Il poeta contadino: una nuova specie da salvare? 

Se c’è una cosa che oggi non va, questa è che tutti vogliono far tutto, e nessuno vuol far più quello per cui è portato. Cosicché si assiste al paradosso, in altri tempi inconcepibile, che il «dottore» semilaureato, magrolino e macilento, con gli occhiali spessi due dita, è costretto a scaricare cassette di frutta ai mercati generali. Mentre l’opposto tipo più grosso e robusto, «contadino» ante litteram dai muscoli possenti, sta in ufficio, con quei grossi ditoni, seduto sempre alla macchina per scrivere. 

Ormai oggi tutto si è capovolto, e niente sta più al suo vero posto. Perché ormai la gente ha preso gusto al potere dei «soldi», complici la tivù e i mass-media e tutti si sentono «signori», destinati ad essere pagati senza far niente, ragion per cui dover lavorare li «offende». 

Quindi lavorano poco e male: avete presente come, in quei negozi che fanno fotocopie a pagamento, vi guardino tutti dall’alto in basso, a voi che siete i clienti, come se loro fossero quasi dei nuovi «nobili» su questa terra? 

E le cose, però, non andavano meglio prima: basti solo pensare ai due tipi classici, del «professore» e del «contadino». Il primo, alieno da qualsiasi commistione con la terra, e che si guarda bene anche dal prendere in mano uno strumento di lavoro, la «zappa» per intenderci. Magro e pallido, quasi lunare, la voce fioca e acerba, il classico «topo di biblioteca». E che magari, quando va in campagna e prova a zappare la terra, in due secondi cade a terra stravolto. A tale categoria appartenevano anche i grandi poeti della patria, e tutti li conosciamo, che cantavano il nobile lavoro nei campi. ..degli altri! Va da sé che il professore è spesso un poeta. Poi c’è l’opposto tipo del «contadino», classico tipo ignorante e poco istruito, che ha un enorme rispetto per gli «uomini di cultura», in quanto tutto ciò che non capisce è per lui superiore, disprezzandoli solo di fronte al lavor dei campi, lui sempre instancabile, legato quasi visceralmente alla terra, e «suda» per ore quando deve scrivere una lettera. 

La dualità «professore-contadino» si è mantenuta costante fino ad oggi, anche se, forse grazie a una nuova mutazione genetica, o solo semplicemente al migliore livello dell’istruzione generale, si è assistito alla nascita di un tipo nuovo, anzi di due nuovi tipi, che sono poi uno solo. Il primo è il contadino che, fuori da quanto detto sopra, scopre d’un tratto di essere un «poeta». E già anche la tivù, complice il «Maurizio Costanzo Show», ci ha mostrato questi tipi. Come il contadino che, dopo anni e anni di mestiere, anzi di professione, grazie alla nuova cultura, si scopre artista, dipinge, scrive e compone poesie, trovando anche qualche editore di larghe vedute che gliele pubblica. Oppure il pastore, amico delle pecore, che tutto un tratto scopre che la musica che ha sempre fatto è cultura: e allora, grazie all’arrivismo di tanti cantautori, si fa cantautore anche lui, ci parla del suo tamburo o del suo flauto, e dei racconti che gli narrava il nonno, le sue tradizioni che adesso rinascono e vengono rivalutate. È da notare inoltre, in entrambi le due varianti del primo tipo, che l’«eloquio», pur restando rozzo, è sempre più «colto», e risente della nuova cultura. E all’opposto, esistono degli uomini di cultura, dei professori, studiosi di classicità o autodidatti, che dalla loro cultura hanno dedotto la necessità di trasformarla in azione, cioè di tornare alla terra. 

E così, come il contadino diventa poeta, dall’altra, il poeta si fa contadino. Si inventano ecologie alternative, studi storici diversi e naturali, fattorie che rinascono dalla terra, piene di gente colta che lavora i campi. E dato che sappiamo bene comè il pastore o il contadino, l’uomo della terra, sia sempre stato un 

«sapiente», avendo delle conoscenze intuitive «corporee», profonde e innate, che la mente normale ignora, così, il fatto che oggi le conoscenze corporee e quelle mentali, quelle storiche e quelle metastoriche, quelle fisiche e quelle spirituali, si uniscano, questo significa che forse è nato un nuovo tipo umano, una nuova razza spirituale: quella del «contadino poeta» o del «poeta contadino». Forse una nuova specie da salvare? 

Luigi Moretti

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 39-40.




 Un messaggio liberatorio 

Luigi Russo sosteneva che per conoscere un autore bisogna studiarne a fondo tutte le opere e non soltanto quelle esteticamente più valide o considerate emergenti. Il libro esprime l’animo e il pensiero dell’autore in un dato momento storico e psicologico, e, poiché intenzioni e reazioni sono sempre mutevoli, le singole opere non costituiscono alla fine che le facce di un prisma. L’unità, ovvero la personalità, l’universo e il messaggio dell’autore, va dunque ricercata nel “prisma”. È, cioè, l’insieme che definisce e identifica l’artista: se vogliamo davvero comprendere, ad esempio, il Manzoni, dobbiamo conoscere anche la Storia della colonna infame, il Discorso sul romanzo storico, e via dicendo. 

Romano Cammarata ha pubblicato a tutt’oggi due opere narrative e una raccolta di versi, che confesso di conoscere per estratti. Tuttavia ritengo già possibile individuare nelle sue pagine le coordinate di certe costanti interiori, un mondo. 

Si dirà: ma che cosa apparenta un diario come Dal buio della notte, che fu l’opera felicissima dell’esordio, con il romanzo Violenza, oh cara, che è del 1986? Apparentemente nulla. Il primo era la nuda e struggente cronaca d’un calvario ai margini della morte, il secondo è la fiction di una vita tranquilla che a un certo punto s’inceppa per dipanarsi poi, nuovamente, verso la normalità e il lieto fine. Eppure, il rapporto c’è: solo che nel primo libro traspare in filigrana e per antitesi (così come, per fare un esempio altissimo, nel pessimismo leopardiano è sotteso tutto l’incanto e l’ardore della giovinezza negata al destino); nel secondo l’identificazione interiore viene esplicitamente alla luce, perché l’autore agisce nella dimensione consueta dell’esistenza. Un’esistenza ovviamente avvertita, non più come un’eco remota, nella chiusa visione di chi dispera, ma come naturale sensazione di essere e di sentire, di poter formulare progetti, e magari soffrire, ma nella speranza. In questo senso, Violenza, oh cara può considerarsi, dunque, come ripresa e sviluppo d’una dinamica interiore dissepolta: una resurrezione in cui l’uomo, uscito dal pelago alla riva, apprezza il dono della vita, difende la propria dignità, solidarizza e cerca di ricostruirsi un destino. Del resto, non mancano altri punti di contatto tra i due romanzi. La comprensione e la pietà che affratellano l’autore ai malati dell’ospedale e che potevano apparire indotte dalla circostanza di trovarsi tutti nell’inferno del cancro, rivivono come essenze proprie dell’animo di Cammarata anche nel secondo libro. 

L’assurdo kafkiano che in Dal buio della notte piombava come un fulmine su una giovane esistenza, sradicandola senza ragione plausibile, torna in Violenza, oh cara sotto forma di una incredibile imputazione penale che infrange la continuità di una vita. Il resistere, con le armi del bisturi e della disperazione, alla violenza della malattia si fa rivolta della dignità contro la violenza del sistema giudiziario nell’opera più recente. Persino certe “ironie” si ripetono: dal tu degli infermieri all’epoca della malattia al tu dei secondini di adesso; dal pigiama dell’infermo alla casacca del detenuto; dall’isolamento dell’ospedale alla segregazione del carcere; dall’annientamento “biologico” dell’uomo a quello fisico e morale della prigionia. 

L’avvio del romanzo è perfetto, con quell’amarezza mitigata dal buon senso degli anni e quella discrezione che sarà d’ora in poi quasi il contrassegno dell’opera. L’inizio ricorda un po’ il film di De Sica “Umberto D. “: resistenza sbiadita del pensionato, la ripetitività dei giorni e dei gesti, la compagnia affettuosa di una cagnetta. Poi l’assurdo. Agostino Bertoni viene arrestato per una colpa non sua, inquisito, costretto in prigione. E qui l’autore introduce una sorta di “pirandellismo”, quello, per intenderci, del “Gioco delle parti”, ma non altrettanto freddo, sofisticato e astrattamente loico: il pirandellismo invece di chi soffre ingiustamente e oppone le proprie resistenze e ragioni. L’imputato decide di non difendersi: «Devi essere tu, giudice, a dimostrare la mia “innocenza”, visto che sei stato tu ad addossarmi una colpa». 

