La proliferazione delle leggi 

Mai come nel presente impietoso periodo storico, sullo scorcio di questo diabolico XX secolo – che ha annientato tutte le garanzie civili ed umane poste a guardia dell’umanità, dopo le sacre Rivoluzioni: americana, francese, italiana, russa, per non parlare delle altre meno conosciute ma altrettanto seminatrici di ideali – si è visto una proliferazione di leggi talmente soffocante da stordire il cittadino al punto che la stessa Corte Costituzionale, poco tempo addietro, ha dovuto riconoscere che, talvolta, ignorare la legge è un sacrosanto diritto della gente. 

Ma non è tanto il fatto che il Legislatore – o meglio. coloro che spingono i Deputati e i Senatori ad affastellare una sull’altra tutte le leggi possibili e immaginabili – usi del suo potere per dare un volto giuridico alla Nazione, quanto il misfatto dell’abuso che lo stesso Legislatore va perpetrando da anni a carico della collettività italiana con uno stillicidio di leggi, novelle, leggine, sottonovelle 

e poi, di nuovo, superleggi, sottoleggi non da mozzafiato ma da voltastomaco, proprio perché è come se ti dessero un autentico pugno sullo stomaco, dal momento che non ce la fai a digerire questo vero e proprio malloppo legislativo. 

Ora, io mi domando: coloro che siedono in Parlamento e in Senato hanno mai letto Tacito, Cicerone, Sallustio, Tertulliano e poi Giustiniano? Hanno mai letto un po’ di storia del diritto romano? Sanno chi era il Pretore romano e cosa faceva questo Pretore, laggiù nel foro, dove una causa, civile o penale che fosse. si risolveva immediatamente. senza possibilità di appello, dove si faceva giustizia rapida ed esemplare e che era ritenuta la migliore del mondo? 

Sanno i nostri Legislatori ciò che diceva Celso, famoso giureconsulto, quando affermava il principio: «Scire leges non est verba earum tenere, sed vim et potestatem» («Conoscere le leggi non significa tener dietro allo sproloquio delle loro parole, ma significa dar loro forza e potestà»)? 

Nel caso nostro, delle nostre leggi, non si tratta ora soltanto di sproloquio ma di diluvio totale di tali e tante parole che servono solo a fare confusione, a creare disagio, a interporre dubbi, a oscurare la norma giuridica che deve essere, invece, rapida, semplice e breve. 

Bastavano pochi ed essenziali concetti a rendere un ordinamento giuridico degno di dare a tutti i consociati l’eterna buona nuova della «certezza del diritto», così come la concepivano i nostri antichi padri, così come pare l’abbiano recepita i popoli anglosassoni, a scorno dei nostri Governanti passati ed anche presenti. Basti per tutti fare l’esempio dell’atteso codice di procedura penale (denominato «nuovo») che dovrà entrare in vigore nel prossimo autunno 1989 e che ricalca, qua e là, alcuni canoni dei codici anglosassoni e che ha rivoluzionato il c.d. «rito inquisitorio» ribaltandolo in «rito accusatorio» (che si traduce in maggior libertà istruttoria d’azione per l’avvocato e per l’imputato e dove il giudice sta a guardare quello che fanno le parti per poi emettere una sentenza che si avvicini quanto più possibile alla verità e alla giustizia). Ce ne sono voluti di anni per arrivare a questo traguardo! 

Ma la sostanza rimane la stessa. Alla qualità i nostri Legislatori hanno sempre sostituito la quantità. Non un lago di leggi, il nostro ordinamento è un oceano di disposizioni legislative che, facendo finta di rimangiarsi le precedenti, a queste stesse rinviano per accrescere ancora di più la difficoltà di interpretazione, in una farragine di concetti dove ognuno, ogni operatore del diritto, interpreta come vuole non la legge ma la «sua» legge, al punto che questa diventa anarchia! 

Uno Stato come il nostro che ricorrentemente ha bisogno di concedere l’amnistia, non per un evento importante della vita della Nazione, ma soltanto per prosciugare migliaia di processi penali delle Preture e dei Tribunali, non è uno Stato serio. E dove vanno a finire le garanzie legali di un cittadino che ha sperato nella sveltezza del processo penale e nel suo epilogo di giustizia per risolvere i suoi problemi, al fine anche di non farsi giustizia da sé, quando poi giunge, ingiusto ed ipocrita, un provvedimento di clemenza generale in cui i malfattori la fanno franca e la persona onesta è costretta a subire l’ennesima ingiustizia proprio da parte di uno Stato che dovrebbe essere il simbolo della somma di tutte le garanzie di vita di un popolo? 

Ecco che cosa producono le proliferazioni delle nostre leggi: una sommatoria di oscuri concetti giuridici, dove trovare certezza, garanzia e giustizia è come trovare un ago in un pagliaio! 

Penso che basterebbero per tutti i «Dieci Comandamenti», giunti come siamo a questo punto della nostra dolorosa storia di uomini proiettati, alla soglia del 2000, verso un avvenire oscuro, gravido sempre più di incognite disumane, dove in agguato sembrano essere accovacciati, per l’ultimo micidiale balzo, i quattro spietati cavalieri dell’Apocalisse. 

Antonio Della Rocca 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 57-58.




 La Sicilia nella letteratura d’oggi: Biagio Scrimizzi 

Quando un autore ha offerto al pubblico un numero anche non grande di opere attestanti personalità ed esse hanno meritato interesse e attenzione, allora è certo legittimo. ed anzi doveroso. tracciare un consuntivo che, sulla base degli elementi costitutivi dell’ispirazione e dell’espressione, aiuti a conoscere meglio, anche a fini valutativi. quella personalità. 

Davanti ad uno di questi casi ci troviamo ora che abbiamo letto gli scritti in versi e in prosa, in lingua e in dialetto, pubblicati uno all’anno negli ultimi quattro anni da Biagio Scrimizzi, siciliano di Naso ma palermitano di adozione, già noto per esser stato, per lungo tempo, redattore di alcune riuscite e seguite rubriche culturali della RAI di Palermo. 

Sono scritti che, sia per la materia sia per la forma, hanno più di un nesso con quei servizi radiofonici. Infatti, come questi svolgevano tematiche relative alla vita e alla cultura del popolo siciliano e al suo ambiente naturale e storico, assicurando a luoghi, usanze, feste, personaggi e istituzioni della nostra terra una divulgazione tanto seria, e quindi utile, perché documentata anche attraverso ricerche sul campo, quanto garbata nella conduzione e gradevole all’ascolto anche per il bel timbro della voce, così anche ora S. si ispira alla cultura (in senso lato) isolana. Più precisamente, nei primi due di questi agili volumetti – Giufà per il verso giusto (1990) e Filastrocche da fiabe e leggende siciliane (1991) – egli ha dedicato attenzione ad un particolare settore di quella vasta tematica, il settore che di solito si definisce folklorico. Lo ha fatto non da filologo o, più in generale, da studioso ma da lettore vivamente interessato e partecipe che quella materia trasforma in occasioni per integrazioni, interpretazioni, ri-creazioni, argute considerazioni sulla attualità perenne di certi aspetti del costume umano. Così, nelle ingenue, ma non tanto, battute di Giufà si viene a scoprire tanta e tanto valida umanità, mentre i miti del popolo siciliano si rimpolpano di una più sapida concretezza e acquistano sostanza più ricca e complessa, una risonanza nuova, che a primo acchito li rende quasi divertenti e poi li fa buoni a fornire spunti ed esperienze alla condizione spesso così distratta e poco riflessiva degli uomini del nostro tempo. Naturalmente, senza l’illusione di proclamare alcun ‘verbo’ ma, semmai, con la convinzione di chi sa che la spontaneità degli ingenui è, a saperla intendere, carica di vantaggi insospettati, uguali a quelli della presunta irrealtà di fiabe e leggende. 

Alla rivisitazione, con conseguente riplasmazione, di Giufà, di fiabe e leggende nostrane, S. fa seguire, nella quarta e, per ora, ultima delle sue opere – Palermo felix ovvero I sogni di Lindo – l’ideazione di un personaggio nuovo. Ha il nome “chiaramente significativo e rappresenta la parte migliore di ciascuno di noi: è onesto, scrupoloso, ligio a tutte le norme della civile convivenza, ingenuamente fiducioso nel senso di responsabilità e nella sostanza d’impegno degli altri” (G. Monaco nella Premessa). 

Innamorato della sua città, ne offre pateticamente il degrado. L’unico sollievo lo trova nel credere realtà i suoi sogni, sicché solo in questa dimensione Palermo gli appare con le vie ben pulite e liberate dal caos del traffico e con uffici, negozi e mezzi di trasporto efficienti e affidabili. Dai sogni, però, lo risveglia una voce (dell’autore?) e Lindo perde tutte le speranze. Egli, allora, è metafora dei palermitani delusi dalla insipienza a non dire d’altro – dei loro “reggitori” ma anche da una propria dose di scarsezza di senso civico. Ed è metafora per un verso gradevole, perché spesso condita da ironia sorridente, esercitata in modo che ricorda l’oraziano castigare ridendo mores, ma alla fine, purtroppo, amara, perché Lindo, dopo una lunga serie di sconfitte della sua disponibilità alla fiducia, vola via da Palermo, verso Paesi d’Oltreoceano creduti più vivibili che, però, poi si rivelano anch’essi tanto disumani. Sicché a Lindo non resta che compiere un’altra fuga, questa volta verso le “incontaminate” montagne del Tibet, dove continuerà a sognare, poeticamente, la “felice” Palermo d’una volta. 

Parrebbe doversi concludere che l’unico rimedio al pessimismo sia la fuga dalla realtà. E sarà anche una conclusione non peregrina, ma nella sostanza significa un fallimento totale della speranza, un’abiura, una resa, e quindi non ci trova consenzienti. È più produttivo continuare a sperare contando sulle risorse che certo non mancano e su un loro responsabile impiego. 

Ed è certo questo che, in definitiva, S. è venuto a dirci col metterei innanzi quell’evasione senza frutto, almeno sul piano pratico. Per suo merito, lo ha fatto senza assumere né i toni arcigni e severi del moralista né quelli, minacciosi, dei profeti di sciagure. Piuttosto, ha impiegato, gustosamente anche per lui, quella sua capacità di sorridere e di far sorridere – che già di per sé è, come più d’uno ha detto, non piccolo merito – e ne ha fatto la qualità peculiare, propiziatrice di simpatie, di una prosa chiara e fluida in tutte le sue strutture, di uno stile che mentre diverte fa pensare. anche perché sotto quella esteriore levità c’è buona gravitas, cioè “peso” di impegno umano e di corredo culturale. 

Le doti di chiarezza e di fluidità della prosa, unite a un più sobrio gusto dell’umorismo. emergono anche in un altro scritto di S., che per altro con più diritto le richiede. essendo d’impianto narrativo. È la terza delle sue opere e qui la si pospone alla quarta per non interrompere la trama che intimamente lega le altre tre. Parve infatti libro “connotato dai segni di una svolta dello scrittore verso nuovi temi e modi di ispirazione e rappresentazione” già al suo prefatore (A.M. D’Asdia). Ha per titolo L’accelerato delle sei (1992) e nasce dall’idea che “i ricordi, essendo memoria della vita, sono pure significato della vita”. È così. una sorta di autobiografia articolata in racconti di esperienze vissute, in vivaci caratterizzazioni di tipi umani compresi, i più, nelle loro debolezze, in coloriti versi cui il dialetto dona un alto grado di espressività, e tenuta insieme dal tenace filo di una umanità aperta, sensibile, cordiale, che prova una dolce emozione nell’evocare e fissare per sempre i momenti più cari della propria esistenza e arriva pure a comunicarla, specie a chi sente pure lui, anche se non la esterna, tenerezza per il suo passato. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 38-40.




 Oggetti irreparabili, oggetti irrecuperabili

Sono note a tutti le elaborazioni psicoanalitiche che a partire da Lutto e melanconia di Sigmund Freud (1915) hanno consentito di penetrare sempre più in profondità i meccanismi inconsci che sottendono l’emergere di sindromi depressive. 

Ricordiamo i notevoli bisogni di dipendenza e l’accentuata ambivalenza collegati a tratti fondamentali della personalità: la scarsa tolleranza nei confronti fondamentali della personalità: la scarsa tolleranza nei confronti delle frustrazioni; il riattivarsi, a causa della regressione, di posizioni psicoaffettive analoghe a quelle primariamente sperimentate dal lattante nel secondo semestre di vita: la disposizione basica reversiva all’interno delle pulsioni di morte; l’insorgenza di profondi sentimenti di colpa; l’intervento di fattori psicodinamici collegabili alla necessità di autopunizione, espiazione, purificazione, propiziazione. 

A proposito dell’approccio integrato in psichiatria, va sottolineato che a causa di una perdita reale o immaginaria, parziale o totale. di oggetti significativi esterni o intemalizzati. o ancora a perdita di parti appartenenti al Sé corporeo o al Sé psichico, il depresso è una persona che si dimostra particolarmente incapace di ritrovare oggetti sui quali riversare le cariche libidiche di cui ancora dispone. Con altre parole possiamo affermare che il depresso vive una particolare incapacità a gioire di ciò che è ancora vivo e recuperabile piuttosto che il continuare a disperarsi per ciò che è morto o irrecuperabile. 

È suddetta incapacità, spesso ripetitiva e a volte esasperata, stigmatizzabile con la metafora mors mea-mors tua, a costringere il depresso a relazionarsi con le persone che gli stanno a fianco così come un naufrago che non sapendo nuotare si aggrappa all’eventuale soccorritore in modo tale da fargli però rischiare di trascinarlo con sé in fondo al mare, realizzando una condizione che è sintetizzabile con la metafora mors tua-mors mea. 

Gli accentuati sentimenti di impotenza e di impraticabilità terapeutica, pertanto la frustrazione che spesso deve tollerare il curante, qualora sia disposto ad entrare in una relazione sufficientemente profonda con il depresso, sono relativi all’intervento delle dinamiche sopra accennate. 

Di conseguenza possiamo affennare che l’interumano su cui si fonda e si sviluppa il processo psicoterapeutico viene continuamente svalorizzato dal bisogno del depresso che l’altro sia talmente idealizzabile ed onnipotente da assumere le dimensioni sovrumane dell’angelo salvatore, piuttosto che quelle più realistiche del buon salvagente. 

Probabilmente tutto ciò costringe il terapeuta ad aggrapparsi a sua volta ai propri potentati: i modelli teorici di riferimento, le scuole formative di appartenenza, la fannaterapeutica sempre più avanzata ed altodosata. 

Come sostiene Franco Fomari, «azioni terapeutiche di natura psichica partecipano ad ogni rapporto terapeutico, anche quando si tratti di una terapia puramente medicamentosa•. Ma è chiaro che una scelta terapeutica esclusivamente medicamentosa, quale può essere praticata da curanti eccessivamente biologisti, rischia di trattare una parte come se costituisse il tutto e di affrontare il sintomo come se si trattasse di una causa, perdendo di vista l’interezza e la complessità del processo psicopatologico. 

Ma v’è ancor più. Dal momento in cui attribuiamo alla sostanza medicamentosa 

la capacità principale di alleviare o sanare il dolore e il sentimento di vuoto o di svuotamento conseguenti alla perdita, trascuriamo il fatto fondamentale che è l’elemento interumano, che è determinante nel processo psicopatologico, a costituirsi quale fattore basico nel processo terapeutico, quale relazione significativa medico-paziente, anche allorquando la relazione avviene nella forma più semplificata e meno coinvolta quale il limitarsi a prescrivere un farmaco, per il fatto che suddetto gesto assume il valore forte di offerta partecipe all’altro il cui bisogno di aiuto è stato compreso. 

Scrive Nietzsche in Geneologia della morale: “Soltanto quello che non cessa di dolorare resta nella memoria.; ne deriva che il dolore costituisce il più potente coadiuvante della memoria. 

Sin dall’antichità si è fatto ricorso all’uso di sostanze allo scopo di attenuare il dolore e favorire l’oblio. 

Stupendi i versi di Omero nel descrivere il comportamento di Elena, preoccupata con l’arrivo di Telemaco a Sparta del riverberare doloroso in Menelao delle vicende personali che avevano dato avvio alla guerra di Troia. 

