di uno spartito più complesso. Le barriere dello spirito cedono, anche per pochi istanti, e visioni enigmatiche affiorano da sentieri nascosti per creare un cosmo pittorico misterioso e affascinante. 

Per Serena La Scola, dipingere è una urgenza inspiegabile, una continua ricerca della propria essenza, un eterno immaginare dove le angosce di una coscienza lacerata si trasfigurano in donne provenienti da universi lontani. L’artista racconta percezioni emotive proiettate oltre il contingente, traccia spazi irreali e interpreta lo smarrimento dell’io in figure immobili, imperturbabili. E nell’intima coesione tra contenuto e forma, emozione ed espressione, sensazione e figurazione, dà sostanza visibile a pensieri e ricordi, nella tensione simultanea di mano, cuore e mente. E lo fa con maestria su tela, su legno e su ceramica. 

Come automatismi dettati da sconosciute risonanze poetiche, le donne di Serena La Scola, messaggere elusive e inafferrabili, emergono magicamente da condizioni metafisiche e atemporali, dove materia, luce e colore diventano elegie di un sapiente alchimista. Euridice, Penelope, Persefone, Ester, Ottavia, Lucia … scaturiscono da memorie mitologiche, esoteriche e sacre, secondo dialetti che interiori, proiettate in orizzonti infiniti. 

Euridice vive di sospensioni nostalgiche, incantata in un oblio onirico. Il dipinto è un inno al colore e si perde nell’annuncio di una luminosità che non annulla i tratti di una presenza-concreta. Se Euridice sogna in un incanto di luce dorata, Penelope tesse la sua tela e pensa al suo amore lontano. Il capo leggermente inclinato, gli occhi socchiusi evocano il sapore dei ricordi in un universo quasi insondabile. L’azzurro modula le profondità del mare, brilla nel manto pittorico e si trasforma in materia fluida e pulsante. 

Complesse atmosfere segniche-gestuali descrivono il mondo delle eroine bibliche, visioni interiori evocate in luoghi pittorici percorsi da un’ agitazione estrema. 

L’artista studia la matericità del colore, ne afferma le innumerevoli potenzialità espressi ve concentrando l’attenzione sull’energia interna delle tinte. Giuditta è la proiezione di un animo inquieto, di una forza trattenuta ma pronta ad esplodere in pennellate e rivoli rossi che precipitano verso il basso. Le tonalità giallo-arancio vivono dei loro accenti più profondi in contrasto con strutture nere indipendenti, che come lame squarciano la tela. Ester ci fissa da uno sfondo popolato di gesti allargati e respiri immensi. Uno spazio frammentato in cui le ombre divengono elementi dominanti, e il blu esprime un’inedita tensione formale nella percezione di un colore drammatico. 

L’artista dipinge poesie come echi materializzati di una coscienza percepita come espressione di un sentimento poetico. Ci conduce negli spazi siderali del mito e del sacro, ma ci immerge anche In un buio labirinto, olio su tela, 2008 nei recessi più nascosti della psiche. Solitudini non confessate prendono forma negli specchi «melanconici» di Ottavia, Lucia, Melanconia. Le prigioni dell’io sono evocazioni di silenzi strazianti. Ottavia dissolve suggestioni struggenti nei ricordi di un amore appena perduto. Come un viandante solitario, identifica una visione tormentata, in un sintetismo di cromie viola, nella sagoma del corpo come proiezioni notturne dei propri conflitti. In una simbiosi diretta tra intuizione e realizzazione, Serena La Scola, avvinta dai continui naufragi dell’essere, sa dare linfa vitale alle espressioni simultanee del suo labirinto emotivo, tradotto in scelte estetiche precise e dense di poesia. 

Silvia Scarpulla

 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 52-53.




 Lettera aperta al Ministro della Funzione Pubblica  Giustizia amministrativa e burocrazia statale 

Signor Ministro, mi rivolgo a Lei, con la certezza che vorrà dedicare appena qualche minuto a poche mie considerazioni sulla DECISIONE del CONSIGLIO DI STATO n. 659 del 26-6-1990. 

Nella stessa legge, tra l’altro: “A norma… della Legge 29-2-1980 n. 33, al Personale degli Enti .disciolti… assegnati ai Ruoli Speciali… presso ciascun Ministero… era garantita, prima del definitivo inquadramento nei Ruoli Speciali suddetti, una salvaguardia transitoria delle posizioni acquisite presso l’Ente di appartenenza… L’Art. 5 della Legge 10 luglio 1984 n. 301… deve essere interpretato nel senso di applicabilità retroattiva alla data di inquadramento nei Ruoli Speciali (Promozione alla qualifica di Dirigente Superiore), anche in assenza del relativo posto di ruolo nella tabella organica, mediante la istituzione di un posto in soprannumero (nel Ruolo Speciale), cui corrisponde la soppressione del posto nella qualifica di provenienza (Primo Dirigente) … “. 

Molti Ministeri (ad esempio: quello del Tesoro – Ragioneria Generale dello Stato – quello delle Finanze – quello del Commercio con l’estero) hanno già dato esecuzione a tale Decisione del Consiglio di Stato (altri sono in procinto di farlo), per tutti i dipendenti in possesso dei requisiti richiesti. 

Alcuni Ministeri (Sanità – Beni Culturali), per mancanza di serenità e di coraggio nell’assunzione delle proprie responsabilità, non sono stati capaci di prendere analoga, autonoma iniziativa, e hanno sottoposto il quesito al conforto di codesto Dipartimento, che, nella persona del Dirigente Generale, Direttore del Servizio V. Dr. Longhi in risposta ai quesiti stessi, sostiene con forza la infondatezza giuridica della Decisione del Consiglio di Stato, per concludere: “Si è quindi dell’avviso che alle richieste dei Dirigenti … debba essere opposto un assoluto diniego, anche a rischio di provocare un altro contenzioso…”. Come per dire: “Il Consiglio di Stato non è legittimato ad occuparsi di Giustizia Amministrativa e a prendere, di conseguenza, certe decisioni o, per lo meno, poiché ha sbagliato nel prenderle, io non ne tengo conto, a costo di obbligare i dipendenti a ricorrere all’infinito, dal momento che non terrei, naturalmente, conto neanche di una eventuale, ulteriore decisione favorevole. Potrei tenerne conto soltanto quando il Consiglio di Stato si decidesse a tradurre,nel suo provvedimento, il mio punto di vista. In altri termini: o il Consiglio di Stato fa come dico io o ritengo solo me, e non altri, il depositario del Consigliodi Stato”. 

Anche se paradossalmente, sembra che il Direttore del Servizio V abbia ra-gionato e ragioni così. 

Signor Ministro, mi rivolgo a Lei con fiducia, incoraggiato dalle tante iniziative da Lei intraprese per l’ammodernamento dell’apparato statale. Lei insiste molto sul rispetto dovuto al cittadino e sul concetto che l’Amministrazione Pubblica ha come suo primo dovere quello di servire il cittadino. 

Il Direttore del Servizio V dimostra, invece, sul suo ruolo di servitore dello Stato, una concezione molto diversa, se non ritiene di fare il bene del cittadino(nel caso in specifico: del dipendente della Pubblica Amministrazione) neppure quando il supremo Organo della Giustizia Amministrativa sentenzia a suo favore. Evidentemente giudica il suo ufficio non uno strumento di servizio (nonostante il nome lo farebbe supporre – Servizio V), ma un feudo personale, un potere da gestire, più o meno capricciosamente, in nome del cosiddetto “interesse pubblico”, anche se perseguito facendo il danno e l’ingiustizia del cittadino, contravvenendo ad un diritto a lui riconosciuto, anche formalmente, da un Organo a ciò preposto dalle leggi dello Stato. 

Che direbbe questo zelante Capo Servizio se, la mattina, recandosi in Uffi-cio, trovasse i suoi dipendenti decisi a non rispettare le norme, neppure quelle dettate da lui, ovviamente discutibili come tutte le cose umane? Egli si è comportato allo stesso modo. Penserebbe mai di conferire un encomio solenne ai suoi dipendenti, come certamente ritiene di meritare per sé, per il suo lodevole servizio reso allo Stato? O non penserebbe, piuttosto, che l’uno comportamento (quello dei dipendenti indisciplinati) e l’altro (quello suo, di Capo Servizio)sanno di anarchia? Evidentemente egli è convinto, se la logica vale sempre, di fare l’interesse pubblico con l’anarchia. Non si potrebbe mettere in discussione,con questa logica, anche il suo stipendio, che qualcuno potrebbe ritenere, in qualche misura, usurpato, se pensa di impiegare utilmente il suo tempo nel trasgredire, in senso lato, le leggi? 

Il Direttore del Servizio V, tra l’altro, non solo ritiene che possa coincidere l’interesse pubblico con il danno del cittadino, ma, incurante anche del danno che un contenzioso sistematico può arrecare alla Pubblica Amministrazione, la incoraggia a resistere ad oltranza alle “pretese” del proprio dipendente, anche se il Consiglio di Stato ha riconosciuto che quelle “pretese” sono un suo diritto. 

Se neppure la Decisione di un Organo Giurisdizionale ha valore, scompare,per il cittadino, la certezza del diritto, in nome dell’arbitrio di un Capo Servizio,che ritiene diritto solo il suo convincimento e che, sconvolgendo l’ordine giurisdizionale esistente, presume di assommare nella propria persona tutti i poteri,con buona pace di Montesquieu, i cui criteri sembravano ancora validi. 

Non è dissimile, lo stato d’animo che porta a questa conclusione, da quello dei componenti dell’armata, cosiddetta, di Brancaleone. Ogni Dirigente statale,nel caso nostro al di fuori di ogni regola e di ogni norma, può tranquillamente,come i componenti di quell’armata, decidere come più gli aggrada, quando si sveglia la mattina, in base ai suoi discutibili umori di giornata. 

Ciò, purtroppo, avviene non soltanto dinanzi ad una Decisione del Consiglio di Stato, ma, più spesso dinanzi a tutte quelle provvidenze che vari Ministeri (non tutti per fortuna), gestiscono, non animati da spirito di giustizia, ma di parte, per cui alcuni cittadini o persone giuridiche risultano lautamente favoriti, altri sistematicamente esclusi da certe provvidenze, che potrebbero, meglio,essere destinate a rotazione, quando i mezzi non consentono di raggiungere tutti contemporaneamente. 