Questa pretesa, che mette l’inquisitore di fronte alle proprie responsabilità, non è una “trovata”. Agostino si attacca alla “forma” in nome della coerenza e della dignità offesa. E non collabora: perché la vita dev’essere in ogni istante autentica, vissuta nella verità, sottratta al sopruso e ad ogni tipo di compromesso. Questa consapevolezza spinge Agostino verso il giovane compagno di prigionia, Carlo, sbandata e insicura vittima dei tempi, e lo restituisce alla società e a se stesso, attraverso un’amicizia densa di comprensione. La violenza – egli dice – è nella natura, il mondo è perfido, ma l’uomo è un essere razionale e deve vivere, non soccombere agli istinti distruttivi. Anche la giustizia deve rientrare nell’alveo. Accanto, infatti, alla violenza inconsapevole esercitata dai genitori, a quella degli insegnanti, a quella della natura e del “destino”, c’è la violenza delle istituzioni e di quanti, come giudici, credendosi nel giusto, ligi al proprio dovere, cedono alla “sonnolenza della deformazione professionale e morale”, generando violenza. Invece, perché sia degna di se stessa e dei propri compiti, la Giustizia deve rispettare e comprendere, non soltanto inquisire. 

Violenza, oh cara diviene così un messaggio di liberazione, un invito a valorizzare i diritti civili e naturali dell’uomo al di fuori degli schemi imposti dall’alto e vissuti ipocritamente o in maniera distorta; una parabola della vita come intesa fra gli uomini, rapporto generazionale e fiducia. A quest’etica si ispirano le vicende narrate da Cammarata. È stato detto al riguardo che nel libro tutto è un po’ troppo facile, che psicologie e fatti, ambienti e conclusioni non sono come nella vita, ma come li vuole l’autore. Ciò è vero, ma solo se il romanzo si legge come una narrazione realistica. Violenza, oh cara è invece “apparentemente” reale, in effetti ha la corrività di un sogno, un sogno che proviene dall’intimo ed è proiezione e auspicio di una esistenza migliore, più soddisfacente. Quei detenuti tutt’altro che duri sono tali, non soltanto perché Cammarata – come già Don Lisander, se ci si consente il rinvio – non sa creare personaggi malvagi, ma perché i malvagi non rientrano nel messaggio o miraggio che il suo inconscio propone. Allo stesso modo, quel credere nella facoltà persuasiva delle parole o di certi atteggiamenti, o nell’eventualità che un giudice si tormenti davvero, pirandellianamente, intorno a un problema di coscienza, ovvero che una donna bella ed onesta e per di più giovane, desiderata con frenesia adolescenziale, corra fra le braccia di un uomo alle soglie della senilità e consenta beata di vivere con lui per tutti gli anni avvenire, sono quello che !’inconscio individuale e collettivo magari si attende, ma senza sperarci. Opera dunque di poesia, questo Violenza, oh cara, ma romantica e lievitata da un ottimismo di fondo che è una forza, come la fede, per chi ce l’ha. 

Prima di concludere, vorrei aggiungere una nota a proposito del rapporto Agostino-Sofia. Ma occorre qui un’acuta osservazione fatta da D. H. Lawrence nel primo capitolo dei suoi “Classici Americani”. L’artista, dice Lawrence, è un gran bugiardo, ma la sua arte vi dirà sempre la verità. Egli, di solito, decide di orientarsi verso una morale e di farne un racconto che, regolarmente, però, finisce per orientarsi verso tutt’altra morale: « Un po’ come Dostoiewskij, che si atteggia a Gesù e si rivela un piccolo mostro». In Violenza, oh cara, a dispetto della morale e di tutta l’etica di fondo, spunta un germoglio assolutamente inatteso: la sensualità dell’autore. 

Agostino, che già prima ha indugiato sul .ricordo delle sue consuetudini erotiche con Carmela, desidera Sofia. 11 che sarebbe normale, se sottinteso, considerata la sua buona fede nel voler fare del bene alla donna e alla sua bambina, accogliendole in casa. Ma Agostino desidera avidamente Sofia, e la descrizione delle attese, occhiate, fantasie, come dell’affinarsi delle sue arti che spiano e tendono agguati per far cadere la donna (la quale sintomaticamente cederà d’impulso proprio), occupa un capitolo a sé, rivelando la voluttuosa attenzione dell’autore all’argomento, l’erompere d’una consumata frenesia sensuale. 

In ogni caso non è Sofia il personaggio emblematico del libro, ma Carmela, la donna delle pulizie, « mezza campagnola e mezza cittadina “. Carmela è una creatura viva e una delle più vere di Cammarata. Essa si dà ad Agostino con una dedizione così spontanea da non sfiorare i margini del peccato; vive affettuosa nella penombra e veglia, amante e madre come la grande terra che accoglie nel suo amplesso il seme e il riposo degli uomini. Anche lei, naturalmente, ha i suoi problemi, ma è d’un candore che semplifica tutto con assennatezza; conosce i limiti della propria condizione e sa uscire di scena quando gli eventi prendono una certa piega. Un po’ Diodata e forse un po’ Molly Bloom, è l’anima speculare del libro, il senso di una poetica liberale che ha il coraggio, in tempi così sofisticati, di essere anche semplice. 

Ugo Morale

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 69-72. 




 Lettera da Motya 

 

Caro direttore, 

ho ricevuto il numero 2 di Spiragli. Ti ringrazio per lo spazio riservatomi alla rubrica «Arte» e per le opere riprodotte le quali, anche se in bianco e nero, conservano misteriosamente la loro forza espressiva. 

La rivista appare chiara, schietta, utile. Ed ha una sua «linea» nei titoli e nei caratteri ed in ciò che tratta. Si vede che nasce con intenti di sana inconsueta forma intellettuale, volta non a interessi di parte ma alla divulgazione della cultura come cibo indispensabile per vivere meglio. Rivista «di servizio» quindi, nella più generosa accezione. 

Il titolo Insieme nella pittura è quanto mai felice. «Insieme» indica unione, compagnia, colloquio, armonia, conoscenza. Ed è ciò che io mi propongo di fare nel mio campo, quello della «pittura» il cui fascino e mistero, da che esiste l’uomo, hanno prevaricato su qualsiasi altra emanazione dell’intelletto. 

Prima di intraprendere – cordialmente insieme – il discorso che tenda a far capire, una buona volta. che cosa è «la qualità» nell’arte (e nella pittura in particolare), consentimi di raccontare a te e ai lettori di Spiragli, l’avventura occorsami in una rapida improvvisa escursione a Motya, l’isola che si intravede appena, in faccia a Marsala. Con questa breve storia, vissuta personalmente, oltre che interessare il lettore per la sua singolarità, spero di dare un modesto ma convincente saggio di cosa io intendo per «chiarezza espressiva», il modo cioè di «raccontare» di se stessi e della pittura in maniera facile e scorrevole, alla portata di tutti. Favole. 

Di Motya (si pronuncia Mozzia, con due belle zeta siciliane?) hanno raccontato e scritto chissà quanti scrittori e viaggiatori venuti da tutte le parti. E quindi, nello scriverne, io non farei alcunché di nuovo, e ti deluderei. Ma è che ho trovato, avvicinandomi all’isola, un elemento così imprevisto ed operante, di così assidua e cocciuta presenza, da mozzarmi il fiato. Sono convinto che la storia di Motya è sì fatta di antichissime felicità o infelicità terrene – che puoi immaginare percorrendo il margine estremo fra la tremula striscia di schiuma salina e gli attoniti gruppi di fichi d’India, fra le pietre bionde e le macchie di estenuato verde cimarolo -, è sì, anche, una storia di morte di bimbi e di uccelli, di agguati e convegni, di sole e di rose tea, ma è soprattutto un’allucinante perpetua storia di vento. Non che ci sia sempre vento; ma qui, ed è questa la singolarità, c’è vento anche quando manca del tutto. 

