A vent’anni dallo sbarco sulla luna (Noterelle senza pretese) 

Il 20 luglio 1969 due terrestri, gli americani Armstrong e Aldrin, dal modulo dell’astronave Apollo Il, guidato dal pilota Michael Collins, sbarcavano, muniti di scafandro e telecamera, sul suolo lunare. 

Quel giorno veniva violata la verginità della silente peregrina del cielo e l’ariostesca utopia del viaggio d’Astolfo diventava realtà. 

Si ricordi, però, che il bravo Astolfo viene immaginato dall’Ariosto come protagonista di una stupefacente esperienza: la scoperta di tutte le bontà che, fuggite dalla terra, erano approdate fantasticamente sulla luna; il recupero, tra esse, del senno dell’amico Orlando impazzito d’amore per la bella Angelica; la rivelazione che l’unica cosa non rintracciabile sulla luna era la pazzia rimasta fra gli uomini assieme a tutte le altre brutture della vita. 

Si disse vent’anni fa che con la storica impresa lunare, paragonabile a quella degli Argonauti, sarebbe cominciata una nuova era. E poiché, come dimostra Giacomo Leopardi nel Dialogo d’un venditore di almanacchi e di un passeggere, gli uomini suppongono, quando si parla di novità, che queste preparino tempi migliori, si sperò che il nuovo traguardo lunare della scienza umana avrebbe comportato la possibilità di risolvere, se non tutti, molti antichi problemi del genere umano. 

Qualcuno ne dubitò e l’uomo della strada, sia pure con grossolana saggezza, arguì che, non essendosi trovato sulla polvere lunare nulla che servisse alla vita umana (né frutta, né insalata, né le gustose triglie del mare di Sicilia) l’impresa era servita solo a fare spendere dollari e a preparare armi nuove e più micidiali delle antiche. Qualche altro, come Marcello Cini su «L’Unità» del 21-7-1989, ha definito la conquista della luna nient’altro che «il trionfo e il punto d’arrivo di una visione tipicamente ottocentesca della scienza e della tecnica». 

Certo è che nel 1969 l’astrofisica e le collaterali tecnologie dello spazio, comprese quelle concernenti la computeristica e la telematica, hanno fatto balzi in avanti meravigliosi e impressionanti in direzione della facilitazione dell’informazione e dell’abbreviazione delle distanze nonché in direzione dell’esplorazione degli abissi dell’infinito universo fino a lambire e svelare i misteri dei remoti satelliti di pianeti prima sconosciuti. 

Ma la vivibilità sulla nostra terra è migliorata? È stata cacciata o sconfitta la pazzia che già nel 1500 fu al centro delle tematiche dell’Orlando Furioso? È diventata meno infelice l’umanità che ora ha – come aveva auspicato il Leopardi nel Canto Notturno d’un pastore errante dell’Asia – le ali per «volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una»? 

Ed è finalmente riuscita a scoprire ove tende il vagar suo breve e lo stesso corso della luna e degli astri? 

Il benessere materiale e consumistico (non può negarsi) è cresciuto a dismisura nelle aree ad elevata industrializzazione. Ma chiunque abbia un minimo d’intelletto si accorge che in questi ultimi vent’anni, benché non si sia precipitati nella voragine di una terza con11agrazione mondiale, l’imbarbarimento dell’uomo e la sua atavica pazzia sono cresciuti sensibilmente; la violenza e la crudeltà sui più deboli, sui bambini e sugli anziani assieme alla violazione massiccia dei diritti della libertà personale e domiciliare avanzano in modo capillare e devastante; la droga (nuova arma di sterminio e di schiavistica disumanizzazione nelle mani di potentati criminali non facilmente scindibili dall’alta finanza tout court) e la conseguente spudorata criminalità dilagante stanno disgregando ogni tipo di organizzazione sociale e civiltà che hanno impiegato millenni per formarsi, e stanno riducendo i popoli ad ammassi di «animali parlanti» ispirati soltanto dal più gretto ed egoistico individualismo competitivo, a «vulgo disperso che nome non ha» di manzoniana memoria. 

È in pericolo lo stesso concetto di civiltà perché, se è ancora valida la concezione vichiana e foscoliana di civiltà intesa come intreccio solidaristico («esser pietosi di se stessi e d’altrui») scaturito dall’affermarsi di «nozze, tribunali ed are», allora possiamo affermare che i popoli che non hanno più fede in niente, che sono amitti dal vizio della disgregazione familiare e che sono torturati dall’inefficienza della magistratura, non sono più popoli civili, anche se le loro autostrade (anche qui però quante migliaia di morti all’anno) sono percorse da milioni di automobili, e le loro abitazioni sono fornite di tutte le comodità tecniche. Allora aveva forse ragione Gyorgy Lukacs quando, 20 anni fa, dopo avere affennato che nell’epoca odierna lo sviluppo eccessivamente rapido della scienza e della tecnica è collegato ampiamente con l’alienazione dell’uomo e che questo dell’alienazione è il problema centrale del nostro tempo, così concludeva: «Io non vedo che su questa linea, la vera questione dell’umanità – cioè il divenire uomo dell’uomo e il superamento dell’alienazione – possa ottenere alcun risultato sostanziale anche attraverso i più grandi risultati scientifici conseguiti nell’astronomia e nella tecnica del volo». 

Penso quindi che non è cosa saggia ridurre tutto (lo stesso mondo, il cielo, la terra e il mare) in termini di macchinismo e di congegni smontabili o separabili. Troppo grande appare ormai il rischio della inevitabile scomposizione e dello squilibrio prodotti dagli effetti di tecniche spericolate. Basti pensare un po’ ai buchi della fascia dell’ozono e alla irrespirabilità delle città. 

Non si può impunemente continuare in uno sviluppo illimitato e perseguito caparbiamente a gloria del denaro che lo sostiene. Occorre ridurre alle giuste dimensioni il culto di Plutone e ridare validità e prestigio alle altre divinità dimenticate o oltraggiate. Bisogna insomma che il cosidetto progresso scientifico sia condizionato dall’egemonia degli antichi valori umani. 

Non si tratta di impiantare il paradiso sulla terra, ma cominciare qui da vivi, come ci suggeriva Paolo VI nell’enciclica Populorum Progressio, a costruire Il Regno di Dio, rinnovandoci in meglio nel solco dell’insegnamento che ci proviene dalle antiche civiltà. Del resto mai nella storia alcun movimento di rinascita e di liberazione ha potuto svilupparsi disancorandosi dai valori trasmessi dagli antenati. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 47-49.




 Letteratura e stroncature domenicali 

Un buon periodico nasce e si sviluppa per colmare lacune o qualche insufficienza che si riscontra nella stampa corrente e in sostanza per portare avanti un’ idea di fondo che si ritiene necessario affermare. Ne viene fuori pertanto una specie di missione per la quale, ovviamente, occorrono le persone adeguate allo scopo, che abbiano entusiasmo e le relative capacità. Se così non fosse, pubblicare un giornale sarebbe una cosa balzana, destinata al fallimento, come per lo più accade ai molti periodici che qua e là sorgono per subito scomparire. 

Fa notizia a proposito sapere che da un certo tempo va in edicola un settimanale, definitosi di pura cultura, e che rivela un impegno preciso, quello di frenare l’eccessivo predominio delle voci di sinistra nel campo appunto della cultura: un impegno chiaramente di tipo ideologico, ma che si sta a vedere, a sua volta, se anche muove da un’ idea precisa, cioè se ha dietro una sostanza culturale alternativa nei propositi, cui corrispondano uomini e criteri capaci di sostenere una proficua dialettica. Intanto la polemica la fa e su un campo che non può non destare il nostro interesse e sulla quale avanziamo più di qualche concordanza. 

Tempo fa le pagine di detto settimanale – dal titolo Il Domenicale, per l’esattezza, – erano tutte vistosamente impegnate in dettagliate stroncature di opere di autori noti e meno noti che hanno tenuto banco nelle recentissime cronache librarie italiane e che, evidentemente, hanno fatto pensare ad una situazione di canali editoriali ispirati in un certo modo e praticabili secondo determinati rapporti ligi ad un sinistrismo di maniera. 

