Una lezione di grande umanità 

 Gentili Signore e Signori, 

Innanzitutto, devo personalmente dire grazie al direttore Cammarata, perché ha accolto con piacere il mio invito, e devo dirgli ancora grazie – e gliene do pubblicamente atto -, perché le sue opere, oltre a costituire motivo di studio, mi hanno arricchito moralmente e socialmente. 

In una delle prime “Taratalle” apparse su Spiragli, il prof. Davide Nardoni, ricorrendo alla Filologia Sperimentale, spiega come la parola “poeta” significhi “qualificatore”. 

Ebbene, se poeta è “colui che qualifica”, diciamo che stasera abbiamo l’onore e il piacere di avere con noi un grande qualificatore, un vero poeta: Romano Cammarata. 

Forse, molti dei presenti lo conoscono come l’autore delle lettere piene di umanità che di tanto in tanto pervengono dal Ministero ai dirigenti e ai capi d’istituto. Ma ai molti impegni che la carica di Direttore Generale comporta, Romano Cammarata abbina il suo silenzioso lavoro di artista che lo colloca tra i più accreditati del nostro tempo, e con le sue opere, alla stessa stregua di tanti altri grandi (dall’antichità ai giorni nostri), qualifica gli uomini e la loro condizione esistenziale. 

Si leggano, ad esempio, alcune liriche (Notte siciliana, Presente, Nel circo di notte, Dalla finestra, Amo tutto ciò che scorre). Si possono evidenziare, in questi pochi esempi, tante di quelle motivazioni che da sole basterebbero per intavolare un lungo discorso. 

Ma io non voglio dilungarmi, perché è giusto, in questa sede, sentire la viva voce dell’Autore. Pertanto, rimando, per una più ampia conoscenza dell’uomo e dello scrittore, al mio saggio, fresco di stampa, che porta il titolo di: Arte e vita nelle opere di Romano Cammarata, (*) e mi soffermerò, invece, su “Violenza, oh cara”, l’ultimo suo romanzo, evidenziandone l’aspetto didattico-educativo che nel mio saggio è accennato, come deve essere in uno scritto di un certo respiro, ma che qui merita una particolare attenzione. 

Fatta questa premessa, necessaria, devo dire prima di tutto che chi si accosta ad un’opera del nostro Autore rimane scosso e al tempo stesso affascinato: scosso per la verità del vissuto quotidiano che, specie in Dal buio della notte, porta al pianto e all’immedesimazione diretta col protagonista, affascinato per la compostezza formale, per la dignità di stile che la caratterizza, per cui – sin dall’inizio – vita e arte convivono senza alcuno stacco, e senza un minimo di sofisticheria. 

L’arte, in sostanza, in Cammarata, viene da sé, è qualcosa che nasce spontanea, senza – direi – cercarla. L’arte nasce da sé, perché è il vissuto che assurge a dignità artistica, venendo incontro all’intima esigenza dell’Autore di esternare agli altri il mondo che si porta dentro, per “qualificare” meglio se stesso e gli uomini. 

Il vissuto di Romano Cammarata è quello con cui tutti quotidianamente facciamo i conti; in poche parole, quello della condizione dell’uomo di oggi arroccato nel suo “io”, perché “fuori” predomina il male: da una parte dovuto alle malattie che silenziosamente mietono tante vite umane, dall’altra, alle ingiustizie e ai soprusi che disorientano gli animi e li reprimono. 

I personaggi del nostro Autore reagiscono a tutto questo: Andrea di Dal buio della notte lotta, e vince il male che lo ha deturpato nella persona, ma al tempo stesso lo ha arricchito nello spirito, facendogli ritrovare una “umanità nuova”; Agostino Bertoni di Violenza, oh cara sfida lo Stato, uscendo dall’anonima solitudine dell’uomo qualunque e riscopre il mondo degli affetti più puri e gli altri. 

In fondo, in ambedue i protagonisti, si tratta di violenza subita, una violenza, però, che ha un risvolto positivo. E appunto per questo, diviene cara, perché, ottimisticamente, e in concreto, il male non viene per nuocere. Ecco la giustificazione del titolo. 

Il dettato è sempre lineare, ma con diverse gradazioni della voce, perché venga sentita e apra delle brecce che abbiano un seguito nell’operato dei lettori. Sicché l’aspetto didattico-educativo è esplicito e manifesto, anzi è il vero movente che spinge Romano Cammarata a scrivere. D’altronde non può essere diversamente in un uomo di scuola come lui. 