Mi spiego. Prendo la barca per andare all’isola (il mare rumoreggia lontano, attraverso un tratto d’acqua appena increspata, come fosse un lago). Penso al vento che soffiava durante il tragitto del lungo molo che porta alla barca. Ora è cessato: non lo avverto più nel frenetico sbattere dell’impermeabile sulla gamba. Eppure, mentre la barca scivola verso l’isola, sento qualcosa nell’aria profumata di fresche alghe, e mi guardo attorno. Lui, il vento, sta in giro. C’è, su quel placido corridoio d’acque che unisce Lilybaeum e Motya, uno strano suono: una sorta di nenia che non è né musica, né rumore, né fischio. Forse un ronzio, un roco sibilare, un fruscìo. È il vento che ruota, caprioleggia, punta, guasta. E all’improvviso me lo sento addosso, in faccia, sulla nuca, sulle gambe, mi avvolge, mi spinge, mi fa barcollare. Ed anziché difendermi, trovare qualche riparo nella barca, apro la bocca e lo respiro quel vento, respiro, respiro e me ne inebrio come fosse un miracoloso farmaco. Il cappello è volato via, la barca si inclina, ed io sono lì, incosciente, i capelli bianchi sugli occhi, pervaso da una felicità sconosciuta (per chissà quale sortilegio fenicio… ). Poi il vento riparte, poco prima dell’approdo, e va ad aspettarmi sull’isola. 

Motya mi appare come quei giardini nascosti in cui non sai se c’è più verde o più fiori. L’amenità del luogo mi distrae dal pensiero che sono sbarcato sull’isola che contiene la più straordinaria miniera di resti di antiche civiltà – se appena scavi, trovi – che si possa immaginare. Alberi contorti – che sembrano atleti in lotta, per i rami che si divincolano e strisciano quasi sull’erba – nascondono il padiglione del piccolo museo; mi avvio. Motya è fatta di vigneti (certe viti nane che dicono siano le migliori del mondo), di ameni boschetti, di tenerissime insenature dove mi piace pensare che approdino minuscole galere variopinte, insieme a imbarcazioni moderne dai sottili alberi per tele bianche e arancione. 

Pochi ruderi intorno. Percorro il sentiero che fa il giro dell’isola sull’orlo vicino al mare (trema la frangia bianca che adorna tutta la riva). Ora il vento ritorna, prima furioso, poi cordiale, suadente, ti prende per mano e non ti lascia fino alla partenza. Nei furtivi atrii dei giardini, scopro mosaici quasi intatti eseguiti da artisti che Cartagine inviava a Motya. Alcuni, raffiguranti lotte di fiere, hanno uno straordinario senso dinamico quasi che gli animali fossero anch’essi mossi dal vento. Sono tentato di scavare col dito una stupenda anfora che affiora. O di toccare la finissima polvere delle mura funerarie: è ancora quella dei fanciulli sacrificati nell’orrendo rito pagano. Mi fermo all’ingresso di un piccolo porto, grazioso al pari di un laghetto dell’Olimpo, con pietre pulite e verdi prati che lo circondano, senza tempio. Qui dovettero sbarcare ninfe o regine, o dee, ad attendere un uomo; perché il luogo è il più vasto e soffice talamo che si sia mai visto, e l’aria è purissima. Il vento mi sussurra incredibili storie d’amore. Maschere di satiri e fauni ridono, negli anfratti. 

Ritornare alla barca è come uscire da un incantesimo. Motya si allontana, nella trasparenza che le concede il vento. Prima di lasciare l’isola (dove, si dice, nelle notti senza luna, nel buio fosforescente, si odono fitte variegate musiche di ignoti strumenti), ho guardato oltre una siepe: al centro di un rovo squassato dal vento, lo stelo alto e spinoso di una stupenda rosa tea, era immobile nel sole. 

Carlo Montarsolo 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 5-7.




Virgilio Titone  Uno degli ultimi maestri 

 Il 27 febbraio 1989 è morto Virgilio Titone, grande scrittore, storico, critico, sociologo: uomo onesto, coraggioso, generoso, schivo, veramente libero. 

Era nato a Castelvetrano (Trapani) il 15 marzo 1905. Già nei primi scritti, del 1923 o del 1924, rivelava la sua forza decisa, energica dello stile. Fra i suoi primi libri Critica vecchia e nuova (Firenze, 1932), nel quale mostrava che l’ammirazione per il De Sanctis aveva fuorviato il giudizio dei critici, non avendo quell’autore fatto se non «in moltissimi casi che della psicologia». Seguirono La poesia del Pascoli (Roma, 1933), Retorica e antiretorica nell’opera di Alfredo Oriani (Milano-Napoli, 1933), che il senatore Cian considerò uno scritto eretico, «incredibile, ma titonicamente vero»; allora difese il Titone Benedetto Croce, condannando severamente la denunzia di quel servo del regime fascista (La Critica, vol. XXXIII. 1935, p. 188). In varie circostanze il Croce espresse la sua stima per il giovane Titone e lo incoraggiò; gli scrisse manifestandogli il suo consenso, quando fu sequestrato il libro Espansione e contrazione (Trapani, 1934), con il quale Titone mostrava la contraddizione tra una politica di espansione imperialistica e la fase di contrazione che allora si attraversava. Di quegli anni è anche il volume Giovanni Boccaccio con un’appendice su ser Giovanni fiorentmo (Bologna. 1936), con cui il Titone dimostrava che il Boccaccio era nato a Certaldo, non a Parigi. 

Negli anni quaranta il nostro autore pubblicò Cultura e vita morale (Palermo, 1943), Teoretica della rivoluzione (Palermo, 1944), Il teatro di Racine (Palermo, 1945), Economia e politica nella Sicilia del Sette e Ottocento (Palermo, 1947), La Sicilia spagnola (Mazara, 1948), La politica dell’età barocca (Palermo, 1949). In La Sicilia spagnola fu sottolineato un atteggiamento troppo personale, ma per la sua originalità il libro poté screditare certe idee che per circa due secoli, a partire dall’illuminismo, si erano passivamente accettate sul rapporto Spagna-Sicilia e pertanto ebbe il merito di stimolare a una revisione e a nuove ricerche. Il nome di Virgilio Titone restava legato anche alla Spagna. per i suoi viaggi e fondamentali studi di storia e letteratura, che hanno soprattutto indicato molti elementi del carattere della sua gente, spiegandone così il comportamento, gli atteggiamenti, le relazioni, la politica. Con La Sicilia spagnola aveva inizio una nuova fase nella storiografia siciliana sulla Spagna, che continua fino ai nostri giorni, soprattutto con i contributi degli studiosi dell’Università di Palermo, nella quale il Titone fu per molti anni ordinario di storia moderna e maestro, uno degli ultimi maestri. 

Sebbene egli abbia collaborato come apprezzato elzeverista ai più autorevoli quotidiani italiani, dal Corriere della sera, nei suoi tempi migliori, al Tempo, e alle riviste più prestigiose e particolarmente al Mondo di Pannunzio e alla Nuova Antologia, molte delle sue cose più significative si trovano nelle tre riviste palermitane da lui fondate e quasi interamente scritte, La nuova critica, L’Osservatore, Quaderni reazionari. 

Degli altri libri del Titone ricordiamo: L’Italia oggi (Mazara, 1951), Politica e civiltà (Palermo, 1951), La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (Bologna, 1955), Origini della questione meridionale. Riveli e platee (Milano, 1961), Storia, mafia e costume in Sicilia (Milano, 1964), Storia e sociologia (Firenze, 1964), Il conformismo (Milano, 1966), Introduzione alla rivoluzione francese (Milano, 1966), Machado e Garda Lorca (Napoli, 1967), La storiografia dell’illuminismo in Italia (Milano, 1969), Commento al nostro tempo (Roma, 1972), libri che non poco hanno contribuito alla formazione di molti giovani di diverse generazioni. 

Negli anni 1971-72, in più edizioni, Mondadori pubblicò le Storie della vecchia Sicilia; nell’Avvertenza il nostro autore scrive che quei racconti, o come egli li chiama, le sue storie, «vogliono essere un contributo alla storia dell’isola: una testimonianza della sua anima antica e vera». E questo gli è stato riconosciuto anche dai critici: Indro Montanelli sottolineò nel libro il vigore degli squarci di vita; trovò quei racconti .scritti più con lo scalpello che con la penna» e dichiarò che «per trovare pezzi di Sicilia altrettanto densi e compatti bisogna risalire a Verga», dal quale si dovrebbe fare discendere Titone «in linea retta» (Corriere della Sera, 30 aprile 1971, p. 3). Il solito vizio di classificare e di ricondurre qualsiasi autore ad un altro autore! Da Verga Titone è lontanissimo e ciò risulta evidente proprio dal fatto che narrano entrambi la Sicilia, con uno stile del tutto diverso. L’originalità di Virgilio Titone, riconosciuta nei suoi vari scritti e di diversi periodi, emerge anche e soprattutto dalle sue Storie. 