Da convenire comunque che il discorso di base del direttore del detto Domenicale è decisamente condivisibile. In Italia si stampano troppi libri, ci sono troppi scrittori o soggetti che si definiscono tali, mentre nessuno o pochissimi leggono. E tutti si danno da fare per avere la recensione o la presentazione, e tormentano amici e conoscenti per un rito divenuto ormai inutile e fastidioso. Come sono troppi quelli che hanno magari snobbato a tempo debito la scuola ed ora vogliono salire in cattedra a fare i professori, così sono troppi quelli che coltivano la vanagloria di fare la comparsa nelle vetrine dei librai: anzi; chiunque ha una posizione in qualche modo sfruttabile dal punto di vista mediatico, s’improvvisa scrittore, romanziere, anche se non si accorge neppure che quel che gli è venuto da dire non interessa nessuno. Diventano scrittori i politici in cerca di accattivarsi il pubblico, i tanti distributori di buonismo antidroga ed antimafia come i preti televisivi, lo diventano attori e soubrettes e vari esperti soprattutto di faccenduole piccanti; oggi credono di esserlo i versati alle furbizie delittuose, per cui vengono fuori a ripetizione gialli su gialli, spesso senza buon gusto e sempre ad oltraggio della vera letteratura. Evidentemente a puntare al successo c’è un esercito di cosiddetti scrittori che ci prova, e qualcuno che ha i giusti agganci ci riesce. 

È indimenticabile, per esempio, il caso di certo Faletti, autore di un giallo, un grosso libro d’intrattenimento, letterariamente inutile, ma che, celebrato da un recensore di un periodico come il più importante scrittore del momento, balzava subito in testa alla classifica dei libri più venduti. Citiamo il caso per portarci alle motivazioni di fondo della querelle, cioè la mercificazione del prodotto libro, determinata dalla mercificazione professionale della funzione dei critici, cioè di coloro che dovrebbero onestamente indirizzare i lettori e scoraggiare gli avventurieri della penna. Se si avesse ancora un qualche rispetto per la funzione umana oltre che sociale della letteratura; perché questo è il problema: la valutazione di un libro di narrativa o di poesia non può continuare ad essere affidata a scambi tra amici e conoscenti, all’opera di faccendieri degli uffici stampa dei grossi editori che premono sulle redazioni dei giornali di grido, che a loro volta premono sui critici accreditati e li condizionano. Chi recensisce poi dovrebbe essere persona di tale prestigio (ma ce ne sono?) da non restare acritico servitore di interessi poco conducenti, specie se ideologizzati, ma deve affermare piuttosto dei criteri di valutazione, sicché vadano all’ approfondimento, spesso alla rivelazione di ciò che ci riguarda come esistenza, come vita interiore, come pensiero, come storia. E così distinguere l’alto, il medio, il mediocre e il superfluo. 

Ecco: tornando al discorso del Domenicale, per altro molto apprezzabile per la disinvoltura, riteniamo siano da aggiungere dei suggerimenti su come ovviare all’impasse, smascherando i responsabili. 

L’uno l’abbiamo fin qui dato, l’altro sarebbe quello di denunciare ormai i nomi di coloro che detengono i poteri occulti di tanto scempio culturale, quelli che dirigono le collane delle più note case editrici, esplicitando i loro metodi di scelta e magari la loro ispirazione ideologica o l’essere contro un sincero pluralismo. Nel contempo proporre delle alternative ai gestori delle cosiddette terze pagine dei giornali o delle rubriche dei periodici, espressione delle stesse case editrici, dove attualmente i soliti nomi s’incensano tra loro (e si vogliono accostare gli studenti alla libertà di pensiero della stampa! Figurarsi!); perché combattere l’omertà mafiosa non è solo faccenda di coppole storte, ma anche di cultura che non va per la dritta. 

Elio Giunta

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 3-4.




 Le ragioni del principio antropico 

L’universo è sconfinato nel tempo e dunque anche nello spazio. La teoria cosmologica del Big Bang, quasi unanimemente accettata da tutti gli studiosi, fissa una origine dell’universo circa 15 miliardi di anni fa: tenendo conto dell’espansione dell’universo scoperta da Edwin Hubble negli anni 1920/30 e del fatto che la velocità massima con cui ha luogo ogni genere di propagazione (di materia, di informazione, di energia, etc.) è quella della luce, si potrebbe osservare un volume di spazio pari a quello di una sfera con un raggio di circa 15 miliardi di anni luce (a.l.): essendo un a.l. la distanza che la luce percorre in un anno nel vuoto, 15 miliardi di a.l. equivalgono a circa 142.000 miliardi di miliardi di Km! 

In questa immensa distesa spazio-temporale, la vita, almeno per come la conosciamo noi e per quello che sappiamo dell’universo, così come ci appare oggi con i nostri limiti osservativi, si è sviluppata su un piccolo pianeta di un sistema stellare periferico di una comunissima galassia a spirale: la Terra. 

Le valenze conoscitive di questa osservazione chiamano in gioco, da qualunque angolazione la si voglia leggere, il ruolo ed il significato della presenza dell’uomo e della vita nell’universo: qualunque esso sia, la sola nostra presenza, impone che questo universo debba essersi originato e sviluppato, per caso o per disegno prestabilito non è possibile appurarlo (anche se su ciò possiamo congetturare), in maniera tale da rendere possibile la vita e la presenza di esseri intelligenti quali noi siamo. 

È il cosiddetto principio antropico: in sintesi il tentativo di interpretare l’universo sulla base del fatto che nella sua genesi ed evoluzione ha reso possibile resistenza di esseri ‘coscienti in grado di osservarlo e di porsi domande su di esso. 

Le condizioni iniziali dell’universo in cui viviamo e leggi fisiche che ne sono scaturite e che lo regolano sono infatti proprio quelle necessarie per consentire resistenza della materia, della vita e dell’uomo sul pianeta Terra. 

Noi sappiamo che l’universo è nel suo complesso retto da 4 tipi di forze od interazioni come è più corretto chiamarle (gravitazionale, elettromagnetica, nucleare forte, nucleare debole) le cui intensità vengono espresse per il tramite di alcune costanti fondamentali della fisica quali la velocità della luce, la costante di Planck, la costante gravitazionale di Newton, la costante di Hubble, etc.: queste costanti, insieme ad altre della fisica che esprimono le proprietà delle particelle elementari, quali la massa, la carica, etc., avrebbero potuto benissimo assumere valori diversi da quelli a noi noti, ma se ciò fosse avvenuto, l’universo non sarebbe così come noi lo conosciamo e noi non saremmo qui a porci questo quesito: in altri termini noi esistiamo perché esistono certe precise relazioni tra interazioni e particelle. 

Basta cambiare di poco il valore di una di queste costanti e le condizioni che hanno portato alla vita vengono a mancare! 

“L’esistenza degli esseri umani è iscritta nelle proprietà di ogni atomo, stella, galassia dell’universo ed in ogni legge fisica che regola il cosmo”: così afferma Trinh Xuan Thuan, astrofisico americano di origine vietnamita. Altri studiosi si spingono ancora oltre appoggiandosi ad uno dei più sorprendenti risultati della meccanica quantistica e sostengono che è proprio la presenza dell’uomo a dare senso all’universo: senza l’uomo esso non ne avrebbe e pertanto l’evoluzione dell’universo non può che essersi univocamente indirizzata sulla via che porta alla vita ed all’uomo. 

Il principio quantistico che ne fa da referente a1Terma che è l’interazione tra osservatore e cosa osservata a conferire realtà al fenomeno e perciò è necessaria la presenza dell’uomo a fare collassare l’onda dell’universo e stabilime l’esistenza, proprio come un elettrone, che in buona sostanza è una nuvola di carica spazialmente non individuabile, acquista realtà di particella solo quando un osservatore fa collassare la sua funzione d’onda, cioé fa sì che, mediante un oppportuno dispositivo sperimentale, la probabilità di osservarlo in un certo punto sia massima rispetto a quella di osservarlo in altri punti dello spazio-tempo quadrimensionale, nei limiti consentiti dal principio di indeterminazione di Heisenberg. 

