Antoine de Saint-Exupéry

Lo scorso anno, il 29 giugno, Google dedicò la pagina di apertura al 110° anniversario dalla nascita di Antoine de Saint-Exupéry, essendo nato a Lione il 29 giugno del 1900 e morto nel Mar Tirreno il 31 luglio 1944, il suo aereo di ricognizione abbattuto dalla contraerea tedesca.
Di nobile famiglia, fu subito avviato agli studi, nel 1909 nel collegio dei Gesuiti di Notre-Dame de Sainte- Croix au Mans, dove si fece notare per discontinuità nello studio, ma era molto portato per la meccanica e l’invenzione; poi, nel 1914, nel collegio, sempre dei Gesuiti, di Mongré a Villefranche-sur-Saône. Successivamente andò in Svizzera e terminò gli studi superiori a Friburgo; s’iscrisse in architettura a Parigi. Qui, dopo il servizio militare nella marina e poi nell’aeronautica, fece diversi mestieri, dandosi nel tempo libero alla scrittura e alla lettura.
Il suo primo racconto, “L’aviatore”, è del 1926, un anticipo di Courrier Sud, pubblicato a Parigi presso Gallimard nel 1929. Sempre nello stesso anno fece un corso per pilota a Brest e diventò direttore della Compagnia Aeropostale Argentina. 
Nel 1930 fu insignito del titolo di Cavaliere della legione d’onore e fu protagonista nel salvataggio dell’amico Guillaumet nella cordigliera delle Ande. Di qui trasse lo spunto per scrivere Vol de nuit, con cui ottenne il premio Femina nel 1931. Ancora nel 1930 incontrò a Buenos Aires la donna che dopo un anno diverrà sua moglie, Consuelo Suncin. 
Altre pubblicazioni, oltre alle citate, lo avevano fatto già conoscere come autore di libri di avventura e di riflessione. Ricordiamo: Terre des hommes, 1939; Pilote de guerre, 1942), in cui, non tralasciando di andare oltre la semplice narrazione, riporta la sua esperienza di uomo tra gli uomini e il suo approccio con la natura nelle sue manifestazioni che esprimono una sensibilità, al pari di quella umana, ora dolce e aperta, ora cupa e minacciosa, come quando con il suo aeromobile l’Autore si trovò nel mezzo di una bufera.
Il piccolo principe era stato pubblicato un anno dopo, nel 1943, in inglese, senza che l’Autore ne avesse dato il consenso. Era stato scritto nel 1942, ed ebbe subito un successo strepitoso.
Antoine de Saint-Exupéry fu scienziato e pilota, pensatore profondo e scrittore, autore di opere da leggere e meditare, perché in ogni suo scritto c’è l’uomo, a cui si rivolge con molta cura e rispetto, da signore qual era. L’impegno che lo caratterizzò fu frutto di un’intima esigenza di partecipazione e di dedizione agli altri, mai di un bisogno di emergere e di farsi notare. 
Era tanto schivo quanto grande per non curarsi di quello che si diceva della sua opera, motivo di spunti polemici per i detrattori, mossi da invidia di mestiere piuttosto che da argomentazioni serie e degne di essere considerate.
Alternò alle opere di narrativa saggi e scritti di riflessione, considerazioni di vita ed altro in cui si rivela acuto pensatore e valido amico di viaggio alla volta della ricerca e della conoscenza.
Citadelle (Fortezza) è del 1948, pubblicato postumo da Gallimard; Écrits de guerre (1939-1944) è apparso nel 1982; Manon danseuse è un romanzo giovanile portato a termine nel 1925 e pubblicato nel 2007; poi, i saggi e corrispondenze varie che fanno di Antoine de Saint-Exupéry un autore prolifico e aperto a sé e agli altri.
Fu attaccato dai detrattori – abbiamo scritto -, e ciò perché, prima gli si rimproverò che la sua letteratura era frutto di esperienza vissuta, poi, quando cominciò a interessarsi più apertamente dell’Uomo (lo scriveva così, con la U maiscola), come se ci fosse uno stacco tra le prime opere e le successive, non venne accettato nella nuova veste di saggista e di pensatore. Ma tra le une e le altre opere non c’è ancuno stacco, non c’è passaggio da un argomento ad un altro; la tematica è la stessa da un’opera all’altra. Cambia, semmai, l’approccio, seppure gradatamente, perché lo scrittore darà più peso alla riflessione che non è dovuta al mero ragionamento, che avrebbe trovato il tempo che vuole, bensì diviene più insistente, frutto della ricca elaborazione esperienziale e del dialogo che sa instaurare con gli uomini e le cose. Altrimenti non ne sarebbe stato capace, perché in lui l’azione, il vissuto quotidiano, precedono la scrittura; e questo sempre, anche in quelle opere che meno lo fanno notare, come ne Le petit Prince, l’opera che gli diede la notorietà mondiale. 
Écrits de guerre (1939-1944) lo conferma con molta evidenza: quando ha la possibilità di volare, per rendere un servizio al suo Paese, Antoine è allegro, non risente dei dolori residui delle tante cadute, gioca, come a Napoli, librando aquiloni tra le grida festose dei bambini, si sente di avere «un cuore di vent’anni»; quando, invece, per età avanzata non gli si consente di volare è triste, gli sembra avere «notte nella testa e freddo nel cuore», e non è capace di scrivere. Ecco cosa dice in un’intervista rilasciata a Dorothy Thompson del “The New York Tribune”, pubblicata il 7 giugno 1940:

«Nessuno, attualmente, ha il diritto di scrivere una sola parola se non partecipa alle sofferenze della società. Se non opponessi la mia stessa vita, non sarei capace di scrivere. E ciò che è vero per questa guerra deve essere vero per tutte le altre cose. Bisogna servire l’idea cristiana del verbo che si fa Carne. Lo si deve scrivere, ma con il proprio corpo.»

Il mestiere di pilota, che Antoine de Saint-Exupéry esercitò dal 1927 fino all’anno della morte e che dà lo spunto a molti suoi scritti, non lo chiuse agli uomini, come si sarebbe potuto verificare; anzi, operò in lui una metamorfosi rispetto al giovane aristocratico che era stato. L’altitudine lo avvicinò alla terra e all’uomo più di quanto si possa immaginare e gli fece amare la vita, con lo stesso entusiasmo e la commozione di quando si trovava dinanzi ai cartoni animati di Walt Disney.
Antoine de Saint-Exupéry non è il narratore della sua esperienza di volo, è il poeta innamorato degli uomini e delle sue cose. Il volo gli apre il cuore all’ascolto di milioni e milioni di altri battiti che, seppure a diecimila metri, negli agglomerati urbani, minuscoli e lontani, alla luce delle lanterne delle singole abitazioni, sono in stretta comunione con lui.
Già molto noto per i libri sopra citati, raggiunse notorietà internazionale con Il piccolo Principe, tradotto in tutte le lingue, con il primato delle vendite. Questo perché è un libro stupendo, un monumento imponente della letteratura mondiale che chiunque dovrebbe tenere caro e di tanto in tanto leggere, perché è patrimonio di tutti, parla la lingua semplice che va diretta al cuore per nobilitarlo e per rinsaldarlo nei suoi valori, a cui l’uomo non può e non deve rinunciare.
Antoine de Saint-Exupéry trova la molla ispiratrice nell’infanzia, nel ricordo vivo, sempre presente della sua:

«Chiedo perdono ai bambini di aver dedicato questo libro ad una persona adulta. […] Tutti gli adulti sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)… »

La dedica a Léon Werth, che in sintesi preannuncia la dicotomia presente nel libro (il mondo dell’infanzia e quello degli adulti, evidenziando cosí due livelli di lettura), riflette lo stato d’animo del suo autore che nei momenti più tristi soleva rivedersi bambino, ricreando i fantasmi buoni di quell’età.
Il piccolo Principe maturò nel clima della comprensione e nella calma del silenzio e del deserto, piano piano, come il bocciolo della rosa, in un momento particolare della vita dell’uomo e del poeta, che viveva in prima persona un’esperienza di guerra atroce e fratricida, pronta a svuotare di ogni nobile sentimento l’uomo e farlo belva per rendere vano il tentativo di quanti volevano fermarla. Di qui la tristezza del piccolo Principe, ragazzino biondo, capelli sciolti al vento, pensoso più di quanto non lo sono gli adulti, capace di agire e di giudicare, perché lontano dai loro interessi e pregiudizi. Eppure, ponendo la sua attenzione sugli uomini, li commisera per la loro stoltezza, ma li ama per il fondo buono che tutti accomuna.
Incontri indimendicabili sono quelli che il ragazzino fa con la volpe e con la rosa. La volpe è guardinga, perché agisce per spirito di conservazione, ma è fondamentalmente buona e si fa addomesticare.

«Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. […] – Gli uomini hanno dimenticato questa verità,, – disse la volpe. Ma tu non devi dimenticarla. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile per sempre della tua rosa…»

Antoine de Saint-Exupéry ricorre ad aforismi, come questi, molto citati, segno che colgono nel vivo lo stato d’animo dell’uomo che ha già in sé i mezzi sufficienti per gestire il suo destino. Ma il racconto è una trasposizione del vissuto, e l’affabulazione si serve dei dati oggettivi dell’esperienza: il volo, il guasto, la presunzione che è negli adulti e il bisogno di ridimensionamento, per renderlo più ingentilito e più buono nei rapporti umani, perché lo scopo dell’Autore è di riportare l’uomo nella condizione di appropriarsi ciò che gli appartiene, ma vuole anche sia bandito il male che si manifesta con il vizio o dando troppa importanza alla materialità che rende succubi dell’effimero e del vano.

 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 30-32.




 Ricordo di Giovanni Salucci 

Giovanni Salucci, scrittore, poeta, nostro collaboratore (faceva parte del Comitato di redazione di «Spiragli»), è morto dopo un ricovero ospedaliero. Aveva 83 anni. Era nato nel 1925 a Scurcola Marsicana, frazione di Cappelle dei Marsi (L’ Aquila). 

Trasferitosi giovanissimo a Roma, dove, avendo avuto come maestri De Ruggiero e Sapegno, conseguì la laurea in Lettere e Filosofia, lavorò presso il Ministero dei Beni Culturali e ambientali, occupando la carica di dirigente superiore e ispettore generale. Scrisse vari romanzi e saggi (La lampada rossa, La mafia dietro la scrivania, Bibbia, Vangelo e Corano) e poesie, che denotano una fine sensibilità e un’aspirazione ad un mondo più giusto e umano. 

Donato Accodo scrive in un suo profilo critico: «Come in Silone, è viva in Salucci una profonda sete di giustizia, un’aspirazione non retorica ad un mondo, dove domini il rispetto per la creatura umana e sia posto al bando il sopruso, la prevaricazione, l’egoismo. È vivo in lui, come nell’altro, anche il senso dello Stato e di qualunque struttura sociale (sia essa laica o confessionale) come organizzazione al servizio effettivo dei bisogni, delle esigenze del cittadino e dell’uomo e non a sua rovina. I tempi diversi in cui si sono trovati ad operare i due scrittori abruzzesi hanno dato una sfaccettatura diversa, un timbro diverso alla medesima ansia di riscatto, alla medesima fede in un avvenire migliore per tutti gli uomini.» 

Al di là di ogni giudizio sulla sua figura di operatore culturale, che può essere suscettibile di variazione, nell’arte come nella vita, Giovanni Salucci fu soprattutto poeta e vide sempre la realtà con gli occhi del fanciullo che era in lui. Di qui l’esigenza di conciliare i contrasti per ricondurli ad un bene comune e salutare per la pacifica convivenza tra tutte le genti. 

Bibbia, Vangelo e Corano trae spunto dalla sentita esigenza di cogliere le positività proprie di queste religioni per scongiurare ogni forma di fanatismo che spesso degenera nell’odio e nella guerra. 

Ne era fermamente convinto, e a questa idea dedicò gli ultimi anni della sua laboriosa esistenza. 

Per questo, e per quelli che lo conobbero e lo ebbero amico caro e disinteressato, Giovanni Salucci non è morto; egli vive in noi col suo sorriso, con le sue idee e il bisogno di condividerle. E, mentre siamo vicini al dolore della moglie Emma e dei due figli, esprimiamo l’auspicio di veder pubblicati i suoi inediti, perché possa essere conosciuto da un pubblico più vasto, e apprezzato, nei suoi valori ideali, come è giusto che sia.

Salvatore Vecchio

 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 51.




 Ricordando Mario Caruso

Mario Caruso se n’è andato per sempre e forte è il rammarico per non averlo saputo prima! Era un bravo educatore, un politico serio, un uomo disinteressato, e un prolifico scrittore. Sono doti non comuni che rendono grande l’uomo e lo fanno vivere in coloro che lo hanno conosciuto vivere nel ricordo di chi lo conobbe pronto a dare una mano per risolvere i problemi della gente. 

Egli fu un uomo socialmente impegnato, nel senso che per lui la politica era un modo per essere accanto a chi ha veramente bisogno di aiuto per riuscire a divincolarsi da tutte le difficoltà di ogni giorno. La sua era una battaglia contro il mal affare di tanti che depredano la cosa pubblica, trascurando il bene comune che solo garantisce un vivere sereno. Per questo era infaticabile, e tu lo vedevi dibattere sui canali televisivi locali i problemi e le anomalie che spesso ricadono sui più deboli e i bisognosi. Ma lo vedevi anche affrontare gli argomenti più disparati nei giornali che lui stesso approntava perché tutti venissero a conoscenza di quanto stava avvenendo in campo locale o nazionale. 