“Allora pensò un’altra cosa Elena, nata da Zeus: 

nel vino di cui essi bevevano gettò rapida un farmaco. 

che fuga il dolore e !’ira. il ricordo di tutti i malanni. 

Chi !’ingoiava una volta mischiato dentro il cratere. 

non avrebbe versato lacrime dalle guance, quel giorno, 

neanche se gli fosse morta la madre o il padre, 

neanche se gli avessero ucciso davanti, col bronzo, 

i! fratello o suo figlio e lui avesse visto cogli occhi. 

Tali rimedi e1Ticaci possedeva la figlia di Zeus”. 

Ma il dolore quale situazione limite, da cui pertanto nessuno è escluso, quale significato assume nell’esperienzialità umana? 

Albert Camus nel suo scritto Il mito di Sisifo sostiene: -Le cause di un suicidio sono molte e, in linea generale, le più appariscenti non sono state le più efficaci . Raramente – ma tuttavia l’ipotesi non è esclusa – ci si uccide per riflessione. Ciò che scatena la crisi è quasi sempre incontrollabile. I giornali parlano spesso di ‘dispiaceri intimi’ o di ‘malattia incurabile’. Queste spiegazioni possono essere accettate, ma bisognerebbe sapere se, quello stesso giorno, un amico di quel disperato non gli abbia parlato in tono indifferente. In tal caso quegli è il colpevole poiché il suo atteggiamento può bastare a far precipitare tutti i rancori e la stanchezza ancora in sospensione». 

Nel romanzo I Dolori del giovane Werther Goethe ci fa sentire la tragica condizione del protagonista allorché nel momento di massima disperazione sembra dominato dal prorompere delle pulsioni distruttive. come appare dall’ultima lettera destinata all’amata: -Sì, Lotte, perché dovrei tacere? Uno di noi tre deve scomparire, e voglio essere io quello. Carissima! In questo cuore dilaniato s’è insinuato il furibondo pensiero… spesso… di uccidere tuo marito! …te! …me! …E così sia!» 

Hermann Hesse in Farfalle racconta di un adolescente, amante e collezionista di farfalle, il quale avendo rovinato inavvertitamente una preziosa farfalla, 

furtivamente sottratta ad un compagno di scuola, si rende conto per la prima volta nella sua vita delle potenzialità distruttiva dell’ uomo: «Scorsi sulla tavoletta la farfalla rovinata… l’ala spezzata era stata stesa con cura e posta su un’umida carta assorbente ma era irrecuperabile; e poi mancava anche l’antenna… Fu li che capii per la prima volta che non si può mettere a posto ciò che è stato rovinato. Me ne andai e fui contento che mia madre non mi chiedesse nulla, ma solo mi diede un bacio e mi lasciò incace. Prima però andai di nascosto in camera da pranzo a prendere la grande scatola marrone. La posi sul letto e l’aprii al buio. Ne estrassi le farfalle una dopo l’altra e con le dita le schiacciai e le ridussi in polvere e brandelli». 

In Pianto di Sirena Jun’lchiro Tanizachi racconta la fiaba di una sirena che essendo stata catturata da un navigante è disperata perché, sottratta alle natie profondità marine mediterranee e privata della libertà, è costretta ad esporre le proprie nudità sui mercati dei paesi dell’Asia. «La notte… le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi splendevano come perle rischiarando il buio profondo della stanza e quasi fossero fosforescenti lucciole…». Aprendo il suo segreto al signore che l’aveva acquistata e se ne era innamorato, la sirena confessa: «Non posso fare altro che soffrire e mi torturo nell’affanno impazzita dalla passione dei sensi e dalla lussuria. Nobile signore, ti scongiuro, di rimandarmi nella mia dimora nell’oceano e di sottrarmi ad una vita di dolore e di vergogna. Se potessi andare a rifugiarmi in fondo al mare, sotto le fredde onde azzurre, forse potrei dimenticare la tristezza e l’amarezza di questa mia sorte». 

Ri1ke in Danze Macabre così fa esprimere un uomo che nel perdere la propria integrità fisica sente avvicinarsi la morte: «Sono così solo e così stanco. Il mio dolore è strano. Sono spossato, le mie membra sono a pezzi; ma ci sono momenti in cui scatta di nuovo questa scintilla che chiamiamo vita. E diventa fiamma. Improvvisamente divampa con ardore e sento forza, salute, fiducia … stupidaggini. Il medico… ma non voglio parlare di medici. Ma a volte è molto brutto. Le difficoltà di respiro sai, le… A volte sono in grado di sentire come l’aria preme. È terribilmente pesante ti confesso. E questa tosse. Esce fuori cosi lentamente dal petto e poi improvvisamente accelera e mi prende alla gola». 

Ma cos’è il dolore? Cosa rappresenta nell’ambito della poliedrica gamma di sentimenti che pervadono l’essere umano? Come sostiene Karl Jaspers, «il dolore è una limitazione dell’esserci, è parziale annientamento; dietro ogni dolore c’è la morte». 

C’è la morte perché il dolore è uno stato di estremo malessere, perché qualcosa è andato perduto, perché ci sentiamo privi di qualcosa che era sentito come un bene, perché esperiamo in tutta la sua profondità la “mancanza” e con essa lo svanire della fiducia, del coraggio, della forza, della speranza. 

Potremmo chiederci come mai non organizziamo quasi mai convegni su tematiche quali la felicità, la gioia, la serenità. Solamente perché in quanto psicopatologi, e dunque per deformazione professionale, cerchiamo di investigare solo ciò che è alterato, ciò che è morboso? Fors’anche! 

Ma il motivo principale è che la felicità la conosciamo veramente solo quando l’abbiamo perduta. 

La felicità, così fragile, delicata e impalpabile come ali di farfalla, la riconosciamo solo dopo; quando viene meno; nel momento del dolore. 

Porgiamo ancora attenzione a quanto afferma Jaspers: «Se ci fosse solo la felicità dell’esserci, l’esistenza possibile resterebbe assopita. Stupisce che la felicità pura e semplice sembri vuota e senza e1Iicacia. Come il dolore annulla esserci di fatto, cosi la felicità sembra minacciare l’essere autentico. Nello stato di felicità c’è una specie di autonegazione determinata da un sapere che non permette alla felicità di sussistere. La felicità deve essere messa in questione per ricostituirsi come autentica felicità; la sua verità si fonda sul naufragio… 

Non si tratta di essere degli apologeti del dolore ma è a partire dal dolore che prendiamo contatto con le parti più profonde, più vere di noi, che ci rendiamo conto della vitale importanza di quel che abbiamo perso, che riconosciamo il vero valore delle cose, ossia prendiamo coscienza di ciò che per noi ha veramente valore. 

Come sembra implicito in tutto il pensiero di Georges Lapassade non è l’analisi a determinare la crisi, ma è la crisi a promuovere l’analisi. 

Ma v’è di più; il dolore attuale non solo si cortocircuita all’interno con i dolori che precedentemente abbiamo vissuto nella nostra vita, ma anche con un dolore che possiamo definire filogenetico, quello che appartiene al passato storico della specie umana. 

In ciascuno di noi è dunque inscritta la sequenza interminabile di oggetti che sono scomparsi a noi. che si sono autodistrutti o che non sono sopravissuti, ma pure quelli che la bestia interna, il felino carnivoro, l’egocentrico cannibale ha divorato, distrutto, sacrificato. 

Nel romanzo Il mare verticale Giorgio Saviane propone un affascinante viaggio nel tempo da parte di un protagonista interprete che in una sorta di sogno o di visione esce dalla propria individualità, per mescolarsi lungo un corridoio storico con altri esseri umani ora di sesso maschile ora di sesso femminile, acquistandone di volta in volta l’identità. 

L’iter mentale del protagonista comincia in questo modo: «Mi trovai in un corridoio largo; anche laggiù in fondo dove sembrava stretto e allineati vi erano tutti. Mi sembravano pochi per esser tutti, erano moltissimi invece, perché gli specchi di cui era fatto il corridoio senza fine li rifrangeva diversi seppure reali. Se mi spostavo mutava l’angolo visuale e tutti d’aspetto; a loro volta gli specchi moltiplicavano gli angoli, per cui ad un mio spostamento di un millimetro corrispondevano miliardi di variazioni, e i millimetri di quel corridoio erano infiniti. Scegliere importava una responsabilità, un’azione: non allungare il braccio muovere la testa pronunciare parole rovesciare un governo uccidere amare: l’azione interiore, il fatto per cui siamo scaturivano da quel corridoio molato. Né la scelta era in nostro potere. Eppure vi era un punto più qua del corridoio, un punto che si identificava con l’identificazione, dove !’investitura trovava origine. Un blocco determinante le cui tangenti si perdevano nello spazio, voraci. L’aggettivo è però gratuito, uno sbaglio: quelle tangenti si alzavano per linee assolute» 

Un gruppo giovanile di Marsala di recente è stato profondamente scosso dal suicidio di un giovane appartenente alla loro associazione. Il ragazzo si era molto attaccato ad una coetanea di cui era innamorato, ma il suo sentimento era tenacemente ostacolato dai genitori. Il giovane, disperato, si è procurato una pistola, ha chiamato per telefono l’amico più intimo avvertendolo del gesto che stava per compiere. L’amico lo ha pregato di dargli il tempo di raggiungerlo, ma inutilmente; ha sentito lo sparo mentre ancora si trovava a telefono. Alcuni mesi prima, il ragazzo suicida, allorché aveva fatto il suo ingresso nel gruppo giovanile, si era presentato scrivendo la seguente frase: «Che tutto non finisca qui!» 

Aldo Carotenuto in Eros e Pathos avverte che «dobbiamo imparare a sopportare la privazione», dato che la mancanza è «un altro tratto strutturale della nostra esistenza. Tutta la nostra vita è una lotta per affermare quel qualcosa che ci sfugge, e per poter lottare dobbiamo imparare a sentire sulle nostre spalle il peso dell’assenza dell’altro». Ancora Carotenuto ci dice che «nel momento in cui siamo testimoni e succubi di una devastazione psicologica, la vita ci offre una chance che non dobbiamo lasciarci sfuggire: noi dobbiamo andare in fondo a questo vissuto, perché è uno di quei momenti che ci fanno capire, ci fanno conoscere chi siamo. È da qui che parte il nostro lavoro di ricostruzione». 

Ma la ricostruzione va intesa non solo quale capacità di uscire dalla solitudine e dalI’isolamento per consentire il rialTacciarsi della presenza dell’altro. Ma anche quale processo trasformativo di parti del Sé. quale cambiamento connesso al processo di individuazione che spesso dalla esperienza dolorosa prende avvio e che a dolore si accompagna. Sia perché acquistare qualcosa di nuovo. mutare. comporta il dover perdere qualcosa di vecchio; sia perché il percorso di individuazione comporta anche una rottura rispetto ai modelli ed ai condizionamenti stereotipi sociali. 

Il percorrere la strada personale della individuazione ci mette contro gli altri non nel senso di una nostra ribellione contro la società, ma al contrario nei termini in cui è la società ad avversare le trasformazioni. i cambiamenti collegati con la ricerca interiore di ciò che per noi è essenziale, di ciò che ci fa sentire persona unica ed irrepetibile. con le realizzazioni conseguenti, compreso ciò che amiamo e ciò che non possiamo più amare, ciò che sentiamo bene e ciò che non possiamo sentire tale, ciò che possiamo perdere e ciò che non ci sentiamo di abbandonare definitivamente. 

Ma il percorso di individuazione si presenta come lungo, difficile, incerto, e spesso non può essere mai portato a tern1ine. Mentre la coazione a ripetere può farci riprecipitare nella colpa, nel tentativo vano del recupero, nella obbligazione alla riparazione. E invece di andare avanti torniamo indietro. Così che le parti in ombra indirizzano oscuramente il nostro cammino e ci muovono inconsciamente verso quel tipo di oggetti che ci hanno soddisfatto e che possono continuare a soddisfare parti nostre inconsce che amiamo meno. Individuarci significa avere la forza di abbandonare. di sciogliere legami che prima erano sentiti essenziali e dai quali dipendevamo; permettere a noi stessi di perdere quello che dell’altro avevamo dentro e ci faceva male. 

Esemplificativo può apparire il seguente sogno. Una persona torna in officina per ritirare la propria autovettura che aveva lasciato per il consueto tagliando. Ma il capomeccanico gli dice che la macchina è rotta e non si può riparare. Il proprietario chiede delle spiegazioni ma il capofficina rifiuta categoricamente di fornirgliene, allora il proprietario della vettura si rivo1ge agli altri meccanici per saper qualcosa di più, ma costoro declinano. rispondono che solo il capofficina può dare spiegazioni. Il malcapitato proprietario dell’auto rimane perplesso; vede che il capofficina si sta allontanando da una porticina laterale. allora viene invitato dagli altri meccanici a seguirlo se vuole delle spiegazioni. Così avviene, la persona segue il capofficina là dove era scomparso, apre la porta e lo vede che si sta togliendo la tuta e sta per indossare degli abiti eleganti da sera, è atteso presso un portone che dà all’esterno da un altro uomo e da due donne tutti elegantemente vestiti, devono recarsi insieme ad una serata. Il proprietario dell’auto ha un moto rabbioso e pigliando per il bavero il capofficina lo sbatte contro il muro gridandogli che deve dirgli perché la macchina non può essere riparata, perché senza queste spiegazioni non può neanche portarla presso un’altra officina. 

Il sogno è interessante perché si presta ad una discussione circa alcuni caposaldi connessi alla pratica della psicoterapia analitica: la possibilità di trovare delle spiegazioni circa gli accadimenti psichici; la possibilità di cambiare qualcosa di se stessi; l’inutilità di intraprendere una psicoterapia quando non si è realmente motivati a questo tipo di processi. 

Ma il sogno è pure interessante per qualcosa che esula il campo analitico ed è connesso alla frequente illusione di potere cambiare le persone con le quali si è più coinvolti nella relazione. Fantasie di questo tipo ricorrono non infrequentemente in persone che intraprendono una psicoterapia, come se la nuova situazione dovesse dotarle della capacità di trasformare l’altro; in questi casi, almeno inizialmente; il materiale portato in seduta verte soprattutto sulle persone più intime piuttosto che su se stessi. 

È solo quando ci rendiamo conto che gli altri in parte sono anche affittuari di immagini nostre, e che possono rappresentare figure impersonanti nostre essenze sotterranee, che possiamo dare una svolta alla nostra vita interiore ed oggettuale, che possiamo scoprire nuovi sentieri significativi. 

La citazione di alcune delle battute finali del lavoro teatrale di Philippe Blasband Una cosa Intima può stimolare ulteriori riflessioni. 

Lui sta per andarsene, forse per sempre, lei gli chiede: «E se volessi fare la cosa un’altra volta, con te sarebbe possibile? Lui risponde: «Perché vorresti farlo?, Lei: «Non so perché sei diverso dagli altri come non ne ho mai incontrati… Ero in un deserto, e tu mi hai mostrato la strada per uscirne… E credo che in un certo modo, strano, bizzarro, credo di amarti…» 

Lui: «Va bene. Ma ciò non basta. Per fare la cosa, bisogna amare farla…» Lui esce di scena, lei rimane da sola e in soliloquio mormora: «Stavo con un ragazzo – o forse era un uomo, non so… Mi piaceva. Volevo fare l’amore con lui, e lui non voleva, non subito, diceva che aveva una cosa in lui, un segreto, e per me era meraviglioso, bello, intrigante. Avevo l’impressione che con lui toccavo qualcosa, più lontano… Toccavo l’assoluto… Non so…». Si fa buio sulla scena. 

Il buio nel lavoro teatrale di Blasband, come a volte il silenzio nel lavoro psicoterapeutico, non ha il significato di fine, di vuoto mortale, ma ha la funzione di sospensione riflessiva, di metabolizzazione psicologica di quanto si sta esperendo. È a partire da questa sospensione temporanea, tale da consentire l’autoimmersione filobatica, che è possibile riproporci alla vita arricchiti di una nuova esperienza. 

