Quando la letteratura diventa infiorata 

Contrariamente alla mia inclinazione a scritti polemici e seriosi, questa volta, con l’accaduto che sto per raccontare in chiave scherzosa ma vera, mi riprometto di esilararvi col preciso intento di farvi dimenticare, sia pure per poco tempo, gli affanni quotidiani. 

Il titolo, invero, per amore di rispetto al nostro idioma, è di ripiego, ché più attinente allo svolgimento dei fatti sarebbe stato ben altro. State certi, comunque, che non starò, novello Erasmo, ad ammalinconirvi con poderose elucubrazioni sulla pazzia, giacché, da quando il filosofo olandese ne trattò, è passato tanto tempo che, essa, la follia, si è talmente diffusa da rendere un inutile perditempo seguirla nelle sue svariate manifestazioni, risultando, invece, più agevole soffermarsi sui casi che se ne discostano, e perciò più facilmente individuabili. 

Ma sia pure come modesto omaggio ad Erasmo, come convalida delle sue teorie, proviamo a trastullarci un po’ su un avvenimento che ha nutrito ampiamente la cronaca, e che meriterebbe di essere tramandato ai posteri, affinché essi, rivolgendo il pensiero ai progenitori – a noi, che allora saremo diventati gli avi – possano sentirsi più orgogliosi di quanto lo siamo noi dei Quiriti, d’essere i discendenti di una eroica schiatta, quella alla quale ora modestamente apparteniamo e che sarebbe stato meglio fosse … schiattata un secolo prima. 

In Italia, com’è noto, vi sono numerosi festival, i più noti dei quali, quello della canzone a Sanremo, quello del cinema a Venezia, quello dei due mondi a Spoleto; ci sono poi: quello dell’uva, quello dei carciofi (auspice il decantatore di un certo amaro), quello dei tartufi, non ricordo dove, senza contare i festival dell’unità (d’intenti), dell’amicizia, che pullulano un po’ dovunque, saturnali, dove non occorre ricercare molto per rinvenire, anche senza cane da fiuto, lo squisito porcino, e che un novello Macrobio non mancherà di immortalare e tramandare ai posteri. 

In un paese così ricco di sagre non potevano mancare i festival del libro e, dopo i primi istituiti, che potremmo chiamare classici, ne sono proliferati, dalle Alpi al Lilibeo, in così gran numero e varietà, che le .denominazioni non bastano più a qualificarli; per cui, continuando di questo passo, andrà a finire che, dal premio bancarella si arriverà, forse, anche al premio deschetto. 

Ora, quello che di particolare pare abbiano questi premi della carta stampata, sembra sia il fatto che tra membri delle giurie e concorrenti da giudicare avvenga una specie di avvicendamento, una rotazione, per cui, ad intervalli di luogo e di tempo, alcuni Tizi vengono a trovarsi al di qua o al di là della barricata: vale a dire, giudici o giudicandi. 

Da questa situazione, in un paese facile ai sospetti tendenziosi (e spesso infondati), si è fatto discendere una conseguenza, non si può affermare quanto ragionevole o quanto calunniosa. E cioè: tu dai (oggi) una cosa a me, io darò (domani) una cosa a te, come usa ripetersi in certi slogan pubblicitari caroselliani. 

Avvenne, qualche anno fa, che in uno di questi festival cartacei, una nota scrittrice, Dacia Maraini, ottenne un premio letterario, non saprei se di I, II o III categoria; fatto sta che l’ottenne. Avvenne pure che, tempo fa, altro non meno noto scrittore, Berto, non saprei se contemporaneamente concorrente al medesimo certame e rimasto escluso dalla candida rosa dei premiati, o rimastone escluso in altro torneo, oppure, escluse tali ipotesi, ma semplicemente perché animato da spirito di giustizia, in omaggio al quale certi accessi fervorosi viaggiano addirittura con un bilancino in tasca, avvenne, dunque, che il Berto si lasciasse andare, un certo giorno, a fare qualche allusione – velata oppure evidente – sul pieno, mediocre e scarno merito con cui la Dacia ottenne, in quell’occasione, il succitato guiderdone. 