Noi ricordiamo l’amico Mario per questo, sensibile come fu a tutto quanto poteva arrecare beneficio alla sua gente, che amò con dedizione, sperando un avvenire migliore. Lo scrittore, autore di una trilogia ben costruita (Il balcone del professar Vicoplato, L’ascensore di Cartesio, Il ladro di sogni), valorizza l’uomo per quello che è con le sue aspirazioni e, inoltre, mette in berlina le nudità dei peggiori, spesso loschi profittatori, come i personaggi negativi di questi romanzi. 

Lo scrittore Mario Caruso, rivolge la sua attenzione al sociale, mettendo in guardia contro l’arricchimento illecito e lo sfruttamento. Questo è il messaggio che ci viene dai suoi romanzi, ed è anche un messaggio di speranza, perché, pur nell’amara realtà, l’ottimismo si fa strada ed affiora nei suoi protagonisti, che, fiduciosi, perseverano per farsi valere e vincere. 

Mario Caruso fu anche un educatore irreprensibile, perché credeva nella scuola educatrice. Alla base di tutto poneva l’educazione, sulla scia di Lambruschini e altri pedagogisti, mettendo sullo stesso piano l’istruzione, e dava importanza al rapporto docente-discente. La scuola, scriveva, «rimane il luogo ideale ove lo studente e il docente s’incontrano in un rapporto dialettico, un rapporto nel quale le posizioni devono essere chiare e trasparenti. Quello dello studente è uno status, non una professione; non ha una controparte nel docente, ma un esperto conoscitore del cammino che egli deve ancora imparare a percorrere. Lo faranno entrambi assieme, ed entrambi usciranno arricchiti da quell’ esperienza. 

Si delinea una scuola che deve puntare solo su ciò che le compete, scrollati di dosso gli orpelli, da cui viene aggravata, che la snaturano e la rendono distante a docenti e discenti. 

Ora Mario non c’è più e si sente la sua mancanza, nella scuola come nella vita, e grande è il vuoto che ha lasciato. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 32.




 La ricerca artistica di Nino Martino  

Chi ha l’opportunità di conoscere Nino Martino si rende subito conto che è un artista riservato e di poche parole, ricco di sensibilità e di una dote che è di pochi: quella di saper plasmare e dare vita alla creta con forme e colori che niente hanno da invidiare a quelli della tela. Mi si dirà che l’arte della ceramica è antica quanto l’uomo e che proprio in queste parti (siamo a S. Stefano di Camastra) si consolidò più che altrove. 

La ceramica di Martino esula da ogni riferimento di indirizzo, perché, prima di essere fissata a fuoco nella materia e nei colori, è come meditata, cotta nel calore del suo animo con il cuore e con la mente. La sua arte è questa: un darsi, perché l’uomo ne fruisca non per puro godimento estetico che dice e non dice, bensì per trame un beneficio che lo porti a considerare la condizione umana e ad elevarsi spiritualmente. E ciò che ci vuole per dare un senso alla vita, per affrontare le contraddizioni che essa riserva, ed è ciò che troviamo nella tematica di Martino, ed espressamente fermate in due splendidi vasi: Le contraddizioni di Pandora, disegnati con un cromatismo ben dosato, o in Cavaliere senza nome, dove il tema ispiratore è il voler migliorare che è proprio dell’uomo, acquistare prestigio o nome, ieri come oggi. L’artista va con la sua ispirazione ai paladini antichi, ai crociati, che lottavano per una fede e, soprattutto, per affermarsi e imporsi. La ricerca di una propria identità è attuale, e oggi più che ieri l’uomo ha difficoltà ad uscire dal conformismo e dalla massificazione ed è destinato a rimanere solo. Il colore dominante è l’arancione che insieme con gli evidenzia questo cavaliere che Dante direbbe «sanza ‘nfamia e sanza lodo». 

Il colore e il segno sono frutto di una ricerca costante e di uno studio attento della natura e della vita che è in essa. Si veda Arabesque o Ampolla dinfinito, oppure La lunga notte di Pompei, dove i contrasti di colore e le scie infuocate delle lingue di liquida lava dicono la forza racchiusa nella terra, che può sempre esplodere, e anche la paura e le ansie che sono in essa, e il silenzio che accompagna questi stati d’animo. 

Ma quello che colpisce in gran parte di questa ceramica, siano essi vasi o piatti, sono le forme sottili e la tenuità dei colori, che riposano l’occhio e fermano l’attenzione dell’osservatore. Segni leggeri e colori riposanti, perché nel giuoco dei contrasti anche quelli forti acquistano un tono e una gradazione tali (Passione, Incantesimo, Lo spazio di Dionisio, La collana, Festa mobile, per citarne alcuni) per farsi apprezzare e diventare un piacere che l’animo distende e stimola.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 50.




 Calogero Messina, scrittore delle attitudini umane 

Parlando di Calogero Messina non posso non andare indietro nel tempo, per risalire ad un’amicizia più che ventennale, legata dal comune interesse verso la letteratura e l’arte. 

Sono ormai lontani gli anni caldi del ’60, quando negli androni della sede centrale dell’Ateneo palermitano parlavamo di poesia e di poeti, di progetti e di iniziative che ci avrebbero visti costantemente impegnati. E mentre amici e colleghi, come un gregge di sbandati (nel frattempo la Facoltà di Lettere era stata trasferita nell’attuale cittadella universitaria), vivevano quei giorni del ’68 palermitano, girovagando e discutendo per i corridoi, una volta venute meno le concitate assemblee e le proteste, un gruppo di giovani, tra cui Messina, Cangelosi e altri, di cui poi non ebbi più alcuna notizia, studiava la possibilità di pubblicare un libro (Motivi del nostro tempo), testimonianza dell’impegno non solo socio-politico, ma artistico-letterario che animava quegli anni. 

La laurea e l’insegnamento ci fecero perdere di vista. Ricordo che con Calogero Messina ci rincontrammo una decina d’anni fa nell’ufficio di un editore: era passato tanto tempo, ma l’interesse e l’amore per l’arte rimanevano immutati, anche se l’amico Messina aveva optato per gli studi storici. 

Calogero Messina è nato a S. Stefano Quisquina il 24 novembre 1945. Per continuare i suoi studi, a dieci anni si trasferisce a Palermo con i genitori e la sorellina, ma soffre molto la lontananza del paese natio, come documentano i suoi scritti. Frequenta le scuole della grande città e si distingue per intelligenza e serietà. 

Nel 1966 consegue la maturità classica al Liceo «Meli» con i risultati più alti: la sua versione di greco è giudicata la migliore dell’Istituto. Si iscrive al corso di Lettere Classiche dell’Università di Palermo. I classici greci e latini gli sono congeniali, in primo luogo i poeti; è avvinto dai valori di umanità e di arte che esprimono e ricerca la poesia anche nel mondo che lo circonda. . 