La presenza del terapeuta nei casi di depressione patologica può risultare di fondamentale importanza quando teniamo conto che se l’interumano (nelle relazioni oggettuali e nelle relazioni soggettuali) ha determinato il dolorare solo l’interumano può risanarlo. Così allo psicoterapeuta è demandato il difficile compito di riuscire ad aiutare il paziente ad elaborare il significato della perdita e della mancanza in relazione al romanzo personale, e, inoltre, di fargli comprendere la valenza del dolore nei processi di sviluppo psicologico, di cambiamento personale, di individuazione. 

È a partire dall’esperienza di superamento del dolore che è possibile acquistare fiducia nella propria forLa interiore e riaffrontare la vita, e con essa probabilmente nuovo dolore. ma con minore paura di prima. 

Alfredo Anania

* Relazione tenuta nel Convegno Internazionale “Approccio Integrato alle Depressioni ed alle Schizofrenie”. VI Giornate Psichiatriche di Lampedusa. 11-16 Giugno 1995. 

BIBLIOGRAFIA 

P. Blasband, Una cosa Intima, Palermo, 1994. 
A Camus, Il mito di Sisifo, Milano, 1980. 
A Carotenuto, Eros e Pathos. Milano. 1991. 
F. Fomari, Nuovi Orientamenti della psicoanalisi, Milano, 1966. 
S. Freud, Lutto e melanconia, in “Opere”. vol. VIII, Torino, 1976. 
W. Goethe, I dolori del giovane Werther, Milano, 1976. 
H. Hesse, Farfalle, Viterbo, 1991. 
K. Jaspers, Filosofia, Torino, 1978. 
G. Lapassade, L’analisi istituzionale, Milano, 1974. 
F. Nietzsche, Genealogia della morale, Milano, 1984. 
Omero, Odissea, Libro IV, VV. 119-217, Milano,1991. 
R. M. Rilke, Danze macabre, Roma, 1994. 
G. Saviane, Il mare verticale. Roma, 1994. 
J. Tanizachi, Pianto di sirena, Milano, 1989.

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 31-39.

 




Il suicidio autosacrifico 

Nell’ambito dei rapporti interumani la sopravvivenza del singolo e del gruppo viene sentita come frutto della capacità di sviluppare reciproci processi di «amore». O meglio, i processi reciproci di amore consentono lo sviluppo di sentimenti particolarmente rassicuranti che nel loro insieme vengono vissuti come «bene». Queste reciprocità bonifiche si strutturano sulla fantasia inconscia che la vita del soggetto e la vita dell’oggetto sono indispensabili l’uno alla sopravvivenza dell’altro (vita mea vita tua). Tale fantasia rappresenta il derivato dell’esperienza originaria d’amore che accomuna madre e bambino. Allorché l’interumano determina lo sviluppo di ostilità particolarmente intense, insorgono profonde angosce persecutorie in base alle quali la sopravvivenza del soggetto non viene ritenuta possibile senza la distruzione dell’oggetto (mors tua vita mea). 

Nelle personalità fortemente ambivalenti la possibilità di atti suicidari sono elevate. I meccanismi psicodinamici attivi sono di due tipi differenti. Nel primo, il suicidio rappresenta l’epilogo infausto della radicalizzazione di una vicenda relazionale che si è totalmente internalizzata, per via dell’identificazione narcisistica con l’oggetto. e che si conclude con l’autoeliminazione allo scopo di distruggere l’oggetto stesso (mors mea mors tua). Nel secondo tipo, il suicidio avviene in seguito ad una profonda regressione alla fase simbiotica e rappresenta un atto autosacrifico estremo, necessario alla salvazione dell’oggetto che è vissuto come depositario di tutto il bene (mors mea vita tua). In questo caso non si tratta di una distruzione con il sé dell’oggetto persecutorio, né di una condanna a morte del sé in quanto responsabile della distruzione dell’oggetto. Si realizza, invece, un processo «eroico» in base al quale l’annullamento del sé viene sentito come assolutamente necessario alla salvazione dell’oggetto di amore (nel momento in cui viene avvertito in pericolo) e/o necessario al mantenimento del legame simbiotico con esso. Qui all’opposto che nel pasto totemico il soggetto sacrifica la propria vita fantasticando di essere così incorporato dall’oggetto «adorato», e di poter vivere in esso, con esso. 

Sembra interessante, relativamente a quanto sopra affermato, il materiale psicologico offerto da un paziente lievemente borderline dell’età di 45 anni, affetto da uno stato depressivo ingravescente, il quale aveva chiesto un trattamento psicoterapico. Il paziente, parlando di un periodo della sua preadolescenza trascorso spensieratamente in un luogo di villeggiatura, ricordò che a quell’epoca gli si presentò una fantasia che presto gli divenne abituale. 

C’era la guerra, tutti i parenti più stretti e tutte le ragazze verso le quali sino allora aveva nutrito sentimenti amorosi si trovano in uno stesso luogo ed erano in imminente pericolo di vita, ma erano impossibilitati a poter fuggire; nessuno aveva il coraggio di fare qualcosa; ma ecco che egli riusciva, con un atto eroico, a salvare quelle persone, mettendosi così in luce presso tutti i conoscenti. 

Il paziente sottolineava l’importanza di questa attività fantastica la quale gli consentiva di superare temporaneamente i suoi accentuati complessi di inferiorità e di potere così immaginare di essere superiore agli altri. 

Queste produzioni fantastiche nel paziente si interruppero durante gli anni del liceo; fu un periodo particolarmente felice, l’unico nella sua vita. Le fantasie ripresero allorché, conseguita la maturità classica, il paziente dovette allontanarsi dalla famiglia e dai vecchi compagni per trasferirsi in una sede universitaria al fine di continuare gli studi; fu allora che cominciò a sperimentare quello che lui stesso definisce «il sentirsi naufragare in seno alla società». Si ripresentarono le fantasie a contenuto eroico che ricalcavano ancora gli stessi schemi del periodo preadolescenziale, però questa volta comportavano una nuova necessità e, cioè, il sacrificio della propria vita nel salvare la vita degli altri. Mentre da ragazzo le fantasie si limitavano all’eroismo senza un tragico epilogo, ora invece l’atto eroico veniva associato sistematicamente all’autodistruzione. Pur se la scenografia fantastica riproponeva le stesse immagini del passato, ora l’eroe sconosciuto si poteva fare luce solo dando la propria vita in cambio di quella altrui. 

Se ci addentriamo nella psicologia del sacrificio dobbiamo accettare, così come classicamente concepito, che il sacrificio costituisce un’offerta di qualcosa per entrare in comunione con la divinità. Come scrive C. Grottanelli, «il sacrificio sarebbe un atto di comunione, o di separazione, o un dono» ma, come sottolineano Hubert e Mauss, citati da Grottanelli, «probabilmente non c’è sacrificio senza qualche idea di riscatto e qualcosa dell’ordine del contratto»1. Dunque chi sacrifica la propria vita si renderebbe autore di un’offerta estrema, cioè di un’offerta di sé stesso per l’altro, cioè in favore di oggetti fortemente idealizzati e vissuti come onnipotenti. Ma da tale offerta non possiamo disgiungere idee più o meno coscienti di comunione con l’oggetto, di identità, di acquisto, di scambio. 

Roberto Calasso in Le nozze di Cadmo e Armonia2 afferma che le differenze tra dèi e uomini sono soprattutto due. La prima è in rapporto ad Ananke (la necessità); gli dèi la subiscono e la usano, gli uomini la subiscono soltanto. L’altra è in rapporto alla ierogamia: gli dèi possono mescolarsi con gli uomini, assimilare e disassimilare, senza sacrificio, gli uomini, che vivono nell’irreversibile, possono assimilare e disassimilare solo uccidendo. L’espulsione (purificazione) e l’assimilazione (comunione, sia nel senso di assimilare che di essere assimilati) può avvenire solo attraverso l’uccisione. 

Parafrasando Calasso, potremmo sostenere che ciò che era stato l’avvolgimento erotico del corpo e l’attrazione simbiotica della mente corrisponde ora al gesto che realizza l’autosacrificio. Ierogamia ed autosacrificio hanno in comune il perdere sé stessi facendosi invadere o facendosi divorare, nel momento in cui si sovrappongono «e », cioè il sé e l’altro sentito come sé stesso. 

Ma il suicidio autosacrifico, di cui abbiamo cercato il senso attraverso l’interpretazione filogenetica, rimarrebbe abbastanza enigmatico senza un’interpretazione di ordine ontogenetico. Infatti, ciò che sembra un’offerta, quindi una perdita, può configurarsi quale rifiuto della perdita, se consideriamo che il tipo di sacrificio di cui stiamo trattando può rappresentare un inconscio estremo tentativo di conservare o di recuperare quell’unione con la madre che è caratteristica di quel periodo in cui il bambino nel corso del suo primario sviluppo vive con essa una dimensione simbiotica. 

Possiamo considerare simbiotica la primissima modalità di rapporto interumano, fase nella quale il bambino si sente una cosa sola con la madre e non è consapevole che la sua personalità e quella della madre sono distinte e separate. La mancata separazione tra lo Primitivo e non-Io, dunque la comprensione in sé stesso da parte dell’Io Primitivo del mondo esterno o di parte di esso, determina sentimenti di onnipotenza ai quali il bambino nel corso del suo primo sviluppo rinuncia solo in modo parziale e temporaneo in quanto tende a recuperare la propria Onnipotenza partecipando a quella degli adulti, tramite l’identificazione introiettiva. 

Come sostiene O. Fenichel, «incorporando gli oggetti ci si unisce ad essi. L’introiezione orale determina contemporaneamente l’identificazione primaria. Le idee di mangiare un oggetto o di essere mangiati, sono il modo in cui ogni riunione con l’oggetto viene inconsciamente pensata, la comunione magica di diventare la stessa sostanza, sia mangiando il medesimo cibo o mischiando il rispettivo sangue, e la credenza magica che una persona divenga simile all’oggetto mangiato, si basano sull’introiezione orale… l’idea di essere mangiati non è soltanto fonte di paura, in certe circostanze può anche essere fonte di piacere orale. Al desiderio di incorporare gli oggetti, corrisponde quello di essere incorporati da un oggetto più grande. Spesso, gli scopi apparentemente contraddittori di mangiare e di essere mangiati. appaiono condensati l’uno all’altro»3. 

È in base a queste considerazioni psicoanalitiche che alla fine del nostro studio possiamo meglio comprendere come in taluni individui, alcune volte, soprattutto in condizioni di profonda regressione. il suicidio rappresenti un estremo tentativo di mantenere o rinsaldare o riacquistare con l’altro un legame che è avvertito in pericolo; ciò quando l’altro, persona o gruppo, è sentito così terribilmente importante e talmente indispensabile da rendere intollerabile ogni idea di separazione. È in questi casi che nella psiche del suicida lo sciogliere, la separazione definitiva, attuata attraverso il recidere il filo della propria esistenza, corrisponde ad un definitivo riannodare, alla totale fusione con l’oggetto onnipotente di adorazione. 

1. C. Grottanelli, N. F. Parise, Sacrificio e società nel mondo antico, Laterza ed., Bari, 1988, pagg. 9-11. 

2. Adelphi ed., Milano, 1988. 

3. O. Fenichel, Trattato di Psicoanalisi, Astrolabio ed., Roma, 1951, pagg. 77-78. 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 55-58.




Il mondo della colpa: alcuni rilievi psicodinamici

La morte, il dolore, la lotta, la determinazione storica dell’esistenza, nella concezione filosofica di karl Jaspers1 sono considerate «situazioni limite». Situazioni, cioè, inevitabili poiché legate al nostro essere al mondo. L’uomo, di fronte ad esse, rimane impotente, contro di esse urta e naufraga perché non può mutarle né comprenderle profondamente. Tra le situazioni limite Jaspers include anche la «colpa». In ambito psicoanalitico si definisce «sentimento di colpa» quella sofferenza psichica derivante dalla sensazione, più o meno conscia, di aver causato o di poter causare un danno o del male ad oggetti amati. Tali sentimenti stanno alla base delle angosce depressive. 

Gli stati depressivi non costituiscono una prerogativa della specie umana; infatti, osservazioni naturalistiche e ricerche sperimentali hanno permesso di verificare la presenza di comportamenti depressivi o «di disperazione» anche nei giovani mammiferi – nei primati in particolare in rapporto a vicende di separazione, di isolamento o di rottura dei vincoli di attaccamento affettivo. Tali comportamenti, nel mondo animale, avrebbero una funzione biologica adattiva; costituirebbero «segnali» diretti ad avvertire il gruppo, in particolare i genitori o la madre, che uno dei membri più piccoli si trova in pericolo. Dunque gli atteggiamenti depressivi avrebbero la funzione specifica di stimolare nei membri adulti la cura e la protezione degli individui più indifesi. 

Non dissimili appaiono in campo umano le finalità della depressione almeno al suo primo apparire nella vita psichica individuale – quando si tenga conto delle teorie psicoanalitiche attualmente più condivise. Secondo M. Klein è possibile collocare attorno al sesto-ottavo mese di vita l’attivarsi nel lattante di una «posizione depressiva» che è capace di mobilitare nella madre delle risonanze affettive, dei sentimenti di colpa e conseguentemente – secondo la formulazione di F. Fornari – delle necessità di «amore-redenzione» che si traducono in una intensificazione da parte della madre di quelle risposte amorevoli e di quell’empatia che sono indispensabili al bambino per superare la fase depressiva. 

La posizione depressiva è interpretata dalla Klein come il risultato della insorgenza di sentimenti di colpa e di una reversione all’interno dell’aggressività nel lattante, allorché egli, acquisita la capacità di conoscere la madre come un oggetto totale, si rende conto che sta dirigendo contro di essa, nel momento della frustrazione, i propri impulsi ostili e distruttivi. Dunque nel pensiero kleiniano la nascita del super-Io non avverrebbe nella fase edipica ma nel corso del primo anno di vita. 

Lasciando sospeso ogni giudizio circa l’effettiva liceità di attribuire al lattante sentimenti che possono apparire plausibili solo compiendo uno sforzo di estremizzazione analogica con i sentimenti dell’adulto, possiamo tentare di affiancare alle teorie kleiniane altri rilievi psicodinamici i quali possono portare un contributo alla chiarificazione circa lo svilupparsi delle radici del senso di colpa negli umani. Innanzitutto dobbiamo ammettere che la madre possa avere normalmente delle discontinuità nella sua capacità di rispondere sollecitamente o nei modi adeguati a tutti i bisogni dell’infante; pertanto possiamo considerare le frustrazioni come accadimenti normali nella vita di ogni bambino; anzi noi oggi sappiamo che le frustrazioni sono necessarie perché possa svilupparsi no, perché possa avvenire la nascita psicologica. Sotto quest’ottica le posizioni depressive del lattante appaiono risposte fisiolgiche a vicende di allentamento di vincoli di attaccamento affettivo, a carenze di cure, ad assenze della madre-seno nel momento del bisogno. 

Considerato che pulsioni di vita e pulsioni di morte in ogni essere si trovano in equilibrio dinamico tra di loro, siamo costretti ad ammettere che l’assenza della madre-seno, cioè la carenza di apporti libidici dall’esterno, provochi uno spostarsi dell’equilibrio in favore delle tensioni aggressive che appunto – in quanto emergenti in assenza di oggetti gratificanti – non possono che scaricarsi verso l’interno dell’individuo con conseguenti valenze autodistruttive. Dunque, la mancanza di apporti libidici dall’esterno, cioè l’assenza di oggetti dispensatori d’amore corrisponde a qualcosa di cattivo, ad un male, ad un .noxa» che può mobilitare l’emergere di ciò che F. Fornari2 definisce .terrificante interno», quale percezione orlginaria dell’istinto di morte. 

Quanto sinora considerato ci porta a dover ammettere che a livello “proto” esiste una accentuata correlazione tra allentamento dei vincoli di attaccamento affettivo e mobilitarsi di cariche autodistruttive. Ma possiamo, inoltre, ipotizzare che esiste in ciascuna specie un rapporto direttamente proporzionale tra potenziale aggressività, necessità di apporti libidici e prolungamento del periodo di completa dipendenza ai fini della sopravvivenza. Sotto quest’aspetto l’uomo occupa il primo posto in assoluto nella scala evolutiva relativamente a tutte e tre le variabili considerate. 