Ma veniamo a Violenza, oh cara, il romanzo su cui mi voglio soffermare. 

Un abbaglio della Giustizia porta in carcere Agostino Bertoni, da un po’ di tempo pensionato e vedovo, con l’unico impegno di accudire alla cagnetta Eva. Per il resto, una vita piatta e monotona, non invidiabile, che viene interrotta tutto d’un colpo. 

Agostino, in un primo tempo, reagisce, ma subito comprende che non ne vale la pena, visto che, senza un dialogo che avrebbe potuto essere chiarificatore, lo si accusa di sequestro, con prove alla mano. Questo modo di agire dell’autorità lo spinge a non difendersi: che sia il giudice a provare la sua colpevolezza; lui se ne starà a guardare. 

Il dialogo: se tutti vi ricorressimo, tanti mali verrebbero meno. Anche se è risaputo, non sempre è così. Agostino ci dà una grande lezione e ce lo fa riscoprire, pagando lo scotto della violazione del suo diritto alla vita. E farà quello che gli altri spesso non fanno: chiudendosi alla Giustizia, si aprirà a quanti vengono in contatto con lui, e parla e dialoga, scoprendo così la vera essenza della vita. 

Agostino, in carcere, conosce quello che doveva essere l’avvocato d’ufficio e che, invece, diverrà il suo difensore di fiducia e amico. È bastato un breve colloquio, perché Mauro Fonti, così si chiama l’avvocato, venga attratto dalla forte personalità di lui, ne accetti il comportamento, e ne condivida le idee che, il caso vuole, coincidono con quelle del padre, fino a quel momento contestate. 

«Mio padre, che ora è in pensione, l’abbraccerebbe. 
Quante volte ci siamo scontrati per il suo modo di pensare, per quel suo concetto della dignità, per quel non voler 
scendere a compromessi, ed erigersi a giudice egli stesso. 
Ma si sa, è mio padre, e come sempre avviene, è diffìcile 
comprendere i propri genitori». […] 
«Credo che stasera farò felice mio padre, perché lo 
saluterò con più rispetto e credo che sarò più in grado di 
comprenderlo, di ascoltarlo. Grazie per questa lezione». 
Un contrasto generazionale, come questo tra padri e figli, viene così risolto nel giro di poche battute, grazie al contegno onesto e disinvolto che Agostino tiene nei confronti del suo interlocutore. 
Agostino Bertoni convince con la forza della parola, col ragionamento; e prima 
di esporre agli altri le sue idee, già le ha vagliate al lume della sua esperienza, le ha meditate, bandendo il superfluo e l’incerto. Perciò agisce con la sicurezza di chi è convinto, ma non impone mai i suoi convincimenti con l’autorità dei suoi anni. 

Il bello di questo protagonista è tutto qui. Ed è in personaggi così riflessivi e responsabili come Agostino o Andrea che il lettore trova esempi di coerenza. La loro parola scava in profondità e lascia un segno che non si può dimenticare. 

I personaggi sono veri e nonostante il loro status, ognuno di essi ha qualcosa di buono, o di “bello”, volendo usare una parola cara al nostro Autore, che spinge al bene, e nessuno sarà per il male, perché in Romano Cammarata il male non è nel singolo; è nelle circostanze che la vita associata presenta. Sicché l’uomo ne è una pedina. Dopo, magari, diverrà soggetto e oggetto del male, ed è allora che farà fatica ad uscirne fuori. 

Carlo, il giovane recluso con cui Agostino stringerà amicizia e colloquierà durante la sua detenzione, ce ne offre la prova, ma ci dà anche la prova di una grande abnegazione e di un sentito rispetto per gli altri. 

«Secondo lui [l’avvocato], per una valida difesa, è la 
società che bisogna tirare in ballo, con il suo permissivismo, 
il consumismo; la famiglia per un’educazione sbagliata. la 
noia, il benessere eccessivo, e quindi il disprezzo accumulato 
per tutto questo nel periodo delicato della crescita». 