Calogero Messina è apprezzato per la sua formazione e solida cultura umanistica. Ancora studente universitario, comincia a tenere conferenze nella capitale e in diversi paesi della Sicilia, e a pubblicare. Ricordiamo il suo discorso sull’.Elegia lirica nel mondo classico», tenuto al Club Magistrale di Palermo il 19 maggio 1969; la pubblicazione del suo epigramma epitimbico, in greco classico, negli «Annali del Liceo Classico «G. Garibaldi» di Palermo (1968-1969) per la tragica morte del suo professore di greco, al quale dedicherà poi un libro: il Messina, infatti, si distingue anche per la sua eccezionale sensibilità, per la sua umanità e nobiltà d’animo. Pubblica altre poesie in diversi giornali e riviste e nell’antologia da lui stesso curata con la collaborazione di C. Cangelosi, Motivi del nostro tempo (Palermo, 1968). Nel 1970 si laurea in Lettere con la lode, con una tesi sulla poesia bucolica, e col massimo dei voti consegue, nel 1971, il perfezionamento in letteratura latina; nello stesso 1971 può addirittura pubblicare un suo scritto nella prestigiosa rivista specializzata Athenaeum: la cosa sorprende per la giovane età dell’autore. Comincia a insegnare latino e greco nei licei. 

Vive a Palermo, ma la sua mente torna spesso al paese natio; comincia a ricercarne la storia; nel 1972 pubblica S. Stefano Quisquina. Studio storico-critico (Palermo, Manfredi Editore), un’opera che ha un grande successo, considerata un fondamentale, esemplare contributo alla storia comunale, apprezzata dai più esigenti rappresentanti del mondo accademico (da Virgilio Titone a Francesco Brancato). E grazie a quell’opera, di S. Stefano Quisquina, un paese prima dimenticato o di cui nel dopoguerra si era parlato per certi episodi di criminalità (tutti ricordano il sequestro del Barone Agnello), ora si comincia a parlare in positivo nei giornali; per merito del Messina, il paese entra nel circuito culturale. E con quell’opera il Messina entra nell’Università di Palermo, presentatosi ad un concorso per titoli ed esami, e comincia a svolgere la sua preziosa attività nell’Istituto di Storia Moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia, dove insegna tuttora. Continua a pubblicare: Lu Recitu di S. Stefano Quisquina (Agrigento-Palermo, 1973), che presto diventa un classico, imitato e citato dai cultori di tradizioni popolari; La Quisquina (Palermo, 1973), che ebbe il grande merito di richiamare l’attenzione verso quel luogo, che andava «protetto, restaurato, e soprattutto valorizzato», come ebbe a scrivere nella sua recensione al libro don Biagio Alessi nell’«Amico del Popolo» del 9 settembre 1973, ricordando il furto delle tele di quella chiesa, avvenuto qualche tempo prima. 

Il discorso sulla tradizione popolare porta il Messina ad affrontare il tema più ampio della poesia in generale e nel 1973 pubblica l’originale e coraggioso scritto Poesia e critica e l’antologia Voci di Sicilia: di qualche anno dopo, del 1976, il manifesto letterario da lui fondato, «L’Orma». Così Tommaso Romano ricorda quell’evento: «Il 28 marzo 1976 un noto e apprezzato scrittore, Calogero Messina, dell’Università di Palermo, al Jolly Hotel di Palermo, affollato da un pubblico qualificato, presentava il suo Manifesto Letterario «L’Orma», edito dalle Edizioni Thule. L’interesse da esso suscitato fu immediato: venne accolto con inconsueta speranza, come un segno di luce in una notte d’incertezza e d’avvilimento, per la confusione diffusa del gusto. Artisti e scrittori giovani, ma anche di altre generazioni, non ancora soddisfatti delle esperienze da loro vissute, sottoscrissero il Manifesto… «L’Orma» s’impose all’attenzione soprattutto per l’esaltazione della libertà, della poesia e per l’affermazione del poeta come uomo totale; favorevoli furono i giudizi della stampa, nelle riviste culturali, filosofiche, politiche; interesse espresse anche l’Ordine Nazionale Autori e Scrittori. E per primo il Messina, raro esempio di poeta nato e di studioso profondo, ha continuato la sua opera intensa, altamente culturale, con la massima coerenza ai suoi principi. E a questi si sono ispirati non pochi critici dei nostri giorni, anche se non hanno sottoscritto ufficialmente il «Manifesto» (Sintaxis, gennaio-febbraio 1983). 

Ma proprio perché la sua libertà non fosse minimamente scalfita o insidiata, il Messina ha continuato a sottrarsi per lunghi periodi alla pubblica attenzione per condurre altri studi; le sue apparizioni sono sempre molto attese. 

Nel 1974 il nostro Autore pubblica Domenico Scinà e la letteratura greca di Sicilia: nel 1975 il commento al De senectute di Cicerone e l’originale monografia T. Calpurnio Siculo (Padova, Liviana Editrice), sulla quale il celebre filologo Raoul Verdière, in una lettera da Bruxelles del 10 dicembre 1975, gli scrisse di trovarvi «une finesse et une sensibilité que, d’habitude, on ne rencontre pas dans nos études». 

In quegli anni il Messina già dirige la collana di letteratura «I Dioscuri» del Centro Culturale «L. Pirandello» di Agrigento. Negli anni successivi pubblica il commento al De otio di Seneca (Palermo, 1976), Voltaire e il mondo classico (Palermo, 1976), molto apprezzato dal celeberrimo Pierre Grimal; Ritratto di Eugenio il Poeta (Roma, 1976), che il latinista Luigi Alfonsi trovò «scritto con simpatica penetrazione dell’animo di Eugenio» (Lettera del 1° gennaio 1976); Montesquieu e l’antichità greco-romana, negli «Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo», 1977. 

Pure nel 1977 del Messina esce la classica opera Il caso Panepinto (Palermo, Herbita); alla distanza di otto anni pubblicherà In giro per la Sicilia con «La Plebe» (1902-1905). Un giornale dell’Agrigentino introvabile (Palermo, Herbita, 1985): due libri molto apprezzati dalla critica per il rigore scientifico, fondamentali per ricostruire la figura del Panepinto, ignorato o frainteso prima che se ne occupasse il Messina, che dunque ancora una volta apriva una strada nuova; non sarebbero mancati, al solito, gli approfittatori. 

Nel 1978 il Messina pubblica una sua Lettura del Villabianca, nell’«Archivio Storico Siciliano»: presenta un altro saggio all’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo nel gennaio del 1979 e viene pubblicato negli «Atti» del 1980, La Mettrie e Diderot. Il Messina ormai, oltre che per i suoi libri, la sua collaborazione a giornali e riviste nazionali e internazionali, per la sua fama di storico e la sua attività di docente universitario, per le sue conferenze, è conosciuto per le sue trasmissioni televisive di storia e letteratura. Nel 1980 pubblica Settecento italiano classicista e illuminista e Giordano Ansalone in Sicilia, nel quale si possono leggere per la prima volta i documenti fondamentali relativi alla presenza del Santo agrigentino in Sicilia, scoperti dallo stesso Messina; al libro è dato ampio spazio in riviste e giornali di grande prestigio, quale «L’Osservatore Romano». 