In questa ottica si comprende la entusiastica affermazione del fisico americano John Wheler: “Se perché esista un osservatore cosciente è necessaria resistenza di un universo, è altrettanto vero che l’esistenza di un osservatore è ugualmente indispensabile per il collasso dell’onda dell’universo: vale a dire per sancire la sua esistenza”. 

Senza la presa di coscienza della sua esistenza da parte di un osservatore, cioè senza un processo di osservazione e misurazione, la cosa osservata è priva di realtà fisica: il principio antropico sembra dire che gli esseri umani, in quanto osservatori, sono la coscienza di sé riportando così l’uomo al centro dell’universo. posizione da cui era stato strappato con forza dalla rivoluzione copernicana. 

È superfluo sottolineare che una simile applicazione su vasta scala di un principio il cui dominio di azione è il microcosmo non è affatto unanimamente accettata sembrandone il suo uso del tutto arbitrario, fuorviante e ad hoc per dimostrare un assunto aprioristicamente accettato per buono. 

Quest’ultima versione del principio antropico è quella detta forte in contrapposizione alla prima detta debole. proprio perché mentre la prima partendo dalla realtà che ci circonda si limita alla ricerca delle condizioni che apriori la hanno resa possibile, l’altra impone una lettura finalistica di questa realtà: in altri termini secondo la versione debole la presenza della vita ci può aiutare solo a selezionare tra le possibili storie dell’universo quelle compatibili con la vita mentre la versione forte si spinge oltre assegnando all’uomo il ruolo di termine ultimo. di fine del creato. 

È fortemente anomalo, ma a mio avviso fecondo di possibilità di ricerche future. come nella cosmologia moderna sia entrato. attraverso la variante forte del principio antropico, un elemento finalistico anche se usato in chiave scientista come spiegazione post hoc dell’universo. 

Il problema di fondo che spinge parecchi cosmologi ad una lettura forte del principio antropico è essenzialmente legato alla improbabilità che dal Big Bang sia potuto emergere un universo come il nostro: bisognava perché ciò accadesse un universo che già nello stato iniziale fosse ben ordinato e ciò è assai poco probabile anzi è molto speciale: bisognava che le leggi dell’universo in cui viviamo preesitessero ad esso stesso regolandone la genesi e lo sviluppo: e siamo a due passi dalla presenza di Dio! 

Questa scomoda presenza può però essere rimossa ipotizzando un modello ad N-universi. per il quale alcuni si richiamano alla teoria inflazionaria caotica elaborata dal fisico sovietico Andrei Linde ed alla disomogeneità e disuniformità al contorno del Big Bang, dati questi recentemente confermati dal COBE (Cosmic Background Explorer) il satellite della Nasa che sta fornendo importanti indicazioni sulla struttura dell’universo. 

Secondo la teoria ad N-universi esistono infiniti universi non in relazione tra di loro e noi esistiamo in uno di essi nel quale si è potuta sviluppare una vita basata sul ciclo del carbonio e possiamo percepire solo questo universo perché solo in esso siamo in grado di compiere operazioni di misura. 

Così facendo la vita torna ad essere un caso e non una condizione al contorno stringente ed assoluta. 

Dimenticando per un momento la duplicità di lettura del principio antropico esso appare come una sorta di nuovo propulsore della ricerca cosmologica, nuovo nel senso di un utilizzo post hoc del dato reale della presenza della vita sulla terra: partendo dalla constatazione della presenza dell’uomo si deducono le condizioni iniziali adatte a determinare tale presenza; ciò pur non costituendo un nuovo epistema è comunque un indicatore del bisogno di nuovo che si avverte all’interno della comunità scientifica’ (vedi il problema delle 3 C in fisica non lineare: catastrofi, caos, complessità). 

Che il principio antropico possa avere implicazioni finalistiche o meno, mi sembra, ma è una mia personale opinione, esuli dal campo della ricerca scientifica vera e propria e chiami piuttosto in gioco il bisogno di metafisico che emerge sia dalla crisi di valori della cosiddetta civiltà tecnologica sia dai tentativi di coniugare fede, teologia e scienza che attraversano trasversalmente il dominio della ricerca teologica e quello della ricerca scientifica. 

Sembra infatti riemergere la necessità di un principio, di un elemento ordinatore che assicuri razionalità ai fenomeni della Natura in maniera da permetterei di descriverla in termini logici, simbolico-matematici, o metasimbolici ed il vecchio epistema laplaciano per il quale l’ipotesi di Dio sia superflua per la descrizione del mondo non appare più, come altresì accade al meccanicismo newtoniano ed alla dinamica lagrangiana, come una condizione imprenscindibile per la ricerca scientifica. 

Una tale necessità pare sembra farsi più impellente a mano a mano che si accumulano dati sulla teoria del Big Bang, una teoria che pone i fisici dinanzi ad un oggetto particolare descritto con il nome di singolarità: uno stato fisico che non sappiamo descrivere in termini di equazioni e con cui i fisici hanno poca amicizia poiché esso contravviene ai più basilari principi di continuità su cui è costruito l’intero edificio della fisica. 

L’elaborazione del principio antropico si inserisce nel quadro di queste nuove necessità conoscitive da due differenti versanti: da un lato i teologi non hanno tardato a farne uno strumento per riaffermare un antropocentrismo ed una teologia della salvezza rivista in termini cosmici, dall’altro essa ha spinto la ricerca scientifica su territori ad essa inusuali, pervenendo alla elaborazione di un concetto di dio in termini razionali e logici che coinvolgono il concetto di informazione ed in maniera riflessa quello di entropia. 

Sul versante teologico il principio antropico sottolinea ulteriormente la specificità della presenza dell’uomo nell’universo rimarcando l’unicità di specie vivente intelligente propria dell’uomo. 

Nel porre la genesi e lo sviluppo dell’universo in relazione con il presentarsi della vita, il principio antropico pone. secondo i teologi, un problema di relazione che va oltre l’usuale determinismo causa-effetto proprio perché in tale universo viene a determinarsi una forma di vita intelligente: in altri termini i teologi tendono a sottolineare che la differenza che l’uomo pone all’interno del creato non può essere, né deve essere sottaciuta! 

L’uomo che si pone come osservatore nei confronti dell’universo e che percepisce la sua unicità di osservatore intelligente, riconosce nella esistenza di 

un processo evolutivo che a lui conduce una sorta di codice cosmico che alla luce della fede egli vede come opera di una persona che ha programmato la genesi e lo sviluppo dell’universo in funzione dell’uomo: questa persona gli si palesa quindi come supremo ordine, come realtà apriori dell’universo, in modo da poterlo preordinare, fuori, pertanto, dal tempo che egli stesso crea e nel quale si immerge, come garante della stabilità del creato e delle sue leggi: ma questa persona gli si palesa anche come principio di libertà dato che l’uomo si percepisce realtà incondizionata e libera: in tale persona la fede gli consente di riconoscere Dio! 

Il progetto etico della fede, ma sarebbe meglio dire delle religioni, diventa pertanto il progetto di una sorta di realizzazione cosmica che passa, come per un percorso obbligato, attraverso la realizzazione dell’uomo. 

Il progetto cosmico di Dio, l’universo stesso creato per l’uomo, si compie attraverso la realizzazione dell’uomo, come entità chiamata alla vita ed al mistero dell’essere ed a rapportarsi con il motore euristico dell’universo, Dio, Essere autoesplicativo e principio ordinatore del cosmo e delle sue leggi. 

Sull’altro versante, il principio antropico ha dato luogo al tentativo di un modello matematico di Dio: è la “Omega Point Theory” (Teoria del punto Omega) elaborata dal fisico-matematico Frank J. Tipler. 

Il Dio di Tipler è un Dio in evoluzione, che è nel mondo, lo crea e ne è creato. 