Mi scusi, Signor Ministro, questo sfogo, ma la Società (sia essa fatta da cittadini, da dipendenti statali o da altre categorie), per andare avanti bene, ha bi-sogno, credo, di persone responsabili, non dominate da passioni ingenerose, di cui ci si possa fidare di più. 

Fino a qualche tempo fa, almeno, il Dipartimento per la Funzione Pubblica, nella sua azione di consulenza legale, si è sempre schierato dalla parte del cittadino, quando non era di danno alla collettività. Diventa assurda e ingiusta, quando, come nel caso specifico, presume di fornire indirizzi giusti, in contrasto con le decisioni dei Competenti Organi di uno Stato di Diritto come il nostro. 

Tale azione non può non essere avvertita come frutto di arroganza e di disprezzo della giustizia. Si possono anche discutere le decisioni degli Organi 

Giurisdizionali, ma non essere disattese. Sarebbe come se la Corte Costituzionale dichiarasse incostituzionale una norma o altri Organi dello stato, non condividendo, si sentissero autorizzati a non tenerne conto. Sarebbe lecito e giusto? Agli Organi dello Stato ciò non è consentito. Perché è consentito ad un Capo Servizio? 

Non sarebbe stato più opportuno che, almeno, il parere su una Decisione del Consiglio di Stato fosse scaturito da un esame collegiale, date le sue implicanze? Come la mette, poi, questo Capo Servizio con quei Ministeri che hanno già applicato la Decisione del Consiglio di Stato? Non avrebbe dovuto tener conto anche di questo un funzionario attento e scrupoloso? 

Affinché chiunque legga questa lettera (al di fuori di Lei, Signor Ministro, che non ha bisogno del chiarimento) comprenda che la citata Decisione del Consiglio di Stato non voleva creare dei privilegi (come sostiene il Capo Servizio) per gli appartenenti al ruolo Speciale rispetto a quelli del Ruolo Ordinario, ma ristabilire, per essi, la giustizia, faccio notare che la confluenza (del Personale di tanti Enti disciolti contemporaneamente) in un unico Ruolo Speciale, presso i singoli Ministeri, ha comportato grandi disparità di trattamento, nel senso che alcuni, figuranti al primo posto nella posizione giuridica dell’Ente di provenienza, si sono ritrovati all’ultimo posto nel ruolo Speciale e viceversa, anche quelli che avevano maturato il diritto alla promozione e potevano ricoprire posti già disponibili nell’Organico dell’Ente di provenienza e non assegnati per la soppressione dell’Ente stesso? 

Il “nostro” Capo Servizio non ha saputo o voluto comprendere queste cose, all’origine della Decisione del Consiglio di Stato, come non ha saputo o voluto comprendere che l’unica via per ristabilire la giustizia non poteva essere che quella del soprannumero, visto che il Ruolo Speciale era viziato, come si è visto, in partenza. 

Se come prevedeva la legge, il Ruolo Speciale fosse confluito subito nel ruolo Ordinario, si sarebbe fatto un torto a quelli del Ruolo Ordinario, per lo stesso motivo valido per i provenienti da Enti soppressi. Ecco perché la confluenza nel Ruolo Ordinario ha incontrato molte resistenze ed è avvenuto dopo otto anni e non in termini di parità. 

Potremmo discutere a lungo, con punti di vista diversi, sul contenuto, le motivazioni pro e contro. le difficoltà di un provvedimento, ma solo a titolo accademico, perché nessuno, neppure il Capo del Servizio V del dipartimento della Funzione Pubblica ha il diritto di opporsi alla applicazione di una Sentenza di un Organo giurisdizionale al suo ultimo livello. 

Mi auguro, Signor Ministro. che Lei (impegnato ad eliminare dai comportamenti della Pubblica Amministrazione tante storture) trovi il modo di rendere responsabile, a tutti i fini, il Funzionario che emana i provvedimenti, anche per l’eventuale risarcimento dei danni. 

Troppo comodo contrapporsi ad una decisione definitiva di un Organo giurisdizionale quando al Funzionario-trasgressore non costa nulla, mentre costa molto alle altre parti in causa, compreso lo Stato. Un contenzioso ingiustificato e diffuso costa di più allo Stato, della promozione, sì o no, di quindici, venti Funzionari. Neppure questo valeva considerare per il premuroso Capo Servizio? 

Le sembra, Signor Ministro, che sia il più adatto a ricoprire un incarico così elevato, chi è più abile ad alimentare i conflitti che ad appianarli, non certo per migliorare il clima della Pubblica Amministrazione, nell’interesse di tutti? 

Signor Ministro, grato per la pazienza dimostrata. Si abbia la mia stima e il mio rispetto. 

Giovanni Salucci 

P.S. – Forse non è male sottolineare ancora, per il Signor Ministro, la farraginosa e assurda procedura ancora vigente per la tutela dei diritti amministrativi: un dipendente della Pubblica Amministrazione a cui è stata negata l’applicazione di una sentenza del Consiglio di Stato, deve, per chiedere che gli venga applicata, ricorrere al T.A.R e cominciare daccapo, in un circolo vizioso “forse” infinito. 
Come può funzionare bene la macchina statale, se questi sono i suoi ingranaggi? Il Ministro per la Funzione Pubblica non può fare proprio nulla per rimediare a certe storture?

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 21-25.




Congresso Sindacato Nazionale Scrittori

 Il mio intervento sarà di natura eminentemente pratica. 

Il nostro è un Sindacato come si sa “sui generis”, diverso certamente da tutti gli altri. Negli altri sindacati ci sono ruoli ben definiti delle parti in causa, e linearità del contenuto e della materia del contendere: il datore di lavoro, il lavoratore dipendente, l’interesse preciso e generale da difendere, l’arma dello sciopero come strumento di pressione e di persuasione. 

Nel nostro sindacato, invece, i ruoli delle parti in causa sono poco circoscritti, più indeterminati: o per lo meno non così strettamente collegati tra loro e molto più complessi: perché il datore di lavoro quasi non esiste, confuso spesso con la stessa struttura della società. prevalentemente nelle sue parti più carenti; il lavoratore quasi mai è un lavoratore dipendente: la materia del contendere è così multiforme e sfuggente che investe le più clamorose contraddizioni della stessa organizzazione dello Stato e della società: il lavoratore non ha quasi mai la possibilità di usare l’arma dello sciopero come elemento di pressione e di persuasione. Da qui discende l’enorme difficoltà di trovare la via giusta da seguire nelle lotte e nelle rivendicazioni. Bando perciò alle facili critiche ed alle inevitabili insoddisfazioni e invito alla ricerca responsabile e serena dei mezzi adatti e soprattutto ad una maggiore intesa e ad una maggiore solidarietà tra noi, senza di che, io penso, ogni sforzo potrebbe risultare vano. 

Esistono due posizioni sulla fisionomia del Sindacato: 
Avrebbero ragione i primi, se esistessero Organismi diversi dal Sindacato, capaci veramente di difendere gli interessi particolari. Avrebbero ragione i secondi, se tali Organismi non esistessero o dimostrassero di essere incapaci di difendere gli interessi particolari. Siccome non esistono tali Organismi capaci, io sono con quelli della seconda posizione, i quali ritengono che l’azione del Sindacato non dovrebbe escludere nulla che possa giovare agli iscritti. Del resto, ormai, in ogni Sindacato non è più così netta la distinzione tra interessi generali e particolari o individuali. Il suo impegno maggiore dovrebbe senza dubbio essere per le piattaforme rivendicative di carattere generale, ma dovrebbe esistere anche per le istanze di carattere particolare. Tra l’altro, per gli iscritti, spesso alcuni problemi particolari sono più importanti o importanti nella stessa misura di quelli generali. (Un trasferimento: una migliore utilizzazione del lavoratore sul posto di lavoro; una pressione, perché una certa pratica legata al suo rapporto di lavoro venga sollecitata, evasa, ecc. ecc.). 

Non intendo qui riferirmi all’opera svolta dai vari “patronati”, di derivazione sindacale, che si occupano di tutti i problemi degli iscritti in quanto cittadini, anche al di fuori della loro qualità di “lavoratori” (Tale attività può esulare da quella del Sindacato). Ma non può essere esclusa quella, nel nostro caso, che investe i problemi relativi alla persona nella sua qualità di “scrittore” e non di semplice cittadino. 

La riforma, ad esempio, delle nonne del diritto di autore (problema di carattere generale) è importantissima, ma potrebbe avere poco senso per quell’autore, che non avesse risolto prima, a monte, il suo problema legato alla edizione del libro, alla sua distribuzione, alla sua pubblicizzazione, e alla sua vendita. Perciò il Sindacato non può restare estraneo a problemi apparentemente di carattere particolare, ma in realtà di carattere generale, perché investono gli interessi di tutti. 

Cosa può fare il Sindacato per affrontare questi problemi? Poiché il lavoratore-scrittore non ha, e lo abbiamo detto, come i lavoratori dipendenti, l’arma dello sciopero, bisogna trovare altre forme incisive di pressione. E qui scendo nel concreto. 

Il Sindacato deve sviluppare la sua opera di penetrazione in tutte le direzioni. Ed io penso ci sia da fare molto in questo senso. Molti ambienti, statali, parastatali, pubblici, in genere economici e non economici, hanno spazi notevoli di espansione per il Sindacato Scrittori, nell’interesse dei suoi iscritti. Mi spiego con un solo esempio che può valere, però, di indicazione per tantissimi esempi dello stesso genere. Il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali esplica molte attività direttamente connesse alla nostra qualità di scrittori: 

– stampa molte riviste, anche se di contenuto specializzato, con la collaborazione, per gli articoli, di esperti anche esterni; 

– acquista libri, direttamente dagli autori o dagli editori, per la distribuzione gratuita a biblioteche private di ogni genere (di sindacati, di scuole, di parrocchie, di organizzazioni culturali, di istituti di pena, ecc); 

– acquista libri, per la distribuzione gratuita alle biblioteche non statali aperte al pubblico; 

– acquista libri (anche se per il tramite delle stesse biblioteche) per le Biblioteche statali; 

– finanzia le Edizioni Nazionali; 

– eroga premi di cultura agli autori; 

– sottoscrive abbonamenti per riviste da destinare a persone giuridiche, in ambito nazionale ed internazionale; 

– acquista libri da destinare ad Istituti culturali esteri, nell’ambito degli scambi internazionali previsti dai trattati bilaterali di natura culturale; 

– concede premi a riviste di elevato valore culturale; 

– concede contributi per Convegni di natura culturale; 

– concede premi per la esportazione del libro italiano all’estero; 

– concede mutui agevolati all’editoria libraria (praticamente senza interessi); 

– assegna, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, diplomi e medaglie al merito culturale. 