Ma Calogero Messina è anche un appassionato e curioso viaggiatore; ha viaggiato per tutta l’Europa; ultimamente è stato a NewYork e in Messico, dove ha tenuto delle conferenze. Il suo primo viaggio fuori dall’Italia risale al 1969, quando il grande grecista Bruno Lavagnini lo mandò in premio in Grecia e qui il Messina ama tornare. Nel 1979 si è recato in Spagna e Portogallo e nel 1981 ha pubblicato il libro Viaggio in Spagna e Portogallo dalla Sicilia. 

Nei suoi viaggi il Messina ricerca soprattutto la società, l’uomo; non dimentica mai la sua Sicilia, che non ritrova solo negli archivi, ma soprattutto nella nostalgia, dal confronto con altre terre. Alla Spagna ha dedicato ancora i due saggi su Umanesimo nella Spagna «ilustrada», pubblicati nel prestigioso «Boletìn de la Biblioteca de Menendez Pelayo» (1981-1982), e il volume Sicilia e Spagna nel Settecento, pubblicato nella collana «Documenti per servire alla storia di Sicilia della Società Siciliana per la Storia Patria, nel 1986; il suo tema, ha scritto al Messina Helmut Koenigsberger, Professor del King’s College di Londra, non era stato mai trattato prima – certamente non con la ricchezza del materiale che il nostro Autore ha trovato proprio in Spagna (Lettera del 28 febbraio 1986); Giovanni Allegra ha sottolineato la capacità del Messina di documentare le attitudini «mentali» («Il Giornale», 7 settembre 1986). 

Nel 1981 lo scrittore pubblica Giuseppe Ganci Battaglia Poeta delle Madonie, la prima monografia su quel rappresentante della letteratura siciliana; nel 1982 Il contributo di Ignazio Scaturro alla storiografia municipale: oltre l’erudizione, in .Archivio Storico Siciliano» e Figure siciliane (Herbita), a proposito delle quali Virgilio Titone ha scritto che l’anima del Messina «vive della memoria, nella fedeltà alla sua terra, ai suoi figli più umili» («La Sicilia», 6 gennaio 1988). Ha così inizio la prestigiosa collana «Sicilia ieri Sicilia oggi» dell’Editrice Herbita, ideata dallo stesso Messina, e nel 1983 il nostro Autore pubblica l’opera, anch’essa ormai classica, Immagine della Sicilia. 

Così ha scritto Provvidenza Bonura Ferrante: «Il volume che, pur senza averne il titolo, è in realtà una vera e propria piccola enciclopedia, è dovuto all’ esperta penna di un valoroso studioso, Calogero Messina, che con quest’opera apporta un deciso, coraggioso mutamento nell’indagine metodologica, facendo brillantemente convergere le informazioni di carattere etnografico, filologico, artistico, letterario e storico alla realizzazione della corposa struttura del testo» (Archivio Storico Siciliano, 1984). Nello stesso 1983 lo storico cura la riedizione, con suo saggio introduttivo e aggiornamento, della classica opera di Luigi Tirrito, Sulla Città e Comarca di Castronuovo di Sicilia, dando un nuovo, decisivo impulso alla migliore storiografia municipale, della quale il Messina è considerato uno dei più autorevoli rappresentanti. Nel 1984 cura la pubblicazione di un inedito di Giuseppe Ganci Battaglia, La vita di Gesù in versi siciliani e nel 1985 pubblica Sicilia 1943-1985 (Palermo, Ed. Grifo), in cui, come ha scritto Bent Parodi, il Messina «ha carpito l’anima segreta, il sogno del vecchio reporter e ha significativamente prestato la sua mano di scrittore alle foto di Martinez, per un modello raro di simbiosi» («Giornale di Sicilia», 30 dicembre 1985). 

Negli Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo del 1985 è apparso il saggio Il viceregno di Spagna in Sicilia e Messico, la relazione del Messina al Seminario Internazionale «Sicilia-Messico-Lombardia» (6-8 giugno 1985). Nel 1985 la Società Siciliana per la Storia Patria ha pubblicato l’antologia Scritti editi e inediti di Virgilio Titone con una Nota di Calogero Messina, molto apprezzata dalla critica. 

Nel 1987 lo scrittore pubblica il suo settimo libro su S. Stefano Quisquina, Una chiesa nel cuore, nella cui presentazione scrive fra l’altro il Vescovo di Agrigento: «Auguro al volume non solo ampia diffusione ma che possa essere di stimolo e incoraggiamento perché altri figli delle nostre comunità cittadine seguano l’esempio del Prof. Messina che ama la sua terra e la canta da maestro e da figlio». E Domenico De Gregorio, che ha presentato l’opera nella gremita Matrice di S. Stefano, nel quadro delle manifestazioni in onore di S. Giordano Ansalone, la considera esemplare e «un monumento che sarà veramente aere perennius» («L’Amico del Popolo», 21 giugno 1987). È ancora fresco d’inchiostro il libro di Ignazio Gattuso, Le comunìe di sacerdoti in Mezzojuso, curato dallo stesso Messina. Il nostro Autore continua a dialogare con le persone con cui ha fatto un tratto del suo cammino; ritrova la loro anima nel ricordo e negli scritti che hanno lasciato. Così, dopo avere pubblicato opere degli scomparsi Giuseppe Ganci Battaglia e Ignazio Gattuso, si sta occupando dell’opera inedita di Virgilio Titone, per espressa volontà del grande storico. 

Calogero Messina è raro esempio di scrittore, anticonformista e intransigente, che aborre il compromesso, libero da condizionamenti, come ha scritto Bent Parodi nel «Giornale di Sicilia» del 17 febbraio 1983. È uno storico onesto e un autentico scrittore che fa onore alla cultura siciliana e italiana. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 35-40.




Addio a Mario Tornello 

Lo scorso febbraio è morto nella sua casa di Roma Mario Tornello. Vi si era stabilito ancora giovane, come tanti siciliani in cerca di affermazione, e qui s’era accasato, pur non avendo mai perso i contatti con la sua Sicilia. Era di Bagheria, la generosa terra di tanti uomini illustri, come lui. A darci la triste notizia è stata la signora Erina, a cui esterniamo il nostro sentito cordoglio. 

Noi della redazione di “Spiragli” avevamo conosciuto Mario intorno ai primi anni Novanta e da allora siamo stati in contatto, sentendoci per telefono o scambiandoci, nell’ultimo periodo, messaggi per via internet. Ci siamo visti diverse volte, a casa sua in mezzo ai dipinti, in via Rosa Raimondi Garibaldi, dove abitava, o al caffè Greco. 

Sempre cordiale, era amico affettuoso e pronto, da siciliano, alla battuta, tesa a manifestare la gioia dell’incontro. 

Mario Tornello era un artista che manifestò il suo estro nella pittura e nella scrittura, riversando amore per la Sicilia che dipinse nei suoi paesaggi e cantò nei suoi versi, facendosi apprezzare nel mondo artistico e letterario con premi e tanti riconoscimenti. 