Carlo non condividerà l’impostazione di una siffatta difesa che, pur di trovare le attenuanti, vorrebbe coinvolgere la sua famiglia, a cui niente ha da rimproverare, e la società. Quando, poi, saprà dell’ingiustizia che l’amico Agostino subisce, allora correrà subito dal giudice e si autodenuncerà, scagionandolo da ogni accusa. 

Una lezione di grande umanità che sembra riportarci indietro nel tempo, ma che l’Autore crede possibile anche ai nostri giorni con un ritorno effettivo all’uomo. Sicché Cammarata ci scuote: sta a noi, ognuno nel nostro piccolo, operare nel bene. Allora il mondo tornerà a sorridere. 

Volendo così tirare qualche conclusione, a proposito dell’aspetto didattico-educativo di Violenza, oh cara, dobbiamo dire che al Nostro sta molto a cuore la famiglia che, nonostante il capovolgimento dei valori a cui giornalmente assistiamo, è basilare per la convivenza sociale e, perciò, va tutelata e difesa. 

In Violenza, oh cara, la famiglia dell’avvocato Mauro Fonti ne esce rinsaldata, difesa l’altra del giovane Carlo, tutelata e rinvigorita dall’amore quella che lo stesso Agostino metterà su quando meno se l’aspetta. Sì, perché uscendo dalla solitudine Agostino riscoprirà anche l’amore vero. 

Ma Romano Cammarata non ce la ripropone soltanto in Violenza, oh cara; questo della famiglia è un tema ricorrente negli altri suoi libri. Si veda, ad esempio, Per dare colore al tempo, dove qua e là riaffiora l’amore coniugale e paterno. 

«La mano ricadde ancora piena 
del gesto di addio. […] 
Il sapore struggente 
di quell’abbraccio di sposa 
e di quello festoso e leggero del bimbo! 
Sapeva di primavera quell’abbraccio 
come le margherite raccolte nei campi 
a riempirmi il cuore e le mani». 

Oppure, si veda ancora il suo primo libro: Dal buio della notte. Qui Andrea riscopre nella figura del padre l’amico sicuro che lo incita alla lotta, perché – dice – ognuno di noi appartiene a quanti ci vogliono bene. Sicché Andrea reagirà e l’amore filiale corroborato vivificherà ancora di più l’amore per la famiglia. E quando Andrea, svegliatosi dopo un ennesimo intervento chirurgico, scorge la moglie che, stremata, aveva preso sonno chinata su di lui, carezzandola leggermente, dirà: «Povera Francesca, […] e io egoista che ho desiderato di andarmene, di lasciarti». 

Le opere di Romano Cammarata, come un terso specchio d’acqua, da cui si dipartono tanti cerchi concentrici, allargano e sviluppano tematiche facilmente riconducibili tra loro. 

Il tema della famiglia, riproposto in modo diverso nelle sue opere, è solo un esempio, ma !’insegnamento di Romano Cammarata non finisce qui, perché investe l’uomo nella sua complessità. Sicché potremmo ricordare tanti altri temi, come quello della libertà individuale, soprattutto quella morale e, di conseguenza, quello del comportamento dell’uomo di fronte alla violenza. 

Questo della libertà morale è presente in maniera più manifesta in Violenza, oh cara, dove l’alto senso dell’umana dignità caratterizza e delinea, meglio che gli altri, la figura di Agostino che già, sin dalle prime pagine, si rivela un uomo di tutto rispetto. 

Come esempio, si legga la pagina dedicata ai randagi. Un cane che va sicuro di sé e, incurante degli altri, dà ad Agostino lo spunto per parlare di certi individui che, pur di farsi avanti, si arrampicherebbero sugli specchi, niente avendo della dignità del cane. 

C’è da dire che i personaggi di Romano Cammarata sono di tutt’altro stampo. Addirittura hanno vissuto esperienze veramente brutte. In un modo o nell’altro hanno sperimentato, a proprie spese, la vita con i duri colpi che essa riserva, e hanno reagito tenacemente fino a raggiungere i loro scopi. E tutto questo non è forse di sprone per la realizzazione di una personalità coerente, per la partecipazione e per la presa di coscienza della realtà di cui facciamo parte? 

L’uomo deve aver fiducia ed insistere nella rivendicazione di quei valori che danno un senso al vivere. E da uomini come Agostino Bertoni o Andrea ci viene questa grande lezione che apre, ottimisticamente, alle aspettative e agli altri con un forte senso di responsabilità e di attaccamento alla vita, la quale va affrontata senza titubanza alcuna, e vissuta, perché veramente, così agendo, ne vale la pena. 