Tutte queste attività sono gestite da Commissioni, formate da funzionari interni, da esperti esterni, con la partecipazione dei Sindacati di categoria. A me risulta che. in molte di queste Commissioni, è presente l’Associazione Italiana Editori. Non so se sia egualmente presente il nostro Sindacato Nazionale Scrittori, 

nell’interesse ovviamente della cultura e dei propri iscritti. Se non è presente, e laddove non è presente, è necessario premere, a tutti i livelli, perché faccia parte anch’esso di tali Commissioni. Ciò vale per il Ministero dei Beni Culturali, come per tanti altri Ministeri e Enti Pubblici. Certamente il nostro Sindacato è presente in tanti Organismi, come ad esempio, nella Commissione che assegna i premi di cultura presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Deve cercare di essere presente dappertutto. Tante attività non si conoscono. Sono certo che molti di noi non conoscono quelle attività, o almeno non tutte, che ho nominato per il Ministero per i Beni Culturali, come la maggior parte non conosce attività similari svolte da tanti Organismi Pubblici, a livello nazionale e locale (Presidenza del Consiglio, Ministeri, Enti Pubblici, Istituti Culturali, Enti locali. ecc.). 

Tutti questi organismi possono essere anche interessati a non avere troppe voci esterne nel loro seno e spontaneamente potrebbero preferire anche il silenzio sulla possibilità della presenza dei Sindacati delle categorie interessate. Tale atteggiamento è comprensibile, perché la presenza dei Sindacati limita il potere discrezionale, che può diventare arbitrario, della Pubblica Amministrazione. Sono i Sindacati esclusi che devono prendere l’iniziativa, sia per conoscere in maniera capillare le attività culturali svolte a tutti i livelli ed in ogni zona, sia per ottenere la loro partecipazione responsabile alle scelte culturali. 

Io suggerirei che, sia a livello nazionale che locale (regione, provincia, comune) vengano istituite, nell’ambito sindacale, commissioni permanenti (formate da iscritti che rivestano cariche sindacali, come da iscritti esperti o inseriti nei vari ambienti esterni) che studino il problema della partecipazione del Sindacato ai vari Organismi esterni e propongano agli Organi Sindacali responsabili le soluzioni da adottare di volta in volta. 

Tali commissioni permanenti potrebbero occuparsi anche dello studio e delle proposte di soluzione anche di tutti gli altri problemi che interessano gli scrittori (il rapporto con le Case editrici per la pubblicazione dei libri, la distribuzione del libro. la vendita del libro, il rapporto con le librerie, l’opera di pubblicizzazione del libro stesso, ecc.). 

Sono note a tutti le difficoltà che incontra la soluzione di questi problemi. Le case editrici, la distribuzione, la vendita, la pubblicizzazione del libro rappresentano altrettanti ostacoli spesso insormontabili, che vanificano ogni nostro sforzo. Le leggi del mercato e del profitto mortificano spesso le nostre aspettative e ci trasformano in semplici oggetti di sfruttamento. quando va bene. Perché spesso, neppure dopo che siamo stati sfruttati, riusciamo ad avere la gioia di qualche successo, perché gli altri hanno deciso così: gli editori, i distributori, i venditori. Tutti, tranne noi, fanno il bello e il cattivo tempo: stampano i libri che vogliono, distribuiscono i libri che vogliono, vendono i libri che vogliono. in base a criteri discutibili, discriminanti, che di tutto tengono conto, tranne, nella maggioranza dei casi, del contenuto valido del libro. Siamo, nella politica del libro e della cultura, ai primordi dello sviluppo civile e storico, alla fase, direi, ancora di servitù della gleba, di feudalesimo il più retrivo. E non abbiamo la possibilità di reagire come gli altri lavoratori, al nostro, diciamo così, datore di lavoro, in senso ironico quasi e improprio, rappresentato, per noi, dall’editore, dal distIibutore, dal venditore. 

Dobbiamo perciò rassegnarci al ruolo di vittime, senza possibilità di scampo? Io dico di no. 

Ogni situazione, anche la più grave con l’in1pegno e la buona volontà, può trovare una via d’uscita. 

Non potrebbe il Sindacato tentare di fare delle convenzioni, degli accordi, per i propri iscritti, con gli editori, con i distributori, con i venditori? E al limite, se ogni tentativo risultasse vano, non potrebbe il Sindacato affiancandosi a strutture solide già esistenti, ipotizzare la creazione di una propria casa editrice, di una propria rete di distribuzione, di proprie librerie, almeno nelle grandi città, con la partecipazione finanziaria e operativa dei propri iscritti? Indubbiamente sono problemi di enormi proporzioni che vanno esaminati a fondo, senza ingenuità, con senso di equilibrio e di realismo. Ma devono essere affrontati, pena il fallimento di tutta l’opera del Sindacato, che risulterebbe, diversamente, sterile. Senza dubbio, prima di arrivare a proprie strutture industriali, produttive, commerciali, bisogna tentarle tutte: nelle tesi preparatorie del precedente Congresso, si insisteva sulla iniziativa di cooperative di secondo grado. 

Non ricordo bene come fossero strutturate, ma mi pare rientrassero nello spirito di ciò che sto dicendo io. 

Nelle tesi si accennava anche ad un’altra idea interessante sull’intervento della mano pubblica nel settore dell’editoria, fino alla conseguenza più globale: alla istituzione di un Ente pubblico che gestisca in proprio l’attività culturale e, in senso stretto, quella concernente il libro nel suo iter completo: pubblicazione. distIibuzione, vendita, pubblicizzazione e promozione. Un Ente Pubblico, naturalmente, dove sia prevalente la presenza delle categorie interessate, compreso il nostro Sindacato. 

Solo una struttura pubblica di questo genere potrebbe fare da contrappeso all’attuale prepotere del monopolio privato, a favore proprio di quegli autori che l’attuale sistema emargina o distrugge completamente. Si è fatto qualcosa in questa direzione? 

Tutto è molto difficile, ma bisogna tentare tutto. 

Si è fatto qualcosa sul contenuto di altre tesi dello stesso Congresso: Ristrutturazione ed efficienza dell’ENAP – abolizione della legge Bacchelli per interventi più radicali e definitivi – presenza degli autori nello staff dirigenziale delle case editrici – rapporti con gli altri Sindacati – attività vertenziale in difesa del contratto dell’autore in seno all’OLAF-SIAE percentuale del diritto d’autore degli scrittori decedudi da oltre un cinquantennio a favore degli scrittori viventi – penetrazione dell’oggetto libro nei supermercati e nei negozi di altro genere, ecc. 

Un’altra cosa io ritengo molto importante: è una questione un po’ delicata, che va esaminata con attenzione, ma potrebbe anch’essa dare i suoi frutti. Sviluppare una maggiore conoscenza reciproca tra gli iscritti. A questo punto gli scopi di un sindacato si fondono con quelli di una Associazione e si integrano. 

Rispettando la libertà di ciascuno. potrebbero essere messi a disposizione degli iscritti quei dati che i soci ritenessero di far conoscere spontaneamente, sulla posizione, che essi occupano nella società (case Editrici, Ministeri, Organismi pubblici e privati, nazionali e locali), perché tutti possano sapere, possano scambiarsi le esperienze, possano fornire quelle notizie e quelle conoscenze utili agli altri, in un clima di fraterna, serena, mutua solidarietà, senza pretese assurde. 

Sarebbe un male, ad esempio, che tutti conoscessimo l’intera opera dei colleghi scrittori, per dare una mano quando è possibile, per fare, anche se in piccolo, opera di propaganda quando capita l’occasione? Sarebbe un male, se il Sindacato potesse rivolgersi con fiducia a quelli di noi inseriti nelle strutture pubbliche e private e che potrebbero facilitare la partecipazione del Sindacato alle Commissioni di cui parlavo prima? Sarebbe un male, se la conoscenza della nostra posizione sociale potesse rappresentare un punto di riferimento, per il 

Sindacato e per gli iscritti, per la conoscenza di quelle iniziative culturali esistenti ai vari livelli e che spesso ignoriamo, per la utilizzazione, almeno, delle provvidenze esistenti che non conosciamo, per una più facile presa di contatto con tutti quegli Organismi pubblici e privati che interessano la nostra attività di scrittori? 

Io non ritengo che sia un male. Sono anche convinto che ciascuno di noi utilizzerebbe con discrezione e senso della misura ogni possibilità di solidarietà umana. Ma anche se non fosse. chi impedirebbe a ciascuno di noi di dire con sincerità e senza risentimento al collega troppo pressante: “abbi pazienza, stai esagerando”? 

Io sono convinto che gli aspetti positivi di questa iniziativa siano più numerosi di quelli negativi e che ogni azione umana comporti sempre qualche rischio, al quale, se vogliamo agire, non possiamo sottrarci. 

Forse sto abusando della vostra pazienza. Vorrei terminare con due parole soltanto sulla organizzazione del Sindacato. Data la molteplicità e la complessità dei compiti che il Sindacato è chiamato a svolgere, se non vuole fare solo opera di vuota accademia. deve rafforzare, è la mia impressione, le sue strutture a livello centrale e periferico. 