Negli anni successivi il Titone pubblica Il pensiero politico italiano nell’età barocca (Caltanissetta-Roma, 1975), Dizionario delle idee comuni (Milano, 1976), La società siciliana sotto gli Spagnoli e le origini della questione meridionale (Palermo, 1978), Il libro e l’antilibro (Palermo, 1979), La Sicilia e la questione settentrionale (Caltanissetta-Roma, 1981), La festa del pianto (Caltanissetta-Roma, 1983), Scritti editi e inediti 1924-1945 (Palermo, 1985). Fra i temi ricorrenti ne ricordiamo almeno uno: la critica all’intellettualismo: «Un vero poeta, un vero pittore, scultore, architetto, un medico, un fisico, un biologo, un filosofo, uno storico non possono classificarsi tra gl’intellettuali. Rappresentano la cultura del loro tempo. L’intellettuale infatti è il parassita di questa cultura e lo è per due motivi essenziali, perché dal suo prestigio deriva il proprio prestigio e perché nessun avanzamento della scienza e nessuna opera di scienza o di arte può da lui farsi o pensarsi. Potrà fare il mezzo poeta, il mezzo politico, storico, economista e così via, ma nessuna di queste cose egli farà seriamente e professionalmente. Non cerca la verità, che per altro non lo interessa. Il suo solo interesse si riferisce a se stesso: al suo bisogno di apparire intelligente, originale, spregiudicato. Perciò le sue formule, le sue sistemazioni dell’universo, le sentenze definitive sugli uomini e le cose che lo circondano ci appaiono altrettanto vuote e irreali quanto aggressive» (Dizionario delle idee comuni, vol. I, pp. 233-34). 

Nel 1987 sono usciti, a Palermo, i due ultimi libri di Virgilio Titone, Vecchie e nuove storie siciliane e Le notti della Kalsa di Palermo, dei quali si è occupato fra gli altri Helmut Koenigsberger nel Supplemento letterario del Times del 18-24 dicembre 1987. Scritti del Titone sono stati tradotti in inglese e in spagnolo. 

Tema ricorrente dell’opera narrativa del Titone è la solitudine virile e la ricerca religiosa del passato, qualunque esso sia, anche triste. Alla solitudine e alla ricerca del passato si accompagna la struggente ansia del futuro: «…noi custodiamo i nostri ricordi, lettere ingiallite, lontane fotografie, mute reliquie di coloro che non sono più. Ma un giorno tutto questo sarà distrutto e qualcuno verrà a sgombrarne frettolosamente la nostra casa» (Storie della vecchia Sicilia, p. 101). 

Calogero Messina

da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg. 10-12. 

 




 ELIO GIUNTA, La mia città. Poesie. Con opere pittoriche di Montevago, Spirali, Milano, 2006. 

 

Dovrebbe considerarsi un avvenimento il fatto che Elio Giunta si ripresenti con la poesia, il suo primo amore. In effetti, dopo un lungo esercizio di prosatore che ha fruttato opere di narrativa notevoli e saggi problematici di cultura e di costume, 

ora manda in libreria, nella elegante veste editoriale voluta da «Spirali», trentaquattro testi scanditi in cinque sezioni che non mancheranno di interessare gl’intenditori per la loro singolarità. 

Giunta non è autore di facile consumo e non intende esserlo neppure come poeta, anzi pare proprio che anche questa pubblicazione nasca dietro precisi intenti di proposta impegnata nella direzione di rinnovata fedeltà alla dignità letteraria e umana, quali i tempi oggi richiedono. Pertanto vanno lette e interpretate in tal senso le frecciate nei confronti della cultura che si pratica a Palermo e il distinguo sul fare poesia che oggi andrebbe di moda nei centri del potere culturale in Italia. Dunque un libro che conta anche come intervento critico di un intellettuale non avvezzo a perder tempo sulle carte per farsi bello. Se ne ha sentore se ci si sofferma sui rifacimenti di alcuni testi della lirica greca, scelti quasi con cattiveria. Deve dirsi che la poesia di Giunta attinge a momenti di vita che vengono fissati, interiorizzati e resi motivo di riflessioni universalizzanti. La sua è parola poetica che ci appartiene in quanto viene dal nostro vissuto, che si ripropone in occasioni magari estemporanee, ma che sempre forniscono ricreazioni di immagini e ripensamenti tipici di un’autentica coscienza critica. Si osservi, poi, come ciò che è colto dal reale o che viene dalla memoria si ripropone con versi armonicamente dicibili, anche a volte con recupero del parlare corrente, ma che non smentisce la presenza vigile di un esperto maestro di lingua e di buon gusto. 

La città di cui si parla è Palermo ed è questa che suscita le polemiche del poeta, perché è emblema di quella condizione disumanizzante che purtroppo oggi le città offrono. 

Renzo Mazzone 

A questo punto non ci sembra fuor di luogo richiamare, per il forte spirito di civismo cui è improntato, un poemetto inedito dello stesso autore, letto in un corso di letteratura sul tema «Dante poeta attuale e popolar(Università europea del tempo libero, Palermo). Elio Giunta così ripropone l’invettiva dantesca del canto IV (vv. 76-151) del Purgatorio»

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 62




Tore Mazzeo,  poeta dialettale trapanese 

Nel novero dei poeti dialettali trapanesi s’innesta Tore Mazzeo, poeta che non fa scalpore, consapevole che la poesia, se è vera, non ha bisogno di altro se non di tempo e di ascolto: l’uno, scavando, lava ed elimina ciò che poesia non è, l’altro l’imprime perché giovi e sia di gradimento a quanti le s’ avvicinano. La poesia di questo autore è un piacere sentirla, perché senza alcuna forzatura parla a chi con un minimo di sensibilità le si dà, facendosi condurre per i sentieri umani, che le sono propri. (Ne diamo una breve mostra qui in calce). 

Tore Mazzeo ha compiuto studi tecnici ed è un commercialista in riposo, eppure è buon conoscitore delle nostre lettere e si è interessato di Giuseppe Marco Calvino, di Bernardo Bonaiuto e di altri autori siciliani a noi più vicini. A parte le opere di narrativa, ha esordito giovanissimo nella poesia, di cui ha curato due edizioni, perché l’autore, attento e suscettibile alle pur minime variazioni di tono, di stile e di una lingua ancestrale ricca di fascino, quale è la parlata di Trapani, trascritta nel rispetto della sua fonetica. Ne risulta che Poesie trapanesi Baddhraronzuli… è opera di una vita, perché continuamente aggiornata nel sentire e negli umori che col passare del tempo cambiano, così come le cose della quotidianità e i luoghi che videro il poeta fanciullo. 

L’ originalità di questa poesia è tutta qui, ed ha fatto bene a patrocinarla l’Associazione per la Tutela delle Tradizioni popolari del Trapanese, presieduta da Salvatore Valenti. Essa è un bagaglio di vita e di cultura dei nostri padri sottratto all’oblio, con l’auspicio che sia letto e conosciuto dai giovani, perché niente passi inosservato, consapevoli che non si può comprendere la grande storia senza conoscere la minuscola, quotidiana, eppure ricca di sapienza e umana. 

L’opera, divisa in sei capituli (Amuri, Acquareddhri, Duluri, Gastrunumia, Travagghiu, Scherzu e Irunia), riprende uomini e cose nella loro quotidianità, senza cadere nella banalità, e li fissa, anche con lievi tocchi e linguaggio di tutti i giorni, in quadri di vita vivaci e familiari. Si legga Didascalia r’un cinema mutu o ‘U cori è picciottu. In entrambi i componimenti è l’amore al centro del discorso; nel primo colto come scoperta nell’età bambina, a cui s’accede a piccoli passi, a mo’ di rito, l’ altro come sentimento semprevivo e palpitante, che, al pari della poesia, non risente dell’ età ed è capace di far compiere la qualunque, pur di esserne fedeli servi tori. 