Creato e creatore, lungi dall’essere due cose differenti, sono invece manifestazioni differenti di un unicum, cioé manifestazioni su scale diverse di questo unicum, come fossero realtà sovrapposte una all’altra, ma di una sovrapposizione che li rende apparentemente una trasparente all’altra! 

Consideriamo come esempio esplicativo un uomo: esso è composto da atomi, ognuno dei quali obbedisce a delle precise leggi fisiche: pur non di meno l’uomo, totalità di quegli atomi, non solo non è descrivibile nei termini con cui si descrivono gli atomi, ma è ben più che la semplice somma degli atomi stessi. 

In egual maniera l’universo è descrivibile da precise leggi fisiche, ma oltre quelle leggi emerge una realtà oltre, emerge una Persona. 

L’universo di Tipler è un universo autoconsistente in quanto per esistere non richiede il bisogno di un intelVento ad esso esterno; è in evoluzione nel senso che esso è sede di un continuo aumento di informazione! 

La storia dell’universo è una storia di tipo evolutivo: dalle forme di vita elementari si è pervenuti all’uomo e noi stessi siamo destinati ad essere sostituiti da una specie più evoluta di noi; questo ci suggerisce da un lato la nostra insignificanza nel tempo, nella storia del cosmo e dall’altro ci pone dinanzi un imperativo di tipo etico: quello di assicurare la continuità di crescita dell’informazione. 

In questa maniera si compie l’evoluzione di Dio: come una continua crescita di informazione, garantita dalla vita e tuttavia da essa sempre più smaterializzata! 

Se questa continua crescita avrà un fine naturale, esso è il Punto Omega, una singolarità, la fine del cosmo come completa autorealizzazione del creato, una sorta di intelligenza senza materia, pura ed assoluta conoscenza! 

Domenico Salvatore Giarraffa 

BIBLIOGRAFIA 

1) P.C.W. Davies, “C’è posto per Dio tra i quark e il Big Bang?, n° 31 1’cAstronomia., marzo, 1984. 
2) S. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano, 1988. 
3) John Gribbin, L’Universo come parte di noi, nO 97 l’cAstronomia., marzo, 1990 
4) J. D. Barrow, n mondo dentro il mondo. Ade1phi. Milano. 1991. 
5) B. Carter, “Large Number Conicidence and the Antropic Principle in Cosmology”, in M.S. Longair (ed.), Corifrontations od Cosmological Theorles with Obseuational Data. Reidel. Dordrecht, 1974. 
6) J. D. Barrow – F. J. Tipler. The Antropic CosmologicalPrtru:fple. Clarendon Press, Oxford. 1986. 
7) F. J. Tipler, “The Omega Point: A model of an Evolving God”, in R. J. Russell – W. R. Stoeger – Coyne (edd.). Physics, Philosophy and theology. A Common Quest for Understanding, Vatican ObselYatory, Vatican City State. 1988. 
8) Saturnino Muratore, “Antropocentrismo cosmologico e antropocentrismo teologico”••La Civiltà Cattolica•• 1992. III. 236-247.

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 45-51.




 Il racconto del sole di Patrick Grainville* 

Faccio il professore in un liceo di periferia. Un anno fa mi è accaduto un fatto irrimediabile. Il sogno di ogni insegnante di lettere. Addirittura l’incubo, la sua maledizione. 

Mi chiedo, come si fa a essere all’altezza del genio? Figuratevi il professor Izambard che un bel giorno, al collegio di Charleville, scoprì nella sua classe Arthur Rimbaud! Uno shock incredibile: frasi dettate da Lucifero, in un’alchimia degli Inferi. Una pioggia di ukasi stellari. Proprio lì davanti a te, nel tuo angolo sperduto in capo al mondo, la catastrofe della bellezza. Un sisma verbale inedito. 

È settembre a Sartrouville; un rientro dalle vacanze come tanti altri. Non noto nulla di particolare nel ventaglio di alunni che mi si squaderna davanti… Lei, non la vedo neppure! La ignoro per ben due settimane. Lei, il mostro! Potremmo battezzarla Arturina, in ricordo di suo fratello Rimbaud! 

Lei, tiene nascosta la sua essenza coriacea. 

Per valutarli, decido di assegnare loro un primo tema piuttosto libero, invitandoli a una galoppata di prova. 

Le regole del gioco, quelle dell’esame di maturità verranno a suo tempo. Si torna dalle vacanze estive: l’argomento è il sole. Cosa rappresenta per voi il sole? 

Comincio a leggere gli elaborati a casa, senza eccessiva curiosità Sono meno entusiasta di una volta. Qualsiasi vocazione finisce con l’attenuarsi, prima o poi. All’improvviso, il fuoco mi investe in pieno volto. Un dardo di fuoco. Parole che mordono, possenti, di una bellezza inesplicabile. Non frasi, ma parole carnivore. Senza una costruzione compiuta, ma ruvide e incastrate in associazioni audaci e calcolate. Un susseguirsi di corto-circuiti, lampi, saette e meteoriti. Non ho parole per descrivere le sue trovate. Ma, attenzione! Nessuna anarchia adolescenziale in tutto questo. Nessun rigurgito surrealista. Solo espressioni compatte, allucinate, lucide. E poi, necessarie, solide, crude e magnetiche. E quelle massime infuocate si alternano ad assiomi gelidi. Il contrasto mi affascina, al pari della speculazioni sul sole e sul desiderio, e ancora sull’amore e sulla carnalità Un miscuglio di sottigliezza ed efferatezza che sconvolge in un’alunna così giovane. 

Allora, mi precipito sulla sua scheda personale. Appartiene a una famiglia modesta e ha 17 anni. Giustamente, la stessa età di quell’Altro, il suo gemello fulminante: Arthur. Ed è nata ad agosto. 

Mi piace che il suo mese sia quello dei parossismi, degli eccessi anche del tempo, delle sue parentesi nude e roventi. 

Ho un solo desiderio: conoscere il volto dell’autrice. L’indomani mi fiondo al liceo. Come sempre, restituisco gli elaborati nell’ordine in cui si presentano. Quando arriva il suo turno, pronuncio il suo nome. Lei alza il dito e io mi dirigo verso Arturina, finalmente rivelata. Eccola! È bella, di una bellezza dissimulata. Da lontano la si crederebbe un po’ slavata o insignificante. Da vicino, sotto il mio naso, mi si offre un viso d’acciaio, di un freddo polare. È alta e slanciata, con occhi di un grigio purissimo. Dà l’impressione di uno spessore e di una concentrazione offuscata, ma studiata. C’è qualcosa di agguerrito in lei, come l’attesa di un’imminenza. Di colpo, me ne sento minacciato, ma ignoro il pericolo che potrebbe piombarmi addosso. 

Lei, non sorride. Quando le poso davanti il suo compito, sento che è necessario tacere e che non posso esprimere il mio entusiasmo, lì davanti agli altri. Sento che mi giudicherà in base alla mia capacità di tacere. Io, taccio; mentre i suoi occhi mi spiano, sondandomi lentamente. Poi, fuggo verso la cattedra. 

Finita la lezione, mentre lei si accinge a uscire dalla classe, le faccio un segno e aspetto che gli altri si dileguino. Allora, le svelo la mia sorpresa e le chiedo se è consapevole di avere scritto delle pagine… straordinarie. Lei risponde con calma: 

– Sì penso di sì… Lo credo bene. 

– Ne hai scritte delle altre? 

– Sì tante. 

È talmente fiera che mi squadra dall’alto in basso. Sembra una spada. Fanciulla bellicosa dallo sguardo sagace, di un grigio come il Mare del Nord, senza pietà Mi sta piantando negli occhi quel pugnale grigio del Nord. 

Due giorni dopo, mi lascia un manoscritto sulla cattedra. Sono un centinaio di pagine e di un vigore che mi pietrifica. Le parole cadono come mannaie, e corrono come kriss kamikaze, facendomi sentire come crivellato dai colpi. Sì mi sento come il bersaglio di quei segni a cui è affidata una confessione in codice, esplosiva, da cui traspare un segreto terribile, attraverso l’associazione di una vitalità cieca a una lucidità atroce. 