Ritornando all’oggetto precipuo di questa relazione, è necessario riflettere sulla singolarità della situazione in base alla quale la sopravvivenza del bambino trova il suo principale fondamento nella possibilità di risvegliare, tramite la posizione depressiva, dei sentimenti di colpa nella madre, la quale sarà così sollecitata a mobilitare tutte le sue risorse lenitivo-riparative. 

* * * 

Abbastanza esemplificato appare il caso di una giovane donna, già madre di un bambino di 5 anni, la quale dopo la nascita del secondo figlio, anch’esso maschio, sviluppò un accentuato stato depressivo in seguito alla profonda delusione per non aver avuto la figlia femmina, ardentemente desiderata. Insieme allo stato depressivo la paziente presentava delle alterazioni ideative, in forma ossessiva, rappresentate dal pensiero che il figlio non fosse suo: altre volte, invece, pensava che il figlio non appartenesse al marito, pur non avendo mai avuto rapporti sessuali extraconiugali. Quando la donna iniziò le sedute di psicoterapia il bambino aveva ormai otto mesi e da tempo aveva preso l’abitudine di piangere quando non veniva tenuto in braccio: poi, di notte, riprendeva il pianto ogni qual volta gli sfuggiva il ciucciotto, ma siccome ciò accadeva con una frequenza impressionante, quasi ogni mezz’ora, la madre era costretta a svegliarsi di continuo per riportargli il ciucciotto in bocca. Il fatto più interessante è che la donna inconsciamente aveva in qualche modo contribuito in forma decisiva allo svilupparsi di suddetti atteggiamenti nel bambino, poiché, contrariamente ad ogni aspettativa, aveva preso sin dall’inizio l’abitudine di tenerlo continuamente stretto a sé, come a proteggerlo dalla benché minima sofferenza, come se non potesse tollerare che il bambino piangesse; non rendendosi conto che il proprio modo di comportarsi era collegato ai sentimenti di colpa. 

* * * 

Con il trascorrere dei mesi il bambino, per via della progressiva maturazione neurobiologica e della progressiva psichicizzazione, va acquistando una sempre maggiore coscienza della sua capacità di suscitare delle risposte psico-emotive e comportamentali nella madre; e insieme a questa maggiore consapevolezza anche i primi sentimenti di debito, di riconoscenza, di gratitudine nei confronti di lei.che viene sentita onnipotente in quanto dotata di quelle capacità lenitivo-riparative che per il bambino hanno una importanza vitale. Onnipotenza salvifica che il bambino tende a introitare tramite l’identificazione. 

Una volta acquistata la coscienza di essere co-protagonista di scambi affettivi, nell’ambito della vicenda esperienzale diadica, il bambino svilupperà angoscia, malessere, ogni qual volta non potrà identificarsi con la madre riparativa ed oblativa, dispensatrice di amore e di bene. Questo malessere è ora la conseguenza del percepire se stesso, a causa delle pulsioni ostili o ambivalenti, quale responsabile dell’alienazione da sé di oggetti dispensatori di bene, cioè responsabile del proprio affamamento affettivo, della perdita di quegli oggetti gratificanti la cui presenza appare indispensabile ad evitare l’emergenza, reversiva all’interno, delle pulsioni distruttive. Pertanto, l’impossibilità ad identificarsi con l’oggetto d’amore riparativo, costituirebbe la radice di ogni sentimento di colpa, di ogni «cattiva coscienza». Dunque la coscienza, che appare trarre origine dall’emergenza del «terrificante interno», si svilupperebbe, e si potenzierebbe successivamente, soprattutto quale apparato deputato a mantenere separate, tramite una forzatura interna, l’ostilità dall’amore, la libido dalla mortido. Ogni falla in tale capacità di separazione determinerebbe la «cattiva coscienza», cioè la sensazione che si stia facendo del male all’oggetto d’amore con il quale, in questi frangenti, non è più possibile alcuna identificazione. 

Evidentemente lo svilupparsi di sentimenti di colpa viene rinforzato via via dalla serie di precetti ed atteggiamenti educativi della madre, la quale connota come -bene» quello che da essa è accettato e valorizzato e come «male», come qualcosa di cattivo, tutto ciò che essa rifiuta, non approva. La prima legge, le prime regole di vita, i primi comandamenti sono dettati dalla madre. La madre e, successivamente, i genitori, quale «oggetto combinato», si pongono come universo dettante sia le colpe che le pene. Il mantenersi buono è necessario al bambino per sentirsi sufficientemente amato. La trasgressione così come gli impulsi ostili comportano un malessere, un sentimento di colpa, una «cattiva coscienza», collegabili alla preoccupazione che l’oggetto d’amore non voglia più dare il suo affetto o che lo stesso sia stato danneggiato, svuotato, deprivato dalla capacità di continuare a darne. Così il super-Io, al dì fuori della patologia, piuttosto che in funzione di una distruttività internalizzata, appare al servizio di una funzione salvifica internalizzata, in quanto mobilitando processi propiziatori-riparativi consente la revitalizzazione delle reciprocità bonifiche. 

Il padre, che progressivamente con il trascorrere del tempo occupa un maggiore spazio nel mondo esperienzale del bambino, per certi versi, è sentito come un competitore, un ladro, un sottrattore dell’oggetto d’amore primario, che è la madre; ogni volta, ad esempio, che la porta via con sé oppure ogni volta che emargina il bambino nella sua stanzetta. Pertanto, la figura patema per molti versi sembra prestarsi ad una sorta di «elaborazione paranoica del lutto», cioè ad attribuire ad altri, ad oggetti nemici la causa delle proprie perdite, parziali o totali. Il bambino potrebbe così trovare nel padre, e non più nella propria cattiveria, il responsabile delle proprie frustrazioni primarie, cioè dell’allontanamento affettivo della madre. Ma questo meccanismo difensivo non può avere successo poiché il padre costituendo anch’esso un oggetto d’amore e di identificazione – in quanto anch’esso dispensatore di affetto, di cure e protezione nei confronti del bambino come anche nei confronti della moglie – non può essere investito di ostilità e di inimicizia senza mobilitare ulteriori sentimenti di colpa. Cosicché la «cattiva coscienza», che aveva avuto il suo esordio nella vicenda relazionale diadica con la madre e che avrebbe potuto trovare sollievo attraverso l’esportazione all’esterno della colpa, trova nella vicenda relazionale con il padre nuove occasioni per ripresentarsi. 

Il vissuto di colpa riaffiorerà regolarmente nel corso della vita ogni volta che sentimenti connessi all’odio – quali l’invidia, la gelosia, il desiderio di vendetta, le pulsioni di morte – si rivolgeranno contro oggetti che a causa della convivenza, della necessità, del desiderio o dell’identificazione, si presenteranno come oggetti d’amore. Sotto quest’ottica il sentimento di colpa appare in tutta la sua dimensione di «situazione-limite», indissolubile compagno nel procedere dell’esistenza, fonte di ogni profonda sofferenza morale, ma nello stesso tempo condizione necessaria per l’assunzione di quella responsabilità senza la quale non potrebbe avvenire alcun reinvestimento libidico. Ciò che distingue la normalità dalla patologia, il sentimento di responsabilità dal disturbo affettivo, dalla depressione, è dato dall’assunzione di una colpa che non sia talmente accentuata da paralizzare ogni possibilità riparativa, dunque non tale da tradursi in una forza al servizio delle pulsioni distruttive. 

* * * 

Quanto sinora considerato, pur se può contribuire a focalizzare alcuni aspetti che appaiono di notevole importanza per la comprensione del mondo della colpa, non ci impedisce di rivisitare il problema sotto altre angolature che possono suscitare il nostro interesse. 

Nietzsche in Genealogia della Morale3 afferma che «soltanto quello che non cessa di dolorare resta nella memoria»; il dolore costituisce «il coadiuvante più potente della memoria». Con il senso di colpa è stata introdotta «la più grande e la più sinistra delle malattie», «la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta separazione dal suo passato animale (…) di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali sino allora riposava la sua forza, il suo piacere, la sua terribilità». Questa metamorfosi non è il frutto di un atto di volontà né di uno «sviluppo organico all’interno di nuove condizioni bensì come una frattura, un salto, una costrizione, una inevitabile fatalità»; una enorme perdita di libertà iniziata con la violenza e con la violenza condotta a termine da una piccola minoranza di uomini molto forti «una razza di conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, ancora errabonda». «Questo istinto delle libertà reso latente a viva forza (…), questo istinto della libertà represso, rintuzzato, incarcerato nell’intimo, che non trova infine altro oggetto su cui scaricarsi e disfrenarsi se non su sé stesso: questo, soltanto questo è nel suo cominciamento la ‘cattiva coscienza’-, di questa specie -è il piacere che prova il disinteressato, il negatore di se stesso, l’immolatore di sé: questo piacere rientra nella crudeltà (…), soltanto la cattiva coscienza, soltanto la volontà di svillaneggiare se stessi fornisce il presupposto per il valore del non egoistico-. 

Jaspers con altre parole sottolinea ugualmente la drammaticità della condizione umana quando afferma: «Abbracciando la vita si toglie qualcosa agli altri-, l’esserci con il fatto di dover realizzare delle condizioni che sono indispensabili alla vita stessa esige «lotta e sofferenza altrui»; ciascuno paga con la sofferenza il prezzo del suo agire ma anche di alcuni dei suoi sentimenti più intimi. «Si può tentare di evitare la colpa non entrando nel mondo, non facendo nulla ma anche non agire è una forma di agire, un agire nella forma di omissione che conduce ad una fine più rapida dovuta a quell’inerzia sistematica e assoluta che assomiglia al suicidio (…l, sia razione che la non-azione implicano delle conseguenze, per cui in ogni caso siamo inevitabilmente colpevoli». 

Nietzsche in Nascita della Tragedia4 si chiede: «Il pessimismo è necessariamente un segno di declino, di decadenza, di fallimento di istinti stanchi e indeboliti?», «c’è un pessimismo della forza? Un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza d un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza? C’è forse un soffrire della stessa sovrabbondanza?». E che significato ha poi la «follia dionisiaca?», «quel fenomeno in cui i dolori suscitano piacere, in cui il giubilo strappa al petto voci angosciate. Dal sommo della gioia risuona il grido del terrore o lo struggente lamento di una perdita irreparabile». Perdita irreparabile è quella che vive il melanconico. Ma ci dobbiamo porre il quesito se in fondo ogni riparazione nei confronti dell’oggetto amato non abbia anche una valenza narcisistica nel suo aspetto di riparazione dello stesso sentimento di colpa. Non possiamo rispondere che affermativamente. 

Ma vi è la possibilità di un sentimento di colpa che non può essere riparato neanche con la stessa riparazione? Lo potremmo chiamare un sentimento di colpa maturo, in quanto non sfiorato né inquinato da elementi affettivi (negazioni maniacali o mortificazioni depressive); esso è legato ad una profonda conoscenza dell’umano e della sua imperfezione. Questo sentimento di colpa per così dire maturo, privo di disillusioni, contiene in sé un rischio: di trapassare senza soluzioni di continuo nell’anestesia morale. In questo caso appare difficile stabilire dove finisce una responsabilità integra – non integrale ma integra, cioè libera di elementi affettivi, depressivi o maniacali – e dove comincia un’ anestesia egocentrica. 

Ancora Nietzsche in Nascita della Tragedia si chiede se «il socratismo della morale, la dialettica, la moderazione e la serenità dell’uomo terretico», ciò per cui la tragedia greca morì non fosse «un segno di declino, di stanchezza, di malattia, di istinti che si dissolvono anarchicamente», se la stessa scientificità «è solo una paura e una scappatoia di fronte al pessimismo», «una sottile legittima difesa contro la verità»; infine se ogni dottrina che voglia essere solo morale non esprima anche .un’ostilità alla vita, la rabbiosa vendicativa avversione alla vita stessa: giacché ogni vita riposa sull’illusione, sull’arte, sull’inganno, sulla prospettiva, sulla necessità della prospettiva e dell’errore». 

* * * 

Un uomo sposato, padre di tre figli, aveva allacciato una relazione con una giovane donna con la quale avrebbe voluto convivere, ma tale desiderio era contrastato dall’affetto e dal senso di protezione nei confronti dei figli che non voleva abbandonare. 

Durante le sedute di psicoterapia, quest’uomo esprimeva una profonda sofferenza per il fatto di sentirsi in colpa e volersi votare al sacrificio per il bene dei figli, nello stesso tempo avvertiva qualcosa all’interno che lo faceva ribellare all’idea del sacrificio; altrettanto drammatico per lui era sentirsi, a causa della ribellione, come un essere debole. Era importante dal punto di vista terapeutico che egli potesse prendere coscienza dei suoi sentimenti di responsabilità; ciò gli consentiva di potersi identificare anche con un genitore buono capace di amare e di donarsi ai figli. 

La psicoanalisi ci ha insegnato che molti problemi umani, individuali o collettivi, soprattutto alcuni nostri profondi conflitti, difficilmente possono trovare una vera risoluzione – ciò fa parte della nostra imperfezione -; quel che è importante è prendere piena coscienza delle realtà, a volte contraddittorie, che animano il mondo interiore. Per questo non possiamo non concordare con il più volte citato Jaspers quando sostiene: «Non si tratta (…) di essere innocente, ma di evitare realmente la colpa evitabile, per giungere a quella colpa autentica, profonda ed inevitabile, in cui non è dato trovare pace. La responsabilità diventa allora pathos esistenziale che porta ad assumerci la colpa inevitabile, che altrimenti ci terrorizzerebbe, e che consiste nell’essere noi inconsapevolmente e passivamente irretiti nella miseria della colpa». 

Alfredo Anania

1. K. Jaspers. Filosofia, Torino, UTET. 1978.
2. F. Fornarl. Nuovi orientamenti nella Psicoanalisi, Milano, Feltrinelli, 1966; Ib., Psicanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli. 1970.
3. F. Nietzsche. Genealogia della Morale. MIlano. Adelphi, 1984. 
4. F. Nietzsche, La Nascita della Tragedia, Milano, Adelphi, 1977.

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 45-53.




Esperienze con i gruppi e tossicodipendenze 

La tossicodipendenza offre sempre continui stimoli per una ricerca sui fattori individuali e collettivi che intervengono nel produrre e mantenere il fenomeno. 

Il piccolo gruppo consente spesso l’osservazione di dinamiche e processi – allo stato nascente o terminali, a seconda del tipo di gruppo – collegabili all’intergioco degli assunti di base (attacco-fuga, accoppiamento, dipendenza) così come concepiti da Bion. 

Ogni sottogruppo sociale tende a cristallizzarsi progressivamente su uno specifico assunto di base con sempre minori capacità di trasformare la propria “cultura”, cui ciascun individuo tende ad aderire acriticamente per fortificare i propri sentimenti di appartenenza al gruppo. 

Tendenze alla contrapposizione culturale generazionale insieme a bisogni ludico-trasgressivi (così come ho potuto osservarli conducendo un Gruppo di Formazione Psicologica centrato sul Rapporto Interumano con Tossicodipendenti) possono progressivamente assumere l’aspetto di tragico gioco alla “roulette russa”, con l’eroina al posto della rivoltella, come è emerso attraverso una attività di gruppo con tossicodipendenti. 

Il primo gruppo cui farò riferimento l’ho condotto circa sette anni fa. Si trattava di un gruppo di Formazione centrato sul rapporto interumano con tossicodipendenti da parte di volontari di diversa età; infatti il gruppo era composto da insegnanti e studenti di alcune scuole medie superiori. 

I partecipanti, attraverso il gruppo di formazione, intendevano acquisire degli strumenti psicologici utili all’approccio con allievi o compagni tossicodipendenti ai fini di un eventuale recupero. A livello preconscio era presente nei partecipanti il desiderio di ottenere, attraverso il lavoro di formazione, una sorta di licenza riguardo l’attività di volontariato con tossicodipendenti, altrimenti sentita come eccessivamente trasgressiva, in mancanza di adeguate conoscenze e di strumenti circa l’agire. 

Ritengo che ad un livello ancora più profondo, pertanto del tutto inconsciamente, i partecipanti, sia gli adulti che i giovani, avevano aderito al gruppo per rinforzare le proprie difese psicologiche contro pulsioni tossicomaniche risvegliate, come spesso accade, dalla vicinanza con la droga e con soggetti drogati. Una seduta del gruppo risultò particolarmente illuminante riguardo quest’ultimo aspetto. 