Scriveva in una sua nota che abbiamo pubblicato: «È tempo di tralasciare le frenesie cittadine per ritrovarsi in quei luoghi religiosi che la natura e non l’uomo ha creato. È tempo di soffermarsi ad addolcire il proprio spirito immergendosi senza scia nell’abbraccio totale di un paesaggio come nell’osservare un insetto al lavoro». Ed era quello che faceva; la natura e la Sicilia erano al centro dei suoi interessi, dipingendole nei colori vivi della terra, ora arrossata dal sole, ora immersa nel verde della vegetazione. 

Egli non trascurò le tracce della presenza umana (ridenti coltivazioni o case addossate), cui guardava con tenerezza e con tanta comprensione. Apprezzava il lavoro dell’uomo e sapeva commuoversi dinanzi ai fossili che sapevano di vita passata e ai monoliti che per lui testimoniavano «le più alte espressioni di preghiera dell’uomo verso un Ente supremo, quale muta richiesta intercedente per attraversare l’Ade». Così cercava e salvava le sculture naturali, perchériteneva che la madre terra fosse essenza d’arte. 

Mario Tornello era un artista versatile. Nella prosa lasciò pagine di estrema bellezza. Ricordiamo, tra tutte: “Un cherubino a Parigi” o “Il signor Piazza”, racconti ricchi di molto sentire e umani, spesso di un’umanità dolente ma vivi per la speranza che mai non manca nei personaggi. Scrive, a proposito, Carruba: «Questi racconti sono legati tra loro dal filo sottile che porta alla nostra misera umanità Ed è quanto di più vero e di più nobile l’Autore ci possa dire, quasi a conforto e ad indicarci che, in fondo, sta a noi condurre il mondo verso una vita migliore». 

Così è in poesia, in lingua e in dialetto, dove il sentire del poeta si fa sentimento puro e parla la lingua di tutti, quella del cuore; la pubblicò in diverse sillogi, come: A braccia aperte (1994) e Comu petra supra ‘u cori (1995). 

Mario Tornello fu molto prolifico e scrisse di tutto, collaborando con giornali e riviste, e perciò tanti lettori ora noteranno la sua assenza. Ma lui rimarrà vivo per quelli che lo conobbero e lo ebbero amico, per quello che ha lasciato in dipinti sparsi un po’ dovunque nel mondo e per la poesia che ha saputo regalarci. Ora ci guarda di lassù e noi lo ricorderemo con l’affetto e la stima di sempre. 

Addio, Mario, sei con noi. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pag. 26.




 La realtà del labirinto irreale nella pittura di Emilio Guaschino

Emilio Guaschino è un pittore tutto figurativo: nel senso di rappresentare volti umani, cieli visibili, muri e finestre controllabili nella realtà, mari navigabili, sentimenti persino aperti all’immediata comunicazione. 

Così delineata, la lettura di Emilio Guaschino, pur se aperta su correnti d’arte che già fanno storia, potrebbe spingerci verso una illustrazione della realtà, anche se somatizzata, cioè trasferita sui volti delle donne e degli uomini, tutti e sempre lavoratori, e resa sentimento dolorante nelle angosce dei calli sulle mani e delle rughe. Ma resterebbe sempre un artista del realismo, sublimato da passioni e compassioni. 

Invece in Guaschino, accanto e dentro questi suoi aspetti, che restano qualità, va individuato quel dosaggio di astrazione mentale per cui il suo realismo si innalza e fa innalzare l’occhio di chi guarda il suo quadro o il suo disegno (perché è gran disegnatore, cosa rara) verso sensazioni e significati multipli, astratti e concreti simultaneamente. Sta in questo la pittura come poesia, e quindi la pittura come ricerca di Bellezza equiparata alla Verità. 

Un carro siciliano (talmente carro che potrebbe essere letto in tal senso sotto qualsiasi cultura e latitudine), volti, braccia, bocche aperte al grido, seni tesi alla provocazione e alla vita, usci chiusi come i nodi sulle mani dei personaggi, tutti gli insistiti ma cangianti problemi e temi di questo artista hanno sostegno mentale e poetico di tanta carica realistica da universalizzarli. 

Si verifica, quindi, il fenomeno di confluenza tra intenzione realistico-figurativa e la sotterranea spinta a costruire un romanzo, cioè una «fantasia». Mi spiego: Guaschino è narratore di ceppo veristico con innesti sociali, la cosiddetta «realtà sociale», che però stabilisce un rapporto fantastico tra le due verità. La grande narrativa siciliana, tra le più ardite ed alte della cultura mediterranea, trova in Guaschino non una replica pittorica, ma un’autonoma e riuscita resa. Una antologia delle opere di Guaschino potrebbe arrivare, se guidata dallo stesso autore con le stesse sensibilità evidenti di ogni singola opera-pagina, a possibilità narranti unitarie, da romanzo. Del resto, la sua tendenza a cicli di temi e di volti è chiara vocazione narrante. 

Guaschino sa concludere opposte spinte verso saldature che firmano l’opera con una evidente sigla tutta propria, pur se con le ascendenze lealmente dichiarate. Quello che conta è questa sigla che gli dà il diritto di avanzare sulla linea dello sparuto gruppo di artisti nostri , riconoscibili, leggibili, godibili sul doppio binario della poesia-verità. 

Si tratta di un saggista della pittura. Cioè un artista che sviluppa spinte di apostolato. Anche tali qualità sono preminenti in questa misteriosa Grande Madre ch’è la sua Sicilia. 

Pertanto l’ analisi di questo artista andrebbe eseguita su interi cicli di produzione del pittore, per ricavarne i significati e gli allarmi multipli della passione d’ arte e di poesia portata avanti sulla tela o sulla carta. Basterebbe la constatazione di questo desiderio del critico, e del lettore del quadro, a prolungare la sosta e 1’analisi davanti e dentro l’opera di Guaschino per verificarne la forza di rappresentazione e di possesso su chi gode l’opera.

Giuseppe Selvaggi

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 41.




Serena La Scola. Un dolore oltre lo specchio

Un viaggio nei labirinti dell’inconscio, un richiamo alle dimensioni immaginarie del sogno, uno sguardo al dolore e alle malinconie di una artista. Non sempre le parole riescono a comunicare stati d’animo; spesso occorre un lessico parallelo dove segni, colori, luci, ombre, volti, sono note di uno spartito più complesso. Le barriere dello spirito cedono, anche per pochi istanti, e visioni enigmatiche affiorano da sentieri nascosti per creare un cosmo pittorico misterioso e affascinante. 

Per Serena La Scola, dipingere è una urgenza inspiegabile, una continua ricerca della propria essenza, un eterno immaginare dove le angosce di una coscienza lacerata si trasfigurano in donne provenienti da universi lontani. L’artista racconta percezioni emotive proiettate oltre il contingente, traccia spazi irreali e interpreta lo smarrimento dell’io in figure immobili, imperturbabili. E nell’intima coesione tra contenuto e forma, emozione ed espressione, sensazione e figurazione, dà sostanza visibile a pensieri e ricordi, nella tensione simultanea di mano, cuore e mente. E lo fa con maestria su tela, su legno e su ceramica. 