Durante la notte, leggo e rileggo il testo di un’adolescente satura di odio solare, a tal punto che in lei l’astro stesso sembra esplodere, incendiando le nostre fatiche e le nostre certezze, e inghiottire tutto nella sua fiamma cosmica, lasciando sussistere solo due tracce di elio grigio in quegli occhi di fanciulla. 

All’ultima pagina mi ordina di non parlare mai con nessuno di ciò che ho letto, di mantenere il segreto assoluto, visto che non sarà mai pubblicato: “È un divieto categorico, senza appello!”. 

Quando le restituisco il testo, le chiedo perché me lo ha fatto leggere, se non ne devo parlare con nessuno. 

– Avevo bisogno di un testimone. Uno solo e basta. In fin dei conti, non sono talmente forte da poterne fare ancora a meno. 

– Ma il tuo scritto mi tormenta, dal momento in cui l’ho letto. 

– Lei vuole alleviare il suo peso, insomma. Certo! 

– Ma io non perdonerò la più piccola deroga. Al primo passo falso, sarò spietata… 

– Ma io non potrò dimenticare la crudeltà infinita di ciò che ho letto. Tu non hai il diritto di farmi condividere 

l’inenarrabile. 

– Le sarà necessario trovare la giusta distanza per non esserne divorato. Anch’io mi sentivo divorata dai miei 

racconti. Allora, ho trovato la distanza, grazie a lei! 

– Alla fine sorride e mi appoggia una mano sulla spalla. È come un gesto che sancisce un patto, ma anche il dono di una grazia misteriosa. Da quel momento mi possiede con la promessa del silenzio riguardo al suo racconto mostruoso e segreto. Non so se mi odia o se, invece, mi ama un po’. 

P. G. 

(trad. it. di Brigida Fagone) 

* Patrick Grainville è uno scrittore francese (oltre che critico letterario del “Figaro”), nato il I giugno 1947 a Villers-sur-Mer (Calvados). Ha trascorso l’infanzia a Villerville, piccolo centro situato ad est di Deauville. Professore di lettere, riceve a solo 29 anni il prix Goncourt 1976 per il suo quarto romanzo, Les Flamboyants (I fiammeggiatori). 

Altri suoi romanzi: Le paradis des orages (1986), L’rgie, la Neige, prix Guillaume le Conquéant (1990), Le Jour de la fin du monde 

une femme me cache (2001), La Main blessé (2005), Lumièe du rat (2008), Le baiser de la pieuvre (2010).




 La proliferazione delle leggi 

Mai come nel presente impietoso periodo storico, sullo scorcio di questo diabolico XX secolo – che ha annientato tutte le garanzie civili ed umane poste a guardia dell’umanità, dopo le sacre Rivoluzioni: americana, francese, italiana, russa, per non parlare delle altre meno conosciute ma altrettanto seminatrici di ideali – si è visto una proliferazione di leggi talmente soffocante da stordire il cittadino al punto che la stessa Corte Costituzionale, poco tempo addietro, ha dovuto riconoscere che, talvolta, ignorare la legge è un sacrosanto diritto della gente. 

Ma non è tanto il fatto che il Legislatore – o meglio. coloro che spingono i Deputati e i Senatori ad affastellare una sull’altra tutte le leggi possibili e immaginabili – usi del suo potere per dare un volto giuridico alla Nazione, quanto il misfatto dell’abuso che lo stesso Legislatore va perpetrando da anni a carico della collettività italiana con uno stillicidio di leggi, novelle, leggine, sottonovelle 

e poi, di nuovo, superleggi, sottoleggi non da mozzafiato ma da voltastomaco, proprio perché è come se ti dessero un autentico pugno sullo stomaco, dal momento che non ce la fai a digerire questo vero e proprio malloppo legislativo. 

Ora, io mi domando: coloro che siedono in Parlamento e in Senato hanno mai letto Tacito, Cicerone, Sallustio, Tertulliano e poi Giustiniano? Hanno mai letto un po’ di storia del diritto romano? Sanno chi era il Pretore romano e cosa faceva questo Pretore, laggiù nel foro, dove una causa, civile o penale che fosse. si risolveva immediatamente. senza possibilità di appello, dove si faceva giustizia rapida ed esemplare e che era ritenuta la migliore del mondo? 

Sanno i nostri Legislatori ciò che diceva Celso, famoso giureconsulto, quando affermava il principio: «Scire leges non est verba earum tenere, sed vim et potestatem» («Conoscere le leggi non significa tener dietro allo sproloquio delle loro parole, ma significa dar loro forza e potestà»)? 

Nel caso nostro, delle nostre leggi, non si tratta ora soltanto di sproloquio ma di diluvio totale di tali e tante parole che servono solo a fare confusione, a creare disagio, a interporre dubbi, a oscurare la norma giuridica che deve essere, invece, rapida, semplice e breve. 

Bastavano pochi ed essenziali concetti a rendere un ordinamento giuridico degno di dare a tutti i consociati l’eterna buona nuova della «certezza del diritto», così come la concepivano i nostri antichi padri, così come pare l’abbiano recepita i popoli anglosassoni, a scorno dei nostri Governanti passati ed anche presenti. Basti per tutti fare l’esempio dell’atteso codice di procedura penale (denominato «nuovo») che dovrà entrare in vigore nel prossimo autunno 1989 e che ricalca, qua e là, alcuni canoni dei codici anglosassoni e che ha rivoluzionato il c.d. «rito inquisitorio» ribaltandolo in «rito accusatorio» (che si traduce in maggior libertà istruttoria d’azione per l’avvocato e per l’imputato e dove il giudice sta a guardare quello che fanno le parti per poi emettere una sentenza che si avvicini quanto più possibile alla verità e alla giustizia). Ce ne sono voluti di anni per arrivare a questo traguardo! 

Ma la sostanza rimane la stessa. Alla qualità i nostri Legislatori hanno sempre sostituito la quantità. Non un lago di leggi, il nostro ordinamento è un oceano di disposizioni legislative che, facendo finta di rimangiarsi le precedenti, a queste stesse rinviano per accrescere ancora di più la difficoltà di interpretazione, in una farragine di concetti dove ognuno, ogni operatore del diritto, interpreta come vuole non la legge ma la «sua» legge, al punto che questa diventa anarchia! 

Uno Stato come il nostro che ricorrentemente ha bisogno di concedere l’amnistia, non per un evento importante della vita della Nazione, ma soltanto per prosciugare migliaia di processi penali delle Preture e dei Tribunali, non è uno Stato serio. E dove vanno a finire le garanzie legali di un cittadino che ha sperato nella sveltezza del processo penale e nel suo epilogo di giustizia per risolvere i suoi problemi, al fine anche di non farsi giustizia da sé, quando poi giunge, ingiusto ed ipocrita, un provvedimento di clemenza generale in cui i malfattori la fanno franca e la persona onesta è costretta a subire l’ennesima ingiustizia proprio da parte di uno Stato che dovrebbe essere il simbolo della somma di tutte le garanzie di vita di un popolo? 

Ecco che cosa producono le proliferazioni delle nostre leggi: una sommatoria di oscuri concetti giuridici, dove trovare certezza, garanzia e giustizia è come trovare un ago in un pagliaio! 

Penso che basterebbero per tutti i «Dieci Comandamenti», giunti come siamo a questo punto della nostra dolorosa storia di uomini proiettati, alla soglia del 2000, verso un avvenire oscuro, gravido sempre più di incognite disumane, dove in agguato sembrano essere accovacciati, per l’ultimo micidiale balzo, i quattro spietati cavalieri dell’Apocalisse. 

Antonio Della Rocca 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 57-58.