Ora bisogna tener presente che, nel Bel Paese è lecito dissentire, e quindi muovere critiche, solo nei riguardi del governo od in merito alle sentenze emanate dalla magistratura, in omaggio alla conquistata – con annose e animose lotte – libertà di opinione, ma non spaziando in altri campi dove l’opinione può tramutarsi in calunnia, ed è bene che ciò sia, altrimenti la ridda delle opinioni richiederebbe che il numero dei tribunali – e quindi dei giudici criticabili – venisse per lo meno centuplicato. 

Stando alle notizie di stampa, non sembra, però, che la Maraini abbia pensato di querelare per calunnia aut similia Berto che, questa volta, non si era limitato a filare, avrebbe intaccato la Dacia nelle latebre più intime. 

Ma la Maraini non ha adito, come suol dirsi, le vie giudiziarie e, per tale rinuncia od omissione, possono farsi soltanto delle supposizioni. 

Sarà stato, probabilmente, per non completa e assoluta fiducia nei giudici dalle facili e criticabili sentenze (ma questa è una mera ipotesi soltanto congetturale – sarà stato perché, dall’alto del suo piedistallo (…de minimis non curat praetor) reggentesi su un consenso che avrebbe potuto vacillare – considerandolo res nullius – lo sconsiderato provocatore, sarà stato per altri eventuali motivi personali, non c’è stato ricorso alle vie legali. Ma se lo è legato al dito, questo torto, la Maraini, evidentemente incline a farsi giustizia da sé, largendo pan per focaccia, anzi, per meglio dire, tocco di sfilatino per focaccia. 

E si arriva così al secondo atto della tragicommedia dell’arte (letteraria) nella quale il colto pubblico e l’inclita guarnigione può vedere come la Dacia Maraini, in un’intervista concessa alla giornalista Lietta Tornabuoni, ha malamente qualificato l’antagonista Berto, il quale, vedendosi, in tal modo, scultoriamente e lapidariamente contrassegnato, è insorto ed ha adito quelle cotali vie. 

Cosa ovvia, se si considera che l’intervistatrice ha messo nero su bianco, diffondendo agli otto venti l’accaduto. Maliziosetta, anzichenò, questa Lietta . . . o no? 

Il suo nome, costituito da un diminuitivo a sé stante, sembrerebbe indicare una bonaria ingenuona, tutt’altro che un’aggressiva enfante terrible, e se ha preferito scrivere, è stato certamente perché, da coscienziosa giornalista, ha voluto attenersi alla completezza dell’informazione e alla più pura obiettività. 

Ed è stato così che, rubando lo spazio alla crisi di governo, ai problemi del lavoro, della scuola, degli ospedali, dell’ecologia, solite solfe che ormai ha perduto mordente, il fatto è assurto all’onore delle prime pagine dei giornali, facendosi largo a gomitate, anche se gomiti non ne ha, tra le altre notizie semiserie, con cui le pagine devono essere riempite prima di andare in macchina. 

Ma, in macchina, in sontuosa Rolls Royce, c’è voluto andare, stavolta, anche il vilipeso scrittore ch’è voluto entrare, trionfante, anche nelle aule giudiziarie di Torino. 

Già prima di arrivare alla discussione dibattimentale, che si era preparata per l’occasione, si fanno indagini etimologiche, filologiche, linguistiche, si considera il vocabolo incriminato da diverse angolazioni, come si fa con la moviola per i falli in area di rigore, per discutere se costituisca ingiuria oppure no, ecc. 

In attesa che più profondi conoscitori, con alate e filosofiche argomentazioni, espongano – quando si terrà il processo – le loro teorie, noi, come fanno gli scolari ai quali l’insegnante ha insegnato un argomento, per svolgere il quale devono fare opportune . . . ricerche, abbiamo voluto appunto eseguirne qualcuna, della quale esponiamo il risultato: senza, con ciò, voler formulare e anticipare giudizi, ma semplicemente perché, essendo l’argomento apparentemente nuovo, suscita una certa curiosità che merita di essere appagata senza, però, manipolazioni o vivisezioni, ma con la raccolta di documentazioni fatta con lunghe pinze automatiche onde restare a debita distanza. 

Non riferiamo, per un certo riserbo, il vocabolo oggetto della disputa. Ma consultandolo nel vocabolario della lingua italiana, edito da Curcio, e nel Dizionario Enciclopedico Treccani, riteniamo la definizione di quest’ultimo abbastanza esatta. 

Da notare, infine, che sono previsti anche i diminuitivi, con terminazioni variate e ce n’è per tutti i gusti. 