Come automatismi dettati da sconosciute risonanze poetiche, le donne di Serena La Scola, messaggere elusive e inafferrabili, emergono magicamente da condizioni metafisiche e atemporali, dove materia, luce e colore diventano elegie di un sapiente alchimista. Euridice, Penelope, Persefone, Ester, Ottavia, Lucia … scaturiscono da memorie mitologiche, esoteriche e sacre, secondo dialetti che interiori, proiettate in orizzonti infiniti. 

Euridice vive di sospensioni nostalgiche, incantata in un oblio onirico. Il dipinto è un inno al colore e si perde nell’annuncio di una luminosità che non annulla i tratti di una presenza-concreta. Se Euridice sogna in un incanto di luce dorata, Penelope tesse la sua tela e pensa al suo amore lontano. Il capo leggermente inclinato, gli occhi socchiusi evocano il sapore dei ricordi in un universo quasi insondabile. L’azzurro modula le profondità del mare, brilla nel manto pittorico e si trasforma in materia fluida e pulsante. 

Complesse atmosfere segniche-gestuali descrivono il mondo delle eroine bibliche, visioni interiori evocate in luoghi pittorici percorsi da un’ agitazione estrema. 

L’artista studia la matericità del colore, ne afferma le innumerevoli potenzialità espressi ve concentrando l’attenzione sull’energia interna delle tinte. Giuditta è la proiezione di un animo inquieto, di una forza trattenuta ma pronta ad esplodere in pennellate e rivoli rossi che precipitano verso il basso. Le tonalità giallo-arancio vivono dei loro accenti più profondi in contrasto con strutture nere indipendenti, che come lame squarciano la tela. Ester ci fissa da uno sfondo popolato di gesti allargati e respiri immensi. Uno spazio frammentato in cui le ombre divengono elementi dominanti, e il blu esprime un’inedita tensione formale nella percezione di un colore drammatico. 

L’artista dipinge poesie come echi materializzati di una coscienza percepita come espressione di un sentimento poetico. Ci conduce negli spazi siderali del mito e del sacro, ma ci immerge anche In un buio labirinto, olio su tela, 2008 nei recessi più nascosti della psiche. Solitudini non confessate prendono forma negli specchi «melanconici» di Ottavia, Lucia, Melanconia. Le prigioni dell’io sono evocazioni di silenzi strazianti. Ottavia dissolve suggestioni struggenti nei ricordi di un amore appena perduto. Come un viandante solitario, identifica una visione tormentata, in un sintetismo di cromie viola, nella sagoma del corpo come proiezioni notturne dei propri conflitti. In una simbiosi diretta tra intuizione e realizzazione, Serena La Scola, avvinta dai continui naufragi dell’essere, sa dare linfa vitale alle espressioni simultanee del suo labirinto emotivo, tradotto in scelte estetiche precise e dense di poesia. 

Silvia Scarpulla

 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 52-53.




Tore Mazzeo,  poeta dialettale trapanese 

Nel novero dei poeti dialettali trapanesi s’innesta Tore Mazzeo, poeta che non fa scalpore, consapevole che la poesia, se è vera, non ha bisogno di altro se non di tempo e di ascolto: l’uno, scavando, lava ed elimina ciò che poesia non è, l’altro l’imprime perché giovi e sia di gradimento a quanti le s’ avvicinano. La poesia di questo autore è un piacere sentirla, perché senza alcuna forzatura parla a chi con un minimo di sensibilità le si dà, facendosi condurre per i sentieri umani, che le sono propri. (Ne diamo una breve mostra qui in calce). 

Tore Mazzeo ha compiuto studi tecnici ed è un commercialista in riposo, eppure è buon conoscitore delle nostre lettere e si è interessato di Giuseppe Marco Calvino, di Bernardo Bonaiuto e di altri autori siciliani a noi più vicini. A parte le opere di narrativa, ha esordito giovanissimo nella poesia, di cui ha curato due edizioni, perché l’autore, attento e suscettibile alle pur minime variazioni di tono, di stile e di una lingua ancestrale ricca di fascino, quale è la parlata di Trapani, trascritta nel rispetto della sua fonetica. Ne risulta che Poesie trapanesi Baddhraronzuli… è opera di una vita, perché continuamente aggiornata nel sentire e negli umori che col passare del tempo cambiano, così come le cose della quotidianità e i luoghi che videro il poeta fanciullo. 

L’ originalità di questa poesia è tutta qui, ed ha fatto bene a patrocinarla l’Associazione per la Tutela delle Tradizioni popolari del Trapanese, presieduta da Salvatore Valenti. Essa è un bagaglio di vita e di cultura dei nostri padri sottratto all’oblio, con l’auspicio che sia letto e conosciuto dai giovani, perché niente passi inosservato, consapevoli che non si può comprendere la grande storia senza conoscere la minuscola, quotidiana, eppure ricca di sapienza e umana. 

L’opera, divisa in sei capituli (Amuri, Acquareddhri, Duluri, Gastrunumia, Travagghiu, Scherzu e Irunia), riprende uomini e cose nella loro quotidianità, senza cadere nella banalità, e li fissa, anche con lievi tocchi e linguaggio di tutti i giorni, in quadri di vita vivaci e familiari. Si legga Didascalia r’un cinema mutu o ‘U cori è picciottu. In entrambi i componimenti è l’amore al centro del discorso; nel primo colto come scoperta nell’età bambina, a cui s’accede a piccoli passi, a mo’ di rito, l’ altro come sentimento semprevivo e palpitante, che, al pari della poesia, non risente dell’ età ed è capace di far compiere la qualunque, pur di esserne fedeli servi tori. 

Nel secondo capitolo il poeta si fa pittore di pennellate leggere, ricche di colori della propria terra, come in Tramuntu (U russu cari / Pitta lu mari / L’acqua lu lava. Rresta ‘na vava / Lèggia di rosa / Chi s’arriposa / Tra cielu e mari. // Poi ‘nfunnu cari.) o in Virginali, ove il mare e il cielo di Trapani creano un’atmosfera di sogno che fa accettare, pur con le sue amarezze, la vita e la fa amare. 

In Duluri predominano la sofferenza e il dolore propri della condizione umana (Turmentu), o quello provocato dalle ingiustizie e dalle guerre che martoriano e distruggono. Così è in Tri jorna dopu, dove il poeta riferisce dei bombardamenti americani a Trapani con la distruzione di interi quartieri, come quello di San Pietro. Ma il componimento che più tocca la sensibilità del lettore è dato dalle tre quarti ne che riprendono una povera mendicante (Puvireddhra), seduta sui gradini di una chiesa, costretta a stendere la mano per fame. Il poeta ne disegna la figura con un bimbo in braccia ravvolta in uno scialle, da cui fuoriesce solo un volto macilento che guarda a terra e una mano tremolante. (L’occhi calati ‘nterra sta figura / Viri sulu ‘i scarpi ri li genti / Mentri o’ so pettu stringi ‘na creatura / Chi di sucari mancu si la senti). Sembra vederla questa poveretta e muove ancora a pietà, perché la piaga della miseria è più che mai aperta. 