Quella sera nel gruppo si poteva avvertire un certo disagio collettivo, una certa tensione velata. Alcuni giovani, dopo il mio arrivo, erano rimasti a lungo affacciati al balcone, senza mostrare eccessiva voglia di rientrare e prendere posto. 

Iniziata la seduta, la discussione avveniva in modo svogliato e divagante; si parlava di scuola, di esami, della maggiore o minore importanza degli appunti dettati dall’insegnante rispetto ai libri di testo, e così via. Nel complesso regnava un’atmosfera stagnante e confusa, il gruppo era incapace di portare avanti dei discorsi ordinati e di funzionare come gruppo di lavoro. Ciascuno parlava senza convinzione e senza alcuna vera partecipazione affettiva come se in realtà ognuno si rendesse conto che quello che stava dicendo o quello di cui si stava parlando aveva poco o niente a che fare con i propositi coscienti del gruppo. 

Di questo andamento probabilmente il gruppo me ne faceva una colpa, in quanto conduttore, provando un certo risentimento nei miei confronti. 

Inoltre, il gruppo mostrava scarsa capacità di sviluppare immagini rappresentative e fantasie e ciò facilitava l’agire. Mi sentii in dovere di ricordare al gruppo che lo scopo delle riunioni era analizzare il rapporto interpersonale nell’approccio con tossicodipendenti. 

Fu a questo punto che una studentessa di nome Adriana, che potremmo definire la leader dei membri più giovani, “trasse il dado”, cioè si comportò nel modo e nella forma più congeniale quella sera al gruppo. Mi chiese se fumare quaranta spinelli al giorno potesse risultare nocivo alla salute, aggiungendo che si era incontrata con un ragazzo tossicodipendente di sua conoscenza il quale le aveva confidato che dovendo sostenere gli esami di fine anno non vedeva l’ora di poter fumare quaranta spinelli in un solo giorno, un volta liberatosi dagli impegni scolastici. lo cercai di saperne di più sulla relazione interpersonale che si era stabilita tra la studentessa e il ragazzo tossicodipendente, ma nel gruppo si produsse una serie di interventi, ad opera sia dei giovani che degli insegnanti, che sembravano avere lo scopo di sviare l’argomento. Adriana tentava di evadere dall’analisi del suo rapporto col tossicodipendente, sostenuta dal gruppo che tendeva a considerare il “caso” come privo di risvolti interessanti dal punto di vista psicodinamico. 

Potevo cogliere una certa ansietà generale, come se tra i partecipanti vi fosse il timore che emergesse qualcosa di indiscreto. Adriana da me sollecitata ripetutamente si decise a rivelare che era stata spinta dalla curiosità ad avvicinare quel giovane perché era noto come il “più grande fumatore di spinelli della città”. Si era incontrata più volte con lui, e avendogli parlato del nostro gruppo, avevano deciso insieme che lei portasse uno spinello per mostrarlo a tutti i partecipanti. Detto questo, depose su un tavolo un pacchetto che teneva in tasca e apertolo mostrò a tutti uno spinello. Chiesi ad Adriana come mai avesse pensato di fare questo, ma la ragazza invece di rispondere alla mia domanda mi chiese, a sua volta, cosa c’era di male e, mentre il gruppo era ancora intento a stabilire se quaranta spinelli in un giorno potessero essere dannosi, aggiunse che forse io avevo paura dello spinello. 

Potevo cogliere in Adriana un atteggiamento di sfida che a stento era tenuto coperto, e ciò naturalmente le provocava una paura che aveva proiettato su di me. Naturalmente lo spinello in se e per sé non c’entrava per niente, ma Adriana aveva colto in me un certo turbamento che lei aveva interpretato come paura dello spinello, mentre in realtà la mia angoscia era molto più profonda, paragonabile a quella che può provare un medico che debba assistere alla nascita e allo svilupparsi in vivo di un tumore in un proprio paziente. 

Adriana potenzialmente era già una tossicodipendente e in lei quella sera aveva parlato la tossicodipendente. Il gruppo, che coscientemente era stato chiamato ad una insidiosa complicità, a livello inconscio era stato invece investito proiettivamente delle valenze dell’altra parte di lei, la parte che lottava le pulsioni tossicomaniche. Esso poteva aiutarla e sostenerla nel non cedere alla tentazione, al dèmone. La reazione del gruppo al suo “acting-in” doveva offrirle l’indice attraverso cui orientarsi. Una paradossale forma per non giocarsi l’esistenza. 

Il secondo gruppo cui farò riferimento risale a due anni fa. I soggetti che vi facevano parte erano tutti tossicodipendenti cronici. Pur conscio delle difficoltà cui sarei andato incontro, personalmente ero fortemente interessato a verificare la possibilità di svolgere una terapia di gruppo con tossicodipendenti ed, inoltre, quali meccanismi gruppali fossero attivi, quali fantasie, quali assunti di base, quale mentalità di gruppo. I più scettici riguardo alla possibilità che gli altri si presentassero alla prima seduta erano gli stessi tossicodipendenti, ma contrariamente alle loro aspettative tutti gli aderenti vennero regolarmente in occasione della prima riunione. 

All’inizio, attraverso le comunicazioni dei partecipanti, emerse la notevole dose di scetticismo e di diffidenza presente in loro per tutto ciò che aveva a che fare con la droga, con i drogati, con le istituzioni destinate al recupero. Concordavano unanimamente nell’opinione che le comunità terapeutiche avessero il fine di sfruttare i fondi regionali; che gli ex drogati che gestivano le comunità alla prima occasione tornassero a drogarsi. Rimarcavano il fatto che dei tossicodipendenti non c’è mai da fidarsi, che le coppie dei tossicodipendenti devono sempre temere il tradimento da parte del partner e scappatelle-droga all’insaputa dell’altro. Evidentemente ciascuno proiettava all’esterno l’essere diventato falso e bugiardo e la scarsa autostima. Ritengo che nello stesso tempo il gruppo dei tossicodipendenti tendesse metaforicamente a lanciarmi dei segnali come se volesse sottolineare che non mi dovevo fidare di loro. Per altri versi, malgrado le critiche nei confronti delle comunità terapeutiche e delle loro regole di vita, i tossicodipendenti manifestavano il desiderio di rimanere costantemente in contatto con una persona di loro fiducia, uno psicologo che stesse loro a fianco ventiquattr’ore su ventiquattro per guidarli, per proteggerli. Questo mi fece sorgere il pensiero che il gruppo stesse fantasticando che io potessi diventare una sorta di loro angelo custode. 

I partecipanti erano tutti concordi nel ritenere che il metadone non avesse alcuna utilità ed inoltre tutti sostenevano che all’inizio della tossicomania v’è sempre curiosità. Criticavano uno psicologo che si era occupato di loro per le domande che aveva rivolto: “come mai hai cominciato?”, “perché ti sei bucato la prima volta?”, ecc. Ad un certo punto uno dei partecipanti, tra l’approvazione generale, cominciò a decantare in modo seduttivo gli effetti dell’eroina e della cocaina; ciò mi fece pensare che il gruppo stesse fantasticando che io potessi diventare uno di loro; ma una ragazza del gruppo disse qualcosa che mi fece pensare che io venissi considerato come un bambino da preservare. Ma non si trattava di un pensiero affettuoso; bensì di un pensiero sminuente il mio valore personale rispetto alla loro capacità di vivere l’avventura “eroina”. Infatti attraverso le comunicazioni di un altro partecipante potei comprendere che il gruppo mi poteva considerare un bambino da preservare sino a che non c’era la possibilità di spillarmi dei quattrini; in questo caso non ci sarebbe stata alcuna esitazione a farmi entrare nel “giro” dei drogati. Quando interpretai questo al gruppo, dicendo che venivo considerato come un bambino e che la mia promozione ad adulto sarebbe avvenuta solo in conseguenza del guadagnarmi lo “status” soddisfacendo la loro necessità di avere denaro, si verificò un cambiamento nel gruppo e venne fuori la parte più dolorosa della loro esperienza personale e le motivazioni più vere che avevano portato alla tossicomania come ad esempio le crisi personali. 

Un tossicodipendente sposato e padre di un bambino raccontò di una soluzione fisiologica che si era praticato per flebo e in cui aveva aggiunto dell’eroina convinto di poter chiudere la cannula quando avesse voluto, ma che in questo modo aveva rischiato di finire in coma. 

Io dissi che questo mi faceva ricordare la roulette russa, ma l’interpretazione non fece piacere ai miei “tossici” perché riguardava le loro angosce di morte e le loro pulsioni autodistruttive. 

Nel complesso il clima relazionale del gruppo era abbastanza piacevole, non c’era l’atmosfera da laboratorio clinico; uno dei tossicodipendenti aveva cominciato a rivolgersi a me in modo confidenziale dandomi del tu; se non fosse venuto un collaboratore a ricordarci l’ora tarda, la seduta avrebbe potuto proseguire senza fine. Questo può far nascere la considerazione che i tossicodipendenti anche per le sedute di gruppo possono diventare voraci, ingordi, senza limiti; almeno per una volta, dato che in occasione della riunione successiva nessuno dei partecipanti ritornò. 

Alfredo Anania 

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 35-43




Amore e capacità di stare soli 

La nostra mente, tra le sue funzioni, assolve al compito di fare vivere all’individuo un “continuum” esistenziale privo di cesure, di spazi vuoti, di assenze, di mancanza di oggetti e di relazioni con gli oggetti. 

Rappresentazioni, fantasie, processi onirici possono essere considerati anche quali produzioni psichiche che, con il concorso dell’incoscio, contribuiscono a conferire una sensazione di “plenum” all’esistenza individuale. La paura della morte nasce dal timore di dover perdere in modo totale e definitivo la nostra continuità esistenziale. Il senso di solitudine scaturisce dal sentimento di perdita più o meno irreparabile della nostra possibilità di continuare a mantenere una relazione con gli oggetti. 

Diversi autori sono concordi nel sostenere che il primo e più acuto sentimento di perdita e di distruzione, il primo grande vuoto, la prima grande rottura, che possiamo considerare “inscritta nella nostra sensorialità corporea”1 avviene con la nascita, con il nostro primo affacciarci alla vita fuori dal grembo materno. Prima, come afferma M. Sapir, “c’è una specie di armoniosa mescolanza, interpenetrante, diciamo un mix up, un felice impasto per così dire tra l’individuo e il suo mondo ambiente (…) Dopo la nascita si produce una separazione tra l’individuo ed un ambiente fin lì stabile e addirittura non percepito. 

Si verifica una rottura dell’armonia poiché gli oggetti cominciano ad emergere da questo magma, gli uni amici, gli altri ostili. In quel momento tutto è in via di emergenza e ancora non esistono oggetti nel vero e proprio senso del termine, ma solo dei pre-oggetti”2. 

M. Balint ha distinto fondamentalmente due diversi modi di reagire da parte del bambino a questa emergenza di oggetti, o meglio alla protoemergenza 

di pre-oggetti. Un tipo di reazione è quella “ocnofila”, cioè la tendenza all’aggrappamento agli oggetti in quanto sentiti rassicuranti, protettivi, vitali; mentre minacciosa o terrificante sarà sentita l’assenza, lo spazio intermedio. 

Nell’altro tipo di reazione, denominata da Balint “filobatica”, sono sentiti gradevoli soprattutto gli spazi vuoti, perché proprio gli oggetti sono avvertiti come ostili e minacciosi. 

Probabilmente la vita offre un continuo susseguirsi di movimenti ocnofili e di ripiegamenti filobatici, di protensioni verso gli altri e di ritorni entro se stessi – reimmersioni nell’interiorità che, nelle forme più regressive, comportano la scomparsa degli oggetti o la totale confusione con essi, così come per il feto nel grembo materno. 

In altri casi il ritirarsi regressivo dagli oggetti può essere seguito dal tentativo di creare qualcosa di diverso e di migliore; tale stato trasformativo può accompagnarsi a profondo malessere. Ciò ha portato H. F. Ellenberger a coniare il termine di “malattia creativa”. “Questa rara condizione”, afferma Ellenberger, “presenta il quadro di una nevrosi grave, talvolta di una psicosi. Possono esservi oscillazioni nell’intensità dei sintomi, ma il paziente è costantemente ossessionato da un’idea prevalente o all’inseguimento di qualche difficile scopo. Egli vive in assoluto isolamento spirituale e prova il sentimento che nessuno possa aiutarlo, da qui i suoi tentativi di guarirsi da sé. Ma generalmente sentirà che tali tentativi 

intensificano le sue sofferenze. La malattia può durare tre o più anni. La guarigione avviene spontaneamente e rapidamente; è caratterizzata da sentimenti di euforia ed è seguita da una trasformazione della personalità. Esempi di questa malattia si possono ritrovare tra gli sciami· della Siberia o dell’Alaska, tra i mistici di tutte le religioni e tra certi scrittori e filosofi creativi”3. 

Balint ha evidenziato che l’Amore Primario, quello esistente tra il bambino piccolo e la madre, è una vicenda duale che ha la caratteristica di corrispondere ad un sentimento di armonia in presenza dell’altro in cui tutto va da sé, mentre quello che proviene dal mondo esterno, tutto quello che è estraneo alla relazione a due, non viene tollerato. Allo stadio dell’Amore Primario, sottolinea Sapir, “quel che domina è il bisogno di essere amato passivamente, senza compiere alcuno sforzo. Tutto ciò che circonda il soggetto per lui è in sé privo di interesse. 

Tutto ciò che conta è il mantenimento dell’armonia, è la soddisfazione non dei suoi desideri, ma essenzialmente dei suoi bisogni”. E, facendo riferimento all’interessante lavoro di Winnicot sulla capacità del bambino di stare solo, Sapir rileva che .la capacità di un individuo a stare solo è un fenomeno molto elaborato e che dipende da numerosi fattori, però esso ha il proprio fondamento in uno stadio che può essere estremamente arcaico: “Si tratta dell’esperienza di stare solo in quanto lattante o bambino piccolo in presenza della madre. Il fondamento della capacità di stare soli è dunque paradossale trattandosi dell’esperienza di essere soli ma in presenza di un’altra persona” … Questo è un tipo di relazione particolare, la relazione del neonato o del lattante con la madre anche se questa può momentaneamente essere assente e rappresentata solo da un oggetto quale la culla o l’atmosfera generale e l’ambiente. In questo caso avremo una relazione dell’Io che contrasta con una relazione con l’Es, e la prima si descriverà come armoniosa, la seconda come pulsionale e qui ritroviamo, diversamente espressa, l’atmosfera dell’amore primario descritta da Balint.4 

E’ in base a queste considerazioni che possiamo meglio comprendere quello “scarto più o meno vistoso” che F. Fornari segnala tra identità e identificazione; attribuendo la prima all’Io, la seconda (cioè l’identificazione) al Sé. Fornari in “I segni del Sé e il Sé Originario”5 critica W. R Bion quando questi sostiene che “il bambino vivrebbe primitivamente le qualità psichiche del bisogno insoddisfatto”, qualità psichiche che trasformandosi in presenze minacciose interne devono essere evacuate attraverso l’identificazione proiettiva. 

“Questa concezione bioniana dell’origine del pensiero” afferma Fornari, “rende però difficile immaginare la possibilità del crearsi di rappresentazioni buone del seno e anche di rappresentazioni positive del Sé. Se infatti si postula che il pensiero nasce solo passando attraverso l’assente, cioè la frustrazione e quindi attraverso una presenza cattiva, non è mai possibile arrivare al pensiero, perché la presenza cattiva, come trasformazione del seno buono che non c’é più, determina evacuazione. Se invece c’è soddisfazione, l’oggetto gratificante non può essere pensato perché la rappresentazione nasce nei riguardi di qualcosa che deve essere presentificata perché è assente”, “bisogna quindi postulare che, perché nasca il pensiero nell’apparato per pensare, è necessario che ci siano elementi digeribili, ma questo a sua volta può essere garantito solo dal presupposto che il pensiero non nasca primariamente sotto forma di elementi beta, bensì da una disposizione filogenetica primaria a produrre oniricamente rappresentazioni di presenze buone al momento della gratificazione. A loro volta però le presenze buone, per essere rappresentate, comportano il loro non essere più presenti. Ne concludiamo quindi che la nascita delle rappresentazioni del Sé comportano il primato di una esperienza realmente buona e nello stesso tempo un suo non esserci più”. Ma perché il bambino realizzi il “recupero nel bene attuale di ciò che é stato un bene nel passato” è necessario che intervenga quello che Bion chiama “reverie materna”, quale “fonte psicologica che provvede al bisogno di amore e di comprensione del bambino”. 