In ogni caso, però, è ancora da notare che ha non poca importanza l’intonazione di voce, l’inflessione, la maggiore o minore intensità e musicalità che accompagna la parola, nonché l’aggiunta, a contorno, di eventuali gesti espressivi. 

Ma, come si fa con la lingua, la quale, spesso, sdegna la forma puramente letteraria, per attingere alla parlata viva del popolo, allo scopo di rendere con più evidenza un’idea, conviene lasciare da parte i vocabolari scritti da gente troppo seriosa, prima di sentenziare se la parola incriminata sia da considerarsi impura oppure un babà intriso di rum, e cercare riferimenti più semplici ed obiettivi. 

Questa volta conviene risciacquare i panni, anziché in Arno, nel Tevere, che per quanto riguarda acque torbide e fangose, non la cede al gemello toscano. 

Conviene andare nell’Urbe che, d’altra parte, può considerarsi madre putativa di tale poco nobile rampollo, a giudicare dall’uso assai diffuso che i cupolonisti fanno dell’espressione che Coty avrebbe certamente disdegnato. 

Se a un ragazzino romano de Roma si chiederà che cosa significa la frase: “… ma è proprio bbona” riferita a una gagliarda passante, non risponderà certamente che trattasi di persona di buon cuore, umana e pia: risponderà, invece: “, , . a me pure me piace cce starìa … “! 

Allo stesso modo, se al solito ragazzino de Trastevere, si domanderà: “Che significa che quel passante è uno…”, risponderà, siatene certi, in modo poco lusinghiero per l’inconsapevole passante usato come cavia.

 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 45-48.




 Morte di un Gladiatore 

Non troviamo né la disposizione mentale né, tantomeno, le parole per dire il dolore dovuto alla perdita così inaspettata quanto desolante del socio del Centro Internazionale “Lilybaeum”, del collaboratore redazionale di “Spiragli”, dell’amico vulcanico, buono, Davide Nardoni. 

La notizia della morte ci ha colti di sorpresa, essendosene «andato in punta di piedi». Impotenti dinanzi al triste evento, mentre ci stringiamo, partecipi al loro lutto, attorno alla cara Signora Ermelinda, ai figli e ai nipotini, ringraziamo Donato Accodo che prontamente ha colto il nostro invito a ricordare il compianto prof. Nardoni, essendogli stato per più di un decennio molto vicino come amico ed editore, avendo avuto modo di conoscere, meglio di altri, l’uomo e il grande cultore di latinità che fu o, meglio, è per le opere già pubblicate e quelle ancora inedite che, speriamo, possano vedere quanto prima la luce. 

Se n’è andato in punta di piedi, senza nemmeno darci alla lontana il benché minimo indizio dalla sua imminente dipartita; si può dire ch’è morto in piedi, forte e tetragono qual era, alla maniera dei gladiatori romani, di quegl’indomiti lottatori che amava di un amore smodato e dei quali scrisse in una delle sue tante opere dal titolo appunto I Gladiatori romani, esaustiva e originale in una superba interpretazione storico-filologico-sperimentale, unica e irripetibile, un autentico gioiello del suo multiforme ingegno, oggetto di consultazione e di studio nelle varie università e accademie di numerose nazioni. 

Chi scrive ben sa che la scomparsa di Davide Nardoni è stata una grave perdita per tutta l’umanità. Chi in lunghi anni di sodalizio gli è stato vicino e lo ha seguito in tutte le sue affascinanti scoperte, non può fare a meno di sentire il vuoto incolmabile della mancanza di un uomo che, stravolgendo il metodo di ricerca tradizionale, rivisitando tutte le fonti del passato, infliggeva un duro colpo alla nefasta filologia classica, spiazzandola dal soglio della sua pretesa infallibilità del “principio di autorità”, sempre da lui avversato con fermezza e inoppugnabili argomentazioni alle quali, di certo, non è mancata l’ispirazione degli uomini eccezionali. 

Col metodo anabatico e cotabatico della filologia sperimentale (sorregge il diacronico crivello nardoniano), rifacendosi al significato delle parole che gli uomini prima inventavano e poi impietosamente abbandonavano all’incuria del tempo nel secolare cimitero dei fossili linguistici, egli le ripescava e risuscitava dando loro il giusto posto di connotazione e descrivendone i vari mutamenti e il perché di tali trasformazioni nel ciclo millenario dell’eterno divenire. Con questo suo sistema Davide Nardoni ha ricostruito la storia di Roma e della romanità, volendo dimostrare quanto sia stato infausto alla verità il temerario ardire di coloro che si sono lasciati traviare da pregiudizi con i quali per secoli hanno invano tentato di oscurare la fama dell’Urbe. 