Ritengo che il Sindacato debba disporre di maggiori mezzi finanziari: che le persone investite di certe cariche, richiedenti notevole disponibilità siano adeguatamente retribuite. Non so cosa accada attualmente in proposito: che la rivista Produzione e Cultura venga potenziata per periodicità e contenuti, con la inclusione anche di una rubrica destinata alla divulgazione dell’opera degli scrittori soci; che vengano istituite commissioni permanenti. come detto prima. per l’approfondimento pratico dei problemi e per la indicazione delle soluzioni opportune; che a livello di segreteria nazionale. regionale e provinciale. funzioni un centro di raccolta di dati e notizie che interessano gli scrittori; di dati e notizie che riguardino l’opera degli iscritti; una specie di anagrafe generale di tutto ciò che può interessare; che in ogni struttura pubblica e privata, dove lavora qualche iscritto, venga nominato un rappresentante del Sindacato, che faccia da tratto di unione, da organo di tutela degli interessi degli scrittori soci che lavorino nello stesso ambiente e di tutela di quelli che non lavorino negli stessi ambienti, ma che potrebbero partecipare alle iniziative culturali promosse dalle stesse strutture. 

Se non insistiamo di più sui problemi concreti come questi e su altri ancora che potrebbero venir fuori, rischiamo di fare opera, come detto innanzi, di inutile accademia. 

Giovanni Salucci

*. In vista del Congresso del Sindacato Nazionale Scrittori, si stanno tenendo in tutta Italia riunioni e assemblee. Riteniamo mollo utile. per le sue indicazioni concrete, l’intervento effettuato dal pro] Giovarmi Salucci alla riunione tenuta presso la sezione del Lazio il 15-2-1991.
1) alcuni ritengono che esso debba limitarsi al sindacalismo puro; alla difesa, cioè, degli interessi generali degli iscritti, per demandare ad Organismi diversi dal Sindacato, a specifiche associazioni, il compito di occuparsi di interessi particolari, individuali; 
2) alcuni invece ritengono che il Sindacato debba preoccuparsi sia della difesa degli interessi generali che di quella degli interessi particolari e individuali. 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 45-51




Un cammino di cultura 

Buon pomeriggio a tutti, prima di tutto ringrazio Jean Paul de Nola per l’ospitalitàsempre affettuosa e signorile in questa che è una casa della cultura e non solo una bellissima magione privata. 

È davvero importante dare merito, e soprattutto festeggiare una rivista, “Spiragli”, che si deve ad un intellettuale o, come meglio direbbe, e giustamente ci ha ricordato in uno dei primi articoli Titone, un uomo di cultura qual è Salvatore Vecchio che, intanto, salutiamo con un applauso, in quanto è l’animatore di questa impresa, perché di impresa trattasi. Vedete, una rivista che ha solcato 20 anni e che oggi è approdata da 4, 5 numeri nelle sapienti mani dell’editore Renzo Mazzone, punto di riferimento della cultura siciliana e non solo, che è qui con noi e che saluto come maestro di molti di noi, per l’affetto da un lato, ma soprattutto per la competenza, la cultura e la qualità della sua azione culturale e per avere preso nelle proprie cure questa prestigiosa rivista. 

Ma l’impronta marsalese, l’impronta siciliana di “Spiragli” è appunto, tutta del suo direttore, senza nulla togliere, come vedremo, agli autori. Diciamocelo francamente, una rivista è di cultura, di letteratura e, soprattutto, di chi la fa, di chi la fa con amore, con passione, con determinazione, con libertà Questa rivista, come leggeva prima il prof. De Nola, che tra l’altro è un collaboratore (io ho appena letto in questi giorni un bellissimo suo ulteriore contributo a Paul Bourget che egli ha pubblicato proprio su “Spiragli”), è nata all’insegna di questi valori, all’insegna, appunto, della libertà. 

Su questa rivista hanno avuto ospitalità tanti uomini di cultura: poeti, non solo italiani, narratori, saggisti. Ma, soprattutto, questa rivista nasce in una zona certamente complessa della nostra Sicilia che è Marsala (per quanto Marsala sia una bellissima città che io amo molto, anche per ragioni familiari e non solo perché è una bella città, essa, diciamolo francamente, pur avendo avuto specialmente negli ultimi anni una ripresa di attività culturale, non c’è dubbio che fino ad una ventina di anni fa, quando nasceva la rivista, era una zona abbastanza terminale della vita culturale siciliana e nazionale. Ad esempio, la galleria del Carmine ha in questi anni prodotto alcune importanti mostre che sono a vanto di questa città ma soprattutto, grazie a “Spiragli”, è diventata anche una città che ha irradiato la vita letteraria e culturale nel più ampio ambito siciliano, nazionale e internazionale. 

Intanto, il nostro prof. e amico Salvatore Vecchio, autore che ha esordito nel 1963 con la raccolta di poesie Primo Albore, presente in varie antologie, è autore di un libro di narrativa, Le lettere di Maria Clara Neves, pubblicato dalla Herbita nel 1984, di saggi molto importanti e soprattutto autore di saggi corposi e di una letteratura siciliana. Penso ai saggi su Cardarelli, Pirandello e Ionesco, a La terra del Sole, penso al numero unico che ha curato e anche ai tanti contributi dedicati a Romano Cammarata, artista, scrittore, poeta e anche alto dirigente della Pubblica Istruzione italiana. 

Quest’impresa nasce proprio all’insegna della libertà il primo numero dell’ ‘89, del gennaio-marzo ‘89, lo ha detto il prof. De Nola, nasce con quelle parole che abbiamo già sentito e con queste altre che vorrei leggervi, perché è il manifesto di fondazione di “Spiragli” e per vedere e verificare insieme, se in questi anni ha tenuto fede, secondo me assolutamente, a questo programma: 

In un periodo in cui tutto sembra correre verso uno sfascio senza alternative, e la materialità è dilagante, si sente il bisogno di ripristinare quei sani valori di una volta che davano fiducia nella vita e la facevano amare. 

Nostra convinzione, e di quanti la pensano come noi, è che se l’uomo guardasse un po’più dentro di sé certamente ritroverebbe tante di quelle risorse positive, che ora sembrano del tutto assopite, e necessarie per cambiare in meglio lo stato in cui si trova. 

Consapevoli che bisogna adoperarsi, oggi più che mai, per perseguire il bene, non rimane che rimboccarci le maniche per recuperare il senso vero della vita: la famiglia, l’micizia, il rispetto del prossimo… 

Questo è l’intento che anima i promotori e i sostenitori della Rivista, e per questo intento guardano fiduciosi alla letteratura, alle arti, alla scienza, alla scuola, ai problemi che li circondano, sicuri della loro importanza formativa e costruttiva insieme. 

Vedete, questo è un programma di ampio respiro, un programma che già dai primi numeri vedeva l’attenzione di intellettuali di grande livello, di scrittori, di critici: penso a Barberi Squarotti, a Mario Pomilio, a Francesco Spina, all’amico comune Francesco Grisi, un amico che resta per me e per molti di noi un punto di riferimento assolutamente non eludibile. Tutti questi andavano ad indicare nei primi numeri una sorta appunto di spiraglio. Infatti il titolo è lo spiraglio, direi, quasi la fessura che si apre verso la conoscenza, quella necessità di guardare oltre, attraverso una sorta di fenditura, attraverso una sorta di apripista. 

Quando recentemente (qui ho tanti colleghi e amici che ringrazio), parlavo di fondare una rivista in una classe di terza superiore, dicevo: – Ragazzi, voi non capite a volte cosa significa potere stralciare una tela e potere aprire una tela. A volte si dice: – E chi non sa fare una cosa del genere? Chiunque è in grado di dare uno strappo a una tela! Però il concetto è ben diverso! Il concetto significa “aprire oltre la tela “, “andare oltre la tela”, “guardare oltre”; comunque sia, il segno può piacere, può non piacere, è un problema estetico; concettualmente, l’idea è quello di andare oltre, e lo spiraglio è questo: vedere di aprire delle possibilità. E queste possibilità su che cosa si muovono, su cosa si misurano, su cosa si materializzano? Nella letteratura. Una letteratura che non è soltanto “narcisismo”, perché noi abbiamo l’idea – molti di noi, diciamo la verità – abbiamo l’idea della letteratura come narcisismo, come forma di autorappresentazione, di autoaffermazione, come se la letteratura fosse un bel vestito, una bella occasione, un bel modo per rappresentarci insieme, per stare insieme. Probabilmente la letteratura è anche questo, per carità mondanità ma certo è l’ultima cosa rispetto a quello che è il testo, rispetto a ciò che è la vera e propria funzione e direi anzi, per certi versi, missione fondamentale della scrittura. Da quando esiste la scrittura, cioè da quando l’uomo comunica attraverso i graffiti, che forma di scrittura sono, come lo sono i geroglifici, trasmette. 

Che cosa è un graffito? Cosa sono, ad esempio, i graffiti dell’Addaura? 

Sono forme di trasmissione, non solo il segno in quanto tale, sono forme in quanto tali. Naturalmente poi si codifica in linguaggio, e poi nella storia della civiltà Tuttavia “trasmissione” significa anche avere responsabilità di ciò che si trasmette; e questo è stato il senso della rivista in questi anni: è stato il senso della rivista con le difficoltà che soltanto chi fa riviste può saperlo. Soltanto chi stampa libri e chi ha quotidianamente a che fare, come Renzo Mazzone, ed anch’io (ormai da tanti anni, non quanto i suoi, ma insomma anch’io da tanti anni), ci portiamo dietro, da un lato, come compito, ma anche come, per certi versi, segno da esplicare ulteriormente nel segno della diffusione e della presenza, ma soprattutto, della identificazione della cultura. 

E allora cosa ha pubblicato “Spiragli”, cosa ha fatto in questi anni? Innanzitutto ha eletto, a mio avviso, alcuni punti di riferimento. Li ha eletti e, nel tempo, ne troviamo echi. Uno di questi punti di riferimento è a mio avviso, anche perché ho visto quasi tutti i numeri della rivista, Virgilio Titone. 