Nel secondo capitolo il poeta si fa pittore di pennellate leggere, ricche di colori della propria terra, come in Tramuntu (U russu cari / Pitta lu mari / L’acqua lu lava. Rresta ‘na vava / Lèggia di rosa / Chi s’arriposa / Tra cielu e mari. // Poi ‘nfunnu cari.) o in Virginali, ove il mare e il cielo di Trapani creano un’atmosfera di sogno che fa accettare, pur con le sue amarezze, la vita e la fa amare. 

In Duluri predominano la sofferenza e il dolore propri della condizione umana (Turmentu), o quello provocato dalle ingiustizie e dalle guerre che martoriano e distruggono. Così è in Tri jorna dopu, dove il poeta riferisce dei bombardamenti americani a Trapani con la distruzione di interi quartieri, come quello di San Pietro. Ma il componimento che più tocca la sensibilità del lettore è dato dalle tre quarti ne che riprendono una povera mendicante (Puvireddhra), seduta sui gradini di una chiesa, costretta a stendere la mano per fame. Il poeta ne disegna la figura con un bimbo in braccia ravvolta in uno scialle, da cui fuoriesce solo un volto macilento che guarda a terra e una mano tremolante. (L’occhi calati ‘nterra sta figura / Viri sulu ‘i scarpi ri li genti / Mentri o’ so pettu stringi ‘na creatura / Chi di sucari mancu si la senti). Sembra vederla questa poveretta e muove ancora a pietà, perché la piaga della miseria è più che mai aperta. 

Sono oggetto di poesia anche i piatti tipici del trapanese (Gastrunumia), quasi che il poeta li voglia preservare dal logorio del tempo e dalla modernità, che tutto avvolge e cancella, e in Travagghiu, i lavori tradizionali messi in crisi dall’avvento delle macchine. Il calzolaio, lo stagnino, il vignaiuolo, il tonnaroto, il pittore decoratore, sono disegnati nell’ atteggiamento usuale, contornati spesso da una fine ironia che evidenzia il disagio di chi ha difficoltà a riconoscersi col mutare dei tempi e delle mode, come è per ‘u scarparu, costretto a ridimensionare bottega e lavoro, riparando scarpe, lui che le scarpe faceva con tanta maestria, e non accetta lo stato in cui è caduto, preferisce abbandonare tutto, dopo aver fatto per sé un paio di scarpe (Mi li mittiti quannu vaju via: l’Un cci fu nuddhu chi mi fici ‘i scarpi), perché in vita nessuno poté fargliele. 

Nell’ultimo capitolo (Scherzu e irunia), tra il bonario e il faceto, il poeta mette in caricatura con straordinaria capacità persone e ambienti della sua terra, come è in A sciuta p u passiu, in cui fa rivivere la passeggiata di due fidanzati, accompagnati a vista dalla mamma di lei, pronta a richiamarli, se si fossero dati a effusioni non consentite, anche se poi provava gusto a vederli innamorati, tanto che alla fine li invita al bacio. Era una consuetudine e guai a non rispettarla, se si voleva finire sulla bocca di tutti. E c’è anche l’arrivista (Panza parata), pieno di boria e ignorante, un tipo che non attiene solo alla Sicilia, ma troviamo ovunque, eppure urta la suscettibilità degli onesti che si vedono spesso scalzati da uno così tronfio e arrogante. 

Anche qui non manca il riferimento alla tradizione, e mi riferisco alle ricette che Mazzeo ripropone, quasi a voler preservare la buona sana cucina dei padri. C’è qui l’attaccamento alla sua terra, e forte è in lui il richiamo della memoria che lo proietta nel passato, presentando come vive persone e cose che ormai non sono più. Sarebbe tempo della nostalgia, che qua e là riaffiora, se il poeta non fosse consapevole dell’ineluttabilità di ciò che appartiene agli umani. 

Poesie trapanesi (Baddhraronzuli) è un’ opera, interessante per l’uso del dialetto, sempre fluido, puntuale e genuino, come è il parlare del popolo, ed efficace, pronto a tradurre lo stato d’animo dell’autore che lancia questi innocui baddhraronzuli (il termine sta a significare i pallini di diversa dimensione, costituiti di un misto d’alghe e sabbia, lasciati dalle onde sul bagnasciuga per dire che bisogna essere operosi, a contatto con gli altri, propensi allo scherzo, ma con garbo, per non urtare la suscettibilità altrui, immergendoci in un mondo ormai lontano, eppure ricco di richiami e di nobile sentire. 

Salvo Marotta

da “Spiragli”, 2009, Profili 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 47-49.




 EMILIO GUASCHINO, Disegni e grafiche.  Antologia pittorica 1966-2004, collana «Prisma», Ila Palma, Palermo, 2004. 

Storiografia della sicilitudine attraverso il segno e il colore 

II pittore di origine piemontese, Emilio Guaschino, che ama definirsi «polentone con l’animo di terrone», ha pubblicato per l’I.l.a. Palma un corposo volume illustrato intitolato Disegni e Grafiche 1966-2004. Dalle 180 pagine in grande formato, affiorano immagini impregnate di luce e di calore, di tristezza e di drammaticità. Artista schivo e modesto, è costantemente spinto a migliorare la sua capacità interpretati va e usa il colore con struggente dolcezza, trasmettendo alle sue figure un grido di disperazione che lo porta a forme narrative irripetibili, gesti d’amore per la sua gente e la sua terra. 

Le condizioni difficili di tanta gente di Sicilia sono denunce gettate con impeto generoso, per cui i volti esprimono fortemente sentimenti di angoscia. Nelle opere di Guaschino i drammi di un popolo scaturiscono dai tratti incisi vi della sua grafica, ed ecco che i colori riescono a dare ancora più forza ad un linguaggio che è insieme documento e protesta. I soggetti dei suoi quadri esprimono immediatezza, gridano al vento i propri tormenti: fanciulli costretti al lavoro, donne stanche per il pensiero dei loro uomini lontani per lavoro, vecchi chiusi in una dolente rassegnazione. Tutto parla nelle opere di Guaschino, il mare e la terra intrisi di fatica e di sudore, le case isolate e quelle dei centri urbani carichi di fatalistico silenzio, le donne e gli uomini protagonisti di una coralità che stupisce e rende partecipi. 

Infatti può accadere che osservando le sue opere si rimanga incerti se è più importante ammirare il valore della sua arte oppure il modo sincero pulito e spontaneo con il quale l’autore rende cariche di realismo le sue figure e prepotentemente espressive le sue creature. 

Certo Guaschino esprime ciò che sente, «gettando l’anima sul piatto» come scrisse lui stesso in una lirica ad un amico poeta. Quello che riesce a far dire alle sue figure prorompe ‘impetuoso dalla sincerità del suo animo ma è la sua capacità di disegnatore, e la potenza del suo colore, che gli permettono di raggiungere certi risultati. Colore e disegno si compendiano in maniera mirabile, e pure nel dolore o nella protesta l’artista, attraverso i suoi quadri, lancia messaggi d’amore per commuovere e fare pensare. 

Dora Maran

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 33-35.




L’eredità di Andrei Zacharov 

Giovedì sera 14 Dicembre 1989 si spegneva sul tavolo di lavoro, mentre era intento a preparare il suo intervento al Congresso dei Deputati del Popolo dell’U.R.S.S., Andrei Dimitrievic Zacharov, Premio Nobel. 

La scomparsa del grande scienziato, padre della bomba atomica sovietica e tuttavia esiliato a Gorkij da Breznev per avere preferito ai privilegi e agli onori degli accademici ligi alla nomenklatura del regime neostalinista, la difesa coraggiosa della libertà intellettuale e della verità sulla situazione del suo paese e sui pericoli incombenti sul genere umano, ha costernato tutta la gente del mondo. «È una grande perdita – ha detto Gorbaciov -, egli era un uomo importante per la perestrojka. Era un uomo che aveva le proprie idee, i propri convincimenti. e li esprimeva direttamente, senza infingimenti». Più di un giornale lo ha definito, appena resa nota la notizia della sua improvvisa scomparsa, «l’interprete della coscienza morale del suo paese». 