Ora che non c’è più il Maestro di vita e di battaglie combattute insieme nel fervore di dimostrare la fondatezza dei nostri sforzi, saranno in molti a voler ricredersi e a seguirlo nel fascinoso mondo delle sue ricerche, rinunciando a quel perverso “principio di autorità” e alle sue mostruose contraddizioni. Gli daranno ragione e col tempo la grideranno ai quattro venti anche perché e soprattutto perché da morto – credono i sofoni sofastri, com’egli era solito definirli – più non darà loro fastidio, avendo deposto per sempre, nel segreto della tomba, la magica chiave che ha dischiuso le porte a incontrovertibili verità da altri mai nemmeno una sola volta sospettate. Ma la loro è solo illusione, ipocrita illusione di chi avvezzo a denigrare i vivi e a offendere la memoria dei morti! Nessuno potrà mai riuscire a confutare e a stravolgere le sue certezze tenacemente radicate nel più profondo sostrato linguistico della storia dell’umanità, se è vero, come incontestabilmente vero, che nulla è più potente della parola, scintilla di facoltà divina, che tutto eterna col trascorrere dei secoli. 

Nel corso della sua laboriosa esistenza, sorretto da una ferrea volontà e da una competenza di vero e proprio scienziato, Davide Nardoni è riuscito a dimostrare che la storia dei popoli è la storia di quel che la parola ha detto e fatto scrivere senza mai alterare il significato delle proprie origini, se non per deviante volontà degli uomini e quindi per loro crassa ignoranza. Altrimenti, alterando o eludendo questo significato, anche le nostre, prima o poi, diverrebbero origini ignote, insufficienti a farci conoscere chi realmente siamo perché prive di elementi che ci riportano al principio di quando con la parola e per la parola avemmo un nome e, via via, una connotazione in tutta la gamma della sua significatività espressiva. 

La nostra collaborazione e le nostre fatiche non sono cessate con la morte né mai cesseranno, se è vero che questa non spegne la fiamma della verità che ha sempre spinto i generosi a conoscere nuovi orizzonti. Di concerto con Lui di là e noi di qua continueremo insieme a parlarci e a sorreggere finché non avremo compiuti i compiti che ci prefiggemmo di raggiungere sin dal nostro primo incontro, sempre caparbiamente uniti nell’unico desiderio ch’è stato sempre il nostro più grande amore: liberare la storia dalle incrostazioni della menzogna, ritrovare verità sepolte e dimenticate per incuria degli uomini e dei secoli, tramandare ai posteri una visione più chiara e più credibile delle trascorse società per consentire loro di capire quella dei nostri giorni sempre più alla deriva per aver voluto “rompere” ad ogni costo con quel che di meglio c’era della tradizione dei nostri padri. 

Credenza e fede popolari vogliono che per ogni anima che sale in cielo una luce si accende e brilla con le altre: se ciò è vero, è allora altrettanto vero – ci sia consentito almeno per pio desiderio e ancor più per arcano presentimento -, è vero che, nel momento in cui il gladiatore del pensiero e della penna pervenne ai superni lidi del mondo ultraterreno in cui non c’è posto per le passioni e per le meschinità degli uomini, le elette schiere dei trapassati Latini esultarono di viva allegrezza, facendo ala ad un confratello di sì grande ingegno. 

A noi, scrivendo da queste pagine dalle quali Egli ci ha spesso deliziato e illuminato con le sue dotte argomentazioni ora seriose, ora inconfutabilmente vere e comunque tutte di un’acutezza che sa dell’incredibile, a noi piace chiudere l’elogio di Lui con un tacitiano giudizio di uno dei suoi tanti estimatori, il quale, interrompendo un nostro collaboratore che aveva cominciato a intessere i pregi dell’insigne vallecorsano, si espresse dicendo: «Lei non mi parli di Nardoni. Nardoni è un genio». Una breve pausa, e poi annuendo: «Il genio della Filologia sperimentale, il più spaventoso mostro della storia di Roma e della romanità». 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 3-5.