Non solo come grande storico e non solo perché se ne occupò sin dal primo numero, se non ricordo male, Calogero Messina, che fu un collaboratore attento della rivista, ma perché attraverso Virgilio Titone si è impresso, direi, anche nella desolata per certi versi provincia siciliana che è quella del trapanese (desolata lo era, anche secondo l’accezione di cui parla in un saggio molto attento e profondo Vecchio su Gentile, a proposito del tramonto o meno della cultura siciliana), il segno di una rinascenza. Tutto questo con Titone 

è stato il segno di una rinascenza. Una rinascenza che si basava soprattutto su una storia rivista, meditata e indagata secondo una categoria di ordine oggettivo e non soltanto soggettivo, pur essendo il nostro Titone, per chi lo ha conosciuto, come me e come molti di noi, un uomo di una difficoltà caratteriale senza pari. Io mi porto la fama di essere un poco spigoloso, e me la porto dietro con piacere, ma, diciamo, Titone era una delle persone non spigolose, era uno specchio aguzzo. Tuttavia chi ha avuto il segno e il senso della sua amicizia, e soprattutto della lettura dei suoi testi, capiva e ha capito che la libertà di Titone era paradigmatica al suo essere uomo integralmente calato in una realtà di crisi da un lato che egli ha violentemente, in termini anche di pubblicistica, attaccato alla radice; penso a Titone ricordato sulla rivista per la direzione delle sue riviste, una delle quali provocatoria anche nel titolo, intitolata “Quaderni reazionari”. 

Titone era un vecchio liberale, conservatore, amico di Croce. C’è un bellissimo testo, devo dire, che rievoca una mancata visita al grande filosofo, e questo è anche paradigmatica di un certo modo di fare cultura, narrata nelle pagine di “Spiragli”; è un lungo saggio, molto bello, che narra appunto questa mancata visita di Titone, allora già maestro del nostro Ateneo, e Koenigsberger, di origine tedesca, che diverrà un grande storico e studioso, autore anche di saggi pubblicati su “Spiragli”, un amico, un maestro, un vate, diciamo così un altro punto di riferimento della rivista. 

Titone un giorno al giovane amico studioso dice di volergli fare conoscere Croce. Siamo nel 1947 e i due si avventurano per treno in un viaggio troppo periglioso per quegli anni. A Napoli per un contrattempo non riescono ad incontrare Croce. Anzi, Titone nel timore di voler sollecitare con la visita una recensione, dice all’amico di andare lui. Così nessuno dei due vi andrà e dopo tre giorni fanno ritorno a Palermo. Questo per dire chi era Titone. 

Ma non solo. Su Titone c’è recentemente, credo nell’ultimo numero, un articolo che ne riprende, invece, la religiosità Titone era un uomo particolare nella sua religiosità assolutamente cosciente di una tradizione. Perché la coscienza della tradizione? Titone intanto era e lo diceva, lo dichiarava apertamente, un uomo che si muoveva secondo regole anche di tipo familiare, nel senso che diceva: “io sono nato in questa religione”, “sono nato nel cattolicesimo”, “mia madre mi ha insegnato queste cose e io vivo la mia religione secondo schemi che sono quelli della tradizione”. Tant’èvero che, come altri intellettuali italiani, come tanti uomini di cultura, aderì al Manifesto che fu firmato dalla grande scrittrice Cristina Campo e da Elemire Zolla sul latino, sulla liturgia tradizionale, perché Titone sosteneva che la Chiesa si secolarizzava con la lingua volgare e che il deposito della tradizione non poteva che stare nella difesa del latino. Naturalmente questo lo faceva da reazionario, da reazionario a suo modo, non secondo i criteri odierni; reazionario nel senso di reazione allo status quo, all’andazzo delle cose, alla dimensione, diciamo così del quotidiano, soprattutto alla sciatteria che già nei tempi si prospettava, non certo come la catastrofe odierna, ma aveva buoni indizi e buone aperture rispetto alla questione che stiamo quotidianamente vivendo. 

Altro punto di riferimento della rivista è stato, non solo perché si è pubblicato un saggio e non solo perché Pomilio, in una sua lettera al direttore, rispose dicendo che “le intenzioni iniziali sono chiare”, a proposito del primo numero. Pomilio, grande scrittore e uomo di straordinaria importanza, insieme a quell’altro amico, Michele Prisco, sono state coscienze di altissima levatura, esattamente sulla stessa linea di Mario Luzi, come coscienze anche inquiete del cattolicesimo italiano, attente da un lato ai segni del tempo, dall’altro alle risorse fondamentali dell’ identità e della fede. Il Quinto evangelio è una delle sue opere di fondo. Pomilio è un autore che va riletto, e la rivista ha proposto un articolo ampio con tutta una serie di elementi e soprattutto di critiche ai vari suoi testi. 

Pure un riferimento è certamente Ungaretti, citato spesso e soprattutto analizzato a fondo, e poi Pirandello; non solo per Pirandello, per l’amore e l’attenzione vigile del nostro direttore Salvatore Vecchio che è autore di saggi specifici, anche più di uno sulla rivista, ma per questo senso della Sicilia che indica la rivista da un lato come segno di contraddizione, dall’altro segno di una forte consapevolezza. 

La lettura di Pirandello proposta dalla rivista non è una lettura stereotipata, non è la solita lettura di Pirandello; e l’assurdo di Ionesco diventa nei testi di Vecchio il trait d’nion tra due colossi della letteratura europea, Pirandello e Ionesco. Ma soprattutto Pirandello resta autore europeo e non solo siciliano. 

Guai al sicilianismo dei confini, come se il mondo finisse a Reggio Calabria e lo stretto di Messina fosse il confine del mondo! Questa è una stupidaggine; quando si esaminano le letterature regionali, esse vanno certamente identificate con i loro presupposti, con il loro humus profondo, ma vanno identificate in una cornice sempre più ampia, mai limitata alle strettoie, né geografiche né linguistiche, né tantomeno legate al folklore vero e proprio. Infatti Pirandello resta europeo e resta un grande personaggio della storia letteraria europea e mondiale proprio per questa ragione, perché supera i territori. 

Mi piace sottolineare proprio, a proposito delle letture e riletture che fa “Spiragli”, l’altro personaggio che è stato assolutamente quasi ormai ignorato che è Nello Sàto, l’anarchico, diciamo, individualista da un lato e utopista Nello Sàito, a cui Vecchio e la rivista hanno molto insistito negli anni, pubblicando anche delle lettere, dei resoconti, e pubblicando un’attenta ricognizione sulle opere e poi una memoria. Bellissimo articolo che ho riletto fino a ieri sera, quello in morte di Sàito che indubbiamente ci ricorda un altro scrittore, geniale a suo verso, nato a Roma ma siciliano nella essenza più ampia, che è un altro autore da riscoprire, che la rivista ci invita a scoprire. Anche quello è un segno; la rivista non può soltanto, diciamo così parlare dei grandi e mettere solo temi e autori consueti. Bene, “Spiragli” ha avuto e ha questo compito di indicare altri, anche attraverso le tante recensioni di altrettanti autori, che qui sono presenti e che poi saluterò che indubbiamente entrano nella cornice generale di questo movimento che èmovimento anche delle lettere in Sicilia e non solo. 

Ma poi c’è il tema dell’umanesimo siciliano, non solo inteso filologicamente e storicamente, altro attento saggio, ampio saggio, a firma di Salvatore Vecchio, ma direi “umanesimo siciliano” inteso come metafora di alternativa rispetto all’ovvio e, in fondo, quell’”umanesimo siciliano” fra il ‘400 e il ‘500 diventa la misura di una possibile ripresa anche in Sicilia che certamente nel ‘900 ha avuto esponenti di grande rilievo. Su questo non c’è dubbio. La stranezza nostra, ma per molti versi anche la nostra originalità consiste proprio in questo: da un lato indubbiamente una certa marginalità geografica e anche culturale (che cosa sono i grandi centri della cultura, cosa le riviste, cosa significa fare arrivare le nostre cose fuori), ma dall’altro lato anche la difficoltà. 

Prendete, per esempio, un centro che, a mio avviso, diventa emblematico di questa contraddizione e che si chiama Bagheria, un centro emblematico di corruzione e di distruzione sfrenata del territorio. Un centro, una città bellissima, ma se andate a visitare Villa Palagonia, trovate uno scempio, ridotta a spettacolo indecente, una cosa orrenda. Eppure Bagheria ci ha dato personaggi che si chiamano Renato Guttuso, Ignazio Buttitta, Giuseppe Tornatore, ma che si chiamano pure poeti minori, come Castrense Civello (autore anche di Renzo Mazzone che pubblicò un libro su Gioacchino Guttuso Fasulo), Giardina, e poi i fotografi Scianna e Pintacuda e tanti altri. Questo lo dico perché in fondo Bagheria è la sintesi di quella che è la Sicilia, è la sintesi anche del nostro cammino, cammino irto, difficile, complesso, soprattutto alla ricerca di quell’”umanesimo siciliano” a cui prima si faceva riferimento. E sono i temi che poi affrontano intellettuali nostri. Penso ad Elio Giunta che scrive in uno degli ultimi editoriali e poi anche in articoli delle questioni riguardanti la letteratura in Sicilia e da un lato di quell’anticonformismo che si va cercando, che si va predicando anche in nome di anti che poi diventano soltanto bla bla. 

Penso agli articoli sulla giustizia, agli ultimi che sono stati proposti da un altro grande studioso, poeta, intellettuale e giurista che è stato Antonino Cremona, un vanto per la rivista “Spiragli”, perché Antonino Cremona è stato anche un testimone della vita culturale siciliana del secondo dopoguerra. Ma poi ancora ci sono i temi su cultura e ostracismo, i temi riguardanti i giovani e la famiglia, la giustizia, la natura, e l’atteggiamento, la predisposizione, direi, che la rivista ha sempre avuto nei confronti dei temi artistici, in particolare analizzando autori, come Sironi, Milluzzo, Antonello da Messina, Marcucci, Romano Cammarata a cui, come si diceva, la rivista ha dedicato un intero numero. E ancora temi filosofici. Pensiamo da un lato al 

saggio su Rousseau, fra democrazia e totalitarismo di Anna Vania Stallone, gli articoli della Cacioppo su Cartesio e Spinoza e ancora quelli riguardanti naturalmente la letteratura, le stroncature, i profili e i saggi legati a Gentile, sui quali spendiamo una parola in più. 