In conclusione la “nascita del pensare”, come sostiene Fornari, “dipende essenzialmente da un evento affettivo positivo in quanto presuppone che un altro assuma la funzione enzimatica che permette di trasformare le esperienze cattive in presenze buone, trasformando la frustrazione in soddisfazione”, pertanto, “la capacità di tollerare la frustrazione comporta un pensiero onirico della madre, che a sua volta potrà essere incorporato dall’apparato mentale del bambino, proprio perché si inserisce in una fede primaria del bambino che il bene esiste in base ad una esperienza presente e passata”. 

“Se durante l’allattamento”, scrive Bion6 “la madre non può permettersi la reverie – o se può permettersela senza però associarla all’amore per il bambino o per suo padre – questa incapacità, quantunque per lui incomprensibile, verrà comunicata al bambino e una certa qualità psichica sarà convogliata nei canali della comunicazione, cioè nei legami tra madre e figlio”. Legami primari che probabilmente possono condizionare tutte le successive relazioni d’oggetto. “Se il bambino è munito di una notevole capacità di tollerare la frustrazione – continua Bion – la tragica evenienza di una madre incapace di reverie, incapace cioé di soddisfare i suoi bisogni psichici, può essere fronteggiata ugualmente. All’altro estremo troviamo il caso del bambino gravemente incapace di sopportare la frustrazione: costui non è in grado di superare neppure l’esperienza di avere una identificazione proiettiva con la madre capace di reverie senza conseguirne un crollo; l’unica cosa che lo farebbe sopravvivere sarebbe un seno che nutre incessantemente, il che non è possibile, non foss’altro perché l’appetito viene a mancare”. 

La capacità di stare soli, così come la capacità di amare appaiono dunque come la conseguenza di una capacità da parte della madre di sviluppare pensieri onirici contenitivi il figlio, il quale a sua volta potrà identificarsi con la madre buona e quindi acquisire la capacità di trasformare quelli che Bion definisce elementi beta (indigeribili) in pensieri alfa (onirici) e, pertanto, possedere a sua volta la capacità di contenere oniricamente l’oggetto d’amore così come la capacità di autocontenersi. 

La dinamica della vita psichica, dal punto di vista affettivo, si propone come un susseguirsi di perdite e di ritrovamenti i cui estremi sono rappresentati dalla melanconia e dall’amore. Nell’innamoramento la sensazione è di riunificazione totale con l’oggetto amato, di ricostituzione dell’unità originaria, di ritorno all’ “Eden Ancestrale” in. cui tutte le parti coesistevano; e, pertanto, avviene una perdita di individualità che è alla base di ogni collegamento simbolico tra amore e morte. Ma in questo caso, così come nei miti degli eroi e nei riti religiosi iniziatici, la morte riguarda la vecchia personalità che fa posto alla nuova, rinvigorita dall’emergere di nuove energie vitali prima racchiuse’ nell’inconscio. 

La psicologia analitica propone l’innamoramento come un sentimento che non corrisponde solamente ad una riattivazione di esperienze primarie individuali ma anche ad una riattivazione dell’archetipo madre-anima che può condurre ad un risanatore arricchimento della personalità. La favola di Amore e Psiche nelle Metamorfosi di Apuleio può essere interpretata come la descrizione di un cammino iniziatico dell’anima, che attraverso l’Eros può progressivamente arricchirsi spiritualmente. 

M. L. Von Franz, nel suo studio sull’Asino d’Oro, fa osservare: .Nei misteri eleusini si assiste alla nascita di un bambino divino, che a volte veniva chiamato Eros. L’idea archetipica centrale indica che la madre terra divina genera un bambino divino che è nel contempo un salvatore e un dio della fertilità. Al “bambino divino” Ovidio dà il nome di Puer Aetemus, gli conferisce cioè il più alto valore interiore, quello del ‘nuovo Dio nascente’,. 

Troviamo, scrive la Von Franz “il dio Eros su monumenti funebri greci e romani, come spirito protettore del defunto o come suo spirito. Spesso in queste raffigurazioni funebri egli regge in mano una fiaccola capovolta simbolo della morte, a volte anche . . .. stringe per le ali una farfalla che sadicamente brucia con la sua fiaccola. Il simbolo significa che Eros, dio dell’Amore, è nello stesso tempo il tormentatore e il purificatore dell’anima umana. Infatti l’amore con le sue passioni e i suoi tormenti favorisce lo sviluppo psichico verso l’individuazione; non esiste infatti nessun reale processo di individuazione senza l’esperienza dell’amore. Detto in altri termini, Eros stringe dolorosamente al petto la farfalla come simbolo dell’anima, che mentre viene martoriata dal dio dell’Amore si purifica e migliora. Su una gemma meravigliosa la dea Psiche è legata dal dio con le mani dietro la schiena ad una colonna sormontata da una sfera. Questa immagine esprime in modo pregnante la situazione di partenza del processo di individuazione; Eros lega Psiche ad una colonna che è sormontata da una sfera, simbolo della totalità che può essere raggiunta solo con la sofferenza. A volte si vuole fuggire una persona alla quale si è legati, per liberarsi dalla dipendenza, ma Eros attraverso questo legame ci costringe a prendere coscienza. L’amore ci spinge a osare tutto e perciò ci guida verso noi stessi. Perciò uno dei molti attributi di Eros nell’antichità era “purificatore dell’anima”. “Eros nel caso positivo”, scrive ancora la Von Franz, “configurerebbe l’aspetto creativo e la forza vitale, oltre che la capacità di provare emozioni e di percepire il senso della vita, di abbandonarsi all’altro sesso e di instaurare relazioni corrette, di riuscire ad elevarsi al di sopra dell’ottusa meschinità della vita, di provare sentimenti religiosi, di trovare la propria concezione del mondo, di guidare altre persone e di aiutarle. Coloro che incontrano un essere in cui l’Eros è vivo percepiranno il misterioso nucleo interiore nascosto dietro il modesto lo umano, poiché costui possiede forza creativa e vitalità”7. 

Pur affascinandoci, la storia di Psiche, così come la storia di Lucio – il protagonista maschile dell’Asino d’Oro – desta delle legittime perplessità. Infatti, entrambi i personaggi, così come in ogni iniziazione religiosa o misterica, non appaiono subire alcuna vera e profonda trasformazione della personalità, perlomeno per quanto riguarda l’assunto di base che sembra in essi prevalere che è quello della dipendenza. 

Sia Psiche che Lucio sembrano inseguire un oggetto idealizzato cui legarsi indissolubilmente. Non appare risolto il problema di fondo rappresentato dall’attesa di soddisfazioni narcisistiche attraverso la riunione simbolica con l’oggetto ideale ed onnipotente. Questa riunione avviene attraverso Eros e sviluppa Eros, ma non produce alcuna capacità di amore, di investimento libidico, privo di più o meno coscienti contraccambi narcisistici. Inoltre, Psiche e Lucio si arricchiscono di Eros ma non procedono oltre nella capacità di stare soli. La loro spiritualizzazione, che nel pensiero psicoanalitico iunghiano rappresenta uno scioglimento dei legami con la madre-terrena, si risolve in vantaggio di nuovi legami con esseri celesti o se si preferisce con la madre-divina; non a caso dall’unione tra Eros e Psiche nasce Voluttà. 

Alla luce di queste considerazioni l’appellativo di Puer Aeternus, attribuito da Ovidio ad Amore, può avere un collegamento con il fatto che Eros riproduce eternamente, quale coazione a ripetere, un tipo di legame che possiamo definire “filiale”, nel senso che l’amore per l’amante come l’amore mistico per la divinità si caratterizzano per la sensazione di ritrovamento dell’amore primario – quello che lega il bambino piccolo alla madre – che si fonda sulla soddisfazione di bisogni regressivi di nutrizione e di contenimento senza limiti. Questo tipo di amore potremmo chiamarlo “dionisiaco” perché è legato all’impetuosa ebrezza di riunificazione con l’oggetto d’amore e con la natura – prima sentita “estraneata, ostile o soggiogata”8 – e si accompagna ad un sentimento di espoliazione della propria individualità. 

Effetti del tutto opposti sembrano ottenibili tramite tragitti iniziatici che possiamo considerare primitivi, quali le iniziazioni sciamaniche o stregoniche, diretti a sviluppare una autentica capacità di stare soli e forme di amore prive di contraccambi narcisistici. 

Gli individui che approdano a queste forme di iniziazione sviluppano una dimensione personologica, per così dire “apollinea”, considerato che Apollo nella mitologia non solo rappresenta l’espressione più sublime della individuazione, ma anche la ambiguità più greve; Apollo l’Obliquo, che “coglie la visione attraverso il 1Jiù diretto dei confidenti, l’occhiata che conosce ogni cosa”9 è anche colui che non dice, né nasconde, ma accenna solamente. 

 

Don Juan, lo stregone istruttore dell’iniziando uomo civile nell’Isola del Tonal di Carlos Castaneda10 definisce “guerriero” colui che ha terminato il suo iter formativo: “guerrie~o” è colui che, imponendosi una determinata autodisciplina, si rende “senza macchia”, cioè “impeccabile”. La fiducia in sé del guerriero, afferma Don Juan nell’opera citata: “non è la fiducia in sé dell’uomo comune. L’uomo comune cerca la certezza negli occhi di chi ha di fronte, e chiama questo fiducia in sé. Il guerriero cerca di essere senza macchia ai propri occhi e chiama questo umiltà (. ..) La fiducia in sé implica sempre qualcosa per certo: l’umiltà implica d’essere senza macchia nelle proprie azioni e nel proprio sentire”. L’acquisizione di questo tipo di “umiltà” è il risultato di un processo di apprendistato molto lungo che conduce l’iniziato ad una posizione particolarmente solitaria rispetto al resto degli uomini ed anche rispetto ai compagni, agli altri iniziati. 

Per comprendere che tipo di amore, cioè quali forme di relazioni “buone”, possa stabilire un uomo che, in virtù di un training esoterico, venga a trovarsi in una dimensione di individualismo esclusivo e di asocialità essenziale possiamo fare riferimento al tipo di rapporto che lo stregone stabilisce con il suo allievo. La prima caratteristica è l’accompagnamento. Lo stregone non è un maestro nel senso classico del termine e neanche un conduttore, ma è un assistente partecipante all’esperienza psicologica ed emotiva dell’allievo ora attuandola ma anche neutralizzandola, nel momento in cui l’allievo mostra di non tollerare la terribilità dei fenomeni con cui viene in contatto. La seconda caratteristica è la discontinuità. Lo stregone, come se dotato di reverie, si rende presente o si assenta, interviene o si astiene, in relazione ai reali bisogni dell’apprendista. La terza caratteristica è il profondo rispetto dell’altro. “L’umiltà del guerriero”, afferma Don Juan, “non è l’umiltà del mendicante. Il guerriero non abbassa la testa dinanzi a nessuno, ma nello stesso tempo non permette a nessuno di abbassare la testa dinanzi a lui. Il mendicante invece si butta in ginocchio e si umilia davanti a chiunque giudichi superiore, ma nello stesso tempo pretende che chiunque gli sia inferiore si umili davanti a lui”. 

La capacità di stare solo dell’iniziato non esclude i sentimenti penosi e gli affanni ma, a differenza dell’uomo comune, egli evita di indulgervi, pertanto è privo di tristezza. “Un guerriero”, insegna Don Juan, “è sempre pieno di gioia perché il suo amore è inalterabile . . . . .la tristezza è solo di quelli che odiano proprio ciò che dà riparo ai loro esseri”. 

Il metodo di addestramento psicoanalitico ha una parentela, pur se lontana, con le pratiche di iniziazione – soprattutto quelle in uso nelle scuole filosofiche dell’antichità greco-romana. 

Gli adepti di queste scuole dovevano informare il loro stile di vita alle regole ed agli insegnamenti del fondatore, dovevano imporsi delle restrizioni e dovevano seguire un determinato addestramento: inoltre dovevano trovare un mentore, in genere un anziano saggio che aiutasse a superare i difetti personali e a raggiungere un migliore dominio sulle passioni più accese. 

Con il training psicoanalitico viene introdotto un elemento inedito rispetto al passato: l’esplorazione profonda del mondo intrapsichico dell’allievo, il che conferisce alla relazione iniziatore-iniziando le caratteristiche di un legame molto intenso, legame che è esso stesso oggetto di analisi. 

La risoluzione della relazione analitica può avere le caratteristiche di un evento catastrofico, di una rottura che può evocare il primo grande vuoto, quello che si produce al momento della nascita. L’analisi produce spesso una sorta di malattia creativa: alcune volte, probabilmente, è la fine dell’analisi che comporta nell’analizzato un vissuto di solitudine che appare anch’esso necessario al definirsi di alcuni importanti mutamenti interiori delle personalità, attivati dal training. Ancora una volta possiamo osservare un collegamento tra Amore (o transfert libidico) e morte psicologica. 

Probabilmente uno degli aspetti più interessanti è che l’analisi comporta un abbandono del riserbo e una messa a nudo del Sé e nello stesso tempo una osservazione trasversale della stessa vicenda analitica che, integrando la dimensione “dionisiaca” e la dimensione “apollinea”, consentono lo sviluppo di una capacità di percezione “binoculare”, per cui l’Eros liberato e vissuto può essere contemporaneamente contenuto oniricamente e razionalmente interpretato. Ciò consente da parte dell’analista di sciogliere mentre annoda, cioè di preparare seduta per seduta la risoluzione della relazione con l’allievo nel momento stesso in cui viene istituita e sviluppata. 

Appare evidente che con la perdita dell’analista, alla fine del tragitto duale, muore la parte “filiale” dell’analizzato ma nasce una personalità che, tramite l’identificazione con l’analista, sarà dotata della capacità di stare sola (ma in presenza dell’analista introiettato). 

“Un guerriero si considera già morto”, afferma il più volte citato Don Juan, “per cui non ha nulla da perdere. Il peggio gli è già accaduto, quindi egli è lucido e calmo . . .”, e più avanti, “noi siamo soli . . .. ma morire soli non significa morire di solitudine”11.

Alfredo Anania

1. A Giannotti, G. De Astis, Trauma della nascita e Patologia del Sé, in “Atti del Congresso La nascita Psicologica e le sue Premesse Bilogiche”. IES Mercusy Ed., Roma, 1984 pag. 223. 
2. M. Sapir, La formazione psicologica del Medico, Etas Libri Ed., Milano, 1975, pag. 77. 
3. H. F. Ellenberg, La scoperta dell’Inconscio, Boringhieri Ed., Torino, 1972, pag. 1034. 
4. M. Sapir, op. cit., pagg. 79-80. 
5. F. Fornari, I segni del Sé e il Originario, in “Atti del Congresso La nascita psicologica e le sue premesse biologiche”; IES Mercury Ed., Roma, 1984, pagg. 246-248.
6. W.R Bion, Apprendere dall’esperienza, Armando Ed., Roma, 1972, pagg. 73-75. 
7. M-L. Von Franz, L’Asino d’Oro, Boringhieri Ed., Torino, 1985, pagg. 74-77. 
8. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi Ed., Milano, 1986, pag. 25. 
9. G. Colli, La nascita della Filosofìa, Ade1phi Ed., Milano, 1978, pagg. 9-16. 
10. C. Castenada, L’isola del Tonal, Rizzoli Ed., Milano, 1975, pagg. 25-47. 
11. Ivi, pagg. 285-289.
 
 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 57-66.