 Linguaggio pittorico di Emilio Guaschino 

Ispira i singoli dipinti di Emilio Guaschino una vasta tematica. È una singolarità che non esclude affinità categoriali valide come fondamenti di legittime aggregazioni e lo dimostrano due elementi che emergono fin dal primo approccio e rimangono costanti. Uno è di tipo contenutistico ed è costituito dall’uomo come soggetto; l’altro, di tipo affettivo, ed è il sentimento con cui l’artista ne osserva la vita, la considera e la rappresenta. È un sentimento di solidarietà, che anima quell’osservazione attenta e si traduce nel dare evidenza non solo alle tante forme di impegno cui il quotidiano problema dell’ esistenza obbliga l’uomo, ma anche agli effetti che ne conseguono e che sono spesso sintomo di pena. Quasi a dimostrare che anche la pittura, come la poesia, sua «consorella» nel molteplice manifestarsi dell’ Arte, ha la sua Musa, il suo motivo ispiratore predominante, nella sofferenza. Viene in mente il Leopardi di: «Ahi, dal dolore comincia e nasce l’italo canto!» 

Questa sofferenza, Guaschino la coglie nell’intimo e la esteriorizza nel suo vario attuarsi. Prevale la rappresentazione del peso della durezza del lavoro: nei campi, nelle miniere, per le strade, nelle occupazioni più umili e faticose, disumananti; la attestano con efficace chiarezza i segni marcati nel fisico e nella psiche. Intervengono, a volte, atti significativi di volontà di reazione a tanto patire, proteste intese ad acquisire condizioni di vita adeguate a dignità umana e si esplicano in tentativi drammatici fino al tragico, quali ad esempio l’eccidio di Portella della Ginestra. 

La sentita partecipazione ai disagi di tanta umanità muove la mano dell’artista che, avvalendosi di assoluta padronanza delle tecniche specifiche, incentrate sulla incisività assicurata dal contrasto fra bianco e nero, unisce realtà e fantasia e trasfigura quei documenti di vita in testimonianze invocanti un doveroso riscatto. Questo significano i lucidi e penetranti occhi aperti su tanti volti di anziani, so1cati da rughe profonde, con tipiche coppole, indicative della sicilianità di questa umanità che vive in una terra tanto amata da questo polentone con cuore di terrone, come si autodefinisce Guaschino, anche se questa Sicilia può ben definirsi una metafora di tanta umanità afflitta in eguale misura. 

Rientrano in questo gruppo di figure umane impegnate in umili occupazioni ragazzi soggetti a privazioni e rinunce fin dagli anni che dovrebbero essere quelli della spensieratezza, che pure viene luminosamente espressa, quasi a dare risalto al contrasto, nei dipinti che raffigurano ragazzi intenti ai giochi. Guaschino assicura inoltre significativo risalto a diverse figure di madri con teneri figli e le spalle avvolte in tipici scialli, che sembrano quasi in attesa di chi tomi dal lavoro; attestano un’esistenza dominata dall’ansia, ma anche una piena coscienza dei compiti inerenti al ruolo, appunto, di madre. Ma alla donna è dedicata una parte cospicua della sua produzione. Sono nudi di donna e sono carichi di sensualità, configurata quasi palpabilmente, per la costante presenza di seni in risalto insieme ad altre curve, e tutti turgidi, prominenti; sono segni di una volontà di significare l’amore nel suo oggi prevalente valore di senso e di sesso e di dare risalto al potere di seduzione che Natura assegna alla donna e che, se è impiegato in funzione di quello che è noto come «il mestiere più antico del mondo», anche perché sublimato dalle particolari pose, riporta tali donne nell’ambito di quel lavoro cui l’Artista ha attinto la dimensione privilegiata della sua tematica, caratterizzandola tutta quanta nell’ambito storico del realismo ma al tempo stesso arricchendola di sentimenti che le assicurano vitalità di poesia.

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 51-52.




 La Sicilia nella letteratura d’oggi: Biagio Scrimizzi 

Quando un autore ha offerto al pubblico un numero anche non grande di opere attestanti personalità ed esse hanno meritato interesse e attenzione, allora è certo legittimo. ed anzi doveroso. tracciare un consuntivo che, sulla base degli elementi costitutivi dell’ispirazione e dell’espressione, aiuti a conoscere meglio, anche a fini valutativi. quella personalità. 

Davanti ad uno di questi casi ci troviamo ora che abbiamo letto gli scritti in versi e in prosa, in lingua e in dialetto, pubblicati uno all’anno negli ultimi quattro anni da Biagio Scrimizzi, siciliano di Naso ma palermitano di adozione, già noto per esser stato, per lungo tempo, redattore di alcune riuscite e seguite rubriche culturali della RAI di Palermo. 

Sono scritti che, sia per la materia sia per la forma, hanno più di un nesso con quei servizi radiofonici. Infatti, come questi svolgevano tematiche relative alla vita e alla cultura del popolo siciliano e al suo ambiente naturale e storico, assicurando a luoghi, usanze, feste, personaggi e istituzioni della nostra terra una divulgazione tanto seria, e quindi utile, perché documentata anche attraverso ricerche sul campo, quanto garbata nella conduzione e gradevole all’ascolto anche per il bel timbro della voce, così anche ora S. si ispira alla cultura (in senso lato) isolana. Più precisamente, nei primi due di questi agili volumetti – Giufà per il verso giusto (1990) e Filastrocche da fiabe e leggende siciliane (1991) – egli ha dedicato attenzione ad un particolare settore di quella vasta tematica, il settore che di solito si definisce folklorico. Lo ha fatto non da filologo o, più in generale, da studioso ma da lettore vivamente interessato e partecipe che quella materia trasforma in occasioni per integrazioni, interpretazioni, ri-creazioni, argute considerazioni sulla attualità perenne di certi aspetti del costume umano. Così, nelle ingenue, ma non tanto, battute di Giufà si viene a scoprire tanta e tanto valida umanità, mentre i miti del popolo siciliano si rimpolpano di una più sapida concretezza e acquistano sostanza più ricca e complessa, una risonanza nuova, che a primo acchito li rende quasi divertenti e poi li fa buoni a fornire spunti ed esperienze alla condizione spesso così distratta e poco riflessiva degli uomini del nostro tempo. Naturalmente, senza l’illusione di proclamare alcun ‘verbo’ ma, semmai, con la convinzione di chi sa che la spontaneità degli ingenui è, a saperla intendere, carica di vantaggi insospettati, uguali a quelli della presunta irrealtà di fiabe e leggende. 

Alla rivisitazione, con conseguente riplasmazione, di Giufà, di fiabe e leggende nostrane, S. fa seguire, nella quarta e, per ora, ultima delle sue opere – Palermo felix ovvero I sogni di Lindo – l’ideazione di un personaggio nuovo. Ha il nome “chiaramente significativo e rappresenta la parte migliore di ciascuno di noi: è onesto, scrupoloso, ligio a tutte le norme della civile convivenza, ingenuamente fiducioso nel senso di responsabilità e nella sostanza d’impegno degli altri” (G. Monaco nella Premessa). 

Innamorato della sua città, ne offre pateticamente il degrado. L’unico sollievo lo trova nel credere realtà i suoi sogni, sicché solo in questa dimensione Palermo gli appare con le vie ben pulite e liberate dal caos del traffico e con uffici, negozi e mezzi di trasporto efficienti e affidabili. Dai sogni, però, lo risveglia una voce (dell’autore?) e Lindo perde tutte le speranze. Egli, allora, è metafora dei palermitani delusi dalla insipienza a non dire d’altro – dei loro “reggitori” ma anche da una propria dose di scarsezza di senso civico. Ed è metafora per un verso gradevole, perché spesso condita da ironia sorridente, esercitata in modo che ricorda l’oraziano castigare ridendo mores, ma alla fine, purtroppo, amara, perché Lindo, dopo una lunga serie di sconfitte della sua disponibilità alla fiducia, vola via da Palermo, verso Paesi d’Oltreoceano creduti più vivibili che, però, poi si rivelano anch’essi tanto disumani. Sicché a Lindo non resta che compiere un’altra fuga, questa volta verso le “incontaminate” montagne del Tibet, dove continuerà a sognare, poeticamente, la “felice” Palermo d’una volta. 