Salvatore Vecchio

(*) “Spiragli”. A. IV (1992) n. l, pagg. 13-35.

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 7-12.




Ai giovani studenti di Sicilia

Cari giovani amici, 
è iniziato un nuovo anno scolastico e molti di voi che ho conosciuto nel febbraio scorso avranno completato i loro studi e altri hanno iniziato il primo anno di frequenza, o sono passati alle classi successive partecipando allo scorrere naturale della vicenda scolastica che vi prepara a quello più vorticoso e imprevedibile che è la realtà della vita. 

Dopo essere stato con voi, nella vostra Scuola, dopo avervi conosciuti mi ero ripromesso di scrivervi, per dirvi, parteciparvi le sensazioni, i sentimenti, le riflessioni che quell’incontro aveva suscitato in me. 

Volevo dirvi che nel mio intimo è successo qualcosa, qualcosa di bello, di esaltante che mi ha ridato fiducia, una rinnovata carica, ma soprattutto speranza. 

Mancavo dalla Sicilia da qualche anno, ne mancavo fisicamente ma vivevo con immutata intensità, con accorato struggimento il mio essere siciliano. 

Andavo segnando sul mio quaderno ogni pensiero, componevo versi dedicati all’Isola, ai ricordi, facevo riflessioni su un presente deludente mentre sognavo un futuro diverso, senza però trovare agganci, motivazioni reali, possibili: riconoscevo lo stato d’animo di un innamorato tradito. 

Poi, dovendo tornare alla mia terra per una visita breve, quasi ufficiale, per accogliere da amici un riconoscimento, ho voluto compiere un gesto che mi urgeva nel cuore e nella mente: un incontro con i giovani per una presa di coscienza nuova, immediata, diretta della realtà che essi, in prima persona, rappresentano. 

Ed ora sono qui a scrivervi per ringraziarvi. Ringraziarvi per come mi avete accolto, poiché sento ancora il vostro canto e le parole che lo componevano; ringraziarvi per i vostri sorrisi che erano simpatia, e, perché no, anche per i baci che ci siamo scambiati; ringraziarvi ancora per quello che siete oggi e sarete domani! 

Non è retorica la mia, e non voglio neanche rivedere lo stile e la qualità di questa lettera per lasciare intatta !’immediatezza e la naturalezza di quanto vado pensando e scrivendo. E con la stessa immediatezza voglio dirvi che siete migliori di noi adulti, perché siete più spontanei, più attenti, e più preoccupati per il vostro futuro, quel futuro che noi adulti, invischiati, condizionati e forse responsabili di una situazione sociale lacerata, confusa, non riusciamo a vedere con chiarezza o non vogliamo vedere. 

E allora? Un’esortazione: voi siete ancora dentro la scuola, avete i vostri programmi di studio, avete accanto i vostri docenti che lavorano per voi e vi vogliono bene. Fate tesoro di questa occasione per crescere bene culturalmente, civilmente, moralmente. Pretendete ogni attenzione, perché ne avete diritto, perché rappresentate il vostro futuro, e la “Città” fra qualche anno dovrà essere vostra. 

Nell’introdurre questa mia lettera ho accennato al mio bisogno di recuperare ricordi e sentimenti, e a come vivo, con immutata intensità, il mio essere siciliano. Allora consentitemi di intrattenervi ancora su questo tema che riguarda da vicino il nostro sentire, il nostro “essere” presenti nella nostra Isola. 

Tempo fa scrivendo dei versi, mia attività preferita, composi una lirica che intitolai così: “Tomo all’Isola circondata d’ignoto”. Poi subito mi chiesi perché, io siciliano, pensando e desiderando la mia terra, la accostavo così istintivamente al mistero, all’ignoto? Anzi, nell’ignoto la vedevo racchiusa? 

La poesia, si sa, è un modo tutto particolare di espressione, ma è anche la più genuina, la più istintiva manifestazione del pensiero, dei sentimenti, del modo di interpretare, di vedere le cose, forse al di là della ragione stessa. 