I saggi pubblicati sulla rivista in numeri passati suggeriscono riflessioni su Gentile. Da un lato, c’è naturalmente l’attenta analisi di Vecchio e, dall’altro, c’è un articolo a corredo, se non ricordo male, in quel numero stesso, di Stallone, “Restituiamo a Gentile la sua dignità”. Qual è l’analisi di Vecchio? Certamente Gentile è un gigante, un gigante della cultura, un gigante della filosofia (si può essere d’accordo, non d’accordo, questo fa parte del gioco della vita) ma, non c’è dubbio che il velo di silenzio su Gentile è solo del provincialismo culturale. Insomma, si può parlare di tutto ed è come dire che si vuole omettere, per chi marxista non è, Marx dalla storia della filosofia. È proprio una stupidaggine; è come omettere una parte (giusta o sbagliata che sia) della storia del pensiero. Gentile, quindi, è non solo un grande filosofo, ma anche un attento osservatore delle cose. È tuttavia la tesi sul tramonto della cultura, a cui prima ci si riferiva, una tesi che Vecchio, coraggiosamente direi, anche nel momento storico in cui scrive l’articolo, contesta guardando i segni. Ecco, parlavamo un po’ prima di Bagheria come metafora, Bagheria, come naturalmente può essere Marsala, può essere quello che volete voi, in ogni caso, la metafora della Sicilia letteraria. 

Come mai in tanta depressione, come mai al tramonto può sorgere una nuova alba? Come mai sorgono poi nel ‘900 figure che si chiamano Pirandello o Brancati? Come mai, in tanta depressione rispetto a quell’analisi? Beh, una chiave di lettura che ci accomuna è appunto la riscoperta dei valori da un lato e la perenne attualità della letteratura e della scrittura letteraria e poetica dall’altro. Questi sono dati incontrovertibili, perché se vogliamo fare, come facciamo adesso, un bilancio di “Spiragli”, è anche un bilancio della cultura siciliana, per molti versi della cultura siciliana dal dopoguerra ad oggi, ma direi anche del ‘900, di quello che è stata la cultura siciliana del ‘900. 

Allora è un bilancio naturalmente critico, eppure un bilancio che porta a vedere con attenzione ciò che è stato e a vedere anche con una certa speranza, quella speranza editoriale a cui avevamo fatto riferimento non solo sui valori, ma sull’individualità. Più che un fatto sociale, io direi, la letteratura siciliana è sempre stata ed è comunque un fatto di individualità come dovrebbe del resto essere sempre la scrittura, non è stato mai un movimento organizzato, movimenti o gruppi. 

Pigliamo il caso del futurismo in Sicilia. Qui c’è la prof.ssa Rampolla che ha scritto tra l’altro tanti saggi, 

recensioni, anche molto importanti su “Spiragli” e che ha scritto un libro su Federico De Maria, il quale entra in contatto con Marinetti, con l’idea rivoluzionaria della letteratura, e conia il termine avvenirismo. Ma sarà Marinetti, che era un genio straordinario dell’invenzione, a fondare il futurismo. Ciò che non era riuscito a De Maria, riuscì a Marinetti. Ebbene, De Maria, senza la deformazione ideologica di un Vittorini o di un Brancati, ci dà la misura di cosa è stata ed è la cultura siciliana del ‘900. 

Anche questa rivista non ha carattere ideologico; ha un suo programma preciso a cui ha tenuto perfettamente fede; essa non è di parte, ma aperta, come deve essere la letteratura, la cultura, aperta al dibattito, al confronto. Questo non vuol dire che è una rivista sincretista, è una rivista che ha un’identità che pone l’identità in parallelo con altre realtà e con altre culture, come dimostra la collaborazione con poeti e con intellettuali di altri Paesi che si è manifestata negli anni. In questi ultimi anni, anche grazie a Renzo Mazzone, devo dire, per i poeti e gli scrittori brasiliani, ma prima va citata, a merito della rivista, la corrispondenza e la collaborazione con autori di diverse nazionalità tra cui quella con l’italianista spagnola Ángeles Arce, con lo scrittore Avelino Hernandez, poeta, narratore e autore di libri per ragazzi che poi è diventato anche un punto di riferimento. Ma nelle pagine di “Spiragli” trovate tanti di questi contributi. 

Possiamo naturalmente parlare di quelli che sono i “Problemi e discussioni”, un titolo delle rubriche ferme della rivista. Certo, problemi e discussioni la rivista ne ha posti molti, innanzitutto sulla praticabilità della letteratura. Il problema della praticabilità della letteratura in Sicilia è stato affrontato da “Spiragli” con la determinazione che si deve ad una palestra di libertà e poi anche dai vari collaboratori o coloro che sono stati. Qui vedo il giudice Osnato che saluto, un ottimo e importante poeta, accolto nella rivista anche con recensioni, così come Anna Maria Adragna, il nostro amico Cangemi, la prof.ssa Rampolla, lo stesso nostro padrone di casa. Tuttavia l’ampia gamma di collaboratori deve riferirsi anche al territorio nazionale, soprattutto a Donato Accodo, che è stato per molti anni il tramite della rivista con la E.I.L.E.S, anche lui un critico e un saggista di vaglia e poi alla corrispondenza di tanti autori nazionali e internazionali. 

Io, qui, concludendo, ritengo che veramente di “Spiragli” bisogna avere la collezione completa. “Spiragli” è una rivista che si scrive, appunto nella rinascenza possibile della cultura siciliana, possibile ma concreta, testimoniata quotidianamente; se poi sia complessiva o meno, non è Camilleri che la determina. Lo dico con molta franchezza e con molta onestà intellettuale, non è Camilleri che la determina; con tutto ciò per carità gli diamo tutti i benefici d’inventario, gli diamo anche opere a volte buone e accolte, anche se, diciamo, non proprio identificabili come opere letterarie. Tuttavia, comunque, una presenza, ma non è quello il punto evidentemente. Certo, Sciascia lo è stato; Sciascia, contestato da Messina in un articolo, come lo contestava Titone. Eppure ritengo che la coscienza che è stato Sciascia ancora oggi è punto di riferimento, punto di riferimento di libertà individuale, anche di contraddizione; sapersi contraddire e saper rivedere le proprie opinioni, le proprie idee, soprattutto camminare nel sentiero della libertà è sempre, comunque, un’operazione complessa, difficoltosa, e Sciascia è stato anche lui un testimone straordinario di questa ascesa verso la verità una verità laica per il Nostro, tuttavia una verità che poi la letteratura, la poesia, la stessa filosofia ovviamente in primis debbono condurre come obiettivo di fondo, come conoscenza fondante. 

In tutto questo la rivista assume un suo profilo e il bilancio che è già stato fatto 10 anni fa (io ho trovato anche la noticina di 10 anni fa), stavolta lo facciamo insieme a voi. Devo dire anche con un pubblico scelto di scrittori, poeti, narratori che sono qui presenti, davanti al quale il piacere e l’onore che mi ha dato stasera di discutere con voi mi dà anche il senso di una libertà. Salvatore Vecchio e io siamo amici, abbiamo un buonrapporto, ma non abbiamo avuto mai in questi venti anni straordinari rapporti; ci siamo visti, ci siamo incontrati in varie occasioni, devo dire che lui mi ha invitato sempre a scrivere; io, per la verità per la mia proverbiale pigrizia, ho dato poco o niente, per la verità niente. Però i rapporti sono stati sempre costanti; c’è un punto di riferimento: si sa, si sapeva che veniva e arrivava la rivista, arrivava cioè un punto di riferimento che ancora oggi resta utile alla conoscenza di quella cultura siciliana e non solo alle discussioni, ai temi e ai problemi che la cultura siciliana pone. Quindi a Vecchio, a tutti i suoi collaboratori, a tutti gli amici che hanno seguito e seguono e, direi anche, a Renzo Mazzone, un ringraziamento della comunità palermitana, ma anche il ringraziamento sincero di chi vi parla. La comunità palermitana variegata, difficile, complessa di scrittori, poeti, narratori e tutto quello che volete, saggisti e che, però, è riuscita negli anni ad avere anche una dignità, e questo confronto è presente nella rivista con tanti autori e noi ringraziamo per l’ospitalità che è stata sempre data a tutti noi palermitani e non come capitale dell’Isola ma come centro vivo, ancora vivo della cultura e soprattutto della speranza che la Sicilia incarna. 

È quell’umanesimo, concludendo, a cui si faceva riferimento, l’umanesimo della ricerca e della speranza; quell’umanesimo che si fonda su valori perenni e che tuttavia si confronta, dialoga con il mondo, ma soprattutto dialoga interiormente. Avrebbe detto il nostro Piero Scanziani, un viaggio entronautico dentro la letteratura che poi è un viaggio entronautico entro tutta la vita. In fondo la letteratura non è soltanto uno svago, non è un hobby; chi dice che la letteratura è un hobby non è né scrittore né letterato, è una persona che scrive su fogli di carta. La letteratura è tutto rispetto al fatto che la vita si muove attraverso la scrittura, non è un fatto episodico, non è un hobby della domenica. In questo senso “Spiragli”, nel suo titolo, nella sua storia e nelle complessità delle sue pagine, ci rappresenta e ci rappresenterà ancora per tanti anni. Grazie. 

Tommaso Romano

Da “Spiragli”, anno XXII n.1, 2010, pagg. 8-16.




Luigi Tenco.  A venticinque anni dalla morte

“Signore e signori buona sera, diamo inizio alla seconda serata con una nota di mestizia per il triste evento che ha colpito una valoroso rappresentante del mondo della canzone. Anche questa sera per presentare le canzoni è con me Renata Mauro. 

Allora, Renata, chi è il primo cantante di questa sera?”. Così, il ventotto gennaio di venticinque anni fa, il presentatore per antonomasia, Mike Bongiorno, posteggiava impudicamente nell’inconscio collettivo degli italiani la vita di Luigi Tenco, e il gesto disperato (o profetico?) che quella vita aveva concluso. 