Parrebbe doversi concludere che l’unico rimedio al pessimismo sia la fuga dalla realtà. E sarà anche una conclusione non peregrina, ma nella sostanza significa un fallimento totale della speranza, un’abiura, una resa, e quindi non ci trova consenzienti. È più produttivo continuare a sperare contando sulle risorse che certo non mancano e su un loro responsabile impiego. 

Ed è certo questo che, in definitiva, S. è venuto a dirci col metterei innanzi quell’evasione senza frutto, almeno sul piano pratico. Per suo merito, lo ha fatto senza assumere né i toni arcigni e severi del moralista né quelli, minacciosi, dei profeti di sciagure. Piuttosto, ha impiegato, gustosamente anche per lui, quella sua capacità di sorridere e di far sorridere – che già di per sé è, come più d’uno ha detto, non piccolo merito – e ne ha fatto la qualità peculiare, propiziatrice di simpatie, di una prosa chiara e fluida in tutte le sue strutture, di uno stile che mentre diverte fa pensare. anche perché sotto quella esteriore levità c’è buona gravitas, cioè “peso” di impegno umano e di corredo culturale. 

Le doti di chiarezza e di fluidità della prosa, unite a un più sobrio gusto dell’umorismo. emergono anche in un altro scritto di S., che per altro con più diritto le richiede. essendo d’impianto narrativo. È la terza delle sue opere e qui la si pospone alla quarta per non interrompere la trama che intimamente lega le altre tre. Parve infatti libro “connotato dai segni di una svolta dello scrittore verso nuovi temi e modi di ispirazione e rappresentazione” già al suo prefatore (A.M. D’Asdia). Ha per titolo L’accelerato delle sei (1992) e nasce dall’idea che “i ricordi, essendo memoria della vita, sono pure significato della vita”. È così. una sorta di autobiografia articolata in racconti di esperienze vissute, in vivaci caratterizzazioni di tipi umani compresi, i più, nelle loro debolezze, in coloriti versi cui il dialetto dona un alto grado di espressività, e tenuta insieme dal tenace filo di una umanità aperta, sensibile, cordiale, che prova una dolce emozione nell’evocare e fissare per sempre i momenti più cari della propria esistenza e arriva pure a comunicarla, specie a chi sente pure lui, anche se non la esterna, tenerezza per il suo passato. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 38-40.




AVANTI IL DIVORZIO

L’umile verità è il motto che Anna Franchi toglie da Una Vita del Maupassant e trascrive nella prima pagina del suo romanzo Avanti il divorzio (ed. Sandron).

Il titolo contrasta un poco con l’epigrafe, perché manifesta l’intenzione di sostenere una tesi, mentre l’arte del Maupassant, e del Flaubert suo maestro, e di tutti gli osservatori della realtà, aveva ed ha come canone l’obbiettivismo e l’impersonalità più rigorosi. Il che non vuol già dire che i libri di quegli scrittori non contengano insegnamenti; li contengono bensì allo stato – diremo – latente, inespressi, come li racchiude la stessa vita che vi si specchia. Anna Franchi, invece, non solamente sostiene una tesi, ma combatte una vera battaglia contro l’indissolubilità del vincolo matrimoniale; e, se non ce lo dicesse il titolo dell’opera sua, ce lo direbbe la calda prefazione che per essa ha scritto il Berenini.

Il romanzo diretto espressamente a dimostrare una tesi filosofica corre il rischio di sacrificare le ragioni dell’arte a quelle della filosofia. Per far toccar con mano la necessità del divorzio, l’autrice ha accumulato sul capo di Ettore Streno, marito di Anna Mirello, tali e tanti vizi e colpe e turpitudini e infamie, da farne un essere ributtante e mostruoso. Non è che, sciaguratamente, uomini simili non esistano in quella viva realtà dove l’autrice, con virile proponimento, esercita il suo spirito indagatore; né è da negare al romanziere il diritto di rappresentare, dove occorra, anche l’orrido; ma la rappresentazione ha da essere governata dal gusto artistico, dal senso della bellezza.

Tutta presa dalla tesi, l’autrice bada invece non tanto a produrre un’impressione estetica quanto a dimostrare l’urgenza d’un provvedimento sociale; e il male è che la stessa evidenza della dimostrazione, alla quale ella sacrifica la bellezza dell’impressione, potrà essere negata o semplicemente discussa.

Dinanzi all’opera d’arte, il lettore resta più o meno commosso secondo la maggiore o la minore efficacia dell’artista; invitato a persuadersi d’una verità, egli può discutere, ed osservare allora, per esempio, che se il matrimonio della protagonista è riuscito tanto male, la cosa non era imprevedibile, perché Ettore Streno, fin da quando si presentò ad Anna Mirello, rivelò qualche cosa della sua pessima indole, tanto che la giovane fidanzata provò disinganni, amarezze e qualche moto di repulsione istintiva. Lo sposò, nonostante, con l’illusione dell’amore, per le lusinghe della vanità, in uno stato di mezza incoscienza e quasi d’automatismo; e qui appunto l’osservazione della scrittrice è felicissima; ma il lettore chiamato a pronunziarsi sulla moralità del caso, osserverà, se è avversario del divorzio, che la protagonista non ha tanto da prendersela con le leggi della famiglia, quanto contro la sua leggerezza ed incoscienza.

Un fautore del divorzio obbietterà, al contrario, che appunto perché gli uomini e particolarmente le donne, da giovani, possono essere incoscienti come Anna Mirello, appunto perciò la società deve dar loro la possibilità e il mezzo del rimedio. Il partigiano del matrimonio indissolubile replicherà con altre ragioni, alle quali l’avversario non mancherà di opporre altre; ed ecco nascere un dibattito dove c’era da produrre una commozione.

Ora, a provocare un dibattito utile è lecito credere più adatta l’esposizione dei casi reali e non dei romanzeschi. Dall’opera d’arte, senza dubbio, s’irraggia quella «luce vivificatrice» della quale parla il Berenini; ma disgraziatamente, l’intenzione di far opera artistica non s’accorda con quella di fare nello stesso tempo opera persuasiva; ed a quest’ultima giova molto più la «nuda, arida forma della statistica, e la severa autopsia psicologica e antropologica ».

Federico De Roberto

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 32-33.




 La poesia e la fine del secolo (*) 

Questo XX secolo è alla fine. ma con la sua fine non verrà certamente quella della poesia. Direi piuttosto che il peso della poesia e il suo indice di gradimento. oggi, sono più elevati che in altri periodi. Non alludo soltanto alle pubblicazioni, ai convegni che ad essa si dedicano. Penso anche alle citazioni. ai riferimenti che si trovano nei libri di filosofia, di scienza ed arte in genere. Persino i politici ufficiali, durante le interviste e i convegni, amano fregiare i loro discorsi con riferimenti testuali e poetici. 

Tutto questo, naturalmente, per dire, in breve, quanto vitale sia la poesia e la pressione dei suoi sensi e significati, mentre un secolo carico di rivolgimenti planetari e interplanetari ci sta lasciando. La sua scomparsa però non lascia il vuoto e il nulla bensì un carico progettuale che investe di enormi responsabilità tutti e in specie i poeti. Quegli uomini cioè che, comunque, disse Mahmud Derwish, scrivendo poesia nell’era dell’atomica, sono soggetti rivoluzionari. Faccio mio questo concetto e dico che ciò è valido ancora nell’epoca del postatomo, nel tempo cioè delle guerre stellari al laser o nel tempo, il nostro, della distruzione irresponsabile dell’ordine degli ecosistemi. 

Ma non è di questo che desidero parlare, bensì delle nuove frontiere e delle nuove possibilità che questo secolo morente ha aperto alla poesia, e che, secondo me, sono quelle della quasi fusione (fatte salve le differenze) dell’immaginario-reale della poesia con quello della scienza e delle sue esplorazioni, quello dell’interscambio dei loro linguaggi e delle loro logiche teoretiche, una soglia dove si verifica une vento unico: il reale si fa immaginario e l’immaginario si fa reale. 