Seppi dell’esistenza di Zacharov nella prima metà di settembre del 1968, quando in una libreria di Conegliano Veneto, ove mi trovavo in qualità di commissario di esami di maturità, acquistai e avidamente lessi il suo opuscolo (già da tempo ciclostilato e privatamente diffuso tra gli intellettuali non conformisti dell’U.R.S.S.) «Progresso, coesistenza e libertà intellettuale» edito nell’agosto del 1968 dalla casa editrice Etas Kompass. 

La lettura del libro mi ridiede un po’ di ‘quell’entusiastica e fiduciosa speranza di affermazione anche in Italia del socialismo dal volto umano che mi aveva trasfuso la lettura degli opuscoli di Dubcek e la primavera di Praga e che la susseguente repressione dei carri armati sovietici aveva spento. 

Capii che non tutto era perduto, che uno spiraglio di luce e di speranza rimaneva per chi ama la giustizia e la libertà e per la salvezza stessa della vita e della civiltà del genere umano. Ebbi pertanto la sensazione di vedere nei concetti esposti da Zacharov lo specchio delle aspirazioni elementari e nel contempo universali di tutti gli uomini di buona volontà viventi sul nostro pianeta, e sinceramente rimasi frastornato e rammaricato nel leggere un articolo su “L’Unità” del 28-9-1968 di Giuseppe Boffa il quale, dopo avere messo in risalto le positive novità che trasparivano dal libro di Zacharov e concordato sulla necessità della libertà di discussione nell’U.R.S.S., scriveva: «È una pericolosa illusione quella di chi crede che i grandi problemi umani si possano risolvere con alcune intuizioni e sistemi da laboratorio. Simile metodo è scientifico (allusione questa alla scientificità sulla quale Zacharov diceva di basare le sue idee e aperture democratiche) solo in apparenza. Certo, non è democratico». 

Ho riletto attentamente l’opuscolo e sono giunto alla persuasione ferma che Zacharov in esso appare non solo !’interprete genuino della coscienza del suo paese e del mondo intero, ma anche il profeta lungimirante degli avvenimenti che stanno rapidamente evolvendosi sotto gli occhi di tutti. Altro che pericolosa illusione quella che egli ci ha tramandato. Si tratta, invece, di una serie di idee cardine che hanno valore di certezze illuminanti e di binari sui quali non può evitare di correre la storia del genere umano, se vuole sfuggire al suo suicidio universale. Non è il caso in questa sede di recensire analiticamente Progresso, coesistenza e libertà intellettuale, ma alcuni suoi passaggi essenziali penso doveroso rinfrescare alla memoria di tutti. 

Innanzitutto appare vero, oggi con luminosa chiarezza, che l’opuscolo zacharoviano rappresenta il risultato di un’ampia spaccatura determinatasi più di vent’anni fa nelle alte sfere del Partito Comunista, della classe dirigente e dell’intellettualità dell’U.R.S.S. e dello scontro già allora in atto sull’interpretazione della realtà dell’U.R.S.S. e del mondo. Ma soprattutto sorprende la lucidità premonitrice con cui vengono additati i principali pericoli che tutt’oggi incombono sull’umanità: la guerra nucleare, la catastrofe per fame per la maggioranza degli uomini, l’intossicazione prodotta dalla «droga» della cultura di massa, il dogmaticismo burocratizzato, i miti di massa generatori di capi demagoghi crudeli e impostori, la degenerazione e distruzione dell’ambiente naturale dovute alle imprevedibili conseguenze di rapidi mutamenti nelle condizioni di vita del pianeta. 

Zacharov sostiene che tali pericoli possono essere neutralizzati solo se l’umanità supererà la sua divisione (la cui accentuazione egli definisce una follia criminale) fino a pervenire a un governo unico del mondo e del genere umano considerato (concetto ultimamente ripreso da Papa Giovanni Paolo II) un’unica famiglia mondiale, anche se distinta nei vari popoli per diversità di storia e di tradizioni. Inoltre egli pone come necessità inderogabile per l’evoluzione progressiva del suo paese l’introduzione dell’economia di mercato e l’affermazione del pluralismo, il superamento del burocratismo ossificato e in ciò egli coincide, per tanta parte, con il programma di svolta e di trasparenza inaugurato da Gorbaciov dopo le intese di pace con Reagan. Quanto alla libertà intellettuale, intesa come libertà coraggiosa di discussione, libertà dall’imposizione delle tesi ufficiali e dei pregiudizi, libertà di ricevere e divulgare informazioni, egli sostiene che essa è necessaria non solo all’U.R.S.S., ma a tutta la società umana e va difesa, onde prevenire le conseguenze estreme sperimentate con le dittature, dalle insidie della cultura standardizzata di massa, dalla viltà, dall’egoismo, dalla ristrettezza mentale e dalla censura. 

Qui, appunto, il discorso di Zacharov vale anche per noi occidentali nei cui sistemi di capitalismo avanzato la democrazia è sempre in uno stato di equilibrio instabile, la libertà d’informazione minacciata dalla tendenza alla standardizzazione e alla pubblicitaristica concentrazione delle testate giornalistiche, editoriali e televisive nelle mani di pochi. Va anche aggiunto che nella nostra democrazia capitalistica non so quanti dei grandi intellettuali dell’informazione sarebbero disposti a rinunziare ai privilegi finanziari e «di potere» per proclamare apertis verbis tutte le verità di cui sono a conoscenza, come ha saputo fare Zacharov, se è vero che spesso nelle varie città e regioni gran parte di giornalisti ed emittenti locali dicono solo le cose che possono essere dette e se è vero che qualcuno che ha superato una certa barriera è morto ammazzato. 

È inoltre sorprendente la chiarezza con cui lo scienziato Zacharov previde nel 1968 i danni all’ecosistema del pianeta provocati dall’inquinamento delle acque e dell’aria, dalla distruzione del patrimonio forestale, dall’uso dei composti chimici velenosi, dagli scarichi delle industrie e dei mezzi di trasporto, dall’anidride carbonica proveniente dalla combustione e provocante l’effetto serra, dalle sostanze chimiche velenose usate in agricoltura le quali «assorbite dal corpo umano e dagli animali sono causa di gravi danni al cervello, al sistema nervoso, agli organi del sangue, al fegato», dall’uso degli antibiotici nell’allevamento del pollame «che ha portato allo sviluppo di nuovi microbi portatori di malattie antibiotico-resistenti», dallo scarico dei detersivi, dall’erosione e salinizzazione dei terreni, dalla distruzione degli uccelli e degli animali non domestici e utili all’equilibrto biologico. Anche per la soluzione di questi problemi di dimensione planetaria nell’opuscolo si insiste sul concetto del superamento della divisione del mondo e sull’inadeguatezza dei provvedimenti di carattere locale o nazionale. 

Ma la grandezza di Zacharov consiste non soltanto nell’aver previsto con ammirevole lucidità le riforme oggi in via di rapida attuazione nell’Est europeo e in U.R.S.S. con la fine delle monocrazie stalinistiche, con la fine del concetto del partito guida che era stato sancito come una specie di eterna immobilità nelle costituzioni dell’area del casiddetto «socialismo reale», con il trionfo del pluralismo, o nell’avere preconizzato l’avvio al disarmo e l’avvicinamento fra i due sistemi (statunitense e sovietico) fino alla loro fusione, avente come sede – carne hanno affermato Gorbaciov e Giovanni Paolo II – la «casa comune europea» e derivante, più che da accordi di vertice, da una mobilitazione democratica dei popoli attraverso un trasparente dibattito e consultaziani elettorali veramente libere. 

La grandezza di Zacharov consiste nel fatto che i suoi insegnamenti valgono anche per i Paesi occidentali i quali, alla lunga, non potranno rimanere fermi nell’immobilismo di un tipo di democrazia anchilosata e viziata da tante corruzioni e criminalità maflose ed economico-politiche, chiusa all’alternativa perché dominata dall’alibi del pericolo proveniente dalla minaccia armata e dittatoriale dell’Oriente. 