Sono oggetto di poesia anche i piatti tipici del trapanese (Gastrunumia), quasi che il poeta li voglia preservare dal logorio del tempo e dalla modernità, che tutto avvolge e cancella, e in Travagghiu, i lavori tradizionali messi in crisi dall’avvento delle macchine. Il calzolaio, lo stagnino, il vignaiuolo, il tonnaroto, il pittore decoratore, sono disegnati nell’ atteggiamento usuale, contornati spesso da una fine ironia che evidenzia il disagio di chi ha difficoltà a riconoscersi col mutare dei tempi e delle mode, come è per ‘u scarparu, costretto a ridimensionare bottega e lavoro, riparando scarpe, lui che le scarpe faceva con tanta maestria, e non accetta lo stato in cui è caduto, preferisce abbandonare tutto, dopo aver fatto per sé un paio di scarpe (Mi li mittiti quannu vaju via: l’Un cci fu nuddhu chi mi fici ‘i scarpi), perché in vita nessuno poté fargliele. 

Nell’ultimo capitolo (Scherzu e irunia), tra il bonario e il faceto, il poeta mette in caricatura con straordinaria capacità persone e ambienti della sua terra, come è in A sciuta p u passiu, in cui fa rivivere la passeggiata di due fidanzati, accompagnati a vista dalla mamma di lei, pronta a richiamarli, se si fossero dati a effusioni non consentite, anche se poi provava gusto a vederli innamorati, tanto che alla fine li invita al bacio. Era una consuetudine e guai a non rispettarla, se si voleva finire sulla bocca di tutti. E c’è anche l’arrivista (Panza parata), pieno di boria e ignorante, un tipo che non attiene solo alla Sicilia, ma troviamo ovunque, eppure urta la suscettibilità degli onesti che si vedono spesso scalzati da uno così tronfio e arrogante. 

Anche qui non manca il riferimento alla tradizione, e mi riferisco alle ricette che Mazzeo ripropone, quasi a voler preservare la buona sana cucina dei padri. C’è qui l’attaccamento alla sua terra, e forte è in lui il richiamo della memoria che lo proietta nel passato, presentando come vive persone e cose che ormai non sono più. Sarebbe tempo della nostalgia, che qua e là riaffiora, se il poeta non fosse consapevole dell’ineluttabilità di ciò che appartiene agli umani. 

Poesie trapanesi (Baddhraronzuli) è un’ opera, interessante per l’uso del dialetto, sempre fluido, puntuale e genuino, come è il parlare del popolo, ed efficace, pronto a tradurre lo stato d’animo dell’autore che lancia questi innocui baddhraronzuli (il termine sta a significare i pallini di diversa dimensione, costituiti di un misto d’alghe e sabbia, lasciati dalle onde sul bagnasciuga per dire che bisogna essere operosi, a contatto con gli altri, propensi allo scherzo, ma con garbo, per non urtare la suscettibilità altrui, immergendoci in un mondo ormai lontano, eppure ricco di richiami e di nobile sentire. 

Salvo Marotta

da “Spiragli”, 2009, Profili 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 47-49.




 Linguaggio pittorico di Emilio Guaschino 

Ispira i singoli dipinti di Emilio Guaschino una vasta tematica. È una singolarità che non esclude affinità categoriali valide come fondamenti di legittime aggregazioni e lo dimostrano due elementi che emergono fin dal primo approccio e rimangono costanti. Uno è di tipo contenutistico ed è costituito dall’uomo come soggetto; l’altro, di tipo affettivo, ed è il sentimento con cui l’artista ne osserva la vita, la considera e la rappresenta. È un sentimento di solidarietà, che anima quell’osservazione attenta e si traduce nel dare evidenza non solo alle tante forme di impegno cui il quotidiano problema dell’ esistenza obbliga l’uomo, ma anche agli effetti che ne conseguono e che sono spesso sintomo di pena. Quasi a dimostrare che anche la pittura, come la poesia, sua «consorella» nel molteplice manifestarsi dell’ Arte, ha la sua Musa, il suo motivo ispiratore predominante, nella sofferenza. Viene in mente il Leopardi di: «Ahi, dal dolore comincia e nasce l’italo canto!» 

Questa sofferenza, Guaschino la coglie nell’intimo e la esteriorizza nel suo vario attuarsi. Prevale la rappresentazione del peso della durezza del lavoro: nei campi, nelle miniere, per le strade, nelle occupazioni più umili e faticose, disumananti; la attestano con efficace chiarezza i segni marcati nel fisico e nella psiche. Intervengono, a volte, atti significativi di volontà di reazione a tanto patire, proteste intese ad acquisire condizioni di vita adeguate a dignità umana e si esplicano in tentativi drammatici fino al tragico, quali ad esempio l’eccidio di Portella della Ginestra. 

La sentita partecipazione ai disagi di tanta umanità muove la mano dell’artista che, avvalendosi di assoluta padronanza delle tecniche specifiche, incentrate sulla incisività assicurata dal contrasto fra bianco e nero, unisce realtà e fantasia e trasfigura quei documenti di vita in testimonianze invocanti un doveroso riscatto. Questo significano i lucidi e penetranti occhi aperti su tanti volti di anziani, so1cati da rughe profonde, con tipiche coppole, indicative della sicilianità di questa umanità che vive in una terra tanto amata da questo polentone con cuore di terrone, come si autodefinisce Guaschino, anche se questa Sicilia può ben definirsi una metafora di tanta umanità afflitta in eguale misura. 

Rientrano in questo gruppo di figure umane impegnate in umili occupazioni ragazzi soggetti a privazioni e rinunce fin dagli anni che dovrebbero essere quelli della spensieratezza, che pure viene luminosamente espressa, quasi a dare risalto al contrasto, nei dipinti che raffigurano ragazzi intenti ai giochi. Guaschino assicura inoltre significativo risalto a diverse figure di madri con teneri figli e le spalle avvolte in tipici scialli, che sembrano quasi in attesa di chi tomi dal lavoro; attestano un’esistenza dominata dall’ansia, ma anche una piena coscienza dei compiti inerenti al ruolo, appunto, di madre. Ma alla donna è dedicata una parte cospicua della sua produzione. Sono nudi di donna e sono carichi di sensualità, configurata quasi palpabilmente, per la costante presenza di seni in risalto insieme ad altre curve, e tutti turgidi, prominenti; sono segni di una volontà di significare l’amore nel suo oggi prevalente valore di senso e di sesso e di dare risalto al potere di seduzione che Natura assegna alla donna e che, se è impiegato in funzione di quello che è noto come «il mestiere più antico del mondo», anche perché sublimato dalle particolari pose, riporta tali donne nell’ambito di quel lavoro cui l’Artista ha attinto la dimensione privilegiata della sua tematica, caratterizzandola tutta quanta nell’ambito storico del realismo ma al tempo stesso arricchendola di sentimenti che le assicurano vitalità di poesia.

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 51-52.