Emilio Guaschino

 Nel complesso dell’articolata problematica della sua arte pittorica Emilio Guaschino, lungi da ogni ingannevole mimetismo, predilige temi di marcata espressività che gli derivano dai vari personaggi di umile estrazione, gravi di pensosa tristezza e di profonda malinconia. Il tutto evidenziato dalla plasticità dei loro volti scrupolosamente delineati, con particolare rilievo delle umane passioni femle nei tratti di un sapiente pennello. 

Parlare di questo versatile artista palermitano è di una facilità estrema, avendo egli tolto, con la sua bravura, qualsiasi possibilità di dubbiosa interpretazione che non sia soltanto quella che si ha di primo acchito alla vista dei simboli di un’arte tanto più limpida quanto più larga la misura in cui accogliamo le sue proiezioni. Merito precipuo, questo, di ogni artista che si rispetti, scevro di intrigate e forzate astrazioni che travagliano chi, privo di adeguata coscienza critica, si arrovella ugualmente per scoprire l’arte e, quand’anche non ci fosse o tale non risultasse nel senso più attinente alla parola, studia di scoprirsela, d’inventarsela pur di dare una valenza ad opere che alla vera arte sono d’insulto, come spesso accaduto in tempi non molto lontani, quando, con una martellante propaganda di sostegno, a tutti i costi si è voluto indulgere a correnti artistiche che la storia non ha ancora definitivamente accettato nel novero delle belle arti. Del resto la tecnica della pittura, nel suo significato più esteso, assomma tutte le norme che regolano i comportamenti in tutti gli altri campi. Sicché più agguerrito di molteplici virtù è l’artista, più apprezzato e interessante riuscirà il suo lavoro. Più egli è povero di esperienze comportamentali e speculative, più incompleta risulterà la sua opera per non potersi avvalere del prezioso apporto di queste. 

Evidentemente il Guaschino non è condizionato da certe carenze riduttive, se la sua arte lo qualifica autore di gusti raffinati, impegnato a proporre alla nostra attenzione nuove emozioni attraverso una continua e prevalente ricerca dei valori estetici. 

La sorpresa, l’insofferenza, la pazienza, il dolore, lo sdegno della gente, particolarmente di quella del Sud, hanno trovato in Emilio Guaschino un fedele interprete delle comuni aspettative lungamente frustrate, un propugnatore di sacrosanti diritti mille e più volte rivendicati ed altrettante ignorati, un difensore dei sentimenti più puri e più gentili, filtrati attraverso la sua arte pregna di riscatto e di brucianti accuse. 

Solo chi non vuole non sa leggere sui volti rugosi del Guaschino, nelle pieghe che comprimono lo spirito di chi in esse coglie il dolore, lo smarrimento per i tanti fatti e misfatti, di chi si attarda a riflettere sul fermo e malinconioso sguardo di quanti, temprati dalla sofferenza, sono rimasti integri nei loro propositi, nella vana speranza di giorni migliori, nella composta attesa che forse non avrà mai fine o nella manifesta impazienza per il ripetersi di beffe ipocrite di un potere che ormai non lascia più bene sperare. Da qui la dignitosa disperazione delle donne irpine con evidenze pittoriche altamente espressive nelle figure di chi è provato dal dolore e dalle estenuanti fatiche, di chi ha perduto amici, parenti, i propri cari vittime della mafia, di coloro che dalle tele ci guardano sfiduciati, quasi ad accusarci d’indifferenza, d’ingratitudine, di mancanza di orgoglio, di iniziative che guariscano la piaga di una società sbandata dall’utilitarismo e dallo squilibrante progresso, entrambi forieri di desolazione e di morte. 

Se per gusto s’intende la capacità di giudicare le opere d’arte di un certo stile, che man mano si diffonde per poi divenire uniforme, in tempi determinati, tra 

particolari gruppi di individui, ciò significa che le capacità conoscitive di un’opera non hanno limite e sono relativamente indipendenti dal gusto dominante. Il che vuol dire che non tutti devono vedere in un’opera d’arte gli stessi pregi o difetti e tanto meno goderli o criticarli in ugual maniera. Ma per il Guaschino, pur nella diversità di giudizio sul suo impegno artistico, i pareri non possono essere che i più concordi possibili sulla base di un riconoscimento delle sue rilevanti possibilità espressive, grazie alla tecnica di una consumata esperienza e all’incessante scandaglio nelle profondità comportamentali dei vari personaggi. Del resto, è nella logica delle sue impressioni e ricerche letterarie, come in Pensieri vaganti, significativa raccolta di riflessioni suggeritegli dall’esperienza di artista acuto e coraggioso. 