Gli insegnamenti zacharoviani sono preziosi anche per noi: quando egli denunzia il malcostume sovietica della designazione dei presidenti delle fattorie collettive in base a qualità come la furberia e il servilismo o quando condanna la compera di fedeli servitori del sistema esistente e propone un controllo pubblica più efficace sui manager, induce anche noi a fare un severo esame di coscienza e a renderci canto della necessità urgente di imboccare una via che restauri la genuinità delle scelte elettorali affinché esse non siano più condizionate dalle tangenti o dall’assegnazione di posti di una certa delicatezza e responsabilità ad incompetenti o a corrotti mediante concorsi più o meno truccati o mediante l’insulso metodo della lottizzazione e della corruzione. E che dire dei fatali e disastrosi errori derivanti – dice Zacharov – «dalle decisioni prese nel chiuso dei consigli segreti»? In questo campo i Paesi occidentali sono immuni o, per altro verso e per motivi diversi, anche da noi il potere economico e politico non rifugge dall’obbedire a decisioni occulte piuttosto che alle esigenze democratiche del bene comune? Se è così, i mutamenti dell’Est non potranno non provocare anche all’Ovest mutamenti ispirati alla genuina trasparenza democratica. 

Un discorso e una rilevanza particolare meritano poi (e per noi occidentali degne di attenta e profonda riflessione) le sue considerazioni sulla manipolazione dell’informazione in quanto dominata da prevalenti interessi pubblicitari e commerciali, sull’uso della psicologia di massa che tende a «suggerire sempre nuove possibilità di controllo delle nom1e di comportamento e delle convinzioni delle masse, sui nuovi mezzi di controllo biochimico ed elettronico dei processi psichici», per cui i valori umani e lo stesso significato della vita rischiano di essere sconvolti e l’uomo può essere «ridotto al rango del pollo o del topo del famoso esperimento in cui esso viene ubriacato elettricamente con una coppia di elettrodi applicatigli alla massa cerebrale». 

A proposito della cibernetica. egli dice testualmente: «Non si può ignorare il pericolo segnalato da Norbert Wiener nel suo libro Cibernetica: nelle macchine cibernetiche manca del tutto quel complesso di stabili norme di comportamento che sono invece presenti negli uomini. La tentazione di un potere senza precedenti affidato a un gruppo particolare in seno all’umanità dai sapienti consigli dei suoi futuri aiutanti intellettuali, gli automi capaci di pensieri artificiali, potrebbe diventare una trappola fatale». E così prosegue: «Se la libertà di pensiero non verrà difesa e se l’alienazione non sarà eliminata, questo genere di pericoli diventerà realmente attuale nel giro di pochi decenni». 

Interessante è, inoltre, in Zacharov il frequente accenno alle forze comuniste dell’Occidente i cui programmi giudica di fatto essere più socialdemocratici che filostalinisti e alla funzione riformatrice e di freno degli eventuali eccessi propri del culto capitalistico dell’individualismo egoistico e sfrenato che esse sono chiamate a svolgere assieme alla borghesia illuminata e progressiva. Questa sua opinione sul futuro delle forze politiche di sinistra nel mondo occidentale poggia sul presupposto, che ha ampiamente dimostrato, dell’assoluta impossibilità di una rivoluzione nei paesi a capitalismo avanzato. La tesi di Zacharov non è di poco conto e certamente può essere utile a noi italiani nel momento in cui, dopo i grandi e rapidi eventi dell’Est e il crollo del più gigantesco tentativo di fondazione 

di un sistema sociale basato sulla statalizzazione e burocratizzazione dei mezzi di produzione, i residui di una ideologia smentita dalla storia si attardano a fare fideistica professione di attaccamento a principi e a sentimenti che hanno soltanto apparenza di fuochi fatui. 

L’opuscolo di Zacharov si conclude con una visione utopistico-fantascientifica del genere umano in conseguenza del superamento delle sue divisioni in blocchi contrapposti. All’orizzonte del prossimo futuro egli intravede, infatti, una vita completamente nuova in cui «migliaia di persone lavoreranno e abiteranno in altri pianeti, su satelliti artificiali e su asteroidi» e in cui si realizzerà «un effettivo controllo e una reale direzione di tutti i processi vitali … fino ad agire sui processi psichici e sul meccanismo della ereditarietà». Il tutto dovrebbe essere il frutto di una grande rivoluzione scientifica e tecnologica sotto una guida mondiale di altissimo livello intellettuale. 

Il miraggio lumeggiato da Zacharov è per un verso affascinante per la stupenda dose di fantasia che contiene, ma per un altro verso lascia l’amaro della preoccupazione derivante dal dubbio che un manipolo di intellettuali, sia pure di altissimo livello, possa guidare il resto dell’umanità al perfezionamento democratico e libero del suo vivere o non piuttosto, sia pure attraverso la strada lunga della democrazia, a una specie di servaggio universale e al soffocamento di ogni soffio di umanità e, quindi, alla fine di ogni valore morale e spirituale. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 59-62




 Editoriale 

Siamo pienamente convinti che alla base di ogni assunto giornalistico debba esserci l’esigenza di un’informazione sana e coscienziosa che rispetti la dignità professionale e il lettore. Anche perché ogni devianza è una forma di sottile violenza che si riflette non solo sul diretto fruitore, ma sull’intera collettività. 

«Carte false. Fare carte false. Spacciare carte false. Sempre di più, il giornalismo italiano appare così: un mestiere che maneggia troppe carte truccate, un mestiere che tradisce se stesso». Giampaolo Pansa sembra un po’ esagerato, eppure dice la verità. 

Sfogliando i giornali, si costata con amarezza che spesso, più che informare, confondono, e quello che un giornalista ha detto il giorno prima, da lui stesso viene sconfessato il giorno dopo. È vero che c’è libertà di stampa e di opinione, ma questa libertà non va confusa con la faciloneria e la superficialità, e la notizia non deve essere mai frutto di fantasia. 

Tanto per dirne una, all’amico e scrittore Rosario La Duca vengono attribuiti, in un noto giornale regionale, presenza e intervento ad un seminario a cui non ha mai partecipato, perché ricoverato in un ospedale palermitano. 

La notizia ha suscitato scalpore e una protesta con lettera al Direttore sottoscritta da amici e frequentatori dello scrittore. 

Non sappiamo che esito abbia avuto l’iniziativa, ma – comunque sia – l’accaduto è indice di malessere e di crisi; e questo è grave, perché un giornalismo del genere è nocivo e sarebbe meglio se non esistesse. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pag. 3.




 Dossier Inquisizione in Sicilia 

Francesco Giunta, nel luglio del 1991, ha dato alle stampe il frutto di una ricerca (Dossier Inquisizione in Sicilia) condotta nell’Archivio Ducale Medinaceli di Siviglia assieme ad una missione politico-scientifica organizzata dai Ministeri degli Esteri e dei Beni Culturali d’Italia e di Spagna. 

Si tratta di un volumetto di entità poco significativa quanto al numero di pagine, ma prezioso per i segreti che ci svela dopo secoli di forzato oblio; segreti che avrebbero fatto tremare gran parte della classe dirigente siciliana, se fossero stati resi pubblici nell’epoca in cui l’Inquisizione di Spagna in Sicilia fu abolita con D.R.del 17/3/1782. 

Fino al 1991 si sapeva quasi tutto del S. Officio di Sicilia (l’ordinamento, i modi di condurre i processi e la casistica delle sentenze, i rapporti “ufficiali” con gli altri fori giudiziari, con le autorità civili, amministrative e militari, la giurisdizione e le competenze, le direttive ricevute dall’Inquisitore Generale di Spagna, gli Autos da Fè celebrati); s’è trovato finanche un conto spese (con elenco di vivande consumate) riguardanti un ricco banchetto riservato a tutte le alte autorità della Città, consumato presso l’Arcivescovato di Palermo dopo un auto da l’è con rogo svoltosi in una delle piazze del capoluogo siciliano. In tema di contabilità, a quanto sembra, dominava lo scrupolo. Ma dei cognomi e nomi degli Officiali e dei Familiari (cioè gli affiliati al S. Officio) nulla era rimasto dopo che il 27/3/1782, con una cerimonia solenne presieduta dal Vicerè Caracciolo, furono date alle fiamme nel palazzo dell’abolita Inquisizione tutte le carte più o meno compromettenti. Vero è, altresì, che il Vicerè M. A. Colonna, avversario dell’Inquisitore Bezzerra e coraggioso difensore della legalità, sosteneva in una lettera inviata al Re di Spagna che fra gli affiliati e caporioni della struttura inquisitoriale vi erano “todos los ricos, nobles, y los delinquentes” , e il Di Castro, con più precisione , scriveva: “Ce ne sono cavalieri, conti, baroni, ed artigiani, villani et ogni specie”. Ma nulla di più era emerso fino al 1991. 