La notte precedente, una pallottola calibro 7,65 br., uscita dalla canna di una Mauser PPK – la piccola, magnifica semiautomatica dei poliziotti tedeschi – aveva ruotato nel suo cranio purgandolo per sempre dai pensieri molesti. Questi i fatti: troppo noti per insistervi ancora. Sulla ridda di commenti a caldo e a freddo, sul corpo riportato dall’obitorio alla tragica camera per soddisfare i fotografi ansiosi di macabro sensazionalismo stendiamo un velo pietoso. C’è comunque da stupirsi che i numerosi poliziotti lì convenuti fossero così impegnati a esaudire le richieste dei giornalisti e discografici da non osservare che “il foro d’entrata era posto non ‘nella tempia’ ma dietro il mastoide destro, leggermente sopra il padiglione auricolare, e quello d’uscita nella regione frontale sinistra; una posizione anomala per un suicida, come asserisce più di un criminologo.” (Aldo Fegatelli, Luigi Tenco, Lato Side Editori, Roma 1982). 

A onta del cinismo mostrato nell’occasione e poi ampiamente ribadito dagli addetti ai lavori, le canzoni di Tenco restano una scoperta rigorosamente privata, un momento di crescita, a volte un’autentica rivelazione, per ogni generazione che si affaccia nel mondo della musica. 

Nonostante la fretta con cui le sinistre si impossessarono del cadavere per farlo applaudire al suono di Bella, ciao eppure è ben noto come avesse usato le sue mani (da musicista, ma non proprio diafane), con la feroce dignità che possono esibire solo i timidi che hanno troppa paura di avere paura, per difendere un giornalista di destra sopraffatto dal coraggio del numero -, per la gente semplice – gli infiniti samaritani che non hanno il tempo per lacerarsi il frac sulla “Gazzetta di Gerico” e “Il corriere di Gerusalemme”, magari perché impegnati a lenire le ferite inferte da chi ha preso troppo sul serio certe indignazioni – Tenco è rimasto come la figura dolente di un figliuol prodigo che ha speso a piene marti i numerosi talenti affidatigli: e che poi ha scelto di tornare al Padre, prima che i porci che aveva sfamato lo divorassero. 

Una tale considerazione agiografica pare quasi inspiegabile se rivolta a un pur bravo cantautore che ha prodotto solo alcune notevolissime canzoni d’amore e alcune (in genere mediocri) canzoni impegnate. Pure in questa visione frementemente affettuosa si inserisce la toccante canzone, Preghiera in gennaio, di Fabrizio De André; il quale sembra addirittura volgarizzare poeticamente (” … non c’è l’inferno / nel mondo del buon Dio”) le tesi esposte con rigore teologico da Hans Urs von Balthasar. 

Un fatto è comunque certo: Tenco resta austeramente fuori dal novero dei musici caduti lungo la strada del successo. I pur mitici, angosciati e angoscianti Jimy Hendrix e Janis Joplin paiono soprattutto vittime dei loro vizi e del distruttivo american way of life. Il tragico gesto che ha spento la vita del nostro cantautore sembra invece motivato dall’incommensurabile disperazione di bambino bocciato agli esami; ed è per questo che continua a suscitare compassione (nel senso etimologico del termine). Nel contempo non si riesce a non accomunare quella dolente figura con quelle ben più grandi di autentici poeti come André Chénier e Robert Brasillach, figure di giovani che si sono trovati tragicamente in contrasto con le idee correnti dei loro anni. 

Proprio perché il paragone con i due poeti francesi appare azzardato, è invalso anche l’uso di stabilire un parallelo, anche per le comuni origini piemontesi, tra il cantautore di Cassine (Alessandria) e Cesare Pavese. A noi pare più calzante invece confrontarlo con un altro grande scrittore piemontese: Beppe Fenoglio. Le affinità sono quasi sconvolgenti: i famigliari di Luigi Tenco commerciavano vini all’ingrosso, e presso una ditta di virti aveva trovato stabile impiego il “solitario di Alba”. Identico è il fallimento negli studi universitari dopo una brillantissima carriera liceale. E per frequentare l’università Fenoglio era sceso a Genova. la città che adottò bambino Tenco. “La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti….. si lamentava l’autore del Partigiano Johnny, e allo stesso lavoro di lima Tenco sottoponeva le sue canzoni; Ciao amore ciao, cantata quel tragico ventisette gennaio, ha avuto certamente tre versioni prima dell’ultimo rifacimento. Il tema di questa canzone, che narra l’abbandono dei campi per la tentacolare città, ha un’affinità straordinaria con l’unico soggetto cinematografico (mai realizzato e pubblicato postumo) di Beppe Fenoglio. Anche Tenco teneva nel cassetto una sceneggiatura e alcuni racconti. Ma, oltre a queste somiglianze esteriori, quello che accomuna veramente i due piemontesi ci sembra l’identico sentire morale, la stessa etica austera – da pastore valdese -,la stessa tensione partecipativa, quel desiderio pungente di essere presenti alle vicende storiche della loro patria; e poi quel sarcasmo amaro (che denuncia un autentico disagio fisico) contro il perbenismo, la boriosa atteggiata mezzasapienza. 

Anche alla luce di quanto appena detto, Luigi Tenco rimane ancora, con le sue contraddizioni e le sue utopie, un dramma irrisolto nel profondo delle nostre coscienze, una continua domanda a cui non è possibile (e neppure sarebbe onesto) opporre delle risposte prefabbricate. Una sola speranza: che sia il silenzio a cullarne la memoria, perché, come lui cantava, ” … nel mondo c’è già tanta gente / che parla, parla, parla sempre / che pretende di farsi sentire / e non ha niente da dire.” 

Gaetano Radice 

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 73-75.




Per dare colore al tempo 

 Ho conosciuto stasera il vuoto che invade le cose, il gesto che fruga i profili dell’ombra, ed insegue un nome smarrito nella memoria. 

Per questi versi ho conosciuto gli arpeggi delle dita che salgono lungo il fumo della nebbia e lo modellano in fianchi e volti, subito prossimi a disfarsi sotto la pur lieve carezza. 

Per questi versi mi sono fermato inquieto sul punto dove il tempo si rovescia e si insegue, sulla soglia esangue che divide il giorno dal giorno e lo ripete, nell’ora ferma in cui 


pendolo triste 
ancora si muove 
il vuoto trapezio. 


E il suo andare, ondeggiando per sempre, scolorisce ogni volta una speranza. 
Ho cercato – lo dico – nella trama dei versi il suono che vibra forte e canta a note piene i sensi e l’amore e richiede l’applauso. 
Ho trovato l’accordo sommesso che parla da amico, 


Parole povere 
sparse da mano distratta 
che dopo il largo gesto 
cade inerte sul fianco. 


E a poco a poco ho sentito il ritrarsi dentro l’anima, il deserto dei colloqui smorzati. Ho ritrovato le attese interrotte, gli slanci fermati dall’indifferenza, gli abbracci senza risposta. 


Dalla finestra che si apre 
tendo le mani…  

Ma la folla ignara occupa le strade e le ingolfa, s’interseca ad ogni incrocio, riprende ottusa la sua corsa. 
Qui non c’è chi racconti le sillabe che insinuano nella mente un trepido invito all’amore, non c’è chi ascolti la voce che misura la solitudine, povera eredità dell’uomo: 


niente 
è rimasto tra le mie braccia. 


E sull’anima la vita è passata senza un segno, come l’onda 


che non serba ricordi 
che scivola sul viscido scoglio. 


Questo canto ha saggiato le parole che legano gli uomini e le ha trovate senza suono. In esse ha scoperto l’arida struttura che si interpone tra il cuore e la voce e crea la regola che dà precaria consistenza ai rapporti tra gli uomini, li spartisce nei ruoli, li consuma nei riti: ma questi si sciolgono al tramonto, per lasciare ciascuno provvisorio com’era, con il peso del vuoto sopra il petto.  

E’ così: nessun altro gesto che è iscritto nel giorno dura quanto il tocco leggero che sfiora la fronte segnandola con il suo calore, né si prolunga, se non si strugge nelle 


notti accarezzate dagli accordi di chitarra, dai 
canti lenti degli uomini che nell’abbraccio del 
buio perdevano la potenza, preda dei soli 
sentimenti, e divenivano fantasmi buoni a 
rincorrere sogni. 

Questo canto ha la musica scabra del lamento sull’uomo dilapidato, seme gettato a mani prodighe in cento solchi e senza frutti, sull’uomo stordito ai crocicchi, dove la luce opulenta cancella le memorie. 
Erano giorni veri, cresciuti dove gli alberi mantengono le foglie anche d’inverno, quelli che insegnarono 


a respirare la vita goccia a goccia 
l’amore a spartire con l’odio 
che è amore di sensi oppressi. 


Qui torna la mente, appena la sera si disfa. È vero 

I ricordi 
come uccelli migratori 
tornano sempre all’origine. 


Anch’io ho smarrito oltre il mare la strada che porta alla patria, dove l’inverno ha la forza del vento di bora che fa lucide le file di scogli che ritagliano l’orizzonte. È anch’essa 


isola 
circondata d’ignoto. 

 

Assediata dal tempo mostra di lontano solo la punta bianca del campanile 
Questa musica ha il suono lento di un canto di luoghi lontani, che si inerpica per l’anima e la scuote senza occasione. 
Dice le sere sulla panca a fianco il focolare e i vecchi che sapevano i proverbi, 
e il vino caldo, dolce come i pomi vizzi, ancora rossi presso il balcone. 
Dice il caldo grande della valle 

dove d’estate, nelle campagne riarse, il riverbero 
delle stoppie brucia gli occhi e dove, sui campi 
scoscesi, si ergono ancora le bianche pietraie, 
i calcificati sacrari della fatica umana, nella 
dura scoperta di una terra avara. 

E ancora, se ti fermi un istante, lì, presso il muro a secco, dove ora si ammucchia la rovina, sorridendo – non a te, non a me – ad altro sguardo, muove il capo la fanciulla e sulle spalle le scendono i capelli. 

Ho approdato anch’io alla tua isola, Romano. Ho sentito anch’io la tristezza dolce dei 

suoni che sono lamenti 
lamenti che sono canti 


che accompagnano i carri che vanno in fila argentata per la strada 


fiancheggiata dai pioppi 
– dita 
che contano ottuse 
i giorni – 
e si perdono, svanendo, 
lungo il pendio del monte 
entro le case antiche. 