Epperò questo caparbio palermitano dalle numerose sfaccettature socio- etico-culturali ha una nota dominante di un colore quasi oppressivo, che se da un lato gli consente di raggiungere traguardi di intimo appagamento, dall’altro lo avviluppa nel grigiore di un cupo pessimismo che ha origine dalla sua inguaribile solitudine, propria degli spiriti eletti che non tralignano mai dalle proprie origini né cessano di anelare a quelle altezze dello spirito cui costantemente tendono nel continuo travaglio che la loro arte comporta. Ma, a ben riflettere, il Guaschino non sarebbe tale senza il silenzio della sua solitudine, del suo pessimismo, del suo mondo aperto al respiro dell’amore per i propri simili, per tutto ciò che è sovrano e divino nell’eterno attuarsi di una volontà suprema, nella rassegnata accettazione di accadimenti ai quali l’artista lega spesso le qualità della propria interpretazione e quindi del proprio successo. «Ho amato, amo ed amerò fino al giorno del mio morire. Questa volontà è il frutto della mia riconosciuta solitudine», scrive il Nostro nell’opera dianzi citata. È la certezza di quanto egli di questa non possa fare a meno, a nutrimento di se stesso, a sostegno di nuove ricerche e realizzazioni artistiche, a maggior garanzia, ove ancora ve ne occorresse, della sua fin troppo comprovata serietà, presupposto di più esaltanti conquiste. Del resto senza l’amore e i suoi teneri e travolgenti impulsi, senza questa possente leva dell’universo, non ci sarebbe creatività né alcuna aspirazione né motivo di anelare a future conquiste; la nostra vita ci parrebbe men degna di essere vissuta, sarebbe un deserto. Meglio, quindi, un solitario, un sofferente di solitudine che un distaccato gaudente che nulla di buono e di bello può esprimere né alcunché di edificante potrà mai proporre. Ben vengano i Guaschino e la loro arte, con tutti i travagli che questa comporta. La vita è tutta un travaglio; quando ne è esente è piatta e ci fa perdere lo slancio di viverla intensamente. 




Per una rigenerazione della politica. Cultura e valori umanistici 

 La progressiva perdita di idealità nel panorama socio-politica-culturale dell’Italia ha comportato la ricerca dell’interesse dei singoli a danno della collettività. I mali che hanno corroso dall’interno il rapporto fiduciario tra nomenclatura e popolo evidenziano l’indifferibile esigenza di una ricostruzione dello Stato. Se non si ha più rispetto per la democrazia, non se ne ha neppure per la difesa della dignità individuale. Nessuna meraviglia, del resto, visto che alcuni nostri «eletti» sono ben lungi dall’ essere i missionari della politica. Quel che urge è impedire di ridurre l’Italia in uno stato di ingovernabilità col continuo ricorso alla strategia partitocratica delle coalizioni. 

Verità incontrovertibile è che senza contenuti etici una nazione è destinata a ripiegarsi in se stessa nella corsa al proprio particulare, mentre rotoliamo in un vortice di egoismi, dai quali, alla lunga, tutti saremo travolti. Di qui, la necessità di dare alla politica un supplemento d’anima che la riporti alla sua peculiarità di servizio in favore della comunità, sorretti da convinzioni che maturano in un senso civilmente spirituale. Ma accade che la politica non sempre si fonda su ragioni valide, ovvero su obiettivi raggiungibili senza esporsi a rischi di varia natura. 

D’altronde, è risaputo che passioni che si smorzano rendono squallida la vita reale, specie se priva di requisiti morali e spirituali; di sentimenti, senza i quali non esisterebbe socialità né amor proprio e civile sopravvivenza. Ma in Italia scarseggiano sentimenti, fonti di civile progresso; per quanto è dato capire, vi è più culturalismo che cultura. 