Il Giunta ha il grande merito di avere rintracciate e rese pubbliche le matricole contenenti i cognomi e i nomi degli officiales e dei familiari operanti in quasi tutte le città e paesi di Sicilia secondo l’organigramma redatto nel 1561 dal magister notarius secreti Juan Perez de Aguillar. Tale organigramma, comunque, conferma quanto riporta il Vicerè M. A. Colonna, cioè il carattere capillare della struttura occulta dell’Inquisizione di Sicilia e tale da controllare tutta la società dell’Isola. Ben a ragione il Giunta alla fine del “Dossier” chiosa: «Come tutti i poteri occulti o paralleli a quelli ufficiali dello Stato il S. Uffizio si configura come taluni del nostro tempo e della nostra società. Mi risulta evidente la strettissima analogia, come organizzazione e come mentalità, soprattutto con il potere mafioso. Problemi di quel tempo e, purtroppo, ancora del nostro». É molto probabile – ma occorrerebbero indagini oculate e accurate per dimostrarlo con certezza – che il substrato socio-storico sul quale, prima e con più virulenza che in altre regioni d’Italia, si è innestata in Sicilia l’organizzazione mafiosa dei nostri tempi sia stato abbondantemente concimato con le scorie più infami e illegalistiche di quasi tre secoli di dominio in Sicilia della obliqua e iniqua struttura inquisitoriale a servizio della più grande superpotenza del mondo che fu la Spagna col suo intercontinentale impero. 

Il risultato più negativo di tale dominio fu l’aver abituato la gente di Sicilia, volente o nolente, al soffocamento del senso civico, alla sfiducia nei confronti dei poteri costituiti alla paura delle novità e della circolazione delle idee e del pensiero, alla diffidenza verso il proprio vicino e verso i membri della propria famiglia, al mutismo prezioso più del pane ai fini della sopravvivenza fisica, ad una mentalità insomma passiva e subalterna, allo spegnimento dello spirito critico. Tale mentalità fu, in verità, combattuta da una minoranza di intellettuali (talvolta membri della stessa Inquisizione caduti in disgrazia per aver dissentito da forme estreme di disumanità e crudeltà, come Argisto Giuffredi che fu contrario alla pena di morte e alla tortura), da eretici luteraneggianti o presunti tali, da teologi “troppo intelligenti” o anche da pubblici alti funzionari di Stato: ma essa non poteva elle soccombere dinanzi al vicolo cieco di un dominio spagnolo che sotto il volto legalistico nascondeva quello invisibile del potere inquisitoriale, il quale proteggeva pervicacemente qualunque criminale di alto o basso livello si fosse posto al suo servizio e sotto le sue ali. Sicché a uomini come il poeta (probabilmente il Baronio) dell’ottava seguente, decifrata e conservataci dal Pitrè, altro non rimaneva che affidare la difesa della sua dignità umana alla forza interiore e allo sfogo poetico sul bianco intonaco di una cella del carcere del S. Officio: 

Et haju sensu assai e ancora sentu! 
Nun sugnu foddi a la dogghia eccessiva! 
Et a li guai chi patu ogni mumentu 
la mia dogghia murtali ancora è viva! 
…chi furtuna ferma a lu miu stentu 
pirchì la dogghia sia cchiù sinsitiva: 
e benchè sia eternu lu turmentu 
nè di sensu nè di anima mi priva. 

Oppure rimaneva il piacere di inveire mordacemente contro le spie dell’Inquisizione (i familiari e affiliati vari), come si rileva dall’ottava attribuita dal Garufì all’inquisito, condannato intorno al 1567, avv. Guglielmo Bonscontro. L’ottava citata, oltre ad essere un palpitante documento dell’amara esperienza e della rabbia del poeta, lascia immaginare che chi diventava strumento dei crimini inquisitoriali subiva lo stesso destino dei perseguitati (cioè la morte violenta) quando non serviva più e poteva, se mai, diventare di impaccio e rivelatore di segreti.Tutto ciò rafforza l’ipotesi del Giunta sulla somiglianza (almeno stando a quanto ci riferiscono i giornali) della mentalità del “mondo” inquisitoriale con quella del “mondo” occulto del nostro tempo, nel quale non sembra infrequente la tendenza a eliminare fisicamente i testimoni più pericolosi di certi efferate vicende o di eccellenti delitti. Basti pensare agli inquietanti casi Giuliano, Pisciotta, Sindona, Calvi, ecc., per non parlare delle faccende sporche di altri stati orientali e occidentali. 

Un altro aspetto che accomuna o fa somigliare l’Inquisizione di Sicilia ai poteri occulti del nostro tempo è rappresentato dal costante esorbitare dai suoi conclamati compiti di sacro tribunale in difesa della fede cattolica nel clandestino e frequente uso della sua organizzazione sul terreno politico e politico-militare. Questa connotazione politica si accentuò durante i regni di Filippo IV e di Carlo II. In questi anni di critiche emergenze assolse a compiti di primissimo piano contro le insidie dei Francesi in Sicilia e contro la rivolta popolare capeggiata da Giuseppe D’Alessi, della cui uccisione si tramò – dice il La Mantia – nel palazzo del S. Officio, ed è certo che il Baronio fu rinchiuso nel carcere dell’Inquisizione quando fu scelto come segretario dal D’Alessi. 

Repressa la rivolta, il S. Officio funzionò come servizio segreto di spionaggio e di informazione sulla condotta dei singoli cittadini, stando a quanto si evince da una lettera di Don Giovanni d’Austria al S. Officio siciliano riportata dal La Mantia. Ma un vero e importante ruolo di supporto politico-militare fu svolto dall’Inquisizione durante la guerra franco-spagnola del 1647. È noto che durante quella guerra la Città di Messina, stanca di vedere la sua industria della seta tartassata da pesanti bulzelli, aprì le porte alla flotta e alle truppe francesi. L’evento suscitò gravissime apprensioni e l’Inquisizione, per scongiurare l’estensione della ribellione a tutta l’Isola, seppe abilmente prendere i provvedimenti adeguati e addirittura si sostituì alle autorità regie, al punto che – ci informa il Pitrè – il boia del S. Officio si sostituì al boia dello Stato nello strozzare nel carcere inquisitoriale, nel 1672, un cappellano della galera siciliana “S. Chiara”, reo di portare addosso alcune lettere del Duca di Bivona provenienti da Messina e alcune monete francesi. 

Ma la prova palmare del molo politico-militare assolto segretamente dall’Inquisizione durante l’occupazione francese di Messina è costituita da una lettera inedita contenuta nel Manoscritto Qq.H 62 conservato nella Biblioteca Comunale di Palermo dal titolo: “Quanto ha contribuito alla tranquillità dello Stato il Tribunale del S. Officio”. Si tratta di una lettera riservata inviata dall’Inquisizione di Sicilia a quella Generale di Spagna e al Consiglio Supremo concernente la situazione di Palermo e dell’Isola determinatasi dopo lo sbarco dei francesi a Messina. In essa si fa una dettagliata analisi dei pericoli incombenti e si mettono in guardia le autorità politiche e militari dal prestare troppa fiducia al popolo reclamante la morte dell’Arcivescovo incolpato di non avergli voluto dare l’artiglieria della Maestranza necessaria al rafforzamento dei Bastioni e ardentemente voglioso di armarsi e di saccheggiare le case dei messinesi. Vi è detto che” ningun pueblo puede ser tan generalinente bien timorado que no tenga quien desea novedades y occasion de esercitar la codisia y la mudanza de fortuna” e aggiunge che “el zelo” della plebe “se passa a indiscreto y peligroso”. Non mancano, poi, le osselVazioni di carattere militare e l’informazione sulla organizzazione di un vero e proprio contingente di volontari armati. “Abbiamo formato – prosegue la lettera – una compagnia di familiari che stia pronta nelle occorrenze presenti (…) e consta in gran parte di cavalieri e di gente onorata e valorosa”. 

Ho voluto riportare i passi più importanti della lettera per la curiosa analogia con i fatti tristemente collegati ai vari piani occulti dei nostri tempi e con le accennate ombre di nuovi volontari di un potere parallelo che non si chiamano più “familiari” ma “gladiatori”. Si vede che in Italia, all’alba del Duemila, la storia tende a ripetersi. 

Gaspare Li Causi

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 69-72.