In questa isola qualcuno ha già tolto la chitarra appesa al chiodo e le strappa empirie di suoni. A lui la vita non ha bruciato il coraggio di sperare, egli ha ancora il domani nel cuore perché sa dare una carezza per solo amore. 

Sono i ragazzi che fanno vive le scuole dei paesi, e intrecciano voli nelle piazze con i motorini e le borse dipinte, sulla schiena. 
Ora anch’essi 

percorrono sentieri imprevedibili, che sono quelli 
del gelsomino, deifichi d’india e dei fiori lilla dei 
capperi, che tutti portano alle case antiche, 
lungo i -pendii dei monti. 

Flavio Quarantotto

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 53-57




Il rame e la vita

Le scelte materiche di un artista possono obbedire talvolta a ragioni che sono ben al di là e ben più in alto delle ragioni della tecnica creativa. Le scelte materiche possono anche attingere dimensioni di profondità concettuale, tale da trovare la radice dei propri processi di determinazione, in termini di logiche espressive, produttive, generative, sul piano delle stesse scelte motivazionali, esistenziali dell’individuo artista che, attraverso quelle scelte, estrinseca oggettivandoli i propri parametri interiori di attività e di giudizio. Le scelte materiche di un artista, in buona sostanza, sono riconducibili ad un rapporto tra la dimensione esistenziale dell’essere e la realtà talvolta dolente del divenire che quell’essere attraversa, risultandone condizionato e nello stesso tempo determinandolo e improntandolo. 

Non coglierebbe certamente il senso, lo spessore, la densità emotiva di questo rapporto chi immaginasse che l’orientamento materico di un artista, nel momento che precede la fase creativa, ma che talvolta con essa si identifica, sovrapponendosi, se non in termini temporali, almeno in termini di coincidenza emozionale, si sviluppasse attraverso un accostamento alla materia valutata e accettata in funzione della sua disponibilità estrinseca all’intervento creatore. L’itinerario di questa scelta-rapporto è ben diversamente ricostruibile, sempre che si voglia ricostruirlo in termini di penetrazione della diacronia storica dell’opera d’arte. 

Il cammino che porta l’artista all’approccio creativo con una determinata materia trascende la dimensione intrinseca della materia stessa, che non è più vista come supporto naturale, come elemento di estraneità, di alterità, rispetto allo slancio creatore che nell’artista palpita di una propria vitalità autonoma, che autonomamente va accolta, registrata, promossa, sviluppata, fino all’oggettivazione nel manufatto artistico. 

Di qui discende lo statuirsi di un processo biunivoco, per il quale la materia si offre all’artista e l’artista alla materia, nella prospettiva di un reciproco arricchimento/impoverimento, quasi spasmodico dono di se stessi all’altro, ad un altro che è l’individuo creatore ed è anche la “cosa” creata, per cui due avidità sembrano accoppiarsi con una fame dell’altro che può anche essere sentita nella prospettiva di una sessualità intellettuale, alla quale non è estranea né l’angoscia del desiderio, né l’appagamento del piacere raggiunto, goduto, sofferto. 

A questo punto si potrà anche immaginare e dire che ci sono materie che si offrono con maggiore sensualità all’artista rispetto ad altre che sembrano racchiudersi in una loro gelida frigidità, che l’artista riesce magari a violentare, plasmandole alla propria volontà, senza però che esse conoscano l’ansimare partecipato e partecipante del godimento comune. E questo ovviamente non soltanto in funzione della materia in sé, ma anche in relazione alla fame esistenziale dell’artista. 

La tela col suo distendersi aperta nel candore che sa di verginità preziosa e inutile nello stesso tempo, reagisce poco e male alla carezza/oltraggio del pennello o della spatola, per cui il dono del colore che è dono di sangue e di intelletto sembra ricevuto senza gratitudine, nella prospettiva di un omaggio dovuto, di un ossequio istintivo, quasi compenso/risarcimento per la perduta (ma non donata) verginità. 

Il marmo col suo incombere massiccio e greve, finché ovviamente levità non gli venga dallo scalpello che fruga, penetra e crea, sembra postulare un distacco, rispetto all’artista, sembra statuire una sorta di distanza di rispetto, che l’intervento creatore riesce a superare soltanto se ed in quanto la forza sua intrinseca sappia e possa domare, per così dire, il blocco, il masso, il nemico/estraneo di marmo. E le stesse reazioni del marmo all’intervento passionalmente violento della mano scalpellante dell’artista, restano in termini di rigidità, di freddezza, di estraneità, poiché si concretizzano in schegge dolenti e scabre, in blocchi che si staccano, in elementi di superfluità che vengono eliminati e che comunque conoscono una sorta di processo di rifiuto, di rigetto, di distruzione. 

Il bronzo nasce alla vita dell’arte passando attraverso un diaframma che si pone con secchezza ardente tra l’artista e il risultato della sua emozione creativa: penso al diaframma del fuoco della fusione, il cui peso nel processo creatore non saprei quantificare senza chiedermi dove finisca l’impegno dell’artista e dove cominci la forza di natura, che l’artista deve assoggettare alla sua volontà ma che attraverso i vincoli e i legami della tecnica, attraverso i limiti rappresentati dalla forza limpidamente eppur ottusamente costruttiva delle leggi della fisica, può anche rifiutarsi all’imperio emozionale del creatore. La lunga notte/lotta del Cellini, l’angoscia che avvelenava il suo gioioso anelito creativo, in attesa della riuscita della fusione, se da una parte segnano una delle pagine più brillanti della sua prosa autobiografica, dall’altra traducono in termini letterari un dramma artistico che trova la sua matrice proprio in quel fuoco/diaframma che separa l’artista dalla materia bronzo. 

Non diversa appare la situazione relazionale per quanto concerne la creta, che nella morbidezza della sua umida modellabilità contiene un germe di fragilità, che soltanto attraverso il passaggio del fuoco attinge una solidità che non è però resistenza né durata nell’assoluto del tempo e dello spazio. 

Resta il rame, che mi pare fra i materiali che si offrono alla scelta dell’artista quello che maggiormente coniuga la disponibilità con la “durata”, intesa non come durata intrinseca, come durata materica, bensì come durata della creazione, come durata delle forme che lo slancio emozionale dell’artista ha assunto per se stesso e per il mondo al quale egli parla. Sul rame la mano dell’artista interviene con la morbidezza della carezza appassionata, carezza non priva, quando la sensualità della creazione lo esiga, del necessario peso, della necessaria insistenza ai limiti della violenza dolce/forte, che la materia sembra non sgradire, talché la sua resistenza è fatta di cedevolezza, quella cedevolezza che genera il rilievo, il segno, la rotondità, l’espressività. 

Nel rame palpita la vita, splende la luce, vibra il calore, si dispiega il colore, attraverso il variegarsi della superficie che acquista toni caldi e pastosi, nelle zone in cui si distende maggiormente per creare il rilievo, accanto a toni volutamente più freddi negli angoli nei quali la bruschezza dei dislivelli genera zone d’ombra, oscurità di sentimento e senso. 

In questa prospettiva spirituale le scelte materiche di Romano Cammarata, che ha, a lungo, privilegiato il rame sfogando su di esso una sua rabbiosa fame di vita, di certezze, di bisogni indistinti eppur sofferti, assumono il senso di una affermazione esistenziale, tesa a dire, attraverso le mani e il martello sul quale quelle mani cercavano e trovavano ritmi di vitalità anelante, quello che la parola si rifiutava di esprimere. 

La biografia interiore di un artista non può ignorare certi dati della vicenda umana, che se non condizionano l’evoluzione spirituale dell’uomo rappresentano comunque un elemento che interviene nella storia intima dell’essere. Taluni momenti di dolente realtà hanno segnato l’interiorità di Cammarata, che ne è uscito proiettato verso il mondo esterno, in un rapporto che è di continua presenza/testimonianza: una presenza che è fatta di multiformità di impegni, di varietà di interessi, di pluralità di moduli espressivi; una testimonianza che è fatta di unità e di costanza nel rapporto col mondo esterno/interno dei singoli e del tutto col quale Cammarata si rapporta. 

Ed ancora una volta il rame, come scelta materica nella prospettiva creativa, dice qualcosa di particolare, fornisce qualche ulteriore elemento di chiarificazione per una decodifica sincera e sicura dei messaggi che l’attività/produttività di Cammarata manda a chi voglia accoglierli con altrettanta disponibilità di testimonianza. Il rame dice il bisogno dell’artista che, uscendo da un mondo personale e oggettivo di dubbi, di incertezze, di terrori che sono fisici e poi morali proprio perché fisici, aveva bisogno di poggiare le sue mani su una materia che fosse insieme rigida e morbida, amica e nemica, amica da amare e nemica da domare. Il rame dice l’ansia di afferrare la vita, di possederla, di plasmarla, con un contatto diretto, non mediato, non strumentalizzato da diaframmi, non allontanato da passaggi intermedi. Il rame dice ancora la soddisfazione del risultato creativo che nasce e cresce nella immediatezza di un rapporto tra gli occhi e le mani dell’artista, in una tridimensionalità che non ha spigoli, non ha sbalzi, non ha contrappunti, non ha bianchi/neri, ha soltanto morbidezze, rotondità, levità. 

La prospettiva assai specifica ed individualizzata di questo rapporto tra materia e intervento creatore che Cammarata ha determinato con la scelta del rame si traduce in talune linee che costantemente caratterizzano la sua produzione. Si spiegano in questa ottica alcuni momenti/elementi della sua galleria ideale. Penso alla pienezza di talune figure femminili, alle cosce robuste ed esibite di taluni nudi che si materializzano in offerta impudente ma non impudica, al sesso che talvolta sembra isolarsi in certe prospettive di moraviana centralità. In queste linee calde e sensuali vibra una fame di vita che può e sa essere indifferentemente fame di terra e di cielo, fame di prosa e di poesia, fame di amore e di sesso, purché terra, cielo, prosa, poesia, sesso, amore nascano dalla vita e vita offrano a chi li accoglie con la serenità/duttilità che è indispensabile per l’uomo nel mondo: per intenderci, la serenità/duttilità del rame. 

Antonio Portolano

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 49-52.