Un mondo questo, per dirla con Edgar Morin, dove il pensiero autentico si mantiene alla «temperatura» della propria ebollizione e distruzione, e l’incertezza attraversa la «vera conoscenza». Un mondo cioè che vive in una ricerca e in una interrogazione che sono permanentemente fare e crisi: taglio e decisione, specie se il terreno di indagine è quello della complessità in cui viviamo e che in fondo siamo, come un tessuto intrecciato di tanti fili e colori. 

Paradossalmente il futuro della poesia, in questa fine secolo, è stato preparato anche dalla scienza attraverso quelli che possono già essere chiamati i viaggi negli spazi interplanetari e nell’infinito, la cui paradossale dimensione di eterno e temporale è stata sempre cantata dai poeti come una tensione e una ferita ora dolorosa ora felice. Dico paradossalmente perché la scienza, che si è sempre contrapposta al sapere e alle esplorazioni dei poeti e del loro vissuto, oggi, invece, porta concretamente l’occhio, il vedere e l’estetico delle sensazioni dell’uomo in quelle regioni dell’infinito spazio-temporale che era stata la dimora privilegiata dei sogni del poeta. Questo immaginario, con tutta la forza delle sue vibrazioni vitali, ora viene processualizzato e quasi attualizzato senza nulla perdere, però, del suo fascino nascosto e lunare. 

La morte dei secoli, come abbiamo imparato dalle metamorfosi delle cose e della storia, coincide sempre con la nascita e la vita di altre dimensioni e di universi altri. La fine di un secolo è perciò solo una tappa nel transito di kronos e di quella infinita modalità della natura, il cui delirio creativo è stato già cantato da un poeta come Lucrezio. 

La scienza, come il potere delle sue ricerche teoriche e delle sue realizzazioni ai limiti della fantascienza, non solo infinitizza la poesia perpetuandola come creatrice e compagna di viaggio, ma ne chiede, ove gli strumenti euristici le difettano, i mezzi linguistici e logici. Niels Bohr, uno degli scienziati forti di questo secolo nella ricerca della «consistenza» delle particelle elementari e delle virtualità del mondo subatomico, ebbe a dire che quando l’analisi scende a questi livelli, dove cioè non c’è più il vedere e il rappresentare, lo scienziato deve usare il linguaggio del poeta. Gli strumenti euristici cioè della retorica poetica, come le «congetture», le metafore e le analogia, per esempio, se vuole far vedere l’invisibile, dire l’indicibile, finitizzare e determinare l’infinito. 

Cosa di più bello e meraviglioso, nel futuro secolo, di questo connubio felice della scienza con la poesia? I prodotti della loro praxis si somigliano così tanto che possiamo affermare senza scandalo che gli universi del sapere scientifico sono altrettanto derealizzati e fantastici di quelli creati dai poeti che possono quasi interscambiarsi. 

E cosa dire della logica, delle logiche o di quelle loro parti e funzioni come le contraddizioni, i paradossi, le ambiguità, ecc., che ieri erano appannaggio del solo poeta e oggi sono elementi integranti della struttura della scienza contemporanea? 

Proviamo a pensare solo per un po’ (facendo qualche semplice esempio) alle contraddizioni del principio di complementarità dello scienziato atomico quando deve parlare del suo campo di onde e corpuscoli. di continuo e di discreto o discontinuo, al principio di indeterminazione di Heisenberg per determinare posizione e velocità di un elettrone; pensiamo per un po’ al vuoto quantico, alla nuova geometria dei frattali. agli «effetti farfalla. o sensibilità alle condizioni iniziali di certi fenomeni non prevedibili delle scienze del caos, alle loro combinazioni di turbolenza e coerenza, alla chiusura e apertura, dipendenza e indipendenza dei sistemi autopoietici, al tentativo di imprigionare gli eventi stocastici, aleatori e contingenti, e poi chiediamoci se questa non è la logica del paradosso e dell’ossimoro – l’acuta follia – del poeta. L’acuta follia del poeta che cerca di afferrare. di comprendere la contingenza dell’attimo nella sua complessa concretezza: il luogo-tempo-energia dove l’essere e il non essere, la vita e la morte. il gioco delle metamorfosi è una sfida perenne ai confini e l’attimo non è più l’atomo del tempo ma appunto il cum-iangere – la contingenza – di tutte le dimensioni del reale, compreso l’immaginario della poesia. Poesia che dalla fine di questo secolo riceve la linfa di nuove forntiere e nuovi termini linguistici per esprimersi anche in una nuova sintassi. 

Antonino Contiliano

* Relazione tenuta al Symposium per il 29° Incontro internazionale di poeti a Struga il 24 agosto ’90.

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 6-8

 




 Intervista ad Elio Giunta 

(a cura di A. Contiliano) 

Nella recente pubblicazione .Dai margini inquieti. il poeta palermitano Elio Giunta raccoglie in antologia i componimenti più significativi della sua trentennale produzione poetica. 

Antonino Contiliano lo ha intervistato per Spiragli, ponendo domande che, al tempo stesso, mettono in risalto la figura del poeta d’oggi e la condizione della poesia. 

Anzitutto, il titolo ..Dai margini inquietill allude, forse, al tema dell’emarginazione, che è costante nella tua poesia? 

L’emarginazione nella mia poesia è elemento che certo si ripropone frequente, ma più che un tema, cioé una nozione denunciata, è, direi, una condizione di fondo, sofferta ma necessaria, vista più come scelta che come effetto di coazione. In un mondo di eccessiva partecipazione, meglio a dirsi. di eccessiva compromissione della cultura coi persuasori occulti di massa e meno occulti degli apparati e delle cricche, l’emarginazione richiama al vero ruolo del poeta, che è quello dell’intellettuale inquieto, seminatore d’inquietudini, punti di riferimento del possibile, spesso del’opposto. Qui il senso del titolo. 

Come è nata l’idea di quest’antologia? 

È venuta all’editore, come proposta di richiamo alla poesia in un mondo in cui sembra che il suo spazio si faccia sempre più esiguo. I miei testi non saranno tutti buoni, comunque hanno segnato il passo dei tempi, hanno talvolta contratto il rischio della parola comune e molti la gente può leggerli ancora e farli propri, sentire in che misura li anima una dimensione umana. Così li hanno visti presso questa Casa editrice, decisa, come credo, a realizzare un’operazione culturale con una proposta letteraria praticabile. 

Allora, se la poesia oggi ha visto ridurre al minimo il suo spazio, di chi è la colpa? Per quelli meccanismi la poesia è in crisi? 

Premesso che il posto della poesia è stato sempre quello della crisi, con qualche eccezione nei tempi andati. dico che oggi la colpa è anzitutto dei produttori di poesia quali grossi editori e critici accreditati, che mandano in giro operazioni poetiche dirette a nessuno, votate all’autocompiacimento. Gli editori sono serviti assai male dai loro consulenti e responsabili di collane, che gestiscono tutto entro la sfera di pochi amici e di calcolati scambi, tra parolai sofisticati con la testa piena di teorie letterarie per lo più incomprensibili; i critici, in particolare, oggi, dopo le neo-avanguardie, sono in cerca di un’idea della letteratura e quindi della poesia che non trovano o non vogliono trovare. privi come sono di coerenza. Il resto lo fa l’inconscia ma devastante idolatria del tecnologismo detto produttivo. Dunque non andiamo cercando perché la gente non legge e non compra la poesia. 

E tu, come vivi da poeta questo tempo? 

Dici piuttosto da intellettuale: la poesia non è campo d’astrazione o d’artificio, è modo di espressione con cui ci si rivolge agli altri partendo da una coscienza critica del presente. Quindi in poesia si sintetizza ma si incide e, magari, si canta. 

Vorrei vivere questo tempo nella speranza, invece lo vivo da un banco di 

sofferenza e di provocazione. Già, provocazione. Ad esempio, cercheremo sempre di opporci alla mentalità di un pese come il nostro, dove è possibile affidare quasi le ultime sorti ed anche le sorti dei mezzi di diffusione della cultura ad un venditore di gassose e minerali, magari rivestito per l’occasione della tonaca 

del buon pastore. 

Gli intellettuali ancora esistono; e i poeti pure.