Cultura e politica dovrebbero sempre impegnarsi a rendere l’uomo più libero e autonomo. Con questi intendimenti la società civile sarà veramente libera, sempre che il sistema politico riesca a marciare con i tempi per rinnovarsi, cercando anzitutto di uscire dalle incrostazioni burocratiche che offuscano ai giovani una nitida visione del futuro. Perciò occorre una politica altruistica, senza machiavellismi che consentano prevaricazioni di stampo nepotistico o settario a mestieranti senza scrupoli, che congiurano contro tutte le libertà. 

La società civile è stanca di essere sfruttata senza ritegno. I tempi cambiano e deve cambiare anche la politica in tutte le sue espressioni. Cambiamento più che mai necessario per chi si fa interprete della vita politica in un’ottica ben diversa da quella passata, dopo il ravvedimento ideologico del novembre 1989, il che, con l’abbattimento del muro di Berlino, segna il fallimento della filosofia politica a ideologie contrapposte. Epperò questa contrapposizione non va vista a priori col sospetto della costrizione a combattere l’eterogeneo consociativismo partitico, ma nella consapevolezza di un’inderogabile modifica della legge elettorale, in forza della quale per ben governare non si può più ricorrere all’ arma consociativa, ignorando che la censura politica va fatta attraverso il voto elettorale alla scadenza regolare del mandato, e non con equilibrismi e stratagemmi volti a difendere interessi di cordate variamente ispirate. 

Occorre rafforzare la volontà politica di un riml0vamento radicale delle istituzioni democratiche, ora che i tempi sono maturi per aprire a nuovi scenari di convivenza, col prioritario riconoscimento dell’ appartenenza delle risorse naturali a tutti i popoli della terra. 

Siamo convinti che soltanto chi propugna l’osservanza dei diritti umani rispetta la giustizia sociale e civile. Però, per raggiungere lo scopo, è indispensabile incentivare la buona cultura, quella libera, mai succube di una mutevole volontà politica e del predominio plutocratico, inquinata da lobby di profittatori e di sfruttatori, i quali col sistema consociativo, a cominciare dai sofisticati trucchi elettorali, hanno trasformato l’attività politica in uno stato di perverso benessere. Evidentemente, da esempi così, la cultura non può che uscirne sconfitta, svilita. Inutile, parlare di intellezione culturale; ammesso che se ne conosca il significato, ci si guarderebbe bene dal riconoscere che scienza ed esperienza fanno parte della cultura più viva,essendo i supporti della vita indispensabili ad una missione civile ispirata all’interesse dell’ amministrazione pubblica. 

Occorre leggere di più (se si vuole responsabilmente acculturare il popolo), consapevoli che dai libri provengono conoscenze ed esperienze, indispensabili fonti di cultura, di apertura mentale. La cultura sociologica, nell’interesse della ragion pratica, dovrebbe meglio contribuire, alla politica del governo. Non per nulla l’arguto Papa Wojtyla ebbe ad osservare che la crisi del nostro tempo non è di bombe, ma di cultura, come dire che il pensiero umanistico dovrebbe aleggiare al di sopra della faziosità dei singoli come dei gruppi, perché i soliti arrampicatori, per assicurarsi il potere, escogitano espedienti che non lasciano spazio agli uomini di buona volontà. Non bastano le riforme istituzionali … 

Ben venga, comunque, il federalismo, se esso significa effettivo decentramento di poteri con snellimento burocratico, riduzione dell’ autoritarismo governativo, accompagnato da congrua riduzione numerica dei parlamentari e dei partiti. Ben venga, se esso significa maggior controllo sulla spesa pubblica, riforme istituzionali per il bene comune, adeguate alle nuove esigenze sociali. (Il libro-diario della pubblica amministrazione dovrebbe. essere aperto alla pubblica opinione, non coperto da segreto d’ufficio (n.d.r.). Tutto ciò si può attuare purché guidati da un illuminismo teorico e da un empirismo conoscitivo, capaci di annullare ogni distinzione categoriale e ideologico-politica. In un’epoca come questa, di imperialismo capitalistico vegeta una democrazia incompiuta che va a scapito dei deboli con conseguenze fallimentari che producono disoccupazione e «riduzione contributiva» con relativi disservizi pubblici, a scapito dei cittadini che spesso non vedono tutelata neppure la loro salute. Ai mali che affliggono la società un rimedio ci sarebbe, se ognuno di noi, ancor prima di agire, interrogasse la propria coscienza per conoscere se quello che ci accingiamo a fare risponda al detto: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te! 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 3-4.