La colonia inglese di Marsala. Annotazioni bibliografiche

l. I Viaggiatori stranieri. – L’attenzione degli studiosi sulla presenza e sulle attività dei commercianti imprenditori inglesi in Sicilia tra Sette e Ottocento è considerevolmente cresciuta da quando Raleigh Trevelyan, sollecitato dall’ultima rappresentante di una delle più prestigiose dinastie di quei mercanti anglo-siciliani che avevano fatto fortuna nell’Isola, col noto saggio “Principi sotto il vulcano”1, ha richiamato l’attenzione, anche di un vasto pubblico, su questo aspetto fino allora assai trascurato della storia di Sicilia. 

È noto che nell’ambito della più vasta presenza britannica in Sicilia, una comunità inglese, forse complessivamente trascurabile per consistenza numerica ma certamente non per il volume degli affari trattati, si stabilì assai precocemente anche a Marsala. Ma essa finora non ha trovato tra gli studiosi quella attenzione che indubbiamente meriterebbe e soltanto qua e là nelle opere di carattere generale sulla storia economica della Sicilia è possibile rintracciare delle informazioni sulla colonia inglese di Marsala. 

In tale mancanza di una specifica bibliografia assume valore di fonte storica di primaria importanza la memorialistica dei numerosi viaggiatori stranieri, soprattutto inglesi, che sulla scia del Brydone2, vennero in Sicilia attirati ‘dal fascino dell’antichità classica e dal gusto dell’avventura. 

È evidente però che Marsala, posta in una posizione geografica periferica e scarsa di vistose vestigia di antichità, come quelle che potevano vantare altri centri isolani, più che una meta ricercata risultava una tappa di passaggio nella quale i “turisti” sostavano poche ore. Dopo aver appreso con stupore l’esistenza di connazionali che qui avevano fatto fortuna o annotato con un sentimento a metà tra l’orgoglio e il disappunto che la Chiesa Madre era dedicata ad un vescovo cattolico inglese3, che qualcuno definisce addirittura ribelle4, scendevano nella cosiddetta grotta della Sibilla5 o visitavano l’oscillante campanile del Convento dei Carmelitani6, quindi si recavano in uno degli stabilimenti inglesi, solitamente quello di Woodhouse7, per gustare un bicchiere di buon vino e ripartivano per altri luoghi artisticamente più interessanti o più pittoreschi. Di conseguenza solo pochi viaggiatori, andando al di là del pittoresco o della mera annotazione archeologica, hanno saputo lasciarci delle informazioni sulla realtà economica e sociale della città in generale e sulla colonia inglese in particolare. 

Tra questi ultimi va ricordato L. Simond, che, passando da Marsala nel 1818, non ebbe modo di visitare alcuno stabilimento vinicolo ma annotò la “curiosa circostanza”8 che il famoso vino Marsala fosse preparato da alcuni inglesi, i signori Woodhouse. Questa circostanza lo confermò nella sua analisi sui mali della Sicilia che il Simond individuò nella mancanza di libertà economica: 

[La Sicilia] sarebbe tuttora in grado di nutrire una popolazione cinque volte maggiore, se tal popolazione fosse lasciata in pace e se le sue industrie non fossero soffocate da assurdi regolamenti, dal momento che le sue innate capacità sono ben superiori alla cattiva amministrazione(9)

Richard Church, comandante generale delle truppe borboniche in Sicilia, in fuga da Palermo in rivolta nel 1820 giunse a Marsala dove fu accolto ospitalmente da John Woodhouse, il quale 

diede ordine che si preparassero vino, cibo e munizioni per rifornire l’imbarcazione, li portò a casa sua per cenare con loro, assicurandoli che non dovevano temere né per sé né per lui, e ciò perché in primo luogo la gente di Marsala gli doveva troppo per volergli arrecare offesa, e in secondo luogo egli disponeva di un numero sufficiente di operai per difendere la propria casa anche contro l’intera popolazione10. 

Troviamo qui enunciato per la prima volta e in maniera esplicita l’atteggiamento che sarà tipico degli inglesi nei confronti della comunità marsalese: da un lato c’è fiducia nella popolazione locale nella convinzione che i benefici ad essa arrecati dovrebbero renderla riconoscente, dall’altra c’è il timore di una rivolta improvvisa e di saccheggi. 
Uno sforzo maggiore di comprensione della realtà locale troviamo nel tedesco Justus Tommasini11, pseudonimo di un tal H. Westphal, che visitò la città nel maggio 1822 e che ci ha lasciato un’interessante ma non molto nota testimonianza su John Woodhouse e più in generale sull’economia siciliana di quegli anni: 

Ieri sera dal nostro padrone di casa [Woodhouse) è venuto ancora un altro ospite che sembrava conoscerlo molto bene, era un maltese che… faceva frequenti viaggi in Sicilia dove era molto conosciuto. Molto presto si awiò un discorso… e ti comunico per esteso ciò che disse. “I Siciliani sono un popolo molto inattivo, senza alcuna industriosità ed essi volentieri vorrebbero che cadesse nelle loro bocche la manna dal cielo così come accadde agli Ebrei in modo tale da non aver bisogno né di seminare né di arare. “Siamo ridotti all’estremo della miseria!” questa è la loro eterna canzone e le pallide ed affamate figure, avvolte in pochi e miseri stracci che contrastano enormemente colla natura esuberante rendono veritiera questa affermazione. Se si cerca però la causa di una tale miseria, la si troverà quasi certamente nella poltroniera del popolo. Certamente, chi vede correre avanti ed indietro questa gente ai mercati e sulle strade e soprattutto la sente infuriarsi, gridare, potrebbe pensare che non esiste gente più attiva dei Siciliani. Chi ha visto le grandi città come Palermo, Messina e Catania non vorrebbe neanche credere che la miseria del popolo sia così grande com’è in realtà, perché lì la classe meno abbiente trova tuttavia sempre la possibilità di guadagnare qualcosa per il sostentamento giornaliero. Ma se si va nelle piccole città, soprattutto nelle città interne dove non c’è alcun traffico si nota che nonc’è la possibilità di guadagno correndo qua e là, ma bisogna occuparsi di un certo lavoro per alcune ore del giorno e ciò è per loro faticoso e penoso. Così ci si convince che i Siciliani preferiscono vivere nella più grande miseria e privazione anziché avere una vita comoda per mezzo di una attività ordinata ed intensa. Certamente il governo ha la sua colpa e contribuisce con un sistema finanziario non adeguato e pesanti tasse alla miseria generale, ma la causa vera della miseria sta nel popolo stesso. (…) Il contadino che vive nella piccola città (i villaggi si trovano soltanto nella regione dell’Etna) spesso molte miglia distante dal suo campo, ogni settimana va fuori per due o tre giorni per coltivarlo e curarlo e la notte resta in una piccola capanna sul campo stesso e quindi per i giorni che rimangono resta in città e si dedica al suo far nulla. Come può prosperare l’agricoltura con un sistema di lavoro di questo tipo? Non mi si contraddica col dire che la gente sarebbe più attiva se ci fosse più traffico e potesse sperare in un mercato più sicuro per i suoi prodotti: ma il traffico si potrebbe trovare soltanto se prima ci fosse l’attività interna e se i Siciliani avessero prodotti da ofIrire … Il modo in cui il nostro padrone di casa [Woodhouse] è giunto alla sua ricchezza, fornisce un bell’esempio di cosa si può conquistare in questo paese con una attività vivace; ve lo voglio raccontare poiché per il momento non è presente.Circa venti anni fa egli arriva a Malta come povero bottaio, ma ha conoscenze riguardanti la coltivazione delle vigne, così prosegue per la Sicilia, perché ha sentito dire che qui c’è una grande quantità di buoni vini che nessuno sa come trattare. Si stabilisce a Marsala, apre un piccolo negozio senza tanti soldi e poi lo amplia a poco a poco, in quanto la sua attività gli consente un certo profitto. Ora è un uomo che possiede molto più di un milione di piastre spagnole, ha vigneti qui ed a Malta e possiede mille botti enormi piene fino all’orlo. (…) Quest’ultimo non ha avuto né aiuto né incoraggiamento da parte dello Stato, anzi ha dovuto pagare tasse molto alte, dimostrando di essere più attivo dei Siciliani i quali mettono le mani in tasca e si lamentano. Però Mr. Woodhouse non è l’unico straniero che si è arricchito in questo paese, a Palermo a Messina ed a Siracusa, si possono trovare parecchi stranieri che si sono arricchiti”12 

Tra i viaggiatori inglesi del primo Ottocento va ricordato ancora Richard Grenville, Duca di Buckingham13, venuto a Marsala nel giugno 1828, cui dobbiamo alcune utili informazioni sulla produzione e sul commercio del vino: 

Il Signor Barlow, un socio della ditta vinicola Woodhouse e C.. venne da me con campioni del loro vino. Adesso qui vi sono non meno di tre stabilimenti di commercianti inglesi di vino. Woodhouse esporta annualmente in media sulle 3.000 pipe. Vendono una grande quantità in America, così come in Inghilterra. Essi pongono molta attenzione alla crescita dell’uva, alla loro coltivazione e alla vinificazione. Possiedono grandi vigneti. ma oltre a questi sopraintendono alla coltivazione di una quantità di viti appartenenti a piccoli proprietari, di cui acquistano i raccolti e a cui anticipano i capitali per la coltivazione. Il vino è buono di per sé, ma, a mio giudizio, è molto danneggiato dalla quantità di brandy che vi aggiungono per i mercati americano e britannico. Per questa ragione vendono molto poco ai nativi o agli italiani, ma ne spediscono molto a Malta e alle navi inglesi nel Mediterraneo. La ditta Woodhouse e C. impiega regolarmente, per tutto l’anno, novantasette persone nel suo stabilimento, oltre agli addetti alla vendemmia e alla regolare coltivazione dell’uva. I siciliani stanno cominciando a diventare gelosi degli stabilimenti e perciò lamentano che i loro soldi vadano nelle mani degli stranieri. Essi non hanno ancora l’acume di capire che il capitale degli stranieri crea capitale in casa loro, e questa è la vera origine della prosperità di una nazione14 

Non sono molto interessanti le informazioni che ci forniscono altri viaggiatori come J. F. d’OsteIVald15, Girolamo Orti16, il Marchese d’Orrnonde17, Giovanna Power18 o J. Galt19 i quali si limitano a ripetere le medesime notizie, per lo più apprese dagli occasionali accompagnatori locali. Un discorso a parte merita George Dennis autore di un Handbook far travellers in Sicily, manuale prezioso per la ricchezza e la precisione delle notizie che contiene20. Il Dennis, che fu anche console inglese a Palermo, aveva una buona conoscenza della realtà isolana e si intendeva di agricoltura ed economia. oltre che di arte e di storia antica e moderna. 

Gli stabilimenti vinicoli di Marsala, – egli scrive – che sono fuori città, sono di grandi dimensioni, essendo dei larghi recinti quadrangolari di alte mura. con torri agli angoli e fiancheggianti le porte di ingresso, così costruite in modo da offrire difesa dai tumulti popolari; e possono essere presi per una serie di fortilizi isolati lungo la riva del mare. La maggior parte di essi sono di proprietà di Inglesi. Quelli dei signori Gill e Corlett e del signor Lipari sono a Nord della città; quelli a Sud sono i più grossi ed appartengono a parecchie ditte Wood, Woodhouse, Florio ed Ingham. Il primo stabilimento è stato quello del signor John Woodhouse, il quale risale al 1789. Per opera sua il vino marsala è stato introdotto, nel 1802, nella flotta inglese nel Mediterraneo e per cortesia di Lord Nelson ricevette l’appellativo di “Bronte-Madeira”, sotto il quale nome è stato in seguito importato in Inghilterra, dove, pur non essendo tenuto in così alta considerazione come lo sheny, attualmente raggiunge un prezzo quasi altrettanto alto. L’ammontare annuo del vino prodotto in Marsala e nel suo territorio, prima che l’oidio degli scorsi anni diminuisse il raccolto, era di circa 30.000 pipe, dei quali 20.000 venivano esportati: 8.000 circa di vino superiore in Inghilterra, Francia e Stati Uniti, e la differenza di inferiore qualità a Malta ed in Italia. La vite è coltivata nei declivi delle colline dei dintorni ed è generalmente di uva bianca, con qualche aggiunta di nera, la quale è ritenuta essere un conservante dell’aroma. Il viaggiatore non dovrebbe mancare di visitare l’uno o l’altro di questo baglio. Quelli di Ingham, Woodhouse e Florio sono i più grossi, ed impiegano circa 100 uomini ciascuno. Egli otterrà il permesso d’entrare mandando il suo biglietto da visita e sarà ricevuto con grande cortesia e attenzione. Ciascun baglio è in sé una piccola città. Ogni cosa è fatta all’interno delle mura, salvo il vino. Questo è acquistato dai coltivatori da un capo all’altro della campagna e ammassato qui per la esportazione. La grande estensione dei locali, le grandi dimensioni delle volte, qualcosa come 150 yarde in lunghezza, e molte migliaia di pipes sistemati in file e file e piani sopra piani, non possono non suscitare meraviglia; mentre l’attività degli operai, dei bottai e dei distillatori, l’impiego del vapore, la divisione del lavoro, l’ordine e la regolarità osservabili dappertutto, sono lusinghevoli per i visitatori, tali da offrire uno straordinario spettacolo di britannica industriosità in una terra indolente. Il baglio di Woodhouse contiene una cappella ed un cimitero per gli inglesi che muoiono a Marsala, nel quale vi è la tomba del vecchio John Woodhouse. il fondatore della colonia21. 

Quest’aspetto turrito, da avamposto isolato in territorio nemico che aveva impressionato il Dennis, si poteva cogliere ancora alla fine dell’Ottocento quando a Ronny Gower il baglio sembrò “più simile a una fortezza o a un carcere che a uno stabilimento vinicolo”22. Agli inizi di questo secolo D. Sladen dedicava oltre due capitoli di un volumetto intitolato Segesta, Selinunte and the West of Sicily alla colonia britannica di Marsala e all’attività degli stabilimenti enologici inglesi23. Il resoconto dello Sladen, assai interessante per la gran massa di informazioni che ci fornisce. meriterebbe di essere tradotto e ristampato. L’autore comincia col mettere in risalto l’influenza positiva che la secolare presenza inglese a Marsala ha avuto sui costumi locali: 

Non c’è niente di più insopportabile che arrivare in una stazione siciliana, dove gli impiegati possono metterci un’ora per portare i tuoi bagagli dal bagagliaio alla strada, mentre stai difendendo il tuo bagaglio a mano da tutti i banditi del posto. Ma abbiamo trovato Marsala una gradevole eccezione. Il posto è stato battuto dagli inglesi per tanta parte del secolo che è diventato proprio efficiente24. 

Un altro effetto della presenza inglese l’autore la vede nel tenore di vita della popolazione, che risulta notevolmente diverso e superiore rispetto a quello degli altri isolani, e nell’assenza del brigantaggio: 

Sparse qua e là c’erano piccole villette bianche o rosse appartenenti ai facoltosi commercianti di Marsala, tutte con alti vasi sui loro tetti piatti e alcune con alte palme all’angolo del giardino. Marsala e Trapani sono così progredite che la gente può vivere fuori città senza paura dei briganti. In Sicilia il brigantaggio è in rapporto inverso ai salari25 

Non meno ricca e interessante è la parte del libro in cui sono descritti i sistemi di conduzione aziendale della ditta Ingham Whitaker. Gli imprenditori inglesi, nota lo Sladen, non coltivano il vigneto che in quantità assai limitata di conseguenza sono costretti ad accaparrarsi il prodotto in anticipo attraverso un sistema di obbligazioni: 

I signori Ingham, Whitaker e C. “obbligano” gli agricoltori in anticipo per le loro uve, ed inviano i loro mediatori in giro ad intervalli durante !’inverno e la primavera per essere sicuri che le vigne vengano correttamente potate e coltivate; ma essi stiano specialmente attenti nel periodo della vendemmia a che gli agricoltori non raccolgano le uve fino a quando non siano mature26. 