E per questo volevo capire questo riferimento all’ignoto. Forse le origini antiche, i miti, le leggende? La presenza dei templi, di vestigia di una civiltà scomparsa, sparsi lungo la costa e sui monti? Il richiamo a un necessario rimescolamento tra gli uomini e gli Dei? Oppure era un richiamo a quel senso di oscuro dominio di forze incomprensibili e non domabili che ogni siciliano si porta dentro da sempre e comunque, e che sente immanente, essenziale, ma anche nemico? 

Ho cercato sempre di capire questa condizione, o meglio contraddizione, per trovare una chiave di lettura della Sicilia e del nostro essere siciliani oggi. 

In questo riferimento alla Sicilia, nel bene e nel male, ma più spesso nel male, ci si chiede: perché? 

Certo, sarebbe facile e forse semplice richiamarsi alle condizioni sociali, politiche, economiche, sia vecchie che nuove (e quelle nuove sono ancora cronaca), trarre delle conclusioni che poi si riducono abusate, comode dichiarazioni di conoscenza, comprensione, alla individuazione di priorità necessarie, di recuperi morali, civili, da attirare. Giusto, come le medicine prescritte su una ricetta da un medico “interessato” e frettoloso. 

Ma sappiamo che il malato non guarisce (forse non si sente ammalato), o non vuole guarire, prigioniero, com’é, della sua nobiltà o della sua miseria. 

Credo che noi siciliani siamo quasi tutti degli ammalati inconsapevoli, o meglio, dei portatori sani di virus. Ma quali? Questo è il punto! 

Dovremmo scavare nel nostro humus, nella nostra storia remota e recente, gettare uno sguardo largo sulla nostra terra, quella che ancora è rimasta intatta, dove d’estate, nelle campagne riarse, il riverbero delle stoppie brucia gli occhi e dove, sui campi scoscesi, si ergono ancora le bianche pietraie, che sono i calcificati sacrari della fatica umana, nella dura scoperta di una terra avara. 

Dovremmo, con sequenze veloci, come lo è stato per molta parte d’Italia, recuperare le immagini del passaggio da un’economia agricola, da una civiltà contadina, a quella industriale prima e postindustriale subito dopo, e cogliere l’animo dei siciliani spettatori attenti, ora da emigranti, ora da utile mercato altrui, per capire, se non accettare, un atteggiamento endemico sul quale, come cellule cancerogene, si sono insediate manifestazioni devianti, violente, assassine, che provocano reazioni a catena che assumono connotati assordanti, assurdi, offensivi. 

Ma voglio pensare ai siciliani, capaci, nei momenti magici della febbre dell’intelligenza, di creare letteratura, arte, scienza, di dare spettacolo di grande nobiltà e capacità. 

Voglio pensare – e i ricordi, come uccelli migratori, tornano sempre all’origine – e dire, con la memoria divenuta parte essenziale della vita di chi, da oltre trenta anni, vive fuori dall’Isola, lo struggimento di tante notti accarezzate dagli accordi di chitarra, dai canti lenti di uomini che nell’abbraccio del buio perdevano la potenza preda dei soli sentimenti, e divenivano fantasmi buoni a rincorrere sogni, i soli capaci di spezzare catene tollerate. 

I suoni, allora, erano lamenti, e i lamenti canti di uomini che vivevano senza 

tempo ad aspettare qualcosa; uomini abituati a respirare la vita goccia a goccia, a spartire l’amore con l’odio, che era amore dei sensi oppressi. 

Sono ricordi a trama fitta, intensamente colorati, arabescati: le cose che vi cadono dentro ora con dolcezza, ora con violenza, non sfuggono più e rivelano mille segreti rapporti, percorrono sentieri imprevedibili che sono quelli del gelsomino, dei fichi d’india o dei fiori lilla dei capperi, e che tutti portano alle case antiche, lungo i pendii dei monti. 

Comprendo bene che anche stavolta mi sono lasciato andare mescolando sogni, fantasia, realtà e, infine, poesia, la poesia dell’incontro con voi, con la vostra giovinezza che mi fa dire grazie ancora, per il vostro sorriso che è, di per sé, sogno, fiducia e augurio per tutti voi. 

Un caro e tenero abbraccio 

Romano Cammarata


* La relazione del direttore Cammarata ha subito una lieve aggiunta e modifica nella parte introduttiva; per il resto viene rispettata integralmente. Abbiamo preferito questa relazione perché aiuta meglio a conoscere il mondo umano e poetico dell’Autore.

 

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 13-16.