Nella descrizione che l’autore fa dei rapporti tra inglesi e siciliani affiora un senso di separatezza, quasi una necessità di guardarsi da una popolazione di tipo levantino abile ad escogitare espedienti per rubare: 

Ogni lavoro viene effettuato nello stabilimento, e il baglio dall’alba al tramonto per sei giorni alla settimana è come se fosse una piccola operosa cittadina. Gli uomini, all’uscita dal baglio ogni sera. vengono perquisiti da uno del personale, e questo è necessario a causa della straordinaria brama che essi hanno di portar via dei souvenir nella forma di una vecchia lima, di una pialla o cose simili, anche se a volte i loro furti prendono una forma più seria. Essi sono, in realtà, occasionalmente fatti con positiva ingegnosità, come, per esempio, quando è stato scoperto che alcuni di loro avevano abilmente costruito piccoli recipienti di latta da adattare al torace sotto la camicia, capaci di contenere una o due pinte di vino o alcool, il cui frequente contrabbando poteva in breve raggiungere una considerevole quantità27. 

L’ultima descrizione dell’attività degli inglesi di Marsala, prima che la grande crisi li travolgesse, è offerta da Alec Tweedie28. La Tweedie dopo aver espresso il proprio compiaciuto stupore per aver trovato a Marsala presso i Whitaker una “deliziosa e confortevole casa inglese nel mezzo di contrade così forestiere”, nella quale ha potuto godere le indescrivibili gioie che possono assicurare “un vero bagno caldo, un caminetto inglese con legno scoppiettante e carbone nel pomeriggio e marmellata a colazione”, ricorda che l’onore della scoperta del vino Marsala spetta ad un inglese29. Descrive quindi con precisione le varie fasi della coltivazione della vite e della preparazione del vino e trova modo di ricordare l’atteggiamento dei lavoratori negli stabilimenti vinicoli inglesi: 

I lavoratori al “baglio” o stabilimento hanno il loro proprio refettorio come i monaci nel monastero; qui cucinano e consumano il loro pasto di mezzogiorno ed alla fine fanno la siesta pomeridiana sul manto erboso. Essi hanno avuto una certa quantità di vino ma non è permesso aiutare sé stessi. Quest’ultima era l’occupazione favorita un tempo, perciò adesso ogni uomo è perquisito all’uscita. Qualcuno di genio ha fabbricato da se stesso un bricco di latta stagnata di circa un pollice e mezzo, nel travasava una bottiglia di vino giornalmente fino a quando non fu scoperto. Altri rubano spago, chiodi, e cose insignificanti di qualsiasi tipo, articoli di così poco valore che è sembrato insensato rischiare il licenziamento per tali bagatelli 30 

Accanto alla letteratura memorialistica dei viaggiatori stranieri che si esaurisce agli inizi del secolo, quando il viaggio in Sicilia finisce di rappresentare un’esaltante avventura, vanno ricordati gli scritti, ricchi di notizie e riflessioni, di Tina Whitaker Scalia. Essa fu la prima a dare un’immagine dall’interno della colonia inglese di Sicilia in un articolo dedicato a Benjamin Ingham, suo prozio31. 

La Whitaker Scalia dopo aver ricostruito la genealogia della famiglia, delinea la figura e l’opera dell’Ingham. Per quel che riguarda il nostro tema, Tina ricorda che Ingham abitò quasi sempre a Marsala nel primo periodo.

Giovanni Alagna

(1) R TREVELYAN, Principi sotto Uvulcano, trad. italiana, Rizzoli, Milano 1977.
(2) P. BRYD0NE, Viaggio in SicUia e a Malta. 1770, trad. italiana, Longanesi, Milano 1968.
(3) R. COLT HOARE, A classical tour through ILaly and SicUy, London 1819, p. 347.
(4) W. H. SMYIll, SicUy and its islands, London 1824, p. 232.
(5) Tra i tanti chc visitarono la grotta della Sibilla ricordiamo: C. DE BORCH, Lettres surla Siclle, t. II, Turin 1782, p. 42; J. BOUEL, Voyage pittoresques des isles de Sicile, Paris 1782- 1787, pp. 19-20; G. BELLAS GREENOUGB, Diario di un viaggio in Sicilia 1803, Siracusa -Palermo 1989, p. 68.
(6) J. HOUEL, Voyage pittoresque cit., p. 19; R; COLT BOARE, A classical tour, cit., p. 346. (7) G. COCKBURN, A voyage to Cadiz and Gibraltar up the Mediterranean to SicUy and Maltain 1810 & Il, voI. 2, London 1815, p. 33; DE f’ORBIN, Souvenirs de la Sici/e, Paris 1823, p.70.
(8) L. SIMOND, A tour through ltaly and Sicily, London 1828, p. 473.
(9) Ibid.
(lO) E. M. CIIURCH, Sir Richard Church in ltaly and Greece, Edinburgh 1895, in R. TREVELEYAN, Principi cit., p. 50.
(11) J: TOMMASINI. Bliq[e aus Sizilien. Bcrlin und Stcttin 1825.
(12) Ibili, pp. 111-118.
(13) R. GRENVILLE. The private diary oj Hichard, Duke oj Buckingham and Chandos, voI. II, London 1862.
(14) [bid., pp. 104-105.
(15) J. F. D’OSTERVALD, Viaggio pittorico in Sicilia. trad. italiana, Giada, Palermo 1990.
(16) G. ORTI, Viaggio alle Due Sicilie, ossia il giovane antiquario.
Verona 1825.
(17) J. D’OSSORY, MARCHESE D’ORMONDE, An autumn in Sicily, Dublin 1850.
(18) G. POWER, Guida per la Sicilia, Napoli 1842.
(19) J. GALT, Voyages and travels in the years 1809, 1810. an.d 1811 containing statistical,commercial, and miscellaneous observations on Gibraltar, Sardina, Sicily, Malta, Serigo andThrkey. London 1812.
(20) F. DENNIS, A handbook for lravellers in Sicily, London 1864.
(21) Ibid., pp. 182-183.
(22) R. GOWER, Old diaries. London 1902, riportato da R. TREVELYAN, Principi cit., p. 263.
(23) D. SLADEN, Segcsta. Selinuntc and (Ile West c!f Sici/y. London 1903.
(24) Ibid. p. 58.
(25) IbicL p. 73.
(26) IbicL p. 64.
(27) Ibid, p. 68.
(28) ALEC-1WEEDIE, Sunny Sicily, its rustics and its ruins. London 1904.
(29) Ibici., p. 228.
(30) Ibid, p. 231
(31) T. WHITAKER SCALIA, Be,.yarnin lngharn di Palermo, irad. di R. zanca, in Beryaminlngharn nell’econornia siciliana dell’Ottocento, Marsala 1985.
 

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 48-57.




 Quando la letteratura diventa infiorata 

Contrariamente alla mia inclinazione a scritti polemici e seriosi, questa volta, con l’accaduto che sto per raccontare in chiave scherzosa ma vera, mi riprometto di esilararvi col preciso intento di farvi dimenticare, sia pure per poco tempo, gli affanni quotidiani. 

Il titolo, invero, per amore di rispetto al nostro idioma, è di ripiego, ché più attinente allo svolgimento dei fatti sarebbe stato ben altro. State certi, comunque, che non starò, novello Erasmo, ad ammalinconirvi con poderose elucubrazioni sulla pazzia, giacché, da quando il filosofo olandese ne trattò, è passato tanto tempo che, essa, la follia, si è talmente diffusa da rendere un inutile perditempo seguirla nelle sue svariate manifestazioni, risultando, invece, più agevole soffermarsi sui casi che se ne discostano, e perciò più facilmente individuabili. 

Ma sia pure come modesto omaggio ad Erasmo, come convalida delle sue teorie, proviamo a trastullarci un po’ su un avvenimento che ha nutrito ampiamente la cronaca, e che meriterebbe di essere tramandato ai posteri, affinché essi, rivolgendo il pensiero ai progenitori – a noi, che allora saremo diventati gli avi – possano sentirsi più orgogliosi di quanto lo siamo noi dei Quiriti, d’essere i discendenti di una eroica schiatta, quella alla quale ora modestamente apparteniamo e che sarebbe stato meglio fosse … schiattata un secolo prima. 

In Italia, com’è noto, vi sono numerosi festival, i più noti dei quali, quello della canzone a Sanremo, quello del cinema a Venezia, quello dei due mondi a Spoleto; ci sono poi: quello dell’uva, quello dei carciofi (auspice il decantatore di un certo amaro), quello dei tartufi, non ricordo dove, senza contare i festival dell’unità (d’intenti), dell’amicizia, che pullulano un po’ dovunque, saturnali, dove non occorre ricercare molto per rinvenire, anche senza cane da fiuto, lo squisito porcino, e che un novello Macrobio non mancherà di immortalare e tramandare ai posteri. 

In un paese così ricco di sagre non potevano mancare i festival del libro e, dopo i primi istituiti, che potremmo chiamare classici, ne sono proliferati, dalle Alpi al Lilibeo, in così gran numero e varietà, che le .denominazioni non bastano più a qualificarli; per cui, continuando di questo passo, andrà a finire che, dal premio bancarella si arriverà, forse, anche al premio deschetto. 

Ora, quello che di particolare pare abbiano questi premi della carta stampata, sembra sia il fatto che tra membri delle giurie e concorrenti da giudicare avvenga una specie di avvicendamento, una rotazione, per cui, ad intervalli di luogo e di tempo, alcuni Tizi vengono a trovarsi al di qua o al di là della barricata: vale a dire, giudici o giudicandi. 

Da questa situazione, in un paese facile ai sospetti tendenziosi (e spesso infondati), si è fatto discendere una conseguenza, non si può affermare quanto ragionevole o quanto calunniosa. E cioè: tu dai (oggi) una cosa a me, io darò (domani) una cosa a te, come usa ripetersi in certi slogan pubblicitari caroselliani. 

Avvenne, qualche anno fa, che in uno di questi festival cartacei, una nota scrittrice, Dacia Maraini, ottenne un premio letterario, non saprei se di I, II o III categoria; fatto sta che l’ottenne. Avvenne pure che, tempo fa, altro non meno noto scrittore, Berto, non saprei se contemporaneamente concorrente al medesimo certame e rimasto escluso dalla candida rosa dei premiati, o rimastone escluso in altro torneo, oppure, escluse tali ipotesi, ma semplicemente perché animato da spirito di giustizia, in omaggio al quale certi accessi fervorosi viaggiano addirittura con un bilancino in tasca, avvenne, dunque, che il Berto si lasciasse andare, un certo giorno, a fare qualche allusione – velata oppure evidente – sul pieno, mediocre e scarno merito con cui la Dacia ottenne, in quell’occasione, il succitato guiderdone. 

Ora bisogna tener presente che, nel Bel Paese è lecito dissentire, e quindi muovere critiche, solo nei riguardi del governo od in merito alle sentenze emanate dalla magistratura, in omaggio alla conquistata – con annose e animose lotte – libertà di opinione, ma non spaziando in altri campi dove l’opinione può tramutarsi in calunnia, ed è bene che ciò sia, altrimenti la ridda delle opinioni richiederebbe che il numero dei tribunali – e quindi dei giudici criticabili – venisse per lo meno centuplicato. 

Stando alle notizie di stampa, non sembra, però, che la Maraini abbia pensato di querelare per calunnia aut similia Berto che, questa volta, non si era limitato a filare, avrebbe intaccato la Dacia nelle latebre più intime. 

Ma la Maraini non ha adito, come suol dirsi, le vie giudiziarie e, per tale rinuncia od omissione, possono farsi soltanto delle supposizioni. 

Sarà stato, probabilmente, per non completa e assoluta fiducia nei giudici dalle facili e criticabili sentenze (ma questa è una mera ipotesi soltanto congetturale – sarà stato perché, dall’alto del suo piedistallo (…de minimis non curat praetor) reggentesi su un consenso che avrebbe potuto vacillare – considerandolo res nullius – lo sconsiderato provocatore, sarà stato per altri eventuali motivi personali, non c’è stato ricorso alle vie legali. Ma se lo è legato al dito, questo torto, la Maraini, evidentemente incline a farsi giustizia da sé, largendo pan per focaccia, anzi, per meglio dire, tocco di sfilatino per focaccia. 

E si arriva così al secondo atto della tragicommedia dell’arte (letteraria) nella quale il colto pubblico e l’inclita guarnigione può vedere come la Dacia Maraini, in un’intervista concessa alla giornalista Lietta Tornabuoni, ha malamente qualificato l’antagonista Berto, il quale, vedendosi, in tal modo, scultoriamente e lapidariamente contrassegnato, è insorto ed ha adito quelle cotali vie. 

Cosa ovvia, se si considera che l’intervistatrice ha messo nero su bianco, diffondendo agli otto venti l’accaduto. Maliziosetta, anzichenò, questa Lietta . . . o no? 

Il suo nome, costituito da un diminuitivo a sé stante, sembrerebbe indicare una bonaria ingenuona, tutt’altro che un’aggressiva enfante terrible, e se ha preferito scrivere, è stato certamente perché, da coscienziosa giornalista, ha voluto attenersi alla completezza dell’informazione e alla più pura obiettività. 

Ed è stato così che, rubando lo spazio alla crisi di governo, ai problemi del lavoro, della scuola, degli ospedali, dell’ecologia, solite solfe che ormai ha perduto mordente, il fatto è assurto all’onore delle prime pagine dei giornali, facendosi largo a gomitate, anche se gomiti non ne ha, tra le altre notizie semiserie, con cui le pagine devono essere riempite prima di andare in macchina. 

Ma, in macchina, in sontuosa Rolls Royce, c’è voluto andare, stavolta, anche il vilipeso scrittore ch’è voluto entrare, trionfante, anche nelle aule giudiziarie di Torino. 

Già prima di arrivare alla discussione dibattimentale, che si era preparata per l’occasione, si fanno indagini etimologiche, filologiche, linguistiche, si considera il vocabolo incriminato da diverse angolazioni, come si fa con la moviola per i falli in area di rigore, per discutere se costituisca ingiuria oppure no, ecc. 

In attesa che più profondi conoscitori, con alate e filosofiche argomentazioni, espongano – quando si terrà il processo – le loro teorie, noi, come fanno gli scolari ai quali l’insegnante ha insegnato un argomento, per svolgere il quale devono fare opportune . . . ricerche, abbiamo voluto appunto eseguirne qualcuna, della quale esponiamo il risultato: senza, con ciò, voler formulare e anticipare giudizi, ma semplicemente perché, essendo l’argomento apparentemente nuovo, suscita una certa curiosità che merita di essere appagata senza, però, manipolazioni o vivisezioni, ma con la raccolta di documentazioni fatta con lunghe pinze automatiche onde restare a debita distanza. 

Non riferiamo, per un certo riserbo, il vocabolo oggetto della disputa. Ma consultandolo nel vocabolario della lingua italiana, edito da Curcio, e nel Dizionario Enciclopedico Treccani, riteniamo la definizione di quest’ultimo abbastanza esatta. 

Da notare, infine, che sono previsti anche i diminuitivi, con terminazioni variate e ce n’è per tutti i gusti. 

In ogni caso, però, è ancora da notare che ha non poca importanza l’intonazione di voce, l’inflessione, la maggiore o minore intensità e musicalità che accompagna la parola, nonché l’aggiunta, a contorno, di eventuali gesti espressivi. 

Ma, come si fa con la lingua, la quale, spesso, sdegna la forma puramente letteraria, per attingere alla parlata viva del popolo, allo scopo di rendere con più evidenza un’idea, conviene lasciare da parte i vocabolari scritti da gente troppo seriosa, prima di sentenziare se la parola incriminata sia da considerarsi impura oppure un babà intriso di rum, e cercare riferimenti più semplici ed obiettivi. 

Questa volta conviene risciacquare i panni, anziché in Arno, nel Tevere, che per quanto riguarda acque torbide e fangose, non la cede al gemello toscano. 

Conviene andare nell’Urbe che, d’altra parte, può considerarsi madre putativa di tale poco nobile rampollo, a giudicare dall’uso assai diffuso che i cupolonisti fanno dell’espressione che Coty avrebbe certamente disdegnato. 

Se a un ragazzino romano de Roma si chiederà che cosa significa la frase: “… ma è proprio bbona” riferita a una gagliarda passante, non risponderà certamente che trattasi di persona di buon cuore, umana e pia: risponderà, invece: “, , . a me pure me piace cce starìa … “! 

Allo stesso modo, se al solito ragazzino de Trastevere, si domanderà: “Che significa che quel passante è uno…”, risponderà, siatene certi, in modo poco lusinghiero per l’inconsapevole passante usato come cavia.

 